Giovanni Cardone
Fino al 21 Luglio 2024 si potrà ammirare presso i Musei di San Salvatore in Lauro a Roma la mostra Figurazione anni ’60 e ’70 a cura di Lorenzo e Enrico Lombardi. L’esposizione promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e realizzata da Poema S.p.A. in collaborazione con Il Cigno Arte presenta un’ampia rassegna dedicata alla pittura e alla scultura di figurazione in Italia a cavallo tra i due decenni artistici più vitali del Ventesimo secolo, è infatti dedicata alle esperienze della pittura e della scultura figurative in Italia delle generazioni attive in particolare tra gli anni Sessanta e Settanta, un contesto molto complesso e differenziato che oggi merita di essere approfondito e, in moltissimi casi, riscoperto. In questo periodo, tra l’altro, gli artisti visivi hanno di sovente operato in stretto dialogo di poetica e di rappresentazione con scrittori e registi come Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Alberto Moravia, Giovanni Testori, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Leonardo Sciascia, in una condivisione spesso diretta alla narrazione delle nuove realtà delle metropoli e della società in rapida e, talvolta drammatica, trasformazione. Le linee iconiche italiane rappresentano, infatti, un intreccio di esperienze spesso collocate in un contesto internazionale, in cui si sono incrociate visioni e suggestioni di varia provenienza: dal Realismo di matrice sociale e politica al Naturalismo, fino alla Pop Art e all’Iperrealismo, senza dimenticare le importanti influenze della pittura metafisica. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figurazione degli anni sessanta e settanta apro il mio saggio dicendo : L’Italia uscita dalla II Guerra Mondiale era un paese che aveva bisogno di sicurezze e poteva cercarle solo in un clima di distensione e dialogo tra le parti che dovevano assolvere il difficile compito della ricostruzione. È necessario entrare nel merito della situazione politica e sociale, per poter comprendere quelli che furono gli sviluppi del panorama artistico italiano del dopoguerra. Gli anni fra il 1945 e il 1948 furono di grandi aspettative per la realizzazione di tutti quegli ideali, nati nel contesto della Resistenza, che l’iniziale elezione come presidente del Consiglio di Ferruccio Parri, membro del partito d’Azione e capo della Resistenza, fece ritenere attuabili. In realtà questo triennio vide delinearsi, sotto la superficie di un apparente accordo, gli schieramenti che si sarebbero fronteggiati per gli anni a venire: da un lato la Democrazia Cristiana, gli Stati Uniti e il mondo imprenditoriale; dall’altro i Comunisti, l’Unione Sovietica e la classe operaia; e fra loro i partiti di medio e piccolo calibro, primo fra tutti il Partito Socialista nelle sue varie conformazioni, che avrebbero finito per fare da ago della bilancia nella perenne instabilità delle maggioranze di governo italiane . Tali fronti però, in questi primi anni, presentavano a livello ideologico e strutturale ancora una certa elasticità interna che si sarebbe andata sclerotizzando negli anni seguenti. La politica culturale del Pci fu centrale, per quanti si riconoscevano in tale area ideologica, nel delineare l’atteggiamento di intellettuali e artisti nei confronti delle diverse tendenze interne come internazionali. L’intenzione era quella di creare un ponte tra le classi popolari e la piccola e media borghesia formando un sostrato culturale comune, di cui sarebbe stata fautrice la nuova intellighenzia di sinistra. Questo, almeno idealmente, nell’ambito di un’ampia libertà di dibattito di quanti si riconoscevano nell’area politica del partito. Di questo pluralismo iniziale del Pci fu testimonianza la rivista “La Rinascita”, nelle cui pagine venne dato ampio spazio, fin dal primo numero del giugno 1944 , al dibattito sulla ricostruzione materiale e morale del paese nei suoi aspetti politici e culturali. Era questa la piattaforma comune che, almeno fino alle elezioni del 1948, mantenne apparentemente disteso il clima politico: la necessità di veder rinascere dei valori condivisi sulle ceneri di una guerra che aveva messo in luce gli aspetti più brutali della natura umana, di favorire quelle istanze di progresso e libertà necessarie alla nuova società. Altra rivista che nacque all’interno di questa linea fu il ben noto “Il Politecnico”, di Elio Vittorini, che però avrebbe in breve testato i limiti della tolleranza interna al partito. Nel programma inserito nel primo numero di “Rinascita” leggiamo infatti: “Non separiamo e non possiamo separare le idee dai fatti, […] la cultura dalla politica, i singoli dalla società, l’arte dalla vita reale. In questa concezione unitaria e realistica del mondo iutiero è la nostra forza, la forza della dottrina marxista.” Concezione tanto più importante quanto più si rifletta sulla misura in cui essa venne fatta propria dagli intellettuali di sinistra, divenendo però la base di scelte profondamente diverse. La querelle che iniziò con “Il Politecnico”, accusato di intellettualismo e di eccessive tendenze cosmopolite, dice molto del modo in cui venisse inteso tale programma d’intenti dagli organi dirigenziali del partito e della stessa rivista . In tale disputa, assunse particolare rilievo la pubblicazione da parte di Vittorini, nel settembre 1946, della traduzione dell’articolo di Roger Garaudy, esponente del Partito Comunista Francese e teorico del marxismo, intitolata “Non esiste un’estetica del partito comunista” . In tale intervento l’intellettuale francese affermava il valore assoluto dell’indipendenza estetica dell’artista, perché “il marxismo non è una prigione; è uno strumento per capire il mondo. […] si può essere milioni a capirlo allo stesso modo e ad esprimerlo differentemente” . Nella nota che accompagnava l’articolo Vittorini, dichiarando Garaudy portatore dell’opinione non di un singolo, bensì, a suo dire, della maggioranza dei politici del Partito Comunista Francese, affermò che «dimenticati gli avvertimenti in proposito del nostro grande Antonio Gramsci, accade ancora oggi che qualche compagno pretenda di spingere ad instaurare in seno al Partito Comunista Italiano un utopistico regime culturale» . In contrasto coi vertici del Pci Vittorini affermò senza alcuna ambiguità che imporre un certo stile a un pittore o ad uno scrittore “non fa parte di nessun compito rivoluzionario” . Intanto l’alleanza antifascista cominciava a mostrare con sempre maggior evidenza i segni del cedimento. Nel maggio 1947 De Gasperi formò, dopo le dimissioni seguite ai fatti siciliani e l’impossibilità di Nitti di formare una maggioranza parlamentare, un nuovo governo senza le sinistre, teoricamente spostato al centro, in realtà inevitabilmente compromesso con i partiti di destra e quindi indirizzato verso un maggiore conservatorismo e autoritarismo . In seguito all’evoluzione politica nazionale e internazionale, e mentre la polemica con Vittorini era ancora in corso, si affermò anche in seno al Partito Comunista, tra il 1947 e il 1948, uno sviluppo in senso accentratore e restrittivo nella produzione culturale. Nel settembre 1947 infatti nacque il Kominform, struttura internazionale di coordinamento, ma anche di controllo, dei partiti comunisti nazionali, di cui respinse qualsiasi forma di autonomia rispetto al modello sovietico. Era la nascita del cosiddetto zdanovismo, linea a cui aderì completamente Emilio Sereni, responsabile del settore culturale del Pci, come esplicitò nel suo discorso Per la cultura italiana all’assemblea costitutiva dell’Alleanza della cultura a Roma il 19 febbraio 1948. Ma già il mese prima lo stesso Togliatti, nel Discorso inaugurale del VI Congresso nazionale del Pci, aveva evidenziato quale fosse la sua posizione nei confronti di quelle che definiva “le forme degenerate della cultura borghese”, che impedivano ad alcuni intellettuali del Partito di esprimersi con modalità che fossero facilmente accessibili alle masse . In ambito pittorico tale concetto fu espresso, in forme assai meno diplomatiche, sempre da Togliatti nel famoso articolo in cui, sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, commentava le opere presenti alla prima “Mostra nazionale di arte contemporanea” promossa dall’Alleanza della cultura a Bologna dal 17 ottobre al 5 novembre del 1948 . Il risultato delle elezioni del 1948, su cui influirono negativamente per le sinistre il colpo di stato comunista a Praga e l’appoggio della Chiesa cattolica alla Dc, e il nuovo quadro politico internazionale, ormai schierato sugli opposti fronti della guerra fredda, portarono al progressivo isolamento del Pci nell’ambito politico italiano. Se in politica si ruppe la grande alleanza delle forze antifasciste, si mantenne comunque una strategia di basso profilo del Partito che non intendeva arrivare allo scontro diretto, bensì condurre il paese gradatamente verso la rivoluzione socialista.
Questo rese ancor più necessario uno stretto controllo sulla produzione culturale, che doveva farsi portavoce di una visione del mondo e di un’impostazione morale ben definita, che contrastasse il rafforzamento delle correnti anticomuniste: l’arte diventava un vero e proprio strumento di propaganda e il criterio di giudizio estetico dovette assoggettarsi alle necessità politiche. Era proprio questo il nodo della questione, il problema non fu mai il coinvolgimento politico degli artisti, dato di fondo della loro produzione, bensì la sottomissione del giudizio estetico e delle scelte stilistiche ad un programma ideologico preordinato. Se tale scelta veniva difesa nel nome dell’educazione e della comprensibilità del messaggio alle masse proletarie, era in realtà frutto di un pregiudizio di avanguardia e di una cultura del sospetto di natura molto più borghese di quanto i suoi assertori avrebbero mai potuto ammettere. All’inizio degli anni Cinquanta la situazione si estremizzò in posizioni sempre più rigide e sempre più determinate dalle contrapposte politiche culturali. Fu solo con la morte di Stalin, nel 1953, che si cominciò a intravedere una nuova possibilità di apertura al dialogo, favorito anche dal netto miglioramento percentuale del Pci alle elezioni politiche di quello stesso anno. Il 1956 fu un anno cruciale, che segnò un mutamento di atteggiamento da parte di molti artisti ed intellettuali italiani inseriti tra le file comuniste. Nel febbraio di quell’anno al XX Congresso del Pcus a Mosca, nella parte pubblica, vi fu un’importante apertura nei confronti delle vie nazionali al socialismo, ma ancor più determinante fu il rapporto segreto in cui Nikita Sergeevič Chruščëv descrisse e denunciò per la prima volta i crimini dell’epoca staliniana: le purghe e la creazione del mito della personalità. Il rapporto giunse ben presto alla stampa occidentale creando la base per un duro attacco al movimento comunista internazionale. In Italia la risposta di Togliatti fu un capolavoro di strategia politica, che non evitò però la forte crisi d’identità del Partito. Questo perché nello stesso anno si aggiunsero anche i noti fatti della Polonia e dell’Ungheria, a cui il Pci questa volta reagì allineandosi con Mosca e scatenando all’interno del Partito, in particolare tra gli intellettuali, un acceso dibattito sulle cause della tragedia ungherese. In dicembre, all’VIII congresso del Pci, in cui emerse tutto lo sconcerto della base, si giunse al culmine delle tensioni di quest’anno tragico. Antonio Giolitti, alla testa dei dissidenti prese la parola per chiedere un’effettiva libertà d’opinione all’interno del Partito e che questo riconoscesse l’importanza delle libertà democratiche e la sua autonomia nei confronti degli altri partiti comunisti. Tale richiesta si risolse con un nulla di fatto, la dirigenza ebbe la meglio nello scontro, ma la crisi ideologica non potè essere bloccata. Il mutato atteggiamento del Pci nei confronti della libertà degli intellettuali, pur in una permanente rigidezza di fondo, venne evidenziato dalle affermazioni di Togliatti nella recensione ad un testo sui fatti d’Ungheria uscito presso gli editori Laterza pubblicata su “Rinascita”: “Compito specifico del partito è di stimolare e indirizzare la produzione artistica, operando per trasformare, e riuscendo a trasformare, con la sua complessa azione economica, politica e ideale, la realtà della vita sociale e quindi la esistenza e la coscienza degli uomini. [È necessario] non porre freni all’indagine e alla creazione artistica, perché un determinato indirizzo di ricerca formale, per esempio, anche se per il momento si presenta sterile e negativo, e come tale può essere denunciato e criticato, potrà apparire domani come una tappa che è stato necessario attraversare, per giungere a nuove e più profonde forme di espressione e quindi ad un progresso di tutta la creazione artistica.” Dopo le elezioni politiche del 1958, che confermarono la Dc come partito di maggioranza e i comunisti come il principale partito d’opposizione, il Partito si impegnò a concretizzare la “via italiana al socialismo” nella sua azione politica, ricercando con ostinazione un’apertura a sinistra del governo che desse al partito un peso e un ruolo significativi al suo interno. Obiettivo che non venne raggiunto, ma che condusse il Pci, ormai lontano dalle utopie di una dittatura del proletariato, ad integrarsi nella vita politica del paese dando vita a importanti movimenti di massa. Nel gennaio 1959 si aprì l’ennesima crisi che portò alla caduta del governo Fanfani; l’anno successivo il presidente della Repubblica Gronchi pose alla guida del nuovo governo il democristiano Fernando Tambroni che accettò l’appoggio del Msi alla formazione di una maggioranza. Venne così a profilarsi un governo nettamente spostato verso destra che scatenò le polemiche, fomentate dalla concessione al Msi della città di Genova, roccaforte dell’antifascismo, per lo svolgimento del Congresso Nazionale del partito. Si giunse naturalmente a violenti scontri e Tambroni ordinò la repressione delle proteste nella città ligure e di quelle che seguirono a tale decisione. Si aprì una nuova crisi e fu richiamato Fanfani a formare un nuovo governo che segnò il progressivo avvicinamento di democristiani e socialisti, grazie anche all’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca nel 1961 e quindi all’allentarsi delle peggiori tensioni della guerra fredda . Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta si assistette, nel contesto del favorevole momento economico, alla trasformazione dell’Italia da paese prevalentemente agricolo ad una delle nazioni più industrializzate dell’Occidente e ad un profondo cambiamento del paesaggio così come della società italiana. Pur negli squilibri sociali e regionali, aumentarono alfabetizzazione e reddito pro capite, sulle forme di vita tradizionali si innestarono i nuovi miti del consumismo capitalistico, che trovarono nella televisione il veicolo ideale di trasmissione e unificazione culturale del paese. Tale modello accentuava una caratteristica tipica del modello italiano, ovvero la preminenza del ruolo dell’individuo, o comunque del nucleo familiare, rispetto alla collettività. Elemento che veniva enfatizzato dalla propaganda democristiana e dalle posizioni della Chiesa cattolica e che non poteva non porre in allarme quanti auspicavano per l’Italia un futuro di sviluppo sociale e intellettuale, preoccupazione che fu naturalmente raccolta dagli intellettuali di Sinistra, del Pci in particolare, che si riconoscevano nello smarrimento di fronte a questo mutamento di stili di vita, che non sembrava portare con sé anche le necessarie forme di giustizia sociale e progresso che avrebbero dovuto sostituire le usuali reti di aiuto delle società tradizionali. In realtà, il timore nei confronti di uno sviluppo della società troppo indirizzato sui valori del consumismo e del libero mercato avvicinava paradossalmente le posizioni dei comunisti, che mantennero forte la loro presa sul mondo intellettuale nonostante un progressivo declino del movimento, a quelle della Chiesa cattolica che, a sua volta, con l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII, modificò il suo atteggiamento di intervento diretto nella politica italiana in favore di un maggiore impegno sul fronte assistenziale. L’incapacità di comprendere le dinamiche della comunicazione di massa e di sfruttarle era un elemento che traspariva in tutta la pubblicistica di sinistra: se ne coglieva il fattore alienante e straniante, la scomparsa dell’immagine dell’uomo, l’elemento di decadenza dei costumi morali, ma, ironicamente, considerando i presupposti teorici del comunismo, non se ne vedevano le enormi possibilità di diffusione culturale che offriva. Umberto Eco lo definì “vizio umanistico”, eredità di una cultura meditativa di stampo elitario che non si riconosceva in una fruizione di larga scala quale quella del mondo moderno che portava a stigmatizzare elementi della contemporaneità senza averli compresi. Si trattava di un atteggiamento conseguente ad un’altra caratteristica tipica delle masse: l’attaccamento alle tradizioni, fossero anche proletarie, e la refrattarietà al cambiamento percepito indistintamente come pericoloso. Nel dicembre 1963, dopo la fase transitoria del governo guidato da Giovanni Leone, si raggiunse finalmente l’accordo fra Dc e Psi che portò alla costituzione del primo governo della storia repubblicana italiana con la tanto attesa partecipazione dei socialisti, guidato dal democristiano Aldo Moro. Si succedettero tre governi guidati da Moro che, se si eccettua la crisi del 1964, furono caratterizzati sostanzialmente dall’immobilismo politico e accompagnarono il paese fino alle soglie dell’epoca delle nuove lotte sociali e dell’azione collettiva, che si aprì nel 1968 e che segnò una nuova fase nella storia d’Italia e nel rapporto degli intellettuali con la politica e con la possibilità di una loro concreta azione all’interno della società. Nel corso degli anni Sessanta si fronteggiarono, da un lato, una visione manicheistica dell’arte, in cui ogni scelta stilistica risultava come una scelta di campo, dall’altro, la ricerca di un confronto dialettico con i diversi apporti culturali, alternandosi in note e recensioni, a volte degli stessi autori, che comparivano sulle testate di sinistra, in cerca di un difficile equilibrio tra etica ed estetica. Mentre il partito tentava di comprendere come intraprendere un’effettiva politica e dunque cultura di opposizione, si trovava inevitabilmente sempre più integrato nelle dinamiche compromissorie della politica reale. Con tali elementi si sarebbe dovuto fare i conti alla luce delle rivolte studentesche. Nelle arti figurative come affermo che nell’Italia dell’immediato dopoguerra mentre il movimento spazialista mostrava la strada per una possibile rottura con l’arte precedente, altri cercavano di riallacciare i fili di un discorso che era stato interrotto prima dai dettami fascisti e poi dalla guerra. Il dibattito si concentrò, per questo settore del mondo artistico, da un lato sull’antitesi astrazione e figurazione, tentativo di costruirsi un’identità nel rispecchiamento con l’opposto, e, dall’altro, sul rapporto tra forma e contenuto e sul ruolo dell’impegno politico nel fare artistico. In questo senso un precoce banco di prova fu la mostra «L’arte contro la barbarie» del 1944, organizzata presso la Galleria di Roma dal quotidiano del Pci «l’Unità». Fu la prima di una serie di esposizioni recanti lo stesso titolo, ma con contenuti polemici di volta in volta diversi. In questa fase erano ancora possibili confronti trasversali che appena poco tempo dopo sarebbero sembrati impossibili. Esisteva ancora nel 1945 una mobilità che permetteva che l’Art Club, promosso da Prampolini, si definisse nel suo statuto come una “Fratellanza di artisti indipendenti da ogni influenza ufficiale, riuniti in un movimento ideale e liberamente operanti in un clima internazionale” o che, l’anno successivo, nel gruppo Arte Sociale, si trovassero riuniti artisti come Vespignani, Dorazio, Guerrini e Perilli. In quello stesso anno sulla rivista milanese «Il 45», diretta da Raffaele De Grada, comparve un saggio del critico Mario De Micheli dal titolo Realismo e poesia, e gli artisti eredi dell’esperienza di Corrente sottoscrissero a Milano il Manifesto del Realismo, noto anche come Oltre Guernica, poi pubblicato sulla rivista “Numero” fondata l’anno precedente: “Dipingere e scolpire è per noi atto di partecipazione alla totale realtà degli uomini, in un luogo e in un tempo determinato, realtà che è contemporaneità e che nel suo susseguirsi è storia. In arte, la realtà non è il reale, non è la visibilità, ma la cosciente emozione del reale divenuta organismo. Realismo non vuol dire naturalismo o verismo o espressionismo, ma il reale concretizzato dell’uno quando determina, partecipa, coincide ed equivale con il reale dell’altro, quando diventa, insomma, misura comune rispetto alla realtà stessa . Questa misura comune non sottintende una comune sottomissione a canoni prestabiliti ma l’elaborazione in comune di identiche premesse formali fornite, in pittura, dal processo che da Cezanne va al fauvismo e al cubismo.” Il realismo non si configurava dunque necessariamente come naturalismo; si trattava piuttosto di una tensione etica di partecipazione al reale in quanto dato umano e storico, che trovava i suoi referenti privilegiati in una linea che cercava di coniugare l’espressionismo, il dato coloristico ed emotivo, con la ricerca formale cubista . Dopo la divisione del Gruppo Arte Sociale si formò, da una parte, il gruppo del Portonaccio , mentre Dorazio, Perilli, Guerrini, Manisco si avvicinarono al Fronte Nuovo delle Arti (1946-1948), che, nato tra Roma, Milano e Venezia, fu un difficile tentativo di azione comune di artisti dalle inclinazioni più diverse, quali Guttuso, Leoncillo, Morlotti, e Pizzinato. Nel manifesto costitutivo dichiaravano la loro intenzione di “avvicinare a una prima base di necessità morale le loro singolari affermazioni nel mondo delle immagini, assommandole come atti di vita. Pittura e scultura, divenute cosí strumento di dichiarazione e di libera esplorazione del mondo, aumenteranno sempre piú la frequenza con la realtà”. Intanto si riavviava poco a poco l’attività delle sedi istituzionali così come delle gallerie private in cui, col disappunto di molti realisti, si moltiplicarono le esposizioni di arte astratta. Momento significativo dello scontro tra realisti e astratti fu, nel 1947, la mostra di Cagli, che, appena tornato dagli Stati Uniti, espose presso la galleria romana Studio Palma le sue opere più recenti e vicine all’astrazione. La presentazione in catalogo era di Antonello Trombadori, critico d’arte de “l’Unità”, che assolveva l’artista da ogni legame col regime fascista. La scelta non fu apprezzata dagli astrattisti di Forma 1, che affissero fuori dalla galleria una sorta di manifesto con foto delle opere dipinte da Cagli per il regime, accompagnate da un breve scritto di attacco nei suoi confronti intitolato Da Cagli a Cagli.
Ne seguì uno scontro con gli amici di vecchia data di Cagli: Mirko, Afro e Guttuso, che si concluse in questura. Lasciando a margine la questione del coinvolgimento col fascismo di Cagli , l’introduzione di Trombadori nasceva nel solco di una precisa linea d’azione del Pci, che intendeva costruire un passato antifascista per coloro che, anche solo alla fine, si erano opposti al fascismo e che, in certo modo, potessero essere ancora di supporto alla politica del partito. Tale scelta, per Trombadori, non si fermava neanche di fronte alla necessità di elogiare l’opera astratta di Cagli, dopo aver criticato senza esitazione le scelte artistiche di Forma 1: per questi giovani pittori astratti e militanti comunisti la delusione non poteva essere maggiore. Si è detto degli effetti che ebbe sulla politica culturale del Pci la sconfitta elettorale del 1948; mentre in ambito figurativo fu la rivolta dei contadini del 1949 che, posta sotto l’ala del Partito, fornì agli artisti la prima occasione di mostrare il loro sostegno ai braccianti . Mentre Burri, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio del nuovo decennio, superava l’antitesi di astratto e figurativo in virtù di una ricerca di tipo materico38, il sindacato organizzava concorsi e mostre a sostegno delle lotte, occasioni per rafforzare il ruolo degli artisti come combattenti al fianco di operai e agricoltori, oltre che per esplicitare le scelte estetiche dei vertici culturali, sancite dall’intervento di Togliatti nel dibattito che segnò la fine dell’effimero esperimento del Fronte Nuovo delle Arti. Data per acquisita la scelta figurativa, la questione si spostò dal dibattito formale a quello contenutistico, e si cominciò a prendere le distanze da soggetti che non avessero un’evidente impostazione nazional-popolare, un orientamento politico e tendenze meridionaliste. Questo condusse all’elaborazione di un linguaggio più vicino alla comprensione popolare che trovò piena espressione alla Biennale di Venezia del 1950, ulteriormente sottolineato dalla presenza al padiglione messicano di quell’anno dei vati del muralismo: José Clemente Orozco, Diego Rivera e Alfaro Siqueiros. Il movimento confluì dal 1952 sulle pagine della rivista “Realismo” diretta da Raffaele De Grada e fra cui figuravano come redattori i pittori Guttuso, Mucchi, Pizzinato, Treccani, Vespignani e Zigaina, oltre ai critici Del Guercio, De Micheli, Maltese, Morosini e Trombadori. Sulle pagine della rivista si dispiegò, fino alla chiusura, il dibattito sul concetto e sul ruolo del realismo, ricercandone le radici storiche nella tradizione italiana e sancendo il ruolo dell’opera d’arte come strumento conoscitivo in grado di operare nella società. Nel 1953 si ebbero però dei segnali di apertura e ne fu testimonianza l’atteggiamento nei confronti di Picasso, artista esplicitamente condannato dalla stampa sovietica e non solo, a cui in Italia venne dedicata una grande mostra antologica alla Galleria Nazionale di Arte Moderna a Roma, proprio nel maggio dello stesso anno. Mostra promossa dal Pci, ma presentata da Lionello Venturi, nonostante fossero ancora fresche le polemiche scoppiate in seguito al suo duro intervento all’Associazione italiana per la libertà della cultura in cui attaccava apertamente il realismo socialista . Ma fu solo con il profondo cambiamento che portarono con sé i fatti del 1956 che si modificarono anche gli schieramenti del dibattito artistico. Artisti e intellettuali legati al Pci cercarono una via possibile di operare, prendendo le distanze da un partito in cui non si riconoscevano più, ma tenendo fede ad una sincera esigenza di coinvolgimento nella società. Un obbligo cui sentivano di non poter venir meno, ma anche una ricerca etica ed esistenziale che aveva perso il suo contenitore e doveva trovare un nuovo modo di esprimersi. Quest’apertura al dialogo e alla sperimentazione trovò la sua voce, tra il 1957 ed il 1958, nelle pagine di “Città Aperta”. La rivista vide tra i suoi fondatori anche gli artisti Vespignani e Attardi e diede un’importante contributo al dibattito sull’arte. Secondo la definizione di Vespignani era una “rivistina interdisciplinare destinata a guastare i sogni della Commissione Culturale del Pci”. Infatti, rilevava ancora Vespignani: “Dario [Micacchi] non ci approvava, anche se garantiva sulla nostra buonafede: lui ‘ora’ restava ‘dentro’ il Partito… (‘dentro la stampa di Partito’ malignavamo ‘che c’entra il Partito?…’). L’ora era quella di Budapest, delle cattive coscienze e delle cocenti delusioni, dell’attacco alle sinistre, concentrico, spietato, e non aveva torto fino in fondo.
Qualsiasi cosa scrivevi fuori, o accanto alla forma partito, ti metteva sul confine, sfumatissimo, che divideva gli atteggiamenti critici da quelli reazionari.” Sul quarto-quinto numero di “Città aperta”, del luglio 1957, Vespignani curò una lunga intervista a Guttuso intitolata Il vecchio schieramento realista si può considerare in crisi? Vespignani riteneva che, al di là delle retoriche, esistesse effettivamente una crisi interna al movimento da imputare a “un sempre più accentuato schematismo critico, una sempre più miope e rozza fede nei contenuti intesi come generiche e retoriche tematiche, un classismo spesso degenerante nel populismo, un primitivo, settario e mutilo modo d’intendere la tradizione, un legame spesso pesantemente utilitario con gli apparati politici e burocratici.” In cui “l’Unità del movimento era divenuta vera e propria omertà critica ed ideologica“, impedendo così al realismo di “dar vita ad un linguaggio veramente rivoluzionario e maturo”. La disillusione era evidente nelle parole del giovane artista e quello che Guttuso esprimeva nelle sue risposte era soprattutto il rifiuto di una reale meditazione critica . Quando nel marzo del 1959 “Città aperta” riprese le pubblicazioni, dopo la chiusura voluta dal partito, nel manifesto vennero chiarite alcune questioni su cui si riteneva necessario un dibattito. Ci si chiedeva se il realismo fosse “una delle tendenza dell’arte contemporanea” e non piuttosto “la più avanzata concezione del mondo espressa in linguaggio d’arte”. Questione accompagnata da un monito: “Non si fa civiltà rifiutando la complessa civiltà, scambiando chiarezza per elementarità, popolarità per folklore, socialità per politica, modernità per contingenza”. Nel 1951, mentre il critico francese Michel Tapié patrocinava a Parigi le due mostre “Véhémences confrontées” e “Les signifiants de l’informel”, inaugurando così la nascita della nuova corrente informale che sarebbe stata definitivamente consacrato l’anno successivo con la pubblicazione di Un art autre, a Milano c’erano già dei giovani artisti che tentavano una combinazione delle novità europee con elementi derivati dall’automatismo surrealista, in cerca di un nuovo linguaggio atto a rendere le angosciose implicazione della tematica nucleare, inquietante spettro di quegli anni. Nel 1951 Enrico Baj e Sergio Dangelo presentarono alla Galleria San Fedele di Milano una mostra dal significativo titolo: “Pittura nucleare” e nel febbraio dell’anno successivo fondarono ufficialmente il Movimento Arte Nucleare con la pubblicazione del manifesto a Bruxelles. La loro era una figurazione densa di elementi simbolici che, oltre a riutilizzare tecniche e climi prossimi all’informale e ricorrerere all’automatismo di estrazione surrealista, desumeva anche elementi del futurismo, nel tentativo di dare rappresentazione a figure eteree che rimandassero alla deflagrazione della bomba atomica, alle “nuove forme dell’uomo” che erano “quelle dell’universo atomico”, alle “forze cariche di imprevedibili esplosivi” che avvicinavano il movimento nucleare allo spazialismo di Fontana, l’altra grande espressione dell’avanguardia milanese. Ma vi era nel movimento nucleare un desiderio di adesione al momento storico corrente, all’angoscia data dall’incertezza del futuro, che era ben lontana dai presupposti fondanti dello spazialismo. “la questione nucleare” era vissuta “come atto di appartenenza alla contemporaneità, con un sentimento di angoscia e di speranza allo stesso tempo.” Si può individuare anche la necessità di ritrovare una strada di impegno nell’ambito storicosociale, esigenza che si espresse nei termini di una polemica con l’astrazione geometrica nella ricerca di una via alternativa per aprire l’arte italiana alla cultura internazionale, ma che si esprimeva in termini ben diversi dal coevo realismo, e che si concretava proprio nel 1952 nella fondazione a Roma dell’omonima rivista . Un insieme di elementi che rendono i nucleari gli ideali precursori del realismo esistenziale prima e della nuova figurazione poi, come notò anche Edoardo Sanguineti nel 1963 nell’intervento sul numero 12 del “Verri” intitolato Oltre l’informale . Alla metà esatta degli anni Cinquanta alla giovane galleria Schettini, in prima linea nel dibattito d’avanguardia insieme alla Galleria Schwarz, si tenne la mostra dedicata alla rivista “Il Gesto”, in gemellaggio con la parigina “Phases”, cui parteciparono artisti quali Baj, Bertini, Colombo, Dangelo, Dova, Fontana, Milani, Alechinsky, Bryen, Corneille, Ernst, Goetz, Jenkins, Matta, Saura, Schultze. In quello stesso 1955 la galleria dava la possibilità di esporre a giovani quali Ferroni e Romagnoni, gravitanti intorno all’Accademia di Brera e al Caffè Giamaica insieme a Banchieri, Ceretti, Guerreschi e Vaglieri, e che, di fronte all’antitesi di astrazione e realismo, cercavano nuovi modi di assumere la problematicità del reale, guardando alla dimensione esistenziale e ad artisti come Bacon e Giacometti. Lo stesso anno Ceretti apriva la sua prima esposizione alla Galleria San Fedele: si tracciavano così i primi contorni di quello che sarebbe diventato di lì a poco il Realismo Esistenziale, secondo la denominazione derivata da alcuni articoli di Marco Valsecchi. Nell’autopresentazione all’esposizione presso la Galleria Schettini, Romagnoni scriveva: “Di fronte alla vita dell’uomo bisogna portare la responsabile partecipazione di un lavoro che segni un’affermazione del valore delle cose , è nelle cose che ci circondano che bisogna con accanimento portare interesse e critica. Contro l’impalcatura formale ancora irretita da interessi spurii, deve premere la fisicità dell’oggetto, la sua qualità di persona o di cosa.” Si profilava già in queste affermazioni quell’orizzonte oggettuale che avrebbe caratterizzato la pittura milanese nel confronto con quella della capitale. Le suggestioni su cui questi giovani costruirono il loro stile personale andavano dai francesi André Minaux e Paul Rebeyrolle e tutto quel gruppo di pittori realisti che, a Parigi, tenevano i loro atelier nell’edificio della Ruche, a Bernard Buffet, a Nicolas De Stael, naturalmente ai sempre citati Francis Bacon e Giacometti, all’informale di Wols, Arshile Gorky, De Kooning. Loro stessi poi citavano i testi dei filosofi francesi, dalla Nausea di Jean Paul Sartre a L’uomo in rivolta di Camus, ma anche i precedenti storici come Søren Kierkegaard e, benché non si trattasse certo di un’adesione acritica alle tematiche dell’esistenzialismo parigino, era evidente come fosse stato analizzato e assimilato. I fatti d’Ungheria ebbero il loro peso anche per questi giovani artisti che pure già sentivano di dover svincolare la dimensione dell’impegno da un’adesione supina all’ideologia. In quello stesso 1956 Vaglieri e Ferroni si recarono in Sicilia e ne ricevettero una forte impressione, che però non si tradusse, come per altri artisti, nell’inserimento della tematica meridionalista e facilmente protestataria nelle loro opere, quanto piuttosto nell’emergere di una forma di realismo intimo e di più stretta e pertecipata adesione al dato fenomenologico. Fatto questo che non mancò di sconcertare critici di diversi fronti, da quelli di sinistra, preoccupati di un allontanamento delle posizioni di lotta, a quelli del fronte opposto, timorosi di trovarsi di fronte rigurgiti realisti . In quello stesso anno si tenne la prima mostra di tendenza che raccoglieva Mino Ceretti, Giuseppe Guerreschi e Bepi Romagnoni alla Galleria San Fedele, che aveva già visto l’esposizione di Ceretti pochi mesi prima e che era stata favorita dall’interesse di Giorgio Kaisserlian, critico cui era affidata la direzione della galleria.
Sempre lo stesso anno Banchieri e Vaglieri esponevano alla Galleria Pater di Milano introdotti dal critico Mario De Micheli. Kaisserlian, secondo Ceretti, aveva colto alcuni aspetti importanti della loro opera, pur non comprendendo ancora la tendenza fino in fondo. Nella presentazione del corposo catalogo scriveva: “Si sono orientati verso un fatto figurativo, assai aperto e problematico. Respigendo le seduzioni di certo realismo facile ed immediato hanno voluto soprattutto porsi in contatto con l’uomo contemporaneo, come un senso storico, vigile e critico, può permetterci di individuarlo. Quali che siano da un punto di vista personale le loro opzioni politiche o religiose, la situazione dell’uomo di questi tempi di cui vogliono con intensità carpire la presenza visiva appare loro come quella di un uomo senza soluzioni.” E ancora: “Quest’uomo da recuperare, da tenere unito dal di fuori con la coercizione, come se fosse un misto di cose disperate e mal giunte assieme . C’è in questa volontà di realismo fenomenico l’impegno di superare la cronaca, ma di porre in contatto il particolare della percezione concreta con l’universalità di un significato senza passare dalle lenti affumicate di una ideologia che ha forse risposte pre-fabbricate per tutto, ma che mutila le prospettive di un pensiero libero e spregiudicato.” Nonostante le preoccupazioni degli artisti per la diversità di posizioni con il critico e, nonostante l’evidente intento della presentazione di posizionarli in un’area il più possibile distante dalle posizioni neorealiste, o almeno di annullare il peso delle posizioni politiche, non si può non ammettere che Kaisserlian, in quel momento, colse meglio di altri la portata e il messaggio di questi giovani, per i quali utilizzò la definizione di “realismo fenomenico”, forse più calzante di quella di realismo esistenziale che si sarebbe poi andata affermando. Per bilanciare la presentazione obbligata di Kaisserlian, i tre artisti avevano comunque voluto inserire anche il commento di un altro critico, Luciano Budigna. Ma fu subito evidente che il suo commento, teso a sottolineare la rilevanza del dato realistico nelle opere, non giovava affatto alla comprensione del loro lavoro. Quando, lo stesso anno, la mostra venne trasferita a Roma, alla Galleria Alibert, il testo di Fortunato Bellonzi che accompagnava l’esposizione tendeva a riportare questi giovani nell’alveo del realismo canonico e a porre l’accento sul valore cristiano del loro esistenzialismo. Per il critico si trattava infatti di un “realismo contenutista: contenuti gravi, che pongono l’accento sulla solitudine dell’uomo” perché a questi artisti “interessano di più le cose da dire che il modo di dirle” dato che “il debito che questi realisti cristiani hanno nei confronti del neorelismo è chiaro; ma i risultati a cui la strada del neorealismo può condurre, se rischiarati dalla luce del Cristianesimo, possono essere del tutto diversi.”60 Interpretazione che si basava esclusivamente sul luogo in cui si era svolta la mostra, ovvero la Galleria San Fedele, facente parte del centro culturale gestito dai gesuiti, ma in cui non si può escludere anche un travisamento volontario dell’impostazione ideologica degli artisti, data la nota avversione di Kaisserlian per le posizioni di sinistra . Seguì un’ulteriore riproposizione della mostra alla Galleria del Cavallino a Venezia, questa volta con un’autopresentazione degli artisti tesa ad allontanare tutti gli equivoci creati dai precedenti testi critici, in particolare da quello di Bellonzi, e in cui i tre giovani cercavano di chiarire come le loro intenzioni fossero di partecipazione e impegno al mondo reale, alla società, ma da posizioni che, benché politicamente evidenti, non erano per questo ideologicamente compromesse: “A Milano da varie parti si avverte il costituirsi di un orientamento figurativo che opera tenendo un riferimento stretto con gli avvenimenti della vita d’oggi. Questo indirizzo comune, di una partecipazione cosciente a ciò che avviene intorno, si manifesta nel sottolineare gli aspetti umiliati o drammatici dell’esistenza che ci commuovono o ci urtano. Vogliamo esprimere la nostra presenza attiva non come militanti di una ideologia, ma portando avanti la nostra qualità di uomini che non possono isolarsi in una vita autonoma. Non rifiutiamo le esperienze più valide della pittura moderna, solo non ci sentiamo di accettarle come fini a sé stesse, chiuse in uno splendido isolamento formale: è necessario che divengano funzionali a ciò che di più urgente si deve dire.” Riguardo al loro coinvolgimento politico Vaglieri precisò, nel 1970, che non rappresentavano “una realtà a livello politico come faceva Guttuso”, si trattava piuttosto di prendere la propria individualità come misura della realtà, era “un atto di ridimensionamento di sé e del mondo rispetto a quanto aveva fatto e faceva il realismo”. Erano ormai palesi i segnali di un mutamento di prospettive di un realismo che voleva aprirsi a nuove possibilità, in quello stesso 1956 infatti “Realismo” dedicò un servizio ai cosiddetti pittori della Ruche a firma del critico Duilio Morosini, mentre la Biennale di Venezia dedicava una sala personale ad Alberto Giacometti. L’anno successivo il manifesto Contro lo stile, pur segnando l’ultimo atto dei Nucleari, ne evidenziava anche il ruolo di precursori di un nuovo modo di intendere l’operare artistico. Nel 1958 furono invitati alla Biennale di Venezia anche Banchieri, Ferroni, Guerreschi e Romagnoni e nell’aprile del 1959 Ceretti e Romagnoni esposero, questa volta con Vaglieri, alla Galleria Bergamini di Milano. Romagnoni affermava in catalogo: “Il modo di stare insieme delle cose, di capovolgere i rapporti quando lo spettatore si accorge del significato della loro azione dopo aver rivelato la loro presenza e le sottili connessioni con quello che c’è prima e quello che c’è dopo: ecco un punto di avvio per le analisi sul reale. […] Perché se il problema fosse di scegliere, allora tutto sarebbe semplificato e perché no, risolto; ma questo non ha nulla a che fare con l’essere toccati giorno per giorno dalle cose i cui significati sono suscettibili di continui spostamenti; è proprio la misura di questi spostamenti anzi, la capacità di stabilire i valori che dà il grado della nostra realtà. Si opera in questo movimento continuo di personaggi e situazioni, di oggetti e di tensioni, cercando di cogliere l’organizzarsi e il disgregarsi; se questo mobile terreno è l’unico che abbiamo a disposizione ogni mossa non deve essere giusta solo rispetto ad un punto, ma ad una molteplicità non trascurabile, quindi non è ad un procedimento di riduzione dell’immagine alla sua struttura o alla sua larva che si riconduce la pittura, ma al contrario si spostano più in là le zone dei possibili riscontri.” In questo testo si cominciavano già ad avvertire quei mutamenti che si sarebbero andati affermando nel biennio successivo: una sempre maggior adesione all’oggetto e un nuovo interesse per le sue relazioni con l’ambiente. L’apporto dell’esistenzialismo non venne meno, ma fu corroborato dalle posizioni espresse nel nouveau roman di Duras, Robbe-Grillet e, soprattutto, di Michel Butor e dalla sua ossessione per la descrizione impersonale e minuziosa di fatti e ambienti in ogni loro sfaccettura e variazione, così come dal cinema dell’école-du-regard, di Resnais, di Bergman, di Antonioni, i registi della composizione frammentaria data dal tempo interiore. Ciò che conta qui sottolineare è come questi artisti annullarono di fatto la questione realismo-astrazione perché, molto semplicemente, non fu mai questo il problema che si posero, quanto piuttosto, come si è visto, la questione della resa del reale e dei mezzi tecnici e stilistici più adeguati per farlo, in un orizzonte critico, per quanto possibile, scevro di implicazione ideologiche, se non come dato di fondo. A questo tipo di approccio guardarono quanti in quegli anni erano in cerca di argomenti su cui fosse possibile fondare una nuova figurazione. Tra le meccaniche formalistiche e le secche di un’adesione troppo acritica al reale, cominciarono a circolare modalità nuove, una cultura del surreale arricchita dalle esperienze della seconda generazione, da figure quali Matta, Gorky, Wols, de Kooning, Fautrier e Bacon. È noto come tali esperienze avessero colorato l’informale, contaminando e mescolando i concetti usati e abusati di astratto, concreto e figurale. Ma è importante sottolineare anche il ruolo che ebbero per una nuova leva di artisti, che cercava una possibilità di rigenerazione del reale, sensibile e storico, lontana dai pantani di una mimesis di stampo espressionista che cadeva spesso nel patetismo. Si trattava di un’operazione consapevole, talvolta non esente da una meccanica sovrapposizione di stilemi nuovi su moduli usurati, goffo tentativo di internazionalizzazione; ma più spesso si trattava di una posizione etica, più che formale, un’assunzione della “responsabilità del reale” che cercava una strada di espressione esente dalle necessità avanguardistiche, ma inserita nel dibattito contemporaneo, in cui alle suggestioni di Matta e Gorky, univa l’esempio di Bacon e Giacometti e la rielaborazione di esempi storici che andavano dal Seicento al Manierismo. Nel 1960, presso la galleria romana L’Attico, i critici Enrico Crispolti, Emilio Tadini e Roberto Sanesi presentarono “Possibilità di relazione”, mostra che segnò un punto cruciale del periodo, e che vide tra i partecipanti Adami, Aricò, Bendini, Peverelli, Pozzati, Romagnoni, Ruggeri, Scanalino, Strazza Ceretti, Vacchi e Vaglieri. Dei tre critici, solo il primo riteneva l’esperienza informale comunque determinante, al contrario di Tadini, assertore di un realismo integrale, e di Sanesi che, nella sua adesione partecipata al nuclearismo, non poteva che rifiutarla. Per tutti e tre si trattava, in ogni caso, di arginare quella che consideravano l’ultima accademia. Era una sfida al superamento dell’univocità dell’informale, un’ipotesi di nuova figurazione e un tentativo di inserimento di questa esperienza in un ventaglio più ampio di opzioni, che si presentava come un processo di avvicinamento alla realtà secondo una modalità relazionale. Benchè le loro posizioni nei confronti dell’informale fossero quasi antitetiche, i tre trovarono un accordo nel tentativo di mostrare in cosa consistessero le possibili alternative. Si rifiutava l’accademia informale, ma nello stesso tempo se ne individuava la vitalità nella “responsabilità del reale” che veniva data in eredità ai nuovi sperimentalismi più o meno figurativi e che sarebbe stato “folle e sterile voler rifiutare”. Mentre all’introversione e al valore totalizzante di quella poetica si contrapponevano le “possibilità di relazione” degli elementi costitutivi della realtà. Questa ricerca di “nuova possibilità figurale come integralità umana, veramente realista, rapporti o relazioni effettive, reali, esistenziali”, consentì “una prima definizione d’un area problematica di riproposizione iconica” e condusse ad una figurazione di tipo eclettico, risultante da una miscela di suggestioni baconiane, surrealiste ed informali70 . Tadini, il più vicino a posizioni neofigurative, rifiutava dell’informale soprattutto la dimensione alienante e astorica: “Con l’espressionismo astratto si è finiti fatalmente per distruggere ogni residuo di immagine, sostituendovi la furia meccanica di un segno vuoto, di una materia priva di finalità. Del resto la crisi della pittura ripete sostanzialmente la crisi di una situazione generale. Un mondo fondato sulla alienazione si «giustifica» edificandosi falsi simboli di poesia. Il tentativo di sganciarsi dalla realtà per toccare una specie di ideale assoluto si risolve per forza di cose nella propria connessione antitetica: in una serie di forme parossisticamente corpose. Una suggestione senza oggetto si cristallizza nella falsa oggettività del proprio meccanismo: nella forma astratta della pittura. Si rifiuta la coscienza perché non si ha la forza di liberarla continuamente, integrandola senza sosta, nel linguaggio, ad una oggettività che procede. Ci si rifugia nell’istinto dando fiducia ad un mito: quello di una animalità fuori della storia, incorrotta e innocente per natura. L’accademia informale di oggi non può che limitarsi a ripetere il tema di un suicidio espressivo con dubbia grazia e sospetta fecondità. Chi respinge un mondo alienato fino al suicidio (e certo non solo nella pittura) deve proporsi una concezione veramente vitale. E quella concezione non può essere che lo sviluppo dei principi veramente rivoluzionari già messi in atto dalla più vera pittura contemporanea ed ora contraddetti e negati. Quei principi di integrazione totale che l’hanno portata ad allargare i limiti dell’immagine, del suo spazio e del suo tempo, non certo per vuote esigenze formali, ma per poter costituire e significare una nuova oggettività, una completa possibilità di esistenza. C’è solo la possibilità di questa integrale oggettivazione, di questo realismo integrale. Poiché è solo assumendo il peso concreto del personaggio e dell’oggetto in una nuova totalità del suo valore e dei suoi rapporti che si può arrivare ad una vera finalità significativa.” Giuseppe Romagnoni partecipò con un quadro intitolato Organismo e nel suo intervento di poetica in catalogo affermava: “Il nostro desiderio di unità non deve sopraffare la complessità e contraddittorietà del reale; credo che l’unificazione debba essere l’ultima operazione di tutta una serie di interrogazioni e contatti con le cose. L’Unità entra a far parte dell’organismo; non come concetto che ha presieduto, ma come conseguenza (direi forse neanche necessaria), forse meramente accidentale.” Si palesava quello che fu uno degli aspetti che avrebbero caratterizzato anche la nuova figurazione: quello della caoticità e frammentazione della realtà che, persa un’unità originaria, non era più in grado di riassemblarsi, se non in forme provvisorie e instabili. L’esigenza era quella di fare proprio il caos, vissuto come l’elemento fondante e vitale del mondo: perché in un tempo in cui l’ordine non è che un mito, il caos diventa la sola realtà. Una realtà fatta di relazioni contraddittorie, ma pur sempre relazioni, che formano quindi una struttura, la possibile base di un diverso ordine. Questo tipo di approccio doveva molto alle teorie del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, che ebbe un peso notevole nella formazione filosofica di quegli anni e fu lettura comune a diversi artisti interessati alle teorie sul linguaggio, analizzato nella sua connessione con la realtà e nel suo ruolo come pratica condivisa da una comunità. I successivi sviluppi figurali furono raccolti da un’altra fondamentale mostra organizzata da Crispolti con Antonio Bandera, “Alternative Attuali. Rassegna internazionale di architettura, pittura e scultura d’avanguardia”, che ebbe luogo all’Aquila tra luglio e agosto del 1962. Nell’introduzione al catalogo della mostra, Crispolti parlava ancora di tirare le somme della grande stagione informale e non lesinava critiche sul frenetico consumo artistico, sintetizzando lucidamente l’operazione come “un’intenzione esplorativa, di scoperta, d’invenzione figurale e simbolica, di apertura indagante”, in cui i riferimenti privilegiati venivano individuati in Rafael Canogar e Alan Davie, Wols e Pierre Alechinsky, Graham Sutherland, Philip Martin e Jean Dubuffet. Ciononostante non poteva non ammettere che nella costruzione della mostra per alternative si finiva per comprendere al suo interno nozioni al limite della contraddittorietà, ma considerava “Ben più pericoloso -per la nostra esperienza attuale- dell’opposto eventuale pericolo d’un ecclettismo esagerato, per non del tutto ragionevoli concomitanze. E credo che dall’urto eventuale, che tale contrasto potrebbe motivare, ne nascano piuttosto chiarimenti di distanze, o, viceversa di magari sotterranei legami, che non mere contraddizioni ed interferenze.” La mostra si suddivideva in otto sezioni: “Oggettività e relazione”, “Soggettività e relazione organica”, “Simbolizzazione interiore”, “Simbolo e magicità oggettiva”, “Magicità, figure e forme allarmanti”, “Struttura, ritmo, spazio”, “Gesto, struttura, continuità” e infine “Ipotesi di lirismo”. Ma Crispolti precisava che tali compartimentazioni non erano raggruppamenti concettualmente e stilisticamente conchiusi, ma che avevano invece un valore indicativo di “polarità problematiche” . Antonio Bandera ci avverte che scopo dell’esposizione era cercare di rintracciare i fili e una storia delle problematiche individuate. “Oggettività e relazione”, “Soggettività e relazione organica”, “Simbolizzazione interiore” costituivano la parte più cospicua, fondata sulla base comune della ricerca di oggettività da cui scaturivano gli interessi relazionistici che erano già stati evidenziati nell’esposizione del 1960. Nell’introduzione alla sezione “Oggettività e relazione”, probabilmente quella più vicina all’ambito neofigurativo, si faceva riferimento a “una situazione ove la ‘figura umana’ , in quanto simbolo visivo dell’agente essenziale di quest’area sociologica, è rappresentata come struttura dinamica aperta alle sollecitazioni relazionali più molteplici, articolata, anziché feticizzata in una sua condizione di preteso monopolio figurale.” Nel suo intervento, significativamente intitolato Un nuovo racconto, Tadini evidenziava “un meccanismo economico nel frequente richiamo a una nuova figurazione in cui il realismo rinunci a certe asprezze e l’informale alla totale assenza di elementi riconoscibili”, cui non si può negare una certa veridicità. Il mercato dell’arte era in cerca di modernità, ma di una modernità che fosse vendibile ad un pubblico in certo modo ancora “provinciale”. Egli affermava dunque che “proporre un nuovo realismo che sia in grado non di riassumere ma di liquidare insieme il delirio spiritualistico dell’informale (risolto nel peso della materia pittorica) e la cronaca sommaria del realismo riproduttivo (risolta in allusioni sentimentali), non vuol dire proporre una nuova scuola né stilare un manifesto”. Quindi proseguiva: “Non è tanto di una nuova immagine schematica che bisogna parlare: ma piuttosto di un nuovo racconto. Un racconto che rappresenti la folta complessità di elementi che agiscono in una particolare situazione; che smembri l’ottusa cristallizzazione di una forma – o di un’idea – e restituisca l’immagine alla molteplicità vitale delle relazioni che lo costituiscono. L’immagine non deve essere alterata dal gioco della fantasia: perché – nella realtà – l’immagine si altera concretamente in tutte le relazioni che la determinano e che essa stessa contribuisce a determinare. Si potrebbe indicare un pericolo, quello di ridursi ad accumulare una congerie di dati svuotando la rappresentazione di ogni significato. Ma è proprio ricostruendo la complessità oggettiva di un’immagine reale, il suo movimentato accadere, che è possibile portarne alla luce il significato più vero. Ogni intuizione di verità è in fondo una deduzione il cui svolgimento, in particolari circostanze, rimane apparentemente nascosto.” “Alternative attuali” ebbe un impatto considerevole nel panorama artistico italiano, ma divenne gradatamente palese la volontà di delineare le nuove direzioni possibili della ricerca in cui quella pittura di relazione si era venuta precisando. Direzioni che vennero ulteriormente convalidate nella mostra appena successiva “Nuove prospettive della pittura italiana” che si tenne a Bologna fra giugno e luglio dello stesso anno. La seconda edizione della collettiva curata da Enrico Crispolti ebbe luogo dal 7 agosto al 30 settembre del 1965, collocandosi ormai alla fine delle esperienze neofigurative e anticipata nel 1963, nella medesima sede, dalla mostra “Aspetti dell’arte contemporanea”, definita come una mostra di “riflessione e informazione” con un’impostazione più prettamente storiografica di indagine del passato recente88 . Anche nella seconda edizione di “Alternative attuali”, come già nella precedente, si rifiutava la presentazione di una direzione unica, in favore di una serie di polarità problematiche che portavano alla suddivisione in tredici distinte sezioni: “Dinamica del reale”, “Ricordo e realtà”, “L’ottica quotidiana”, “Il peso della storia“, “L’ipotesi avveniristica”, “La favola e l’ironia”, “L’accentuazione grottesca”, “Le forze della natura”, “La presenza dell’oggetto”, “La dimensione della memoria”, “La simbologia magica”, “La prospettiva visionaria” e infine “Simboli e segnali”. Gli spunti risultavano interessanti, ma la suddivisione, per quanto aperta e ipotetica, finiva per risultare artificiosa, priva di basi concettuali . In catalogo erano presenti saggi di Barilli, dello stesso Crispolti, di Del Guercio, Jean Dypreau, Gerald Gassiot-Talabot, Edouard Jaguer, José Pierre e di Emilio Tadini, oltre a numerosi testi di poetica dei vari artisti e alle testimonianze su Romagnoni, prematuramente scomparso l’anno precedente. “Alleluia. L’astrattismo è finito, non è più che accademia, l’avvenire dell’arte è la Nuova Figurazione. Non altrimenti fu salutata l’alba del millennio.” Così scrive ironicamente Argan sulle pagine del Messaggero nell’aprile del 1962, anticipando quelli che sarebbero stati i discorsi e le polemiche sul fenomeno neofigurativo alla Biennale che si sarebbe aperta di lì a due mesi a Venezia. Ma, a parte la verve caustica, c’era un discorso critico valido alla base delle affermazioni di Argan: “Non fu una rivoluzione la scomparsa e non è una rivoluzione il riapparire, nell’arte, della figura di uomini e cose. Come le linee, i volumi, i colori, la figura non è valore ma tramite di valori: si tratta solo di sapere se la Nuova Figurazione manifesti gli stessi valori che ha manifestato in vari (non tutti) periodi della storia oppure altri e quali. Se in un’epoca in cui l’esistenza del singolo viene divorata e assimilata dall’esistenza collettiva o di massa, l’esperienza individuale dell’arte è dramma o tragedia, non è certamente il riapparire della figura che può segnare il momento della catarsi.Il riapparire della figura umana, o delle cose, non è, nessuno s’illuda, un ritorno all’ordine e alla tradizione; è la conseguenza estrema a cui si è giunti muovendo dalle premesse, d’ordine fenomenologico-esistenziale, della ricerca artistica contemporanea. Ma bisogna badare che, nell’euforia superstiziosa del millennio, non accada a taluno di gabellare per nuova figurazione immagini strutturalmente vecchie, che non muovono dalle premesse e non sono state elaborate attraverso il processo storico che ha condotto dalla non-figurazione alla nuova figurazione: la conseguenza inevitabile e funesta sarebbe soltanto un secondo Novecento.” Era evidente che il bersaglio polemico era costituito da quegli artisti che riteneva avessero soltanto sovrapposto una patina di modernità ad un approccio verso l’opera d’arte che rimaneva, inevitabilmente, quello tradizionale. E aggiungeva: “La differenza di questa nuova figurazione rispetto all’arte propriamente figurativa, è che la figura non ha più alcun valore, non è più un modello dato né un risultato da raggiungere; è un frammento di realtà, quasi un residuo o un rottame, che emerge nel corso del processo, nel compiersi di quell’atto di esistenza che è l’arte e, com’è apparso, può scomparire, riassorbito nel ritmo dell’azione artistica senza che il corso ne venga minimamente alterato.” Queste sono sicuramente le affermazioni più interessanti, che colgono il punto nodale della questione, ovvero quale statuto assumesse l’elemento figurativo in opere che discendevano strutturalmente in gran parte dall’informale: per Argan esso diventava semplicemente un ulteriore elemento formale fra i tanti a disposizione dell’artista per la costruzione dell’opera; linea, colore e figura sono frammenti di realtà che godono della stessa rilevanza strutturale e delle stesse possibilità significanti. La risposta di Antonello Trombadori non si fece attendere. Dalle colonne del Bollettino della Galleria La Nuova Pesa, galleria in prima linea nella divulgazione della nuova corrente, scriveva: “Il tema della ‘nuova figurazione’ è all’ordine del giorno. Ciò che occorre è soprattutto l’osservanza d’una piena lealtà intellettuale e d’una assoluta assenza di pregiudizi nel paragone nelle idee e nell’accertamento di ciò che, pur sopravvivendo come accademia, come gusto, come complicità di gruppi è inappellabilmente morto. Il primo tra questi accertamenti riguarda appunto la morte della falsa distinzione tra figurativo e non figurativo, al fine di uno pseudoconcetto sul quale si è retta in questi quindici anni la battaglia teorica e pratica contro il realismo. Noi non respingiamo il termine di ‘nuova figurazione’, ne rivendichiamo anzi la paternità, essendoci sempre battuti per far luce sul fatto che il preteso superamento della natura figurativa del linguaggio plastico e pittorico altro non era se non figurativismo che si vergognava di sé stesso, ‘involuzione figurativa’. ‘Nuova figurazione’ non può dunque significare altro che ‘rivoluzione figurativa’ e poiché non v’ha rivoluzione nell’arte che sia unicamente rivoluzione delle forme, il punto sul quale occorre far luce non è tanto quello di condannare ogni tipo di restaurazione naturalistica e descrittiva della immagine figurativa, quanto quello di che cosa si debba intendere oggi per salto di conoscenza che le arti debbono compiere nei confronti della oggettiva esistenza del reale, dalle trasformazioni sociali in atto nel mondo, alle scoperte scientifiche, alle modificazioni del costume e della morale dell’uomo.” Era evidente una riappropriazione da parte di uno dei principali critici del realismo di tutte quelle esperienze fino a poco tempo prima catalogate come “eretiche”, nell’ovvio tentativo di mantenere nell’alveo dell’arte ideologicamente orientata l’unica corrente che sembrava offrire un’opportunità di rinnovamento a un realismo di cui ormai non si potevano non vedere i limiti e l’avvenuto superamento. C’era di onesto che restituiva la corrente a quel fronte di impegno sociale, che una lettura esclusivamente formale tendeva a sottrarle. Questa polemica, che nel 1962 raggiungeva il culmine, era però già in corso, con uscite più sporadiche, almeno dal 1959. Proprio in quell’anno a Vienna si era tenuta la mostra “Giovani pittori italiani” e nel catalogo si leggeva un testo di Mario Penelope, curatore della già menzionata galleria romana La Nuova Pesa, che recitava: “ Nel giro di ognuno dei due schieramenti fondamentali dei figurativi e dei non figurativi, i reciproci motivi ideologici, estetici e morali riaffiorano e si travasano spesso dall’uno all’altro pittore, sia pure indirizzandosi ciascuno nella direzione più naturale alle sue preferenze culturali, ai suoi sentimenti, al suo modo di vedere e di sentire, creando nell’interno stesso delle principali correnti oscillazioni e perfino posizioni diverse, a volte in contrasto tra loro. Esperienze che da un lato partono dalla meditata fiducia nella realtà del mondo sociale ed insieme dalla ricerca di una sintesi espressiva unitaria che riconduca al contenuto umano e moderno della nostra epoca le complesse esperienze della cultura artistica contemporanea, e dall’altro muovono nel solco delle scoperte delle avanguardie alla ricerca di un linguaggio formale indipendente dalla realtà, con una accettazione, talvolta sconcertante, dei rischi che questo comporta. ” Si poteva notare già in queste prudenti affermazioni un tentativo di mediazione, e di pacificazione, tra due fronti che stavano sempre più perdendo la loro ragione di esistere, ma che, in qualche modo, avevano bisogno l’uno dell’altro per giustificare, o almeno connotare, la propria esistenza. In particolare dal punto di vista del fronte realista, perdere l’avversario storico rendeva difficile giustificare il concetto di militanza, l’impegno personale diventava esclusivamente una questione etica e non più ideologica, trasformando così il realismo nello specchio di una crisi che, pur nelle nobili intenzioni di impegno, non trovava uno sbocco formale e si perdeva in letteratura. Risulta significativo ciò che in tal senso affermava Crispolti in relazione ad alcune mostre dei primi anni Sessanta: “di fronte alle ragioni nobili ma troppo soltanto verbali allegate alle loro opere ciò che colpisce è piuttosto una sorta di ‘paura’ che non di ‘coraggio’ dell’immagine: il che è un risultato perlomeno curioso rispetto appunto a certe esibite premesse, ma è anche il segno di un’insicurezza e di una crisi.” Del 1963 è un’inchiesta a cura degli scrittori Gino Montesanto e Giuliana Zavadini, pubblicata sulla rivista della Fondazione Olivetti “Civiltà delle macchine”, intitolata Concerto a più voci sull’arte oggi, in cui le domande poste riguardavano la natura della nuova figurazione ed il suo ruolo. Il risultato di questa inchiesta, al di là del fatto che la maggior parte degli interpellati negasse una consistenza reale alla questione della nuova figurazione, era quello di mostrare il preciso clima culturale che la nuova figurazione cercava di espimere, in cui il problema della rappresentazione, della realtà, della dimensione del racconto e dell’orizzonte oggettuale confluivano in un’unica, forte tensione figurativa. Romagnoni rispose: “Non è difficile constatare come tutti parlino della nuova figurazione in termini contraddittori senza che esista un’intrepretazione prevalente: per alcuni basta che appaiano sui quadri alcuni elementi riconoscibili della comune esperienza visiva, per altri che questi elementi possano venire classificati in un qualsiasi antropomorfismo, per terzi che questo antropomorfismo venga condotto verso ragioni sociali o magico-religiose o emblematiche ecc., per quarti, rifiutando ogni esperienza mimetica, è l’assunzione dei più elevati protocolli della visibilità, per quinti la cattura immediata della datità, per sesti l’invettiva iconoclastica, per settimi la pura e semplice restaurazione di alcuni o di tutti i valori, per ottavi il ritorno alle origini dell’avanguardia, per noni la giustificazione di passate battaglie e l’occasione di nuove, e per decimi una trovata mercantile . Ma per nuova figurazione non c’è nessun casellario oppure un grande armadio dove si può rintracciare ogni cosa.” Qualche anno dopo Lorenzo Vespignani scriveva: “ si può affermare che la nuova figurazione fu fortemente connotata di espressionismo: non nel senso letterale del termine, certo, ma per l’avida riassunzione di un invasato e blasfemo significato della modernità, più che politico sarcasticamente sociale. E non pochi censori, più vicini alla centralità (al centralismo?) dell’ispirazione politica, ne lamentarono il colore anarcoide. Sbagliando però, se lo scambiavano per una caduta verticale dell’impegno, poiché d’impegno si trattava ancora: solo più esacerbato, più geloso delle motivazioni esistenziali.” Sull’onda del dibattito nel 1963 venne realizzata l’esposizione “Nuova figurazione” alla Strozzina di Firenze. Fu un’ampia rassegna internazionale che allineava in realtà opere delle più diverse tendenze, mantenendo così la definizione “nuova figurazione” nell’ambito dell’ambiguità. Fu un ulteriore segnale di un interesse generalizzato verso un fenomeno di cui la critica era ben cosciente, ma che trovava difficoltà ad incasellare, perdendosi in disquisizioni che poco avevano a che fare con il tema. Questa mostra si collocava in un ampio panoramana internazionale di iniziative dello stesso tenore: “Neofigurative painting in Latin America”, tenuta alla galleria dell’Unione Panamericana di Washington nel 1962; “Recent painting USA: the figure”, curata da Alfred H. Barr Jr per il Museum of Modern Art di New York; “Joven figuración en España” nel 1963 presso l’Antiguo Hospital de Santa Cruz de Barcelona, curata dal critico spagnolo Carlos Antonio Areán. Scorrendo le liste dei partecipanti ci si rende conto di come curatori e critici oscillassero tra due opposti punti di vista: da un lato coloro che accorpavano la corrente neofigurativa agli orientamenti artistici ritenuti più reazionari e quindi la consideravano una semplice diramazione della figurazione di tipo tradizionale; dall’altro coloro che la facevano rientrare nel vasto universo dell’informale, operazione resa plausibile dal sottile confine che la separava da un informale figurato. In definitiva, non si riuscivano ancora a superare le vecchie categorie e si continuava a ragionare per manicheistiche contrapposizioni binarie. Si trattava più di un impasse critico, che di una questione artistica, anche se non si può negare la fatica di taluni pittori che continuavano a tentare di attualizzare un mal interpretato retaggio tradizionale. Nel 1965 De Grada, storico direttore della rivista “Realismo”, pubblicò su “Il calendario del popolo” un articolo intitolato Bilancio della pittura. Dal realismo alla ‘nuova figurazione’, in cui tracciava una panoramica di vent’anni di produzione artistica. Tralasciando la panoramica storica, descritta dal prevedibile punto di vista di uno strenuo difensore del realismo che condannava come disgregazione borghese qualsiasi forma di arte aniconica, è interessante notare come, pur considerando la nuova figurazione l’erede dei valori realisti, ponesse sul fronte avversario “quelli che hanno concepito il progresso umano come una manomissione dell’industria sull’uomo, come una cancellazione delle costanti poetiche sotto la pressione della pubblicità e delle tecniche meccaniche”; quando risultava ormai evidente che l’assunzione di tali elementi della modernità come parte del mondo e delle pressioni sull’uomo era una parte fondamentale delle tematiche neofigurative prima che di quelle pop. Arte nucleare, realismo esistenziale e nuova figurazione non erano altro che distinti momenti di una medesima ricerca di libertà, che potesse conciliare i discordanti elementi di una pittura che, pur tentando un’attualizzazione formale, potesse essere espressione concreta di una società, quale era quella italiana, ancora in fase di transizione fra tradizione e modernità. All’inizio del decennio si avvertiva un’esigenza trasversale a tutta la cultura artistica italiana, un’esigenza di comprensione e resa di un contesto di progressivo e massiccio inurbamento, dall’aspetto e dalle esigenze profondamente mutate rispetto al passato, e che continuava ad evolversi ad una velocità a cui, artisticamente, si rispondeva con strategie di volta in volta diverse. In questo modo entrarono in crisi, nella comune incapacità di comprendere e dare un volto al cambiamento, quelli che erano stati i due grandi antagonisti degli ultimi anni in campo artistico: il realismo e l’informale. Questa fase storica vide l’inevitabile complicarsi del rapporto tra soggetto e realtà, un rapporto che fino a quel momento era sembrato diretto e lineare, quale che fosse l’estremo cui si desse il ruolo principale. Si avvertì la necessità di riorganizzare i frammenti dispersi della realtà e dell’esperienza che ne viveva il soggetto, l’artista, in un’orizzonte di senso compiuto o, almeno, in un contenitore che li potesse raccogliere, ma la domanda che rimaneva sospesa era se questa fosse ancora un’opzione possibile in un panorama segnato dal senso dell’informe, come avvertiva Sanguineti in ambito letterario. Si cercò dunque da più parti di intraprendere un nuovo discorso: “ Si parla molto di nuova figurazione, una figurazione oltre l’informale, non sarebbe male parlare anche di ciò che vi è stato oltre all’informale, perché in quegli anni nei quali certuni oggi vedono soltanto la sublime esteriorizazzione di visceralissima interiorità, molte altre cose si sono fatte in Italia e nel mondo ricerche figurative senza le quali la stessa radunata attuale di molti attorno a idee neofigurative sarebbe impensabile . Bisogna ora attendere i risultati che possono venire da coloro che oggi si pongono su posizioni di nuova figurazione partendo da un hinterland informale . Il tempo delle semplificazioni estreme e dell’iconoclastia a buon mercato forse sta finendo; ora viene un grosso appuntamento con la cultura ” Il breve lasso di tempo tra il 1960 ed il 1964 circa costituì un momento di ripensamento e riflessione da parte delle diverse correnti artistiche, una sorta di momentanea sospensione, in un contesto in cui si aprivano innumerevoli possibilità, tutte strade ancora percorribili di fronte agli artisti che si trovarono a dover cercare un nuovo modo di relazionarsi con la realtà. Un arco temporale segnato dalla ricerca costante di un’immagine in cui identificarsi, in cui il dubbio fu il fondamento di un operare artistico sospeso tra un passato ancora troppo vicino e un futuro di difficile definizione. Le diverse poetiche dell’informale, ormai giunte al loro apice sperimentale, vissero il periodo di massima diffusione, ma anche di graduale distacco da una concezione sociale dell’arte che si andava modificando in direzione di una maggiore aderenza al dato quotidiano e che prefigurava l’avvento del nuovo orizzonte oggettual e delle sperimentazioni dell’arte programmata e cinetica. Un’evoluzione che si dipanava dalle premesse stesse dell’informale, mirando però a superare i limiti della dimensione spiccatamente individuale, a erodere quella che Crispolti aveva definito la “parete dell’angoscia” . Questa situazione non poteva non mettere in crisi il concetto di realismo quale strumento di rappresentazione, infatti dopo il 1956 gli ideali stessi su cui si era basato vacillavano ormai di fronte all’avanzare della modernità, che esigeva una rielaborazione della realtà su nuovi livelli critici. Sanesi, nel suo contributo al catalogo Possibilità di relazione, indicava come i pittori italiani presentati non fossero “quasi mai rifuggiti da una sorta di figurazione di ‘impegno’, che permettesse di nuovo il ‘racconto’, tanto che spesso le loro opere sono abitate da ‘personaggi’ così caricati di tutto il senso che il termine comporta da poter esse facilmente definiti ‘personaggi progettanti’.” Anche i più ostinati fautori del realismo erano consapevoli che la sterile contrapposizione con l’arte astratta apparteneva al passato. Guttuso stesso, ancora nel 1957, scriveva: “Procedere per liquidazioni non serve a nessuno. Chi pretende di dividere il mondo in due: arte astratta-arte realista, senza comprendere quanto di realtà ci può essere in un’opera classificata astratta, e quanta astrattezza in un’opera classificata realista, è un settario e non un filosofo.” Che poi, fra la consapevolezza di questo dato di fatto e la pratica quotidiana ci fosse ancora una frattura profonda è discorso più di analisi sociologica e politica che non di studio estetico. Alcuni artisti cercarono risposte che andassero nella direzione di un rinnovamento della pittura di impegno storico e civile: “ chi non vuole sfuggire a un effettivo impegno civile dell’arte deve condurre un aspro e quotidiano combattimento per costruire immagini che siano, al tempo stesso, coinvolte nella lacerante complessità del mondo e portatrici di nuova conoscenza e di nuovo giudizio il loro intento non è di consolare, chiedono che le diverse fasi del loro sviluppo siano riguardate senza pregiudizi, cercandovi la sostanziale unità che è data dall’impegno di intervenire sulla realtà.”
Così l’immagine umana, variamente deformata, ma riconoscibile, divenne lo strumento espressivo e comunicativo dei temi e dei problemi che coinvolgevano, anche nei termini di una ricerca etica e morale, l’uomo contemporaneo. L’iconografia umana si fece punto di incontro privilegiato fra l’artista e i destinatari dell’opera, il mezzo più idoneo per instaurare una relazione di comprensione con un pubblico spesso disorientato. Ma la spinta non poteva esaurirsi nella dimensione etica, si rendeva necessario mettere in discussione anche gli strumenti linguistici atti a rendere la contraddittorietà del reale senza perdere in capacità comunicativa. Qui entrarono in gioco le nuove teorie del linguaggio e gli studi sulla prospettiva, ma spesso si trattava, da parte degli artisti, di conoscenze a livello superficiale che contribuivano a creare un humus creativo condiviso, ma non sempre assurgevano a un livello cosciente. Non tutti infatti avevano la curiosità onnivora e indagatrice di un Romagnoni, ma è comunque spesso documentato l’interesse nei confronti di tematiche filosofiche e il possesso di riviste e volumi che ne trattavano. L’esistenzialismo ebbe ampia diffusione in Italia nel secondo dopoguerra e, negli anni Cinquanta, le opere di Sartre furono lettura condivisa, in particolare i racconti, si leggeva Camus e si venne riscoprendo Kierkegaard . Si consideri comunque che, a differenza di quanto avvenne nella cultura francese, la corrente filosofica predominante del marxismo umanistico raramente si accompagnò all’esistenzialismo, anzi ne fu spesso il più feroce detrattore, segnandone l’assimilazione in un contesto di separazione dall’impegno politico . Forse il miglior tramite di un’evoluzione italiana dell’esistenzialismo fu Enzo Paci, fondatore e direttore della rivista “Aut-Aut”, con il suo relazionismo fenomenologico che, attraverso il pensiero di Marleau-Ponty, interpretò l’esistenza come evento finito dove non è data alcuna realtà assoluta, secondo una fenomenologia basata sui concetti di tempo e relazione che configurano il mondo come insieme di connessioni che danno luogo a forme precise, ma sempre aperte, dunque in continua formazione e mutamento. In questo processo dinamico le relazioni sono le condizioni dell’esistere, in uno scambio continuo tra passato, presente e futuro dalla forte impostazione etica. Il riferimento all’esistenzialismo per i fenomeni artistici che si svilupparono tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta è dunque d’obbligo, ma per i movimenti neofigurativi, discendenti ripudiati di genitori incompatibili, forse più che a Sartre e a Camus bisognerebbe guardare a Walter Benjamin e alla sua prospettiva storica. L’edizione italiana di Angelus Novus, curata da Renato Solmi, uscì nel 1962 presso Einaudi, solo sette anni dopo la prima edizione tedesca degli Schriften . Pubblicata in pieno auge delle poetiche neofigurative, dava fondamento e giustificazione a una visione della storia come tragedia e ad una concezione del linguaggio che rimanda costantemente al suo fondamento indicibile. Gli scritti di Benjamin ebbero notevole fortuna in Italia, ovviamente soprattutto nell’ambiente intellettuale di sinistra, che tese ad approppriarsi e a identificarsi con questa figura tormentata, divisa tra un profondo sentimento religioso dell’esistenza e la fiducia nel marxismo. L’Angelus Novus di Paul Klee diventa, nel commento di Benjamin, l’angelo della storia e in quel suo volgere la testa verso le macerie del passato, mentre l’inarrestabile vento del progresso lo sospinge verso il futuro, non può non far pensare al difficile confronto tra tradizione e modernità vissuto dai nostri pittori. Alcune affinità con la concezione del linguaggio di Benjamin si riscontrano in un altro testo che all’epoca trovò ampia diffusione, il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, pubblicato in Italia nel 1954. Secondo il filosofo austriaco i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo, perché è solo attraverso il linguaggio, e nella comprensione del senso del linguaggio stesso, che la totalità dei fatti risulta accessibile, o meglio raffigurabile . Questa proposizione può essere applicata anche agli artisti che considerano la pittura un vero e proprio linguaggio, dunque tramite per la conoscenza del mondo e, quindi, allo stesso tempo, limite che circoscrive il loro mondo. Vi è però anche ciò che il filosofo austriaco definisce “il mistico”, ovvero ciò che trascende i limiti del linguaggio e quindi del conoscibile.
Questo tipo di questione non è logicamente giustificabile e resta inaccessibile al linguaggio , quanto meno a quello fondato su strutture logiche, ossia ad un linguaggio razionale e verbale. Varrebbe il medesimo discorso per un linguaggio che non funziona secondo nessi logici? Lo stesso Wittgenstein affermava che etica ed estetica sono valori trascendentali e che, almeno in relazione al solipsismo, quanto non può essere detto può essere mostrato . Possiamo considerare in tal modo anche la pittura in quanto linguaggio di cui il soggetto crea i codici di lettura? La risposta potrebbe essere positiva facendo riferimento alla teoria dei giochi linguistici delle Ricerche filosofiche di un Wittgenstein più maturo: “Esistono innumerevoli tipi differenti di impiego di tutto ciò che chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati.” Dunque per l’artista i limiti del suo linguaggio sarebbero realmente i limiti del suo mondo. Per quanto riguarda la riflessione sulla prospettiva furono fondamentali gli esempi di Bacon e Giacometti, così come vennero commentati in diversi articoli di Renato Barilli, oltre alla pubblicazione nel 1961 de La prospettiva come forma simbolica di Erwin Panofsky per i tipi della Feltrinelli. È noto che Romagnoni possedeva la prima edizione del saggio dello storico tedesco, e di come questo fu alla base dei suoi tentativi di superamento della rappresentazione prospettica tradizionale. Al di là del complesso apparato di spiegazioni con cui nel testo viene avallata la teoria che faceva della prospettiva non più una trasposizione scientifica dei meccanismi visivi, bensì un sistema simbolico che esprimeva i valori di un preciso momento storico, e della querelle che scatenò fra gli storici dell’arte italiani, ciò che contò per gli artisti coevi era l’ennesimo esempio della relativizzazione di valori dati per assodati e dunque la contestualizzazione dei più basilari mezzi artistici al momento storico dato, non più strumenti innocenti di una visione, ma scelta connaturata alla visione stessa. Inoltre, il reinserimento di una sorta di profondità all’interno delle opere figurative di quegli anni fu un esplicito atto di rigetto nei confronti dell’appiattimento delle opere informali, la ricerca di una dimensione nuovamente umana in cui inserire corpi concreti, ma che non poteva più identificarsi con l’armonico spazio rinascimentale dominato da un uomo in posizione privilegiata. Nell’ambito di queste ricerche un pericolo che, non a torto, anche se su basi critiche discutibili, veniva esposto da diversi commentatori di sinistra era quello di un vuoto sincretismo che si limitasse a mantenere un gusto vagamente aggiornato, seppur gradevole, però fosse totalmente privo di messaggio e di una ricerca linguistica che non si limitasse ad un adattamento superficiale: “Un rischio gravissimo oggi corre la giovane pittura: quello che, attraverso un caotico ricomporre i frammmenti di tante e tante esperienze plastiche, essa ricostruisca l’iconografia di una pittura leggibile, ma senza messaggio, pittura descrittiva degli oggetti, ma vuota di oggettività, se non, addirittura, portatrice di malinconiche e senili associazioni di oggetti della vita di sempre.” Non mancavano dunque elementi di critica e malcelati pericoli sul percorso di una nuova figurazione di cui già si intravedevano i limiti. In un articolo del 1960, riferito alla mostra alla Galleria Bergamini tenuta da Vespignani, Ferroni, Sughi e Banchieri, Kaisserlian coglieva già le critiche principali rivolte ai neofigurativi: “C’è un po’ di tutto: un pizzico di sinistrismo con la “dialettica contraddizione”, di relazionismo, cioè di problematicismo aggiornato, con la “serie infinita dei rapporti”, una strizzatina d’occhi ai vecchi figurativi con la “leggibile immagine del mondo”, che è poi l’unica cosa vera. Non ci pare comunque che nelle loro opere Ferroni e Vespignani abbiano affrontato sinora il tema figurativo storicamente più attuale: l’uomo dilacerato che non riesce a stare a se stesso (Bacon, Giacometti) e che si trova solo nell’impeto di una proposta (il miglior Guttuso, Guerreschi).” Forse a dare il miglior quadro della situazione cui rispondevano gli artisti neofigurativi, più che un pittore o un filosofo, fu uno scrittore, Pier Paolo Pasolini. Vicino ad alcuni artisti del gruppo, e comunque parte del medesimo entourage intellettuale, lo scrittore friulano espresse in scrittura, cinema e talvolta anche su tela, le medesime ansie di fronte alla realtà e descrisse lo stesso mondo dei pittori neofigurativi. La condizione di Pasolini, ideologicamente nel Pci, ma al di fuori moralmente, reazionario sulla questione dell’urbanizzazione e massificazione della società, ma fin troppo avanzato sul fronte del linguaggio e della tematiche dei suoi libri, rispecchiava, sotto molti profili, la condizione degli artisti che cercarono di andare oltre l’ideologia comunista e la prassi realista, ma lanciando la sfida dall’interno. Lo scrittore strinse rapporti con artisti delle tendenze più diverse come potevano essere, ad esempio, Fabio Mauri e Giuseppe Zigaina, ma condivise in particolare con i nostri e seppe esprimere quella frattura fra arte e ideologia, tra forma e contenuto, che fu la sfida che questi pittori affrontarono in quegli anni, la questione sempre centrale e mai risolta che fu l’origine della loro opera e anche il limite oltre cui non seppero muovere. Scrisse presentazioni sia per Guttuso che per Vespignani e, se dichiarò apertamente la sua sintonia col primo, fu forse ancora più vicino al secondo con cui aveva in comune anche l’amore per la Roma delle borgate. Nel 1960 si cominciava già a intravedere nella nuova figurazione un’alternativa concreta di sviluppo, un’opzione in più su cui scommettere per l’immediato futuro: “Si è parlato molto negli ultimi mesi, di ritorno al realismo, di sopravvento del figurativo. È indubbio che una serie di mostre, per lo più positive, di giovani pittori figurativi abbiano dato impulso a una pittura di idee, lontanissima, nella forma, dal pittoricismo oleografico del neo-realismo, ma nuovamente aperta ad una tematica ideologica che, questa volta, invece dell’orgia proletaria e miserabilistica di dieci anni fa, punta sulla satirica rappresentazione di un particolare ‘bel mondo’, già ampiamente documentato nei fatti di cronaca e soggetto preferito di un crudo neo-verismo conematografico . La concorrenza e la connivenza con il reportage giornalistico-fotografico e con il cinema, farà presto cadere questa pittura di idee in clichès falsi e triti, ma, come sempre, i migliori si salveranno, lasciando una documentazione essenziale e non contingente di certi costumi e di una data situazione sociale, così, ad esempio, un Vespignani a Roma e un Guerreschi a Milano, saranno dei pochi a far centro portando il loro engagement ideologico oltre la cronaca e la satira, su di un piano d’arte e di poesia. L’importante mostra che Renzo Vespignani e Ugo Attardi hanno allestito alla Galleria “La nuova pesa”, costituisce il più riuscito esempio di questa nuova pittura tipicamente italiana, che sarei tentata di chiamare “realismo antiborghese” o, forse meglio, “nuovo espressionismo antiborghese”.” All’inizio del 1961 si formò un primo raggruppamento neofigurativo a Roma, Libertà e Realtà, durato la breve parentesi di un’unica esposizione, ma che era sintomatico di un’esigenza diffusa che cercava un coerente modo di esprimersi. Nella presentazione della mostra gli artisti dichiaravano: “Siamo un gruppo di giovani pittori romani. Abbiamo in comune una posizione critica di fronte alla cultura e all’arte della società in cui agiamo: rileviamo nella teoria e nella pratica dell’”arte per l’arte” e dell’”arte informale” la conclusione di un generale processo di decadenza che è in corso da molto tempo nell’arte ed in genere nella cultura italiana. Questo gruppo di pittori intende quindi opporsi alla atmosfera culturale creata da questa situazione, desidera ristabilire un rapporto tra l’artista e la società, società che, malgrado il non disinteressato pessimismo, questi pittori credono ancora viva e vitale e intendono cogliere nella dialettica del suo sviluppo. Spesso in questi ultimi anni, alcuni artisti impegnati alla ricerca di una visione oggettiva della società, hanno finito per arenarsi su posizioni quanto mai pericolose ed equivoche. Da un lato si è voluto esprimere un’aspra posizione di critica nei confronti della società; un giudizio violento che passando dal sentimento, sia pure in parte giusto, dello sradicamento che l’uomo subisce nella moderna vita borghese (sradicamento sa sé stessi, dalla propria umanità, da ogni sano ed organico rapporto sociale), ha finito spesso per coinvolgere l’uomo stesso in una condanna irrimediabile. Una condanna questa che a noi sembra invece nascere principalmente dall’impossibilità o dall’incapacità di questi artisti di distinguere tra una contraddittoria e drammatica posizione individuale e le contraddizioni obiettive di una società da questa posizione deriva poi l’attrazione più o meno cosciente, che gli artisti di questa tendenza provano verso l’arte informale, che infatti nel suo estremo “smembramento” della visione (e questo concetto sull’arte informale noi lo sosteniamo malgrado che una certa parte della critica parli di una… ricostruzione) offre a questi artisti congeniali e suggestive nonché facili soluzioni formali. D’altro canto ci sembra che a volte si sia corso il rischio di cadere nell’eccesso opposto, cioè, in un generoso ma ingenuo ottimismo e, peggio ancora, a noi pare che nella lotta condotta contro tutto ciò che è irrazionale, morboso, contro cioè certi motivi centrali della cultura decadente e forse anche nella paura di essi, si sia rimasti impigliati in un fare rigido e impacciato che ha portato a una visione a volte superficiale della vita e della storia. E’ nostra intenzione lottare contro questo opposti pericoli cercando appunto di comprendere la realtà del nostro tempo nel vivo della sua dialettica. E’ nella restituzione della verità (una verità non scontata a priori ma da scoprire giorno per giorno) partendo da una posizione spregiudicata e progressiva, lontana da qualsiasi cristallizzazione letteraria e nella volontà di esprimerla con mezzi adatti a ricostruire una moderna iconografia, che noi sentiamo di trovare il modo più profondo per partecipare attivamente all’evoluzione della cultura e della società. Noi desideriamo conservare ognuna la massima libertà di ricerca e di espressione per la conquista di un linguaggio che ci permetta di restituire la realtà oggettiva del nostro tempo. Non respingiamo perciò a priori le esperienza artistiche del nostro secolo ma al contrario sosteniamo la necessità di una valutazione meno unilaterale delle esperienze della avanguardia storica .”Nasceva in questo contesto l’esperienza del gruppo Il Pro e il Contro a cui “ più o meno organicamente collaborarono Ferroni, Guerreschi, Recalcati, Fieschi, Francese, Aillaud, Arroyo, Guida, Verrusio, Maselli, Gillespy, Mc Garrrel. Ed anche nell’assedio della rage informelle. Duilio Morosini, appena arrivato dalla Francia parlava di pittura viscerale, ‘al di sotto della cintura’. Un nuovo esperanto, comunque, lo era, una corporeità, senza la persona umana, una radicale destrutturazione di ciò che restava del patrimonio iconico. Qualunque cosa si potesse pensare dell’informale (e noi ne pensavamo assai male, se non altro perché moda ‘facile’) era evidente che liquidava le residue tentazioni ‘veristiche’. Certo la soluzione del problema, come avevamo provato sulla pelle, non era in un aggiornamento al moto perpetuo dell’avanguardia. ” Vespignani tendeva ad allargare i confini del gruppo anche a quelle che furono solo partecipazioni virtuali e legami indiretti, poiché, se è vero che vennero organizzate dal collettivo diverse esposizioni di altri artisti, non sempre entrarono in contatto diretto con loro. Allo stesso tempo però l’elenco di nomi riportato evidenzia la vivacità dell’ambiente culturale romano, in cui si incrociavano e frequentavano artisti della più varia provenienza, estrazione e indirizzo, rendendo possibili collaborazioni che se, a volte, possono apparire incongrue, furono però spesso proficue di risultati e soprattutto stimolanti per il mondo artistico in generale. Si trattava, nelle intenzioni, di formare un sodalizio che fosse occasione di confronto tra gli artisti senza minare la loro libertà di espressione; in cui si ponessero i problemi, ma non si prefissassero le soluzioni come era stato a lungo nello schieramento realista: “Il pro e il contro è un gruppo che vive della sua interna dialettica, del libero confronto tra personalità diverse intorno a problemi e prospettive comuni. È dal ’60 che già si avvertono gravi segni di usura in seno alle correnti artistiche egemoni sostenute dal mercato internazionale, dalle gallerie pubbliche, dall’industria editoriale. Il momento è caratterizzato dalle resipiscenze di chi non ha creduto in ciò che faceva, dal risveglio dello spirito problematico di chi ha creduto in ciò che faceva. Dalle sponde opposte si riapre il dialogo. La condizioni di lavoro degli artisti che negli anni precedenti hanno continuato od intrapreso ad operare sul terreno del realismo moderno non sono nemmeno tali da scoraggiare lo sviluppo individuale delle esperienze. La spinta a creare nuovi strumenti culturali viene, insomma, da fattori oggettivi.” Si trattava più di una dichiarazione d’intenti politici e sociali che non di una dichiarazione di poetica, ma come realizzarla concretamente? Non era chiaro nemmeno agli artisti, ciò di cui erano consapevoli era la necessità di cercare nuove strade per la pittura di realtà, un’arte in cui ci fosse posto per la concretezza umana, ma senza le pesanti sovrapposizioni del realismo tradizionale: “ la ragione ultima di questo nostro ‘collettivo’ sta in fondo proprio nel proposito di cogliere nel concreto e demitizzare queste incidenze di una cultura fittizia, di contraddizioni ideologiche e sociali, d’essere presenti con coscienza critica nel mondo di oggi. Sono però anche convinto che ogni intervento debba essere sotteso dalla ferma coscienza di alcuni valori, dall’intima presenza in noi di un’immagine dell’uomo ancora integro, ancora in grado di agire nel mondo.” E in questo loro tentativo si affidarono anche ad elementi che appartenevano alla tanto ostracizzata corrente informale. Vigorelli nel testo per una mostra di Vespignani del 1963 affermava: “ Ora che gli astratti tentano un ritorno calcolato, spesso comandato, alla figuratività, i figurativi autentici rischiano coscientemente il processo inverso? è facile liberarsi della figura quando si crede poco all’uomo, e meno ancora alla società. Vespignani qui opera criticamente. Non salta l’uomo, piuttosto fa saltare l’uomo: per provarne la consistenza, la persistenza. Mi viene in mente, guardando questi quadri di Vespignani tra il ’62 e il ’63, quel che una volta disse Wittgenstein: che il corpo umano tende naturalmente ad affiorare alla superficie, e occorre uno sforzo per andare a fondo. ” I componenti originari del gruppo, che si riunivano nello studio di Vespignani, furono Attardi, Calabria, Farulli, Gianquinto, Guccione e Vespignan . I percorsi individuali all’interno del gruppo italiano si confrontavano reciprocamente alla ricerca di un nuovo corso che affondasse le radici nella tradizione, in un tentativo di rinnovamento del legame dell’artista con la società, ognuno secondo una sua personale soluzione figurativa. Si andava da Attardi, che era stato tra i firmatari del manifesto di Forma 1 del 1947 per poi aderire al neorealismo a cui cercò di conferire maggiore libertà formale, a Calabria con i suoi effetti di dinamismo e le scene di massa realizzate con modalità che si rifacevano al futurismo; da Farulli, passato dall’astrazione geometrica al neorealismo, sviluppando una personale visione della società contemporanea resa nei forti contrasti di colore e nell’utilizzo della linea in opposizione ad ampie stesure di pigmento, a Gianquinto, che sul gioco di una spazialità sempre tenuta su un solo piano innestava un luminismo di matrice veneta dalla forte connotazione lirica; da Guccione, la cui pittura risentiva di una forte influenza di Bacon, a Vespignani, che aveva alle spalle un lungo e sentito percorso realista, a cui l’approfondimento dell’esperienza informale conferì una nuova dimensione tragica e fredda al tempo stesso. Più precisamente questi artisti si qualificarono come “collettivo”, termine molto in voga in quegli anni, ovvero “bottega della giovane arte italiana”, definizione che rendeva bene l’idea del tipo di lavoro che conducevano: non si trattava soltanto di esposizioni congiunte, ma anche di organizzare mostre individuali di singoli artisti storici o contemporanei in linea con le idee alla base della formazione. Nacquero così le varie mostre siglate dal collettivo, dalle individuali di Guerreschi, piuttosto che di Ferroni o Calabria, a mostre quali quelle di Quattrucci o Turchiaro o, ancora, Georg Grosz o Sutherland. Il tentativo fu anche quello di mettersi in contatto con artisti che non gravitassero per forza nell’area romana, estendendo l’esperienza al di là dei limiti di un localismo che cominciava ad andar stretto agli artisti stessi. Secondo Vespignani, il critico Dario Micacchi, che prese parte al progetto con grande entusiasmo, “teneva una fitta e ‘gesticolante’ corrispondenza con i pittori delle altre città”34. Pare che in questo tentativo non fosse secondario neanche il ruolo svolto da Guttuso che cercò di coinvolgere altri giovani artisti in questo progetto, forse con la volontà di creare una nuova diramazione della scuola realista, che ne prolungasse i valori tramite un linguaggio che potesse confrontarsi ad armi pari con le nuove correnti. Secondo Crispolti: “A un certo punto Guttuso ha tentato di creare un gruppo di giovani, per diventarne lui lo sponsor e, da leader, avere intorno una sorta di situazione. Aveva cercato Schifano, Angeli, Vacchi stesso. Però poi non c’è riuscito a convincerli e a organizzarli.” Sicuramente esisteva una lettera in cui Guttuso invitò Romagnoni a entrare a far parte de Il Pro e il Contro, ma ci sembra di poter affermare che l’artista partecipò alle esposizioni del gruppo, da cui mantenne sempre un certo distacco, più in virtù della volontà del suo gallerista romano, Mario Roncaglia, che non per questo autorevole, se non autoritario, invito che non poteva non guardare con una certa diffidenza.
La prima uscita del collettivo come tale avvenne, nel dicembre del 1961, presso la galleria La Nuova Pesa, con la mostra intitolata “La violenza, ancora”, dedicata ad un tema che permetteva di esprimere al meglio i principi sia stilistici che concettuali portati avanti dal gruppo e che veniva esplicitato già nella copertina del catalogo della mostra che riportava il dettaglio della testa mozzata di Golia, dal caravaggesco Davide con la testa di Golia (1610) di Galleria Borghese . Secondo il collettivo “ la mostra, centrata sul tema della violenza nel mondo contemporaneo, non si configura sotto il profilo (di dubbia efficacia) d’un generico atto di denuncia, ma come nuova verifica del rapporto conoscitivo e critico tra l’arte e gli avvenimenti, come sperimentazione individuale, articolata, varia, di singoli pittori che cercano il loro vero, sicuro punto di attacco alla realtà; come occasione di mettere alla prova, anche, le difficoltà oggettive (i condizionamento sociali, culturali, linguistici) che incontra l’artista contemporaneo ad attingere alle fonti dirette dell’emozione, e, infine, come sondaggio concreto degli insostituibili strumenti di demistificazione di cui dispone l’arte in un epoca quale la nostra, caratterizzata dallo sviluppo di nuove, molteplici forme di documentazione visiva.” La mostra era allargata anche ad altri artisti e fra questi va rilevata proprio la presenza di Renato Guttuso, a conferma che la sua opera restava un punto di riferimento, seppur considerata secondo modalità più libere e aperte a nuove influenze. Guttuso fu, per gli artisti del gruppo, così come per molti altri giovani pittori, allo stesso tempo un baluardo contro l’avanzata dell’arte astratta, che non riuscivano a non vedere come un’operazione fine a sé stessa, e un freno ad uno sviluppo più libero ed aperto del codice figurativo. Si trattava di un’esposizione di quarantacinque fra disegni e incisioni di cui, già durante l’esposizione, si vendeva una collezione di dieci litografia scelte. Tale raccolta ebbe almeno due edizioni e sarebbe poi stata trasposta nel 1962, per i tipi degli Editori Riuniti, in una nuova versione composta da 24 litografie, accompagnate dalle dodici Ballate della Violenza di Pier Paolo Pasolini . Nel catalogo della mostra, oltre ad un commento del collettivo di artisti, era inserita anche una lettera di Angélica Arenal, consorte del muralista messicano Alfaro Siqueiros: un appello per la liberazione del pittore, gravemente malato, dal carcere in cui era rinchiuso per motivi politici . La partecipazione alle iniziative volte alla liberazione del pittore messicano dovette, con ogni probabilità, venir decisa poco prima dell’apertura della mostra, in quanto, in linea con quella che era la tematica pacifista dell’esposizione, il soggetto principale erano in realtà le recenti, drammatiche vicende della guerra d’Algeria, che avevano visto nei fatti del 17 ottobre 1961 a Parigi uno dei momenti più bui di quello che fu uno scontro politico e militare di incredibile ferocia. Nei commenti critici inseriti nella cartella del 1962 la parte più ampia era destinata a Guttuso, a testimonianza del ruolo di patrono del gruppo che gli si voleva assegnare. Del Guercio scriveva: “ non si può rinunciare a sperare che venga un tempo nuovo nel quale sia possibile riproporre gli splendori della bellezza come splendori di dignità. Intanto, tocca tracciare sui fogli segni aspri furenti e scarni, da comporre entro l’eterna iconografia del dolore e dello sdegno, in apparizioni fulminanti che sappiano scuotere le coscienze. Così in questi tre disegni: che non pretendono di competere coi fatti sul piano delle orrende evidenze cronistiche, ma che, muovendo dall’orrore (come dimenticare i flash scattati sopra i cadaveri appiattiti al suolo nei viali d’Algeri?) approdano a un giudizio nel quale sono insieme coinvolte cose di Nord Africa e cose di casa nostra evocate sotto il profilo d’un discorso sul destino dell’arte europea. Questa può forse legittimare ormai la propria presenza o la propria necessità, al cospetto di quel che accade nel mondo, con interventi saltuari che servano solo ad archiviarne i problemi di fondo e la crisi permanente, o col solito giardinaggio in serra calda in vista di nuove ibridazioni ancora più strane e più estranee? È difficile crederlo. Certo, la via presa da Guttuso non offre alle diverse evasioni, opposte forse solo in apparenza, un’alternativa agevole, poiché egli propone in sostanza una chiara continuità creativa nei confronti della tradizione rivoluzionaria dell’arte moderna (Picasso, in primo luogo) e, al tempo stesso, una quotidiana verifica di questa tradizione e della sua capacità di reggere alla tensione d’una ricerca che ha per oggetto i conflitti del nostro tempo. Sicchè, nelle sue opere più esemplari (laddove, com’egli stesso ha detto qualche volta, l’impegno è più ‘catastrofico’), Guttuso appare insieme come il più strenuo e il più problematico erede della linea moderna di sviluppo artistico che ha in Picasso il suo punto di congiunzione tra passato e avvenire. Il lavoro di Guttuso è dunque una risposta sia al pessimismo di chi (con sicumera tecnocratica o con vertiginosa incertezza tardo-romantica, non importa) dice concluso l’umano discorso della pittura sia all’ottimismo di chi ritiene possibile un pacifico artigianato moderno. Certo, la ragione prima del suo dipingere o disegnare non è di rispondere a qualcuno, ma di corrispondere a certe realtà oggettivandole per tutti: sicchè, proprio perché non limita l’area delle sue passioni alle questioni interne alla Repubblica delle Arti, le sue immagini hanno l’ardente fuoco della restituzione artistica della vita e la persuasiva eloquenza del ragionamento in tema di scelte critiche. È questa, insomma, la virtù speciale di questi disegni: che l’arabo smagrito dalle braccia levate in alto o le donne della cui bellezza s’è fatto strazio, ci inducono a guardare, attraverso quella ribellione e quella tortura, a noi stessi e a pesare fino in fondo la vanità di molti nostri pensieri squisiti.” La parte più interessante del testo è quella conclusiva che voleva collocare, ancora una volta, Guttuso, e con lui i pittori presenti all’esposizione, lungo la direttrice del realismo che da Courbet discendeva fino alla rivoluzione modernizzante di Picasso che i nostri, raccogliendo l’eredità del pittore siciliano, avrebbero dovuto portare alla successiva evoluzione. Ma si trattava di un’analisi superficiale, che si fermava solo agli aspetti più evidenti delle immagini e così, ancora una volta, il punto focale restava l’aspetto contenutistico, quasi d’occasione, che metteva in ombra la questione del linguaggio. A Del Guercio era assegnato anche il commento sul lavoro di Vespignani, e anche in questo, si focalizzava sulla questione del contenuto, in particolare sulle polemiche originate dal fatto di eleggere a tema delle sue opere eventi di cronaca nera: “è solitamente mal posta la questione del rapporto di Vespignani con la ‘cronaca’. È vero che le sue immagini offrono una visione spietatamente plausibile di cose spietate, in un’ossessione di verità che non vuol risparmiare al riguardante nessun dettaglio che abbia una qualche portata nella definizione e nella localizzazione del tema; è altrettanto vero però che questa spietatezza e questa ossessione e questa dura volontà di precisione si attuano per rapporti formali che non possono certo dirsi ottici. Farebbe una fatica grossa, e vana, chi volesse dimostrare che in questi disegni i rapporti di spazio e di proporzione, o le strutture stesse degli oggetti, siano da ridurre a visione ‘naturalistica’: in verità, quel che qui dispiace – con nostro compiacimento – alle anime belle, è tutt’altra cosa: la restituzione espressiva di fatti che possono solo recar turbamento o fomentare dubbi sulla bellezza dell’ordine costituito. Come non rilevare a quali toni emblematici della visione sia giunto questo pittore, nel corso d’un lungo processo che dalla cronaca ha bruciato – per chi sappia vedere – i limiti angusti per metterne a fuoco i fatti più crudamente esemplari, al lume d’una volontà pronta a correr tutti i rischi fuorchè quello d’esser elusiva?” Se Guttuso si era concentrato esclusivamente sulla tematica algerina le opere degli altri spaziavano anche, al di là dell’occasione specifica, in una concezione della violenza più ampia rispetto all’evidenza dell’atto fisico che si espleta in un contesto bellico. Ad esempio Vespignani in un’opera come Televisore, in cui la luce di un apparecchio televisivo posto in alto a sinistra illuminava l’interno di una camera e un neonato piangente su un letto sfatto, oltre a dimostrare il virtuosismo tecnico delle sue incisioni, dava un immagine di quella che poteva essere la violenza di una quotidianità in cui gli affetti si perdevano e la tecnologia diventava l’unico riferimento possibile. L’ambiente era reso con un tratto quasi informale, mentre i poli d’attrazione erano in primis il televisore nettamente delineato, oggetto quasi mistico, la cui luce conduceva lo sguardo dello spettatore in una diagonale fino alla figura del bambino reso con tratto classico, ma significativamente subordinato alla macchina. Nel commento di Micacchi sull’opera di Attardi troviamo il vecchio motivo marxista dell’opposizione anti-borghese: “Ciò che oggi noi abbiamo – ‘benessere’ borghese e liberale consenso borghese – non è ciò che abbiamo desiderato, non è minimamente ciò per cui abbiamo combattuto. E non è nemmeno quel posto pulito illuminato bene di cui scriveva Hemingway. Abbiamo cercato battaglia in campo aperto contro un nemico borghese che credevamo un nemico omerico dalla forma terribile e gigantesca ma ben chiara sulla curva della terra e della cultura. Il nemico, invece, s’è fatto avanti non con una ma con mille forme e certo più di seduzione che d’offesa. Sorridendo ci va tirando nella sua Troia e molte porte delle sue case ci va aprendo, e ci offre unguenti per le piaghe e nettare per la lunga fame, e piange assieme a noi sui guai del mondo e dell’arte.” Il bersaglio polemico era ovviamente un’arte estetizzante e decadente che rifletteva i gusti della borghesia e probabilmente anche l’esperienza giovanile di adesione all’astrazione di Ugo Attardi, ma veniva subito chiarito come l’artista avesse operato le sue scelte non perché corrotto e illuso dal potere, ma seguendo la sua ispirazione: “Per lui un quadro è un’occasione nuova per conoscere il mondo e non un nuovo passo obbligato per l’egemonia, per il potere. Il senso tragico della sua pittura attuale viene dalla consapevolezza del presente e dalla esperienza quotidiana di quanto si faccia sempre più precaria la qualità umana degli uomini.” L’obiettivo era sempre puntato sull’uomo e, dato questo presupposto, allora si poteva qualificare la ricerca artistica come onesta, anche se non necessariamente sempre riuscita e risolta nei suoi elementi. L’oggetto dell’indagine era l’essere umano, questa entità che nelle sue abiezioni poteva risultare sempre più uno sconosciuto, altro da sé, che fosse vittima o carnefice. Scriveva Micacchi: “Guardo le “nature morte algerine” di Farulli: fogli rabbiosi dove una mano che ha coscienza dell’abisso si trova a ‘parler de l’homme’ con pezzi di filo spinato, con chiodi, fili elettrici, tenaglie.” Si cercava di oggettivare quelle che risultavano realtà inaccettabili, magari riducendole al rango di nature morte come nelle opere di Gianquinto: “Vede ombre di mostri che lui solo sa abitare le quiete stanze. E nella luce solare vede uomini, schiacciati da ombre spaventose, pure avanzare e conservare memoria di arcipelaghi e isole. Anche se la lampada l’emblematica lampada della ragione innalzata da Picasso sul massacro di Guernica sembra non dare più luce e chi cerca la lampada vede, invece, penzolare lingue enormi come in una beccheria della coscienza lingue più di bestia che d’uomo, simboli plastici crudeli delle parole che ci opprimono: parole, parole, parole. Tante che la lingua di chi vorrebbe urlare basta!, la riconoscete solo per quel chiodo che la immobilizza. È dalla qualità poetica delle ombre che voi dovete cominciare a ‘leggere’ queste ‘nature morte’ di Gianquinto, o meglio questi frammenti di un mondo che il pittore vede svilito a natura morta.” In un’opera come Al di là della notte Gianquinto aveva delineato un personaggio al centro della tela, un uomo le cui braccia si prolungavano verso lo spettatore, in una deformazione prospettica che tagliava la tavola diagonalmente e creava una zona più chiara nell’angolo in basso a sinistra e una zona molto scura nell’angolo in alto a destra, in cui erano inscritte due bocche da cui usciva la lingua. In quest’opera si mescolavano fonti molto diverse tra loro, come l’ispirazione fumettistica dei singoli elementi della composizione e una resa bozzettistica e tonale di chiara derivazione dalla tradizione veneta. Questo tentativo di coniugare modernità e tradizione era la cifra stilistica che accomunava tutti questi giovani autori. Ad esempio, rispetto a Calabria, Morosini scriveva: “Nell’atto stesso di abbordare (senza paura di ‘bruciare’ l’arte al fuoco dell’attualità), una tematica di interesse più generale, egli tenta, oggi, si adeguare ai tempi ‘l’apologo’ goyesco, di sfaccettarne i significati, di infittirne le analogie, ricorrendo alla tecnica della rappresentazione multipla esperimentata dalla avanguardia.” E sempre Morosini diceva di Guerreschi: “Lo spazio perde il suo carattere dominante, cede il posto alla continuità delle immagini che si legano l’una all’altra (in una sorta di campo ‘neutro’) secondo la logica della metafora. Al centro di un unico piano ravvicinato, esse articolano, infatti, quelle loro forme composite, da metamorfosi kafkiana. Soldato dalle membra di insetto ed albergante in corpo una macchina di distruzione, ragazza dei ‘quartieri alti’ dall’abito a dal ‘maquillage’ rievocanti drappi funerei ed occhiaie di morte, donna o ragazza della borgata, radiografata dalla cintola in su, tutte queste figure dicono del persistente e radicale pessimismo dell’artista nei confronti di una società che, insieme alle apparenze della facilità e del benessere, genera le guerre coloniali ed il riarmo atomico. Cranach e Bosch, Beckmann ed Ernst sono i ‘padri spirituali’, lontani e vicini, di quest’arte che è giudicata ‘irritante’ da chi ne respinge il messaggio, ma che è forte, in realtà, proprio di questo suo contenuto ‘provocatorio’ e del rigore formale con il quale ordina, compone e domina lo stridore e la dissonanza delle sue immagini.” In Soldato e ragazza Guerreschi mostrava due figure che si stagliavano su un fondo bianco, privo di interventi: a sinistra il soldato chiuso nella sua uniforme e nel suo isolamento, a destra la ragazza che l’abito di un rosso vivo rendeva il punto focale della composizione. Lei avvicina il soldato, ma è voltata dal lato opposto come a sancire un’assoluta impossibilità di comunicazione tra le due figure. Fra la la prima mostra del gruppo e la successiva trascorse più di un anno, ma in questo periodo né gli artisti, né i critici rimasero inattivi. Innanzitutto continuò l’opera di coinvolgimento di altri autori nel progetto; la presenza di Giuseppe Guerreschi alla prima esposizione del Pro e il Contro fu uno degli elementi che permise di sviluppare una collaborazione tra gli esponenti romani della nuova figurazione e alcuni interpreti milanesi dell’esistenzialimo: lo stesso Guerreschi, Gianfranco Ferroni e Giuseppe Romagnoni . L’impegno civile di Romagnoni, come quello di Guerreschi e Ferroni, unito al loro lavoro di sperimentazione linguistica fu alla base dell’invito a partecipare al collettivo, pur nell’evidente diversità di approccio di questi artisti. I tre avevano alle spalle l’esperienza del realismo esistenziale che si era poi canalizzato in una pittura caratterizzata da una particolare tensione oggettuale, assente nel panorama degli artisti romani, così come non sussisteva quel rapporto con la tradizione tanto importante invece per i fondatori del collettivo, avvicinandoli piuttosto all’ambito della Figuration Narrative francese. Ferroni, dopo una pittura influenzata dall’opera di Giacometti, si era andato addentrando in un territorio tangente la Pop Art, ma che viveva di una dimensione più intima e problematica. Nel caso di Guerreschi il nuovo interesse per l’oggetto si coniugava ad una critica sociale esplicita che si avvaleva di un ampio utilizzo della tecnica della pittura a spruzzo e del fotomontaggio. Mentre Romagnoni conduceva uno studio rivolto allo sviluppo delle possibilità dinamiche all’interno del quadro, realizzato tramite l’uso del collage e di campiture nette di colore. Altro motivo di questo ampio lasso di tempo tra la prima e la seconda esposizione fu la decisione di cambiare la galleria di riferimento. Se la prima mostra si era tenuta presso La Nuova Pesa, galleria con cui comunque alcuni artisti del collettivo continuarono a intrattenere rapporti espositivi, la seconda si tenne invece alla neonata Il Fante di Spade che Vespignani definiva “il braccio secolare” del gruppo, la cui direzione sarebbe poi passata al mercante modenese Mario Roncaglia, già ampiamente inserito nell’ambiente dell’intellighenzia di sinistra romana . La prima mostra che il gruppo allestì nella nuova galleria fu “Sette pittori d’oggi e la tradizione”, che ebbe luogo dal 23 febbraio al 9 marzo 1963. La mostra fu preceduta, in corso di allestimento, da un dibattito fra critici e artisti che in seguito venne riportato in catalogo a modo di presentazione. All’esposizione parteciparono i sei pittori fondatori del collettivo, Attardi, Calabria, Farulli, Gianquinto, Guccione e Vespignani e, nuovamente, Guttuso. Ad illustrazione della copertina del catalogo e della nota introduttiva al dibattito venne utilizzato un disegno preparatorio di Picasso per Guernica e una silografia di Beckmann intitolata Donna con candela: un modo di ricollegarsi a una specifica tradizione di figurazione espressionista e di impegno sociale64 , oltre che di illustrare il concetto sotteso al titolo dell’esposizione. L’idea della mostra era quella di un confronto diretto tra sette artisti moderni e altrettante opere del passato scelte da loro stessi come emblematiche. La questione in campo era quella del rapporto con la tradizione. Ognuno degli artisti dipinse per l’occasione un’opera che prendeva come termine di riferimento, emulazione o superamento, un’opera del passato: Farulli volle confrontarsi con una tradizione di genere come quella delle nature morte, Attardi scelse Manet, Guccione Luca Signorelli e Bacon, Gianquinto il prediletto Tintoretto, Calabria il Beato Angelico, Vespignani, così come Guttuso, Géricault. Lo snodo cruciale fu appunto quello del rapporto tra ricerca linguistica e funzione sociale in relazione alla storia; secondo le parole degli artisti si trattava di “libere variazioni (e riflessioni) su opere e temi di un recente o lontano passato lungo il triplice filo di poesia, ideologia e lingua”. Nel catalogo venne registrato un dibattito sul rapporto di questi artisti con la tradizione, sul concetto di avanguardia e sulle ragioni di una figurazione contemporanea. Nell’introduzione, significativamente intitolata Ragioni attuali del figurare, il collettivo esprimeva la volontà di un confronto con il passato che si facesse portatore di stimoli per il futuro: “la mostra dice la ragioni attuali del figurare ed attua una verifica singolare su di un passato che, per troppi, consiste solo in un bruciare oggi quanto era reputato vivo ieri. Dentro questo gioco, la stessa avanguardia non appare più come alternativa fra distruzione di vecchie iconografie e proposta di nuove forme, adeguate ai conflitti del mondo d’oggi, ma viene tradita nella sua promessa di un avvenire. Gli artisti che espongono insieme sono consci di muoversi lungo una secolare parabola storica e tentano di continuarla senza portarsi dietro la nostalgia del restaurare , cercano di afferrare il senso della storia, moderna ed attuale , hanno l’obbiettivo di restituire alla pittura la capacità di creare forme nuove per realtà ed idee nuove.” Si passava poi a presentare la registrazione del dibattito in cui gli artisti esposero le ragioni alla base delle loro scelte nel realizzare le opere per la mostra, e si confrontarono quindi con i critici riguardo alle questioni contenutistiche e linguistiche sollevate. Il confronto col passato, di cui questa mostra si faceva vetrina, voleva mettersi in polemica sia con quanti ritenevano che fosse necessario farsi terra bruciata alle spalle per poter produrre un linguaggio artisticamente valido e in sintonia con la contemporaneità, in generale dunque con le neoavanguardie; sia con quanti vedevano l’evoluzione artistica come un percorso lineare ed obbligato, generato da progressivi slittamenti estetici e linguistici. Sia Vespignani che Guttuso decisero in questo contesto di confrontarsi con una delle opere più famose del realismo, ovvero con la Zattera della Medusa di Géricault, ed è significativo il confronto tra le due diverse interpretazioni che ne risultarono. L’opera di Vespignani, intitolata Un naufragio oggi e realizzata lavorando sul ricordo rimastogli da un recente viaggio in Francia, manteneva con il predecessore un legame di tipo unicamente emotivo, tanto che il terribile e monumentale gruppo realizzato dall’artista francese si riduce, in un processo di svuotamento eroico, ad un unico individuo che sembra sprofondare tra le pagine di un quotidiano e il cui sguardo, ormai privato di ogni speranza, si volge verso il nulla; mentre la sterminata, e spaventosa distesa marina si muta in un angosciante vuoto privo di riferimenti spaziali. La contemporaneità, per Vespignani, non lasciava più margine per l’eroismo patetico e statuario di Géricault, ci lasciava ad affrontare i nostri demoni in una solitudine esistenziale priva di sbocchi. Nella Zattera Vespignani vedeva: “ Quasi un messaggio esistenziale ante-litteram”. E specificava: “Mi sono misurato dunque con queste impressioni, e non con il tema “letterale’ di Géricault. ho dipinto un mio più modesto naufragio. Ma lavorando sono stato costretto ogni giorno ad ulteriori ‘riduzioni’. Ho avuto la scoraggiante sensazione di poter dire qualcosa di esatto solo con le forme, ma di non poter chiudere nelle forme tutto quello che volevo dire esattamente . Forse la fantasia che castra se stessa (una libertà che uccide la libertà) è la sola fantasia dell’arte moderna? L’impulso che ci spinge a operare è ancora lo stesso che spingeva Goya, fondato sull’uomo e sulla sua scena naturale; ma per noi l’arco creativo, alla sua conclusione, non restituisce l’uomo nelle forme dell’uomo. Si può fare, certamente, molta estetica e molta retorica sulla sinteticità delle forme, sulla emblematicità delle macchie e delle lacerazioni; ma rimane il dubbio che esse siano, in concreto, una perdita di capacità conoscitiva.” Il linguaggio non poteva più essere quello del realismo perché, secondo l’artista, si era ormai persa la capacità di comprensione della realtà. Era proprio questo gap conoscitivo che generava l’avvicinamento al linguaggio sintetico dell’informale di cui condivideva anche la tendenza all’introversione: “ la giustificazione di una ricerca realistica veniva cercata sul piano di una responsabilità attiva del pittore nei confronti della realtà, al di là della trascrizione figurativa di certezze già raggiunte per altre vie conoscitive ” Guttuso nella sua opera, La Zattera dopo Géricault, andava in direzione opposta rispetto a quanto fatto dal suo collega più giovane: “ Vorrei rovesciare il ragionamento di VespignanI; egli, in definitiva, parte da una condizione esistenziale, da dopoguerra (l’inferno di Sartre in una stanza chiusa); per lui si tratta di dare una faccia ai simboli, un qualche antropomorfismo: come se noi vivessimo in mezzo ai simboli e non in mezzo agli uomini. io vivo in un certo modo e tra certa gente. La metafora è implicita nella quantita di verità che cogli. Ciò che fa della zattera un quadro il cui contenuto fondamentale è la speranza è il ritmo del dipinto che è quello di un crescendo, una specie di marcia trionfale dal passato morto al futuro sperato vivo. Nessun tessuto vitale è esente da una decomposizione, ma ciò non impedisce a ciò che è vivo di esser vitale. Finchè non riusciremo a liberarci da ciò che ci divide dalle cose, non saremo in grado di esprimerci attraverso metafore inequivoche.” Proponeva dunque una prospettiva completamente diversa, sia nell’interpretazione positivamente eroica dell’opera di Géricault, in cui si concentrava, col suo tratto energico, sul brano struggente del padre che trattiene il corpo del figlio ormai morto, sia, soprattutto, nella visione ottimistica delle possibilità della pittura di ricomporre il senso della realtà: “questo del dato naturalistico, come necessariamente negativo, è uno dei tabù di oggi; una delle cose che incatenano la pittura invece di liberarla . Il pittore deve poter disporre di tutto ciò che gli serve per raggiungere le ‘cose stesse’, non può vietarsi nulla in omaggio alle ‘posizioni di sicurezza’ da cui parte. L’avvenire della pittura ha bisogno di cultura, perché non può esistere una nuova cultura che non contenga il passato.” Mancava completamente, nel pittore siciliano, la concezione della possibilità di un fallimento della pittura come mezzo di sintesi ed era forse proprio questo il vero elemento di divisione con la nuova generazione, che conviveva con il dubbio e cercava di esprimere quest’ulteriore frattura nella sua opera. Come Attardi, che fra le opere di Manet ne scelse una, Le balcon, linguisticamente non eclatante, ma che rivestiva per lui, nella sua rivoluzione discreta, una perfetta metafora del trascorrere del tempo e del confronto tra storia e contemporaneità: “Vi sono periodi e opere dove lo sforzo ideologico prevalente è proprio nell’operazione di mutamento sugli stili. Eppure, se il modo di vedere plasticamente la realtà è nuovo, questa novità può essere più apparente che effettiva. Le balcon è un quadro di apparenza modesta, non determina spostamenti culturali ecaltanti. Ha tuttavia una profonda magia ed è moderno. Vi è il problema di un interno e di un esterno. Penso che un interno rappresenti la contemporaneità, il caduco, l’esterno, l’idea del tempo, di forze in movimento del divenire della storia.” Guccione, nel quadro Folgorazione, scelse di contaminare direttamente passato e presente, mettendo in rapporto gli affreschi del Signorelli ad Orvieto, con tutta la loro carica inventiva e l’immediatezza delle immagini, con gli incongrui e stranianti accostamenti di oggetti de La Maddalena di Bacon: “ L’idea di forze che ci sovrastano, che su di noi incombono, di un panico esistenziale in cui l’elemento demonico cozza, però, con elementi razionali, umani, positivi. Ciò che nelle opere in questione mi interessa è il processo di sintesi all’interno dei mezzi di conoscenza (spazio, forma, colore) e l’alternativa ‘forma chiusa, forma aperta’.” Farulli, con Sedia con drappo, guardò ad un intero genere tradizionale, quello della natura morta, intuendo in questo filone una possibilità di convergenza con la necessità contemporanea di rimettersi in contatto con gli oggetti che circondano l’uomo, un modo per definire il mondo: “ Io credo sia possibile accentuare i valori e i mezzi espressivi di segno, colore e forma senza dover distruggere il linguaggio plastico, con le sue radici semantiche ed una capitale, moderna iconografia laica. Che si possa esaltare l’oggettività con la potenza dell’esperienza personale. Si può arrivare al limite di Soutine, della massima espressione di un mondo marcio. Ma la pittura gode di una sua autonomia, vede il mondo e lo esprime senza annichilirsi con esso. Cioè lo giudica. In un certo senso l’esprimere di Van Gogh e il costruire di Cezanne sono la mia ‘complementare’ tradizione. Cerco una pittura allusiva, forte di metafore, capace, con la mia particolare verità plastica, di alludere alla realtà totale. Per me si tratta del massimo esprimere col più alto costruire. Le nature morte che ho dipinto per questa mostra non sono un cimento diretto con qualcosa o qualcuno. Ho cercato di dire qualcosa ‘gonfiando’ di significati gli oggetti e lo spazio della mia vita e della mia cultura di tutti i giorni e non cercando dignità e autorità in una pittura di storia, o cercando appoggio in un’iconografia da museo.” Calabria invece riprese, per contrapposizione, l’Annunciazione di Beato Angelico: “Mi sono ispirato ad un’Annunciazione ed all’Angelico perché nei suoi momenti di pessimismo mi sembra che il mondo aspetti una ‘rivelazione’, anziché cercare criticamente la verità sulla propria esistenza, o trasformare con le proprie mani il suo destino. L’Angelico esprime una scena sacra con colori e forme che sono la materializzazione di idee pure, perfette. Ho tradito volontariamente ciò che l’Angelico pensa del mondo, ho negato le sue forme, capovolgendo il rapporto tra artista e società committente in un rapporto polemico. Ho cercato di dipingere un’Annunciazione possibile negli anni ’60.” Creò dunque un’Annunciazione del nostro tempo, trasportando quello che, pur nella sua portata universale, era un evento intimo e raccolto in mezzo alla folla sovraeccitata della società di massa. Gianquinto colse l’occasione di esplicitare quello che era sempre stato il suo confronto, costante e partecipe, con l’opera di Tintoretto: “Con lui, a mio avviso e per mio ‘consumo’, comincia non la pittura moderna che ha una data di nascita anteriore, ma la pittura contemporanea, perché il suo ‘fare’ ha il senso di ansietà ‘esistenziale’ della pittura degli ultimi cinquant’anni. un fare che ha capovolto la gerarachia iconografica degli spazi plastici. Ha rotto e ricomposto il mondo. Io credo d’aver inteso lo stesso cubismo attraverso Tintoretto. Questo elemento di rottura e di contemporanea ricostruzione è oggi attuale e va difeso anche nel suo proiettarsi verso la tradizione. I pittori possono avere la forza di rompere, pochi quella, eccezionale, di demolire e costruire, di distinguere e riunire strettamente tutti i frammenti del reale in un’unità mentale, non ottica, per restituire le cose non solo per quello che sono, ma per quello che noi vogliamo che storicamente esse siano.” Al dibattito parteciparono attivamente anche i tre critici, ponendo quesiti ed esprimendo il significato che davano al rapporto tra il passato e l’operare contemporaneo. Micacchi, citando il giudizio del poeta russo Andrej Voznesenskij, alla visione delle opere durante la preparazione dell’esposizione, esprimeva l’impressione “di una necessità poetica interiore degli artisti di contraddire la tradizione nel momento stesso in cui in essa poeticamente cercano una verifica storica del figurare.” E continuava: “Una nuova iconografia di una certa durabilità storica ed estetica potrà ristabilirsi solo a un nuovo livello storico e culturale. Il rapporto non è tra noi e la tradizione, ma tra noi e la contemporaneità ed è importante che noi non si sia tentati da ideali di resataurazione . Il termine di confronto di Géricault è la falsa pittura di storia, la falsa unità di storia e poesia. Il nostro termine è l’assenza di una pittura di storia, la difficoltà di narrare.” Secondo Morosini al centro del dibattito si doveva porre “ la questione del significato del mondo in cui viviamo. Come captarlo con la pittura, come capirlo nella sua sostanza e nei suoi conflitti, come individuare in esso l’elemento rigeneratore e come illuminare (e demistificare) le oggettive egemonie e le idee dominanti? Questa è la prima domanda: l’implicazione del linguaggio è già racchiusa in essa. Un’idea comune è quella della funzione conoscitiva e demistificatoria dell’arte. Un altro filo comune è quello della tensione (difficile) verso una iconografia vitale, non logora. Siamo un gruppo. Dalla discussione stessa risulta chiara la nostra consapevolezza che il tempo degli ‘ismi’ è finito; che oggi la motivazione di un gruppo non può essere altra se non quella della sua interna dialettica. Il nostro dialogo indica che non stiamo insieme per difendere una comune ‘teoria’, ma un comune potenziale di idee generali e per portare avanti da personalità autonome- i mezzi per esprimerci pienamente .” Del Guercio volle evidenziare come qualsiasi confronto con il passato venisse sempre fatto per motivazioni che poco avevano a che vedere con le spinte che lo avevano generato, quanto piuttosto con le ragioni dell’attualità: “ direi che il sentirsi dentro un rapporto critico col passato è condizione non sufficiente, ma necessaria per andare avanti. Noi viviamo in un’epoca di conflitti esasperati e decisivi , sicchè è facile, in mezzo a questo scontro di forze sociali immani, perdere il senso della forza autonoma della pittura e cercare di salvare questo potere attaccandolo, come fosse un vagone di merce fragilissima, a qualche locomotiva ideologica . La mostra avrà il suo senso pieno solo se ne varrà fuori un rilancio della nostra fiducia nella pittura come mezzo di presa diretta e globale sulla realtà.
Quel che più mi interessa è la quantità e la qualità del margine di potere della pittura sulla realtà che sarà stato conquistato. A me interessa una pittura estremamente impegnata, ma quest’impegno esige una volontà di ampliare, senza alcun pregiudizio (e in questo momento il pregiudizio prevalente è piuttosto quello della dissoluzione, della distruzione dell’uomo), i punti di attacco della pittura sulla realtà.” In questa mostra, dunque, si evidenziava il forte impegno teorico che caratterizzò tutto il lavoro, individuale e collettivo, del gruppo e che fu un apporto fondamentale allo sviluppo di una concezione aperta e plurale della figurazione. Pure di fronte al dibattito e alle opere la ricezione critica principale fu quella di evidenziare la mancanza di una linea comune e di soffermarsi piuttosto sugli esiti dei singoli artisti: “I pittori non hanno rinunciato minimamente alla loro concezione personale, ai loro intimi contenuti, tanto che di fronte allo stesso quadro Guttuso ha trovato un nuovo suggerimento per la sua poetica rivoluzionaria, Vespignani, invece, ha frantumato la sua idea primitiva per meglio esprimere il suo pessimismo intimista.” Altri critici, come Di Perbero, riuscirono a cogliere, al di là degli schematismi della mostra e della volontà di riaffermare la tradizione figurativa, l’autenticità del dramma di un profondo senso di distacco dalla storia degli artisti contemporanei e l’impossibilità di collocare nella frammentata contemporaneità, la visione di un mondo unico e indiviso che apparteneva alle epoche passate: “Noi crediamo che il desiderio di confronto con opere del passato sia nato negli autori da due diverse intenzioni. La prima, più esplicita e tendenziosa: la volontà di sottolineare con puntigliosa chiarezza, proprio attraverso l’opera prescelta cui ispirarsi, quanto per ognuno il passato figurativo sia ancora vivo presente e operante nel lavoro quotidiano. La tradizione costituirebbe secondo questi autori una consolante certezza da opporre a chi teorizza intorno al tema dell’arte dell’ «anno zero». L’altra ragione della scelta è più intima e complessa, più autentica: sollecitato ad un confronto con la tradizione, il pittore si è trovato a dover verificare il distacco drammatico che si manifestava ai suoi occhi man mano che egli cercava di misurarsi con l’opera scelta. Era forse come addentrarsi in un labirinto masochistico, ma era necessario farlo. Non sempre, cioè, è avvenuto che l’autore trovasse facilmente il legame esatto tra quello che voleva esprimere e la sua tradizione, ideologicamente individuata, tra il senso che egli aveva del modello e le forme a disposizione per interpretarlo.” La concreta partecipazione congiunta al progetto degli artisti milanesi e romani cominciò con la mostra “Oggettività e figura”, che ebbe luogo al Fante di Spade nel dicembre 1963. Era evidente il rimando del titolo ad una delle sezioni dell’esposizione “Alternative Attuali” tenutasi l’anno prima all’Aquila, cosa su cui Romagnoni non mancò di ironizzare in una lettera a Crispolti. Romagnoni mantenne infatti un certo distacco dal lavoro del gruppo e contestò sempre la validità della formula di “Nuova Figurazione”, preferendo la locuzione “Nuovo Racconto”, anche se si opponeva più alla superficialità critica che stava alla base di questa definizione che non alla sua reale consistenza. La mostra si proponeva di affrontare il confronto della figurazione con i nuovi fenomeni artistici quali la pop art, il new dada, ma anche l’arte programmata, e dava la portata di una necessità profondamente sentita di riesaminare gli strumenti a propria disposizione e le possibilità di dare un’immagine credibile della realtà da parte di questi giovani artisti che ritenevano fosse ancora possibile un’arte di valore sociale. Nelle intenzioni degli artisti la mostra introduceva “anche nuove implicazioni culturali: sul terreno dei rapporti tra esistenzialismo e marxismo, in particolare, e si coglie l’occasione per raffrontare questi risultati ed idee maturati in tre anni con i dati della nuova situazione delle arti in Italia ed in Europa, dopo la frettolosa liquidazione dell’esperienza informale.” Morosini coglieva, nel testo in catalogo, gli elementi critici della situazione in atto e su cui la mostra voleva costituirsi come occasione di confronto: “ Opporre, in arte, la sostanza all’apparenza, l’illuminazione delle cause e degli effetti al casuale scatenamento delle reazioni sensoriali e psichiche, all’istantanea scattata su ciò che accade; sottomettere ad un incessante sondaggio la consistenza dell’intera catena di mediazioni che dall’osservazione, la memoria, il giudizio, conduce alla loro proiezione fantastica, alla figura; vagliare qui, nell’esito del processo in questione -il quadro realizzato- l’autenticità del legame tra esperienza personale, autobiografia ed esperienza altrui, storia vissuta, storia in atto; vagliare così, in concreto, il complesso rapporto tra la efficacia della poesia e la forza delle idee; verificare in questa sede il presente sull’intero arco del passato; tentare di discernere, nella lettura dell’opera, quali dei mezzi espressivi ereditati dal più recente passato (da Cézanne a noi) coincidano o no con i nuovi punti di vista sulla realtà, aumentino o no la possibilità di captare più cose e di andare verso il domani.” Le opere presentate si mantenevano all’interno delle direzioni di ricerca già evidenziate nelle precedenti esposizioni, di cui si acutizzava però la verve sperimentale. Inoltre la nuova presenza di Ferroni e Romagnoni evidenziava una prospettiva distinta sull’oggetto quadro, in cui l’ibridazione di tecniche e stili veniva vissuta secondo modalità più libere e coinvolte con l’immaginario quotidiano. In particolare i Racconti di Romagnoni e le opere di Guerreschi dovevano risultare già proiettate in un contesto completamente nuovo di confronto con la realtà. “Per un incontro col pubblico. Per un’esperienza della storia”, nel giugno del 1964, fu l’ultima mostra congiunta dei nostri e l’ultima in assoluto per Romagnoni, che sarebbe morto di lì a poco. L’esposizione segnò un’impasse nel rapporto con la storia della pittura; veniva infatti ormai messa in discussione la capacità della pittura di assumere una funzione sociale e si cercava di capire quale potesse essere il suo ruolo in un contesto in cui l’ideologia non poteva essere più di supporto al sentimento sociale dell’artista . Nel catalogo dell’esposizione del 1966 presso la Galleria Due Mondi di Roma curata da Morosini, “Immagini degli anni ’60: poesia e verità”, comparve un significativo intervento critico di Emilio Garroni che coglieva il nodo della situazione: “ il problema non è più quello della presenza o dell’assenza di componenti rappresentative, ma dell’inserzione reale dell’opera in un dato ambiente culturale, della sua capacità di incidervi, positivamente o negativamente.” Il catalogo dell’ultima mostra congiunta dei nostri, illustrato con disegni di Van Gogh, riportava, dopo una breve introduzione, le dichiarazioni non tanto sulla poetica, quanto sul modo di mettersi in relazione con la società di ciascuno degli artisti partecipanti. In tutti gli interventi veniva messa in evidenza la difficoltà dell’artista contemporaneo di assumersi un ruolo di cambiamento della realtà e della società pur essendone parte, una lacerazione fra la capacità del sistema di integrare anche le voci dissidenti, il proprio bisogno di affermazione e la volontà di farsi portatore di un messaggio rivoluzionario, in quanto “ il confine della rivoluzione non ricalca più la mitica cortina di ferro che ci divideva dal paradiso terrestre, nè l’altra cortina che divideva il figurativo dal non figurativo, ma passa ben dentro la mia coscienza come un ferro cauterizzante .” Secondo Attardi: “La pittura ha in sé l’ambiguità delle cose reali. Il pittore non descrive gli oggetti ma li ‘fa’, li crea. dunque pone al centro della sua fantasia figurativa prevalentemente ciò che come uomo lo opprime e insieme lo esalta. Il pittore oggi professa idee rivoluzionarie ma è, sostanzialmente, nutrito dai borghesi , egli si dichiara assolutamente libero. È di sinistra, ma la politica lo ha disgustato e ne ha paura. Cerca onestamente col suo mestiere di sconvolgere il pubblico, di sorprenderlo mostrando ad esso come in uno specchio il mondo. Ma non sorprende che per qualche momento. La sua presenza rivoluzionaria, ma salottiera, è in fondo un elemento di mediazione, di tramite e incontro tra forze opposte. Tutto ciò fa degenerare l’uomo in un arrivista ma può anche avere un contenuto più drammatico e sinceramente lacerante.” Calabria denunciava il profondo senso di impotenza che gli causava l’incapacità di far passare un messaggio di denuncia di fronte a un pubblico pronto a fagocitare e poi assimilare tutto: “ non ho la sensazione della forza che impiego, poiché mi manca una iconografia che rispecchi ancora validamente una verità di tutti, sulla quale agire. Dilatandola, deformandola o esaltandola.
” Descriveva poi quelli che riteneva essere i due prevalenti atteggiamenti di opposizione dell’avanguardia, da un lato la rottura linguistica, dall’altro l’evasione nell’inconscio; quest’ultima, che sentiva evidentemente come vicina alle proprie posizioni, poneva, a suo dire, gli artisti di fronte al pericolo di identificazione nell’irrazionale: “Essi creano immagini mostruose, orridi moncherini di una esistenza mutilata del giudizio, generano una pittura agnostica che condensa quanto c’è di più fantomatico e viscerale nell’uomo.” Il risultato di una tale scelta era “un vuoto nella coscienza storica” e dunque l’astoricità del messaggio che il pittore inviava al suo pubblico. L’artista riteneva che “soltanto restituendo al discorso plastico una coerenza e una struttura razionale” si potesse “creare urto”; la storia, anche quella che sta vivendo l’artista nella sua contemporaneità, è fatta di luoghi e personaggi concreti che sono il volto del suo tempo, ed egli può “ricomporre attorno alla essenzialità e autonomia della loro vita e presenza il tessuto lacerato della pittura moderna”. La questione della storia tornava ossessivamente nelle parole degli artisti quasi temessero di venirne esclusi, come se l’era tecnologica avesse aperto un tempo zero che li sottraeva al corso della storia e sentissero il bisogno di testimoniare al mondo che l’uomo era sempre uomo, non una merce, anche nella massa, e che non poteva rinunciare a fare i conti con la sua umanità: «Io penso all’immagine oggi e alla sua funzione duratura nell’esperienza della storia, alla sua non sopprimibile funzione mediatrice di conoscenza e di verità poetica che può permettere di formare l’umano senso del tempo.» E in tale contesto non risparmiavano le critiche anche per quelli che erano stati i loro compagni di strada: “Si può dire che il neorealismo non sia stato soltanto un’esperienza di pittura, in senso stretto, ma che possa essere pensato anche come categoria, come tipico del rapporto che si può instaurare fra artista e realtà quando i contenuti vengono scambiati per ideologia. Il neorealismo imperversa ancora oggi: la pop-art, la nuova figurazione, la nuova oggettività. Pittura di impegno sui contenuti senza una vera forza ideale.” Erano dunque in cerca di un nuovo modo di pensare la pittura, che allontanasse il pericolo di rigidezze e schematismi ideologici, senza impedirle di farsi veicolo di un messaggio sociale: compromessa sì, ma con la realtà, non con un’ideologia politica. Una pittura che si concentrasse di nuovo sull’uomo, ma che non si chiudesse nell’antropomorfismo, considerato come “elemento riduttore della realtà”, che “ne annulla la bella molteplicità per una fittizia unità.” Per fare questo avevano bisogno di un nuovo linguaggio che non rinunciasse all’eredità della storia, anzi si facesse storia senza per questo diventare sterile eclettismo: «Oggi a me pittore è dato operare con un mezzo inadeguato, insufficiente senz’altro, ad affrontare, a dominare la realtà (sociale, storica, naturale,psicologica) ad esprimerne il ritmo e l’intensità. Un mezzo che, pena l’evasione, non può che subire, adeguarsi, fare propri, come non mai, modi e dimensioni tipici di altre arti. Solo un impegno totale della coscienza (oltre che dell’immaginazione) potrà consentirle di portare un contributo concreto all’uomo che esige di ritrovare se stesso, per formare una società di soggetti non si tratta di semplice ‘rinnovo’ o aggiornamento del linguaggio, ma di una consapevole, dialettica, critica, provocatoria, presenza nell’oggi.Di una progressiva umanizzazione dei nostri rapporti, affinchè ognuno di essi non diventi subito merce (il quadro proprio come piena, autentica, relazione fra uomini), in una immagine che, sommovendo l’ordine consueto, incrini certe nostre ‘certezze’ e ci costringa così ad un comportamento decisamente ‘scoperto’.» L’unico però a presentare un discorso che si concentrasse veramente sul linguaggio fu Romagnoni che presentò narrativamente il suo modo di intendere il quadro come racconto: «A volte mi chiederò, dovendo uscire da una stanza in cui non sono mai stato prima, se la porta sta alle mie spalle o alla mia sinistra; oppure se fuori della porta c’è un’altra stanza o un grande luminoso corridoio, se la moquette che ho appena calpestata è rossa o verde, se per caso sulla poltrona volta alla finestra non sia seduto qualcuno di cui non mi sono accorto e che mi sta spiando; se posso essere scosso dal suono del telefono che andrò cercando con gli occhi senza rintracciarlo; così come cercherò la televisione nell’angolo sinistro e la troverò magari nell’angolo destro; mi aspetterò di vedere il cortile dalla finestra e troverò un grande viale, supporrò che sopra la mia testa oltre il soffitto ci sia un tetto e invece saliranno altri tre piani e altra gente mi camminerà sulla testa. Tutto questo può accadere anche in un quadro; non occorre esservi accompagnati per mano purché si abbia il gusto dell’avventura, né girarvi con una mappa ben circostanziata. Gli ostacoli che si incontreranno somiglieranno molto ai nostri soprassalti quotidiani. Potremmo cominciare il percorso da una parte piuttosto che dall’altra; sarà abbastanza indifferente visto che non sappiamo ancora bene cosa incontreremo; e quando avremo cominciato a riconoscere gli oggetti, a fissarceli intorno, basterà un piccolo spostamento di prospettiva, basterà magari capovolgere il quadro che tutto sarà da rifare e occorrerà di nuovo inventariare ogni cosa e dare un nome a ciascuna. Ed il personaggio appena incontrato e conosciuto diverrà subito estraneo, si infilerà in un pertugio come Alice e scomparirà dalla scena.» Molte delle opere presenti a questa esposizione, come Gerontion di Vespignani, denunciavano il loro contatto con la pop art che esplose alla Biennale di Venezia di quall’anno e, benchè le posizioni degli artisti verso tale corrente fossero piuttosto critiche, il tentativo fu quello di integrarne alcuni elementi nel contesto di analisi della società contemporanea: “ non c’è dubbio che il brutale oggettivismo ‘Pop’ sia stato anche per Renzo Vespignani uno di quegli choc che soltanto le cose possono dare. Ma la sua cultura europea e italiana, dalla ‘visual indigestion’, provocata da quei ‘populars’ che degli oggetti mettono in evidenza il carattere di merce, ha tratto una nuova vitalità dell’ideologia, del momento giudicante dell’esperienza plastica. Ha accettato la violenta provocazione dell’oggettivismo ‘Pop’ i quadri ‘dicono’ assai chiaramente di che natura sia stato il dialogo con la ‘Pop Art’ nord-americana una strana impressione per metà estetica e per metà morale se è innegabile un’influenza ‘Pop’ su Vespignani, come su molti altri autori italiani, è altrettanto innegabile che essa abbia attivato, non attenuato, la facoltà di giudizio. Su questo punto, anzi, è necessario operare una scelta: ‘Il mondo è una gigantesca pittura’ dice Rauschenberg. ‘Il mondo è il mondo’ dice Vespignani ‘e la pittura è la forma consapevole della nostra esperienza del mondo.” Ma il contatto con la pop art segnò anche il limite oltre cui non c’era più spazio per la sperimentazione congiunta condotta da Il Pro e il Contro. Nella primavera del 1964 il Fante di Spade pubblicò Un’esperienza di gruppo. Il Pro e il Contro 1963-64, testo che ricostruiva la storia e le basi critiche del gruppo segnando il culmine della tensione dialogica tra i componenti, ma anche la fine dell’esperienza comune. La pubblicazione era stata infatti realizzata in previsione di un’esposizione a Bologna che non giunse mai a realizzazione. Nei loro intenti avrebbero voluto continuare nella “complessa elaborazione culturale” volta a «ridurre al minimo l’ideologia come preconcetto, per potenziare al massimo la pittura come ideologia, come scoperta della realta»103, oltre che nello sviluppo di “un’organica, articolata riflessione su tutti gli esiti della storia dell’arte contemporanea, e, in particolare su quelli delle avanguardie considerate come esperienze complementari, come inscindibile potenziale espressivo, come contributo globale alla conoscenza della civiltà moderna” , evitando i pericoli di un “contenutismo grezzo e di sociologismo meccanico”, che non possono agire sulla realtà, dell’elaborazione di «tradizioni di comodo» e «revivals».” Secondo Troisi, curatore di una mostra sul gruppo nel 2003, le idee di questi artisti coprivano “Un ventaglio di posizioni forse troppo ampio per essere tenuto insieme dal riconoscimento della centralità della pittura e della figuratività.” In fondo, l’unico vero collante del gruppo risiedeva nel porre il dubbio esistenziale a fondamento del proprio operare, in un arco temporale segnato dalla ricerca costante di un’immagine in cui identificarsi. Menna, pur considerando valida l’ipotesi di ricerca neofigurativa, riteneva che i nostri fossero irrimediabilmene tornati a un’arte naturalistica appena mascherata di forme aggiornate e fra di loro, che pur reputava pittori validi, vedeva anche casi di artisti, come Guccione, spinti, a suo dire, solo da una scelta della critica di sinistra. Nonostante il valore dell’esperimento di gruppo, l’impressione era che non fossero riusciti a superare i limiti già insiti nelle premesse. Come già nel 1963 ravvisava Pasolini in occasione di una mostra di Attardi: “ Si sente il peso di una problematica contingente e non risolta. Capisco la necessità di fondare una nuova filosofia pittorica, polemica rispetto all’astrattismo e alla pittura tradizionale. Ma mi sembra che lei, con i suoi amici, si dibatta in una ricerca ancora casuale, nella penombra di un crepuscolo ideologico, in cui si aggirano i fantasmi delle figura non ancora riscoperte, insieme alle macchine dell’astrattismo espressionistico superato. L’errore consiste nella creazione artificiale e velleitaria del mito, ossia del contenuto figurativo del quadro, dei suoi personaggi.
Che, nella violenza del loro albeggiare, della loro prenatale e prefigurale fisicità, reintroducono dilatazioni e pregrammaticalità (espressionistiche le prime, neocubistiche le seconde), vecchie almeno quanto l’astrattismo. È chiaro, in questi miti, l’arbitrarietà e la soggettività confusamente lirica che ha presieduto alla loro nascita. Una certa pericolosa aria spiritualistica, poeticheggiante. Questo per esser sincero con lei, e per contribuire al nuovo corso -in atto- delle ricerche neofigurative.”La questione, spesso sollevata, dell’eccessivo legame dei pittori di area comunista con un tema narrativo, fu effettivamente un limite in molti casi. Secondo Del Guercio “ il tema è visto nell’equilibrio momentaneo delle contraddizioni del reale, e il suo senso viene decifrato non come momento congelato ma come un tessuto di rapporti tra necessità e libertà”, ma non sempre i nostri seppero trovare questo equilibrio. Sicuramente gli esiti del gruppo furono piuttosto disomogenei, non soltanto fra i diversi artisti, ma anche fra le le singole opere di ciascun pittore, segno di un percorso di ricerca che non procedeva seguendo un tracciato lineare, bensì si avviava a tentoni verso una modernità che ormai li aveva già sorpassati; il problema non era più solo quello delle soluzioni formali, forse erano le stesse domande da porsi a non essere più le stesse. Ciascuno di questi artisti avrebbe proseguito le proprie ricerche secondo il percorso individuale che in realtà non era mai stato abbandonato, in quanto non avevano mai formato un vero e proprio raggruppamento con degli intenti comuni: era stato un gruppo di discussione che aveva cercato col confronto di ampliare la visione dei singoli componenti e di spingerli a creare una nuova identità per la pittura d’impegno sociale. In parte avevano creduto veramente nel progetto, in parte avevano cercato un’occasione di visibilità personale, ma bisogna tenere in considerazione il clima che stavano vivendo e l’ambiente in cui esponevano. Si trattava di un momento di transizione in cui il volto del futuro, per coloro che si erano riconosciuti nell’arte di compromesso, era ancora incerto e in cui, allo stesso tempo, nonostante le delusioni della politica, non si era abbandonata la speranza di poter agire direttamente sulla società: “Questo mi pare che fossimo, in quegli anni: rabbiosamente innamorati di noi e della nostra avventura.” Il progetto espositivo conta più di una sessantina di opere ed è diviso in quattro sezioni: quella intitolata Figura Scultura, diffusa lungo il percorso di mostra, è dedicata alla grande tradizione della scultura italiana figurativa, che comprende artisti quali Giacomo Manzù, Marino Marini, Pericle Fazzini, Emilio Greco,Venanzo Crocetti, Vincenzo Gaetaniello,Valeriano Trubbiani. La seconda sezione, Politica Società Realtà, prende avvio da maestri della scuola romana come Fausto Pirandello e Alberto Ziveri, masoprattutto da Renato Guttuso, che nella sua lunga carriera ha saputo passare dall’impegno politico del Realismo del secondo dopoguerra a opere ispirate alla natura e ai paesaggi della sua Sicilia, fino alle contaminazioni che lo hanno reso uno dei maggiori sostenitori dei giovani artisti Pop in Italia e alle sue estreme riflessioni visionarie sull’opera di de Chirico. Da questi presupposti sono partite le ricerche delle generazioni più giovani, in convergenza o in polemica con l’opera di Guttuso, ma che da quel presupposto hanno saputo rinnovare e trasformare la figurazione contaminandola con elementi fotografici, con prelievi dai mass media, con fusioni materiche di matrice informale, con suggestioni del design e della Pop Art. Incontriamo così le ricerche “impegnate” in chiave politica, sociale ed esistenziale degli artisti attenti ai nuovi scenari delle periferie, dell’alienazione urbana e della protesta comeRenzo Vespignani,Ennio Calabria, Titina Maselli, Giuseppe Guerreschi, Bruno Canova, Franco Mulas,Paolo Baratella, Giangiacomo Spadari, Lorenzo Tornabuoni, Franco Ferrari, Pablo Echaurren, Giacomo Porzano, Ugo Attardi. La terza sezione, Metafisici e Visionari, prende avvio dalla Metafisica di Giorgio de Chirico, caposcuola di una linea in cui i pittori scoprono i misteri dei labirinti della psiche e gli enigmi nascosti negli oggetti e nei frammenti di tempo della vita quotidiana, nelle memorie d’infanzia e nelle geometrie delle architetture. Questa sezione presenta anche un maestro internazionale comeBalthus, pittore francese che però scelse l’Italia come luogo dove vivere e a cui ispirarsi, insieme ad importanti pittori comeFabrizio Clerici,Sergio Vacchi,Alessandro Kokocinski, Leonardo Cremonini, Riccardo Tommasi Ferroni, Sergio Ceccotti, Gianfranco Ferroni, Angelo Titonel. La quarta e ultima sezione, Natura Pittura, è infine dedicata a un nuovo Naturalismo contemporaneo, spesso collegato anche ai primi movimenti ecologisti, in una visione iconica che dialoga talvolta con la linea dell’Informale teorizzata da Francesco Arcangeli e che riflette sulla dialettica tra il mondo naturale e quello industriale, sul tempo e sulla memoria condensati nei frammenti e nei segni della pittura. Saranno esposte opere di Ennio Morlotti, Zoran Music, Giuseppe Zigaina, Carlo Mattioli, Giuseppe Banchieri, Attilio Forgioli, Piero Guccione, Giorgio Celiberti,Edolo Masci, Ruggero Savinio, Alberto Gianquinto, Nino Cordio, Vincenzo Nucci, Raphael Mafai, Franco Sarnari. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Il Cigno GG Edizioni, contenente i saggi critici di Lorenzo Canova, Ilaria D’Ambrosi, Alberto Dambruoso, Guglielmo Gigliotti e Enrico Lombardi.
Musei di San Salvatore in Lauro Roma
Figurazione anni 60 e 70
dal 24 Aprile 2024 al 21 Luglio 2024
dal Martedì al Sabato dalle ore 10.00 alle ore 13.00 e dalle ore 16.00 alle ore 19.00
Domenica dalle ore 10.00 alle ore 12.00
Lunedì Chiuso