Giovanni Cardone
Fino al 14 Luglio 2024 si potrà ammirare al Palazzo Ducale di Genova la mostra di Sebastião Salgado Aqua Mater a cura di Lelia Wanick Salgado su musiche di François Bernard Mâche. In esposizione 42 fotografie è prodotta dalla Fondazione Palazzo Ducale in collaborazione con Rjma Progetti culturali, Creation e SM-Art. Il percorso espositivo è accompagnato da una traccia sonora composta per la mostra dal musicista François Bernard Mâche, dell’Académie des Beaux Arts. Sarà a disposizione di tutti i visitatori un’audioguida in italiano e in inglese con la storia personale di Sebastião Salgado e i suoi ricordi . In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura del maestro brasiliano Sebastião Salgado apro il mio saggio dicendo : Prima di iniziare a parlare di fotografia e, successivamente, attraverso di essa, sarà necessario creare una base dalla quale iniziare l’analisi critica delle immagini di Salgado. Dato che l’obiettivo di questo saggio, ovvero indagare se e come le opere fotografiche è prendere in esame è costituire una critica alla globalizzazione neoliberale da parte dell’autore, ci si concentrerà sugli elementi che tale critica hanno generato, non solo da parte di Salgado ma anche secondo un’abbondante letteratura scientifica. Il neoliberismo sarà preso in considerazione, in questa sede, in un contesto globale; è d’obbligo, quindi, introdurre il concetto di globalizzazione. I due fenomeni sono interdipendenti, si sono sviluppati ed affermati l’uno grazie all’altro; il modello di globalizzazione più diffuso è indissolubile dal neoliberismo. Ci riferiremo ad entrambi contemporaneamente utilizzando il termine “globalizzazione neoliberale”, ed in effetti la critica di Salgado esplorata in questa tesi si applica più propriamente a detta globalizzazione neoliberale che al neoliberismo come pratica economica in sé e per sé. Si cercherà quindi di sottolineare i legami tra i due processi ed i loro effetti in diversi ambiti della vita umana, a parte quello prettamente economico: la politica, le relazioni sociali, la cultura, le condizioni dei lavoratori o delle minoranze etniche, l’ambiente, solo per citarne alcuni. Un esame da un punto di vista ampio, che consideri le dimensioni spaziali (o meglio, globali) e sociali del neoliberismo, ci permetterà di mettere in luce i nessi che questo intrattiene anche con il (neo)colonialismo e con l’imperialismo. Il concetto di globalizzazione introdotto in questo capitolo è funzionale a comprendere la diffusione ed il funzionamento del neoliberismo e della sua retorica in gran parte del globo. Un rischio comune in una trattazione di questo tipo sta nel finire per ricondurre semplicisticamente tutti gli eventi e i fenomeni affrontati alla “globalizzazione” come termine vago ed evasivo, senza però approfondire tale legame né specificare cosa si intenda per globalizzazione, cosicché lo studio cade nella tautologia e non porta ad una migliore comprensione. Si cercherà qui di evitare tale risultato mostrando come le politiche neoliberiste siano il presupposto grazie al quale la globalizzazione si è realizzata, e come sia grazie ad esse che la globalizzazione è potuta diffondersi a macchia d’olio. Parlare dell’affermarsi del neoliberismo e delle sue logiche senza coinvolgere la globalizzazione, quindi, significherebbe esulare da un elemento fondante dell’oggetto di questo studio, e il risultato finale sarebbe incompleto. Per meglio contestualizzare storicamente e politicamente i lavori di Salgado presi in considerazione, rendendo così possibile comprendere la spinta ideologica che li guida e il tipo di critica che il fotografo sviluppa nel corso del proprio cammino professionale. La dottrina economica del neoliberismo nasce come una scuola di pensiero marginale negli anni ’40 del Ventesimo secolo; essa viene fatta risalire al circolo intellettuale in cui Friedrich von Hayek, Milton Friedman ed altri economisti si riuniscono la società di Mont Pélerin a partire dal 1947. Sulla carta, essa è molto diversa da quella attuata ad oggi nella pratica, come ci sarà occasione di osservare. I principi cardine si rifanno al liberismo classico teorizzato da Adam Smith, la cui nozione più popolare è il laissezfaire, ovvero il principio secondo cui i mercati sarebbero in grado di autoregolarsi grazie alle libere interazioni tra domanda e offerta, ed ogni intervento esterno, specialmente da parte dello Stato, atto a regolare tali forze o a modificare o controllare i prezzi, porterebbe ad una allocazione delle risorse artificiale e quindi non efficiente . Questa è la base cui si appoggia la teoria neoliberale, da cui poi si articolano poi varie caratteristiche e declinazioni. Con l’obiettivo centrale della libertà dell’iniziativa economica, della concorrenza e della conseguente allocazione delle risorse , il neoliberismo appoggia con decisione politiche quali privatizzazione di vari settori dell’economia la proprietà pubblica altera le interazioni sul mercato e ne limita la libertà, liberalizzazione e deregolamentazionela proprietà privata raccoglie i suoi frutti solo se ha la possibilità di operare in libertà, senza controlli di tipo tariffario e non. Queste premesse di base costituiscono solo i principi guida del neoliberismo, che viene applicato con varianti a seconda del contesto nazionale e delle differenze locali; è inoltre importante tenere a mente che questi principi teorici portano con sé imponenti conseguenze al momento della loro concretizzazione massiccia su scala internazionale, non solo sull’economia, ma anche sulla politica e sulla vita sociale e individuale dei cittadini. Nell’immediato periodo successivo alla sua elaborazione teorica, lo sviluppo pratico delle teorie neoliberiste procedette a rilento, soprattutto a causa del rinnovato supporto all’intervento dello stato in economia, nella formula keynesiana, dopo la seconda guerra mondiale, come prevenzione ad un eventuale tracollo del capitalismo come quello avvenuto nel 1929 . Tuttavia, la teoria neoliberale non venne abbandonata negli ambienti accademici, fino a raggiungere, negli anni ’70, il culmine della popolarità anche a livello accademico e politico, in concomitanza con la crisi del sistema capitalista sorretto dalla struttura pattuita a Bretton Woods nel 1944. Si era infatti avviato, alla fine degli anni ’60, un tracollo dell’economia capitalista internazionale caratterizzato da una grave stagflazione, peggiorata poi nel 1973 dalla prima crisi petrolifera internazionale. Il sistema stabilito dalla comunità internazionale sotto la guida degli Stati Uniti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, mirava ad una duratura stabilità economico-politica e prevedeva un liberismo di tipo controllato, embedded ovvero “legato” da controlli e regolamentazioni istituzionali), nel quale lo Stato aveva un ruolo regolatorio ed i tassi di cambio delle diverse valute erano ancorati al valore del dollaro, a sua volta collegato a quello dell’oro. Il bisogno di capitale degli Stati Uniti, i quali avevano esaurito le loro riserve monetarie in particolare dopo le spese militari sostenute per la guerra in Vietnam e per i loro investimenti nelle banche estere portò al riassestamento dell’ordine economico mondiale: terminato il sistema di Bretton Woods per decisione del presidente Nixon nel 1971, si aprirono le porte per una nuova configurazione economica internazionale, che venne attuata secondo le regole del neoliberismo . La prima ad attingere alla teoria neoliberale nella sua versione “disembedded” per l’economia politica nazionale fu la celeberrima iron lady Margaret Thatcher, che la applicò a partire dalla propria elezione nel 1979. Thatcher smantellò la struttura socialdemocratica della Gran Bretagna del secondo dopoguerra, abbandonando le politiche keynesiane adottate in precedenza a favore di un libero mercato in cui potesse trionfare l’iniziativa imprenditoriale. In particolare, i suoi governi furono caratterizzati da massicce privatizzazioni di settori tradizionalmente pubblici, deregolamentazioni volte soprattutto ad incoraggiare gli investimenti esteri, decise riforme fiscali in particolare tagli al welfare e riduzioni delle tasse, e sociali, in particolare attaccando l’attività dei sindacati e delle iniziative di solidarietà sociale che minacciavano di distorcere il libero corso del mercato. La sua controparte oltreoceano fu Ronald Reagan, grazie alla cui azione venne definitivamente smantellato il ruolo acquisito dallo Stato dopo il New Deal degli anni ’30. Le sue politiche rispecchiarono, in generale, quelle già implementate nel Regno Unito: in particolare, egli fu assistito da Paul Volcker, a capo della Federal Reserve, che sostenne un deciso approccio monetarista per far fronte alla stagnazione economica degli anni ’70. Lo Stato si ritirò così dall’azione diretta in economia, che si realizza principalmente nelle politiche di welfare, nella redistribuzione delle risorse e nell’emissione di servizi attraverso il gettito fiscale, nella protezione della produzione nazionale dalla concorrenza estera attraverso barriere tariffarie e non, nella regolamentazione degli investimenti transnazionali e nella proprietà di settori di rilevanza collettiva quali trasporti, sanità, educazione ed energia. La principale conseguenza del neoliberismo a livello politico è data dal fatto che esso presupponga una società stabile (preferibilmente una democrazia, secondo gli orientamenti assunti dal neoliberismo a partire dagli anni ’80), che possa garantire il libero dispiegarsi delle forze del mercato; ecco perché, in questo processo, lo Stato assume la funzione di garantire detta stabilità a costo di trasformarsi, in situazioni di conflitto sociale e rivolte dei minatori nell’Inghilterra dei primi anni ’80, solo per fare un esempio, in Stato di polizia. Come scrive Crouch a proposito del maccarthismo, “la difesa del liberismo economico poteva anche diventare molto illiberale”. Inoltre, nei fatti, lo Stato ha assunto una seconda funzione, della quale si è avuta prova dopo la crisi finanziaria del 2008: nelle situazioni in cui il mercato, che pure dovrebbe essere in grado di autoregolarsi, va in “corto circuito”, ecco che è lo Stato ad intervenire attraverso fondi pubblici con salvataggi di banche istituzioni finanziarie in crisi . Proprio quello Stato che aveva ridotto al minimo la propria azione in economia per fare spazio all’efficienza del mercato. Vediamo, quindi, che il neoliberismo nella sua versione pratica attuale è diverso dal liberismo classico e da quello teorizzato dalla scuola di Mont Pélerin: lo Stato si ritira totalmente dal controllo economico, ma è esso stesso ad essere “embedded” dal mercato. Questa inversione di ruoli fa sì che lo Stato, quando interviene in economia, lo faccia in funzione della salute del mercato, provvedendo a salvare banche in difficoltà e grandi aziende altrimenti destinate a fallire. I compiti di uno Stato neoliberale sono quindi, in breve, mantenere la stabilità politica e controllare l’andamento delle crisi economiche e soprattutto finanziarie . Dopo le esperienze inglese e statunitense, politiche neoliberiste iniziarono ad essere applicate in altri Stati, ma è interessante notare che il primo esperimento neoliberale in assoluto non appartiene ad uno Stato europeo o agli USA, bensì al Cile. La svolta si ebbe con il golpe militare ai danni del governo democratico del socialista Salvador Allende, il cui assassinio segnò l’inizio del governo autoritario del generale Pinochet. Fin dal principio del suo governo, Pinochet si affidò, per la restaurazione economica del Paese, ad un gruppo di economisti statunitensi di ispirazione decisamente neoliberale, provenienti appunto dal vivaio del pensiero neoliberale negli Stati Uniti, l’Università di Chicago, e per questo soprannominati “Chicago Boys”. Essi misero in pratica gli insegnamenti appresi negli Usa, incoraggiando privatizzazioni, l’apertura alla dimensione internazionale attraverso la deregolamentazione dei flussi finanziari e la liberalizzazione del mercato, l’abolizione dei controlli sui prezzi, i tagli alla spesa pubblica . Emergono fin d’ora, già dalle origini del successo internazionale del neoliberismo, due elementi interessanti: primo, il fatto che la stabilità che fa da base all’implementazione del neoliberismo non è necessariamente collegata alla democrazia; secondo, che questo tipo di sistema economico occupa un ruolo ben preciso nella politica internazionale. Senza attribuire agli Stati Uniti la responsabilità per l’intero assetto neoliberale globale, è innegabile che l’interesse politico per una maggiore apertura del mercato cileno, una concorrenza internazionale ed interna più libera, una minore regolamentazione avrebbe giovato anche all’economia statunitense attraverso flussi di capitale, investimenti e commercio internazionale. È quindi poco utile isolare l’analisi del neoliberismo globale dalle sue implicazioni politiche e dagli interessi che esso beneficia o danneggia. Dopo l’esordio del governo Pinochet, l’applicazione del neoliberismo trionfò in Sudamerica negli anni ’80, in particolare in seguito alle crisi economiche che, a catena, coinvolsero diversi Paesi a partire dal Messico, nel 1982 crisi di cui si parlerà più approfonditamente in seguito. I governi in ginocchio si rivolsero al Fondo Monetario Internazionale, che offrì loro aiuti finanziari per poter uscire dalla crisi, la cui emissione era però subordinata all’accettazione di pesanti pacchetti di riforme economiche di stampo neoliberale. Questi aiuti vennero denominati SAP, ovvero, programmi di aggiustamento strutturale, la cui portata per l’assetto degli Stati che lo accettano è già denotata dal nome stesso: si prevedeva, appunto, un aggiustamento di tipo strutturale, per correggere un sistema evidentemente inefficiente. Harvey definisce i SAP come una prassi consistente nel beneficiare gli interessi delle istituzioni finanziarie andando a penalizzare la qualità di vita dei Paesi debitore, ovvero ricavare un surplus dai poveri del mondo, dal momento che sono le classi meno abbienti ad uscire svantaggiate da un taglio della spesa pubblica che si traduce in una drastica diminuzione dello stato sociale. In questo processo i Paesi poveri, osserva il celebre economista Stiglitz, “sovvenzionano di fatto i più ricchi”. Ancora una volta, l’applicazione del neoliberismo risulta profondamente legata ad interessi politici, in questo caso quelli dei Paesi che si trovavano in posizione economicamente favorevole – in primis gli Stati Uniti – a scapito di quelli che, a causa della loro condizione svantaggiata, dovevano adattarsi ad un’economia politica imposta dall’esterno e nella cui implementazione i loro interessi venivano considerati solo marginalmente, o decidevano di aderire a tali programmi come unica alternativa al tracollo economico totale. I precetti del neoliberismo sono riassunti nel decalogo divenuto celebre con il nome di Washington Consensus, che riprende le caratteristiche che abbiamo già nominato: liberalizzazione del commercio, anche e soprattutto nella sua dimensione internazionale con gli accordi di libero commercio come principale via di apertura dei mercati e trasferimento di beni e capitale da un’area all’altra del globo diminuzione dei controlli sui flussi transnazionali di capitale; privatizzazione di settori dell’economia in precedenza appartenenti allo Stato; stretto controllo della spesa pubblica; tassi di cambio stabiliti dall’andamento del mercato; una severa disciplina fiscale. Con il realizzarsi di queste condizioni, si assiste tra l’altro ad una progressiva finanziarizzazione dell’economia la crescita economica non dipende più dalla crescita dell’economia reale, legata al capitale produttivo, ma ad un tipo di economia molto più instabile e volatile, quella finanziaria, il cui valore nominale non corrisponde a quello reale e può essere gonfiato a seconda delle ondate di speculazione dei detentori di titoli e pacchetti di azioni. Il dominio della finanza sul mercato globale ha causato varie crisi, da quelle asiatiche del 1997-98 a quella argentina e in seguito brasiliana del 2001-2002, a quella partita dagli Stati Uniti e diffusa globalmente, dall’Europa all’Oceania, a partire dal 2008. Il neoliberismo, quindi (come, del resto, il capitalismo stesso), si rivela intrinsecamente imperfetto e soggetto a crisi cicliche, a cui – contro la teoria neoliberale “purista” – rimediano gli enti pubblici con i loro salvataggi a banche ed istituzioni finanziarie in fin di vita: ciò denota un inscindibile intreccio tra gli interessi pubblici e quelli privati delle grandi aziende (tra cui, appunto, le istituzioni finanziarie), e ancor di più una non indifferente influenza di queste ultime sulle politiche dei governi, cosa che non viene prevista dalla teoria neoliberale. Le differenze tra la teoria e la pratica neoliberale, come si è visto, sono rilevanti: il mercato non è affatto abbandonato a se stesso, ma è lo Stato ad essere asservito ad esso più correttamente, come sottolinea Colin Crouch, non al mercato in generale ma alle grandi aziende (corporations).
Di conseguenza, Crouch afferma che quello che governa la globalizzazione attuale non è neoliberismo ideologico puro, ma una versione di esso in cui Stato e mercato si compenetrano grazie ad una terza identità, quella delle grandi aziende multinazionali, le quali hanno raggiunto una tale influenza politica da far sì che lo Stato agisca in economia per proteggerle e operare secondo i loro interessi. Il problema di questo tipo di neoliberismo, continua Crouch, non sono le conseguenze dell’amoralità del mercato in sé (in effetti, sarebbe difficile immaginare un mercato il cui funzionamento si basi su valori morali), ma il fatto che, in un tale assetto economico-politico, i valori di mercato arrivino ad informare la società nella sua totalità: il risultato finale è una società totalmente amorale in quanto regolata in tutti i suoi aspetti dai valori del mercato. Essi si esplicano nella società soprattutto attraverso la “mercificazione di tutto”, come nota Harvey non solo beni e servizi possiedono un valore economico, ma anche le persone ed i rapporti tra di esse sono visti come qualcosa di capitalizzato o comunque capitalizzabile, con un valore economicamente quantificabile e su cui si possano avanzare diritti di proprietà e concludere contratti. La fotografia è rilevante in questo lavoro non solo per la sua componente politica come mezzo di denuncia e di attenzione a diversi temi sociali, ma anche per il particolar modo in cui essa viene recepita da grande pubblico e critici, ovvero la sua componente estetica. Nella fotografia di Salgado, quindi, la società funziona sia come input, sia come recettore dell’output. Questo capitolo si concentra sulla figura di Salgado e sul suo approccio alla professione di fotografo, sulle implicazioni estetiche e politiche della fotografia e sulla sua qualità di testimonianza, e infine sulla società come destinataria (output), in quanto la società come soggetto fotografico (input). Vale la pena di introdurre l’argomento della fotografia come mezzo di rappresentazione, espressione e comunicazione risalendo brevemente all’epoca delle sue origini, ed in particolare al suo status rispetto alla pittura ed all’arte in generale, per poterne definire le sue caratteristiche di arte, da un lato, e di fedele ritratto della realtà, dall’altro – il che risulterà utile per proseguire la nostra analisi. Il dibattito sulla fotografia come arte ebbe luogo soprattutto in Francia nella seconda metà dell’Ottocento: dopo che essa fu messa a punto, negli anni ’30, dal ricercatore Nicéphore Nièpce e fu successivamente perfezionata da Louis Daguerre padre, appunto, del dagherrotipo, si pose infatti il problema di quale potesse essere la posizione della nuova tecnica nel regno delle scienze e, questione ancor più problematica, in quello delle arti. Walter Benjamin segnala infatti lo stato di allarme in cui versava la pittura nel momento in cui si realizzò il potenziale ed il potere documentativo della fotografia. Almeno fino alla fine del XIX secolo, scrive Benjamin, i dibattiti sul tema seguivano in genere un “insulso preconcetto”, che assecondava la “greve rozzezza” di un “concetto triviale di ‘arte’ estraneo a ogni rudimento di tecnica, il quale, vedendo affacciarsi provocatoriamente il nuovo mezzo, sente di avere i minuti contati”. La fotografia si impose da subito, ed in modo assolutamente innovativo e forse per questo inquietante come un mezzo tecnico in grado di ritrarre fedelmente la realtà attraverso un congegno meccanico che passava attraverso la mente, l’occhio e la mano dell’uomo. Nell’epoca del naturalismo e del realismo ovvero della natura come unica fonte della conoscenza e come aspirazione ultima dell’arte l’esattezza della fotografia fece sì che essa fosse salutata dalla borghesia francese come “l’arte assoluta”. Giacché la fotografia dà tutte le garanzie desiderabili di esattezza, l’arte è la fotografia. Da allora uno straordinario fanatismo si impossessò di tutti questi nuovi adoratori del sole , scrisse Charles Baudelaire nel 1859, dimostrando di aver compreso che le “garanzie di esattezza” date dalla fotografia erano in realtà piuttosto esigue. Ma Baudelaire non era affatto l’unico oppositore dello status artistico della fotografia: al Salon di Parigi del 1859, essa fu estromessa dal programma ufficiale, secondo l’assunto che “la fotografia come linguaggio artistico non esisteva e la sua produzione era soltanto un fatto mediatico e tecnico” . Secondo queste premesse, la fotografia si riduceva ad un’attività meccanica; tuttavia, se essa non si poteva classificare nel reame delle arti, si è anche visto che se ne negava la capacità di garantire la propria corrispondenza alla realtà: un dilemma che risultò irrisolto fino a quando non fu la pittura stessa ad arrendersi alla fotografia, facendole spazio tra le arti. Ciò avvenne alla fine del XIX secolo, quando, con gli impressionisti, il dipinto smise di concorrere con la fotografia per una rappresentazione esatta della realtà, e fu quest’ultima ad essere poi inclusa nel dominio artistico, con il surrealismo . Questo dibattito sulla fotografia ci porta quindi a chiederci: è arte? Essa necessita dell’atto creativo dell’uomo, ma in effetti è frutto dell’azione di una macchina; è tecnica, allora? Essa ritrae, ma non è del tutto fedele alla realtà. Tra immagine fotografica e realtà si inserisce quindi un vuoto informazionale che ne accentua il carattere di rappresentazione, questione che sarà discussa più avanti. Ora, prima di poter analizzare i contenuti della fotografia, dobbiamo analizzarne la forma, ed in particolare, i modi in cui essa si esprime. Anche se non utilizzassimo la definizione “linguaggio” nel senso stretto, ovvero come codice per una comunicazione verbale, ciò che rimane resterebbe eccessivamente rigido per potervi far rientrare la fotografia. Questo perché la nozione di linguaggio, secondo il celebre linguista Ferdinand de Saussure, richiede una struttura sistematica di unità discrete nel linguaggio verbale, lettere e fonemi; in quello musicale, le note e le pause. Ma le unità discrete attraverso cui la fotografia opera non sono certo strutturate sistematicamente: non esiste, tra le diverse immagini, una combinazione fissa che permetta di creare un significato condiviso di tipo convenzionale. Susan Sontag descrive il fotografo come una sorta di collezionista che agisce in maniera arbitraria, spinto dalla fascinazione per la presenza di un oggetto, la sua “quid-ità”. In tal modo, viene garantita un’uguaglianza di base a tutti gli oggetti rappresentati dalla fotografia, che ritraggono una realtà solo parziale: la categorizzazione diviene impossibile. Mentre chi parla o scrive o compone musica può scegliere lettere o per comporre parole, o armonie, secondo regole prestabilite e quindi valide per tutta una collettività che tali regole condivida, chi fotografa sceglie e compone i propri scatti in maniera non convenzionale, dato che quanto vi è di prestabilito nella fotografia si esaurisce nella tecnica di base. Nonostante molto spesso, per il singolo fotografo, questo tipo di collezione parziale della realtà possieda una logica, non c’è un modo per opporre quest’ultima ai terzi che la osservano; la fotografia rimane quindi intrinsecamente priva di un’organizzazione interna che sia universalmente condivisibile. Un’altra criticità sta nel fatto che la definizione di linguaggio implica la presenza di un codice convenzionale, il quale si distingue dai codici utilizzabili per l’interpretazione artistica. Essa, pur basandosi su codici culturali appresi e condivisi, non possiede un “alfabeto” di segni il cui significato viene stabilito arbitrariamente ma convenzionalmente all’interno di una comunità. La fotografia che qui considereremo facente parte del regno delle arti, nonostante la polemica di cui si è parlato non possiede un codice che possa consentire all’osservatore di dedurre un significato inequivocabile: la codificazione dipende da colui che scatta e, in misura ancor maggiore, da colui che guarda l’immagine, entrambi immersi in una determinata cultura a partire dalla quale viene costruita la propria rappresentazione sull’immagine osservata. Di qui l’ambiguità che caratterizza la fotografia. È pur vero che anche il linguaggio verbale si presta a incomprensioni e diverse interpretazioni, ma l’ambiguità della fotografia deve essere ricondotta non ad un malinteso o ad un uso viziato delle unità discrete che compongono il codice, bensì dall’assenza stessa di tali unità discrete. Non ci sono universali nella fotografia come invece accade per il linguaggio verbale: non vi sono segni convenzionalmente ed arbitrariamente collegati ad un’unità semantica. Così, ciò che viene rappresentato in una foto non significherà nello stesso modo per tutte le persone che la osservano. Manca dunque il carattere di oggettività: l’unica guida per la lettura della fotografia consiste nei codici culturali che ognuno possiede, i quali, tuttavia, per quanto condivisi più o meno largamente, non sono universali, ma derivano da rappresentazioni comuni ai membri di una determinata comunità. Il problema dell’ambiguità sarà affrontato più avanti, dal momento che incide sia sulla produzione sia sulla fruizione della fotografia in diversi ambiti, quale il suo uso artistico, e quello documentario, che sarà oggetto di uno dei prossimi paragrafi. Esso dipende, sostanzialmente, dal fatto che la fotografia rappresenti, e non sia, la realtà. A questo proposito, è interessante menzionare l’opera Le parole e le cose di Michel Foucault che si riprenderà più avanti per la rilevanza della nozione di “discorso”: l’esordio del volumetto, che si ripropone di individuare i legami tra realtà, lingua e modi di categorizzare il sapere, inizia con l’analisi di un dipinto, nello specifico il celeberrimo Las meninas di Velázquez, che ritrae la famiglia reale spagnola utilizzando un espediente pittorico innovativo consistente nel ribaltamento di oggetto e soggetto tramite l’utilizzo di uno specchio (in quest’ultimo fanno capolino i “veri” soggetti del quadro, Filippo IV e la moglie Marianna, mentre nel resto della scena si vedono il pittore stesso e, al suo fianco, l’infanta Margherita circondata da damigelle e nani, quasi fosse il quadro stesso a giocare il ruolo dello specchio). Foucault utilizza il dipinto per argomentare la distanza, sempre presente ed ineliminabile, da un lato tra realtà e rappresentazione, dall’altro tra immagine e lingua: la modernità, scrive infatti Foucault, è caratterizzata dalla presa di coscienza che la somiglianza non sia garanzia di corrispondenza, e, quindi, che la rappresentazione che essa avvenga tramite l’immagine o tramite il linguaggio non possa in alcun modo corrispondere alla realtà . L’ambiguità propria della fotografia dipende da vari fattori: oltre ai due nominati in precedenza, vi è anche la distanza tra l’occhio meccanico della fotocamera e quello umano, e poi, ancor più importante, la distanza tra il fotografo ed il suo pubblico. Il primo tipo di distanza si riassume con una domanda: chi è il responsabile, di chi è il compito di creare l’immagine fotografica? La macchina o il fotografo? I primi critici di questa nuova tecnologia sostenevano la prima ipotesi. Secondo loro, la persona che scattava la fotografia era considerata come un mero esecutore che operava meccanicamente, piuttosto che un artista in grado di scrivere con la luce, dando forma alla sua personale visione del mondo. Infatti, la fotografia nasce, per usare le parole di uno dei suoi padri, Louis Daguerre, come “uno strumento in grado di duplicare la realtà” in questa prospettiva, il fotografo non agisce nel processo della creazione dell’immagine, ma si limita a premere un pulsante mentre la macchina si occupa del resto: non vi è alcuna distanza tra uomo e fotocamera. Se, invece, consideriamo l’opinione secondo cui il fotografo è l’actor, o operator, come lo chiama Roland Barthes nella sua celeberrima Camera chiara, dobbiamo presumere che sia presente una distanza tra ciò che l’occhio umano vede e ciò che la camera può catturare. Tale sfasamento può essere definito non soltanto in termini visivi, ma anche e soprattutto in termini semantici, se si considerano i messaggi e le idee che il fotografo può stipare all’interno di questa distanza tra occhi e lente. In altre parole, il gap agisce separando il significato per il fotografo dal significato per l’osservatore: le due distanze che abbiamo menzionato risultano quindi strettamente collegate. Si potrebbe sostenere che la stessa problematica riguardi anche altri mezzi di comunicazione indiretta di tipo non verbale: nella pittura, ad esempio, specialmente quella astratta esiste una distanza tra pittore e fruitore, ed è proprio questa che crea l’opportunità di un’interpretazione non convenzionale e diversa da soggetto a soggetto. Ciò che accade nel caso della fotografia, però, è peculiare in quanto questa, almeno in linea teorica, ritrae la realtà, e la realtà, si presume, non può essere fraintesa. Si presume: perché, come si è dimostrato, vari sono i fattori per i quali la fotografia può essere ambigua – o meglio, essa è intrinsecamente ambigua. Questo, naturalmente, apre le porte alla mistificazione. Si parlerà anche di questo problema. Un ulteriore fattore che contribuisce a rendere questo “linguaggio” tanto complesso è il “paradosso fotografico” che deriva dalla combinazione di modelli di significazione iconografici e modelli simbolici: ciò che vediamo il significante, il segno e ciò che la fotografia vuole dire il significato sono combinati nella stessa unità. Alla luce delle precedenti riflessioni, è innegabile che la fotografia sia caratterizzata da un certo grado di indeterminazione. Ciononostante, questo non le impedisce certo di comunicare. Ecco quindi che siamo nuovamente di fronte al dilemma di come possa significare questo tipo di medium: questo ci riporta al problema di fotografia come linguaggio. L’opinione del filosofo inglese John Berger è, citando Daguerre, che la fotografia sia una copia della realtà; per meglio dire, “it quotes from appearances”. Ma, mentre queste apparenze sarebbero un “half language”, in quanto non contenute in un medium il cui obiettivo sia la comunicazione visiva, secondo Berger la macchina fotografica completa questo “mezzo linguaggio” attraverso la realizzazione di un’aspettativa intrinseca alla volontà stessa di guardare, desiderando comunicare, e facendosi così vero e proprio linguaggio. Il dibattito sul fatto che la fotografia sia o meno un linguaggio richiede di affrontare argomenti complessi, come si è visto. Con ogni probabilità, essi non porteranno ad una risposta certa: sembra proprio che questo mezzo di comunicazione visiva sfugga ad ogni forma di categorizzazione. Si darà quindi ragione a Roland Barthes quando afferma che “perché è un oggetto antropologicamente nuovo, La fotografia deve sottrarsi alle solite discussioni sull’immagine”. Secondo lui – e la sua tesi è condivisa nel presente lavoro – il punto non è sradicare ogni aspetto ontologico della fotografia per trovarle uno status preciso nel regno della comunicazione. L’obiettivo è, invece, indagare le criticità che hanno accompagnato la sua storia per poter comprendere le problematiche che si presentano al momento della sua produzione, ricezione e critica, come si vedrà ampiamente. La misura in cui la fotografia costituisce un linguaggio sta nella sua capacità di trasmettere un messaggio. Essa crea significati, qualsiasi essi possano essere, a seconda del suo creatore, del suo fruitore finale e del suo lettore critico. Può persino riuscire a tradurre, anziché limitarsi a “citare le apparenze”: è questo il caso della fotografia artistica. Vedremo come Salgado, con la sua fotografia documentaria che sconfina nella fine art, dimostra al mondo la possibilità, per un fotografo, di tradurre la realtà, e non solo di citarla. L’accezione del termine “tradurre” che qui ci interessa è quella che proviene dal latino transducere, ovvero “portare oltre”, da una dimensione all’altra, da quella estetica e quella politica e dalla realtà vissuta dal fotografo alla mente di chi ne osserva l’opera. Nemmeno l’assenza di un universale codice di interpretazione è un ostacolo per l’effettività di questo mezzo: per usare ancora le illuminanti parole di Barthes,“domandarsi se una fotografia è analogica o codificata non è un buon criterio di analisi. L’importante è che possiede una forza documentativa” Quando si esamina la fotografia come mezzo di significazione e comunicazione, quindi, la questione deve spostarsi dall’assenza di un codice convenzionale che governi il mezzo fotografico, concentrandosi invece sulla sua forza di autenticazione e di rappresentazione. Così, per rispondere al quesito iniziale, sosterremo l’ipotesi che la Fotografia sia un linguaggio: certamente un tipo peculiare, che necessita di propri termini per essere definito, ma potente e capace di significare attraverso un insieme di norme estetiche e formali che esistono, per quanto siano determinate culturalmente e quindi, nella maggioranza dei casi, condivisibili non universalmente, ma all’interno di date collettività. Ancora una volta, la ricorrente affermazione di Salgado “The language of photography is a powerful language There is no need for translation, it’s a really direct language, it has such a huge power” sottolinea quanto lo stesso fotografo faccia affidamento sul potere significante del suo mezzo. Nella misura in cui la intendiamo come forma di espressione che trasmette un messaggio comprensibile da una comunità di utenti a seconda delle loro esperienze, appartenenze culturali, età, idee politiche e altre variabili, possiamo decisamente sostenere che la fotografia meriti la definizione di “linguaggio”. Una volta affermata la possibilità di una fotografia come linguaggio, si può proseguire verso le implicazioni di tale linguaggio all’interno della società. Prima di poter anche solo menzionare il concetto di una possibile politica della fotografia, però, sarà necessario parlare della sua ricezione presso gli osservatori, ovvero capire come l’occhio e la mente umana ricevono e processano l’immagine fotografica. È questo il compito dell’estetica, ovvero lo studio dei modi in cui la percezione sensoriale influenza emozioni e pensieri umani, specialmente in riferimento all’arte ed in particolare alla nozione di bellezza e piacere. Non sorprende che Berger definisca la percezione estetica come “sensuale” (“sensuous”) invece che “sensoriale” (“sensory”) . Per vedere come, in ambito estetico, una fotografia agisca sul suo osservatore, utilizzeremo due concetti coniati da Barthes nel tentativo di motivare la propria attrazione verso un’immagine fotografica che richiamava la sua attenzione in modo particolare. Essi sono definiti con i termini latini studium e punctum. Entrambi sono legati all’interesse che l’osservatore sente nei confronti dell’immagine; il primo sta ad indicare un’attenzione che è stata “educata”, sollevata dal fatto che la foto sia recepita e letta attraverso un prisma culturale e sia dunque necessariamente interpretata dopo il suo passaggio attraverso la mente cosciente, consapevole. Questo tipo di interesse permette all’osservatore di comprendere l’intenzione del fotografo: i due condividono la stessa cultura, intesa come insieme di valori e pratiche condivise ed acquisite nel corso della vita sociale. Si può dire che, nel caso in cui fotografo ed osservatore condividano realmente un retroterra culturale, valori e simboli, la distanza tra i due che si menzionava nel paragrafo precedente può essere mitigata. Non si tratta, però, di una situazione che si verifica sempre: lo studium di chi osserva la foto, che pure è sempre e comunque dettato da nozioni apprese e mai spontaneo e all’apparenza immotivato come vedremo essere invece il caso del punctum, può non essere lo stesso del fotografo. In quel caso, la distanza tra mittente e destinatario della fotografia non solo permane, ma si accentua. Il secondo concetto, punctum, è invece un “qualcosa” che colpisce, o punge, come suggerisce la parola, richiamando l’attenzione in un modo difficile o addirittura impossibile da spiegare razionalmente. Questo tipo di attenzione nulla ha a che vedere con lo studium: infatti, mentre questo spiega e argomenta, il punctum confonde e destabilizza. Il primo è codificato attraverso la cultura, come si è detto, il secondo non lo è mai . Consideriamo, a modo d’esempio, una delle celebri fotografie dei cercatori d’oro nelle miniere della Serra Pelada, scattata da Salgado nel 1986 Supponiamo che l’osservatore sperimenti uno studium verso di essa: sarà allora interessato alla foto per la sua qualità tecnica, sarà impressionato dal soggetto per una sua eventuale conoscenza del lavoro in miniera, o per tematiche sociali, economiche e politiche. D’altra parte, se il punctum si manifesta, l’osservatore si sentirà inevitabilmente attratto dall’immagine, molto probabilmente senza saperne spiegare il motivo. Non c’è una riflessione o un ragionamento di cui egli sia consapevole a motivare un tale interesse, eppure sente una irrefrenabile necessità di guardarla. Solo più tardi, dopo un’attenta osservazione e spesso a distanza di molto tempo, sarà possibile identificare il punctum, che nel nostro caso potrebbe consistere nelle interminabili scale a pioli su cui i minatori camminano (forse ricordano all’osservatore la sua inconscia paura di arrampicarsi?), l’effetto “formicaio” delle masse di lavoratori (forse penserà alle folle di rifugiati che ha visto in qualche telegiornale?). Qualsiasi elemento può agire come punctum. Il punto cruciale è che, a differenza dello studium che proviene da codici culturali appresi e condivisi in un gruppo sociale, il punctum è altamente personale e, grazie ad esso, l’esperienza estetica della fotografia si trasforma in un viaggio nel profondo, e non si limita ad una osservazione guidata da principi morali o norme sociali appresi nell’interazione con altre persone. Così, la fotografia offre la possibilità da un lato di interpretare in vari modi la realtà a livello cognitivo cioè, di ricreare attraverso lo studium significati che possono essere condivisi da collettività più o meno ampie ma anche di attribuirle, svelando il punctum, una lettura la cui radice è prettamente emozionale. Entrambe le modalità, la cognitiva e l’emozionale, dipendono dalla storia personale di chi osserva, dalle sue conoscenze e dal background culturale. Se è vero che il linguaggio della fotografia, come è stato più volte sottolineato, manca di un alfabeto di universali che garantisca una comprensione inequivoca da parte di ogni fruitore, è ugualmente vero che ognuno possiede una chiave per decodificarne il messaggio. Tale chiave prende forma attraverso la storia personale dell’individuo e le pratiche del suo vivere sociale fin dalla prima infanzia. Un altro aspetto della ricezione estetica della fotografia sta nel fatto che essa dia al singolo un immenso potere: controllare il tempo, seppur temporaneamente. La realtà è congelata davanti agli occhi umani, e questa è una prerogativa del mezzo fotografico. Lo spettatore ha la possibilità di indugiare nella scena o nello studium, o nel punctum, se ne identifica uno per tutto il tempo che desidera. Tuttavia, il piacere derivante da questo potere convive con l’impotenza se il punctum prende il sopravvento, innescando una reazione di misteriosa curiosità che l’individuo non può controllare. Insomma, la fotografia presenta un tipo di estetica particolare per diverse ragioni: in primo luogo, rende personale la realtà esterna ed apre fatti ed oggetti all’interpretazione, molto più dell’immagine cinematografica, che consiste in un flusso inarrestabile e fornisce un contesto. Anche il punctum, di cui pure l’osservatore è vittima, risulta funzionale per l’appropriazione della realtà “la mia” Serra Pelada non è la stessa Serra Pelada “degli altri”. In secondo luogo, la fotografia ferma spazio e tempo e li incornicia per uso personale. Queste caratteristiche agiscono in modo da contravvenire alla visione ordinaria e distinguere la relazione dell’individuo con la fotografia da quella di ogni altro mezzo visivo. Mentre la questione della reazione individuale ad una foto potrebbe estendersi molto oltre, l’obiettivo presente è indagare le relazioni tra fotografia e società, in particolare il suo potenziale politico. Dall’estetica legata all’esperienza individuale, ci si sposterà in una dimensione più ampia, quella collettiva, nella quale la fotografia ha una funzione sociale e può potenzialmente contribuire alla mobilizzazione: si può finalmente parlare di politica della fotografia. Prima di continuare, è utile ricordare che la discussione precedente su studium e punctum rimane rilevante: infatti, il primo permette al messaggio di raggiungere gli spettatori posso comprendere e rendere operativo il significato di ciò che vedo perché sono stato educato in un certo ambiente e mi sono stati trasmessi determinati codici di lettura, il secondo, perché la reazione di chi osserva una fotografia è molto più forte se entrano in gioco le emozioni. A proposito di emozioni, sarà opportuno distinguere quali tra esse possano essere funzionali ad un ruolo politico della fotografia, ovvero utili e produttive ai fini dell’azione politica individuale e collettiva, o, semplicemente, ad una fruizione priva di pregiudizi o tendenze moraleggianti, che possa stimolare il dialogo e il dibattito. Se ne discuterà più avanti.
Quando parliamo di politica della fotografia, dobbiamo distinguere tra due accezioni: la prima, “l’attività politica attraverso la fotografia”, ovvero quella in cui Salgado è di fatto da sempre impegnato, per quanto il suo fare politica attraverso le immagini sia peculiare. La seconda, “la possibilità/capacità del mezzo fotografico di funzionare politicamente”: quest’ultima si esplica sia nella capacità dell’immagine di suscitare attenzione e dialogo su tematiche che interessano una collettività, provocando un dibattito fruttuoso ed aperto a tutti i suoi membri, sia nella dimensione della propaganda, nella quale la fotografia funziona certo come catalizzatore di attenzione, ma allo stesso tempo come strumento per la costruzione di un certo tipo di narrativa – e la cui diffusione non è certo mirata al dialogo e al confronto. In un’epoca in cui l’informazione costituisce un preziosissimo bene economico, fare politica attraverso l’immagine fotografica presenta diverse criticità. Il primo grande ostacolo al ruolo politico della fotografia è la globalizzazione neoliberale ingloba anche i mezzi d’informazione, di cui naturalmente la fotografia fa parte dal momento in cui, per raggiungere il grande pubblico, entra nelle maglie di un sistema di produzione, commercializzazione e diffusione su grande scala. Inoltre, all’interno di questo sistema, il rischio di strumentalizzazione propagandistica dell’immagine fotografica è estremamente elevato e, come scrive John Berger riprendendo la riflessione di Sontag .In altre parole, se l’oggettività della fotografia è rimasta un’utopia del positivismo del resto, nel corso del capitolo se n’è più volte sottolineata l’intrinseca ambiguità, l’ordine neoliberale la recupera e procede alla sistematica negazione del suo carattere ambiguo per stabilire un discorso visivo oggettivo e incontestabile attraverso il quale costituire una versione di realtà consona agli interessi e necessità della classe al potere. Ma l’utilizzo interessato della fotografia da parte di una classe di quella classe capitalista transnazionale identificata da Harvey di grandi aziende (si pensi alla pubblicità) e colossi dell’informazione non è l’unico problema. Nel ventunesimo secolo, una fotografia che sia diretta a mobilitare le coscienze o ad un qualche tipo di sensibilizzazione deve affrontare ulteriori sfide: tre fattori che, lavorando in sinergia, hanno il potere di minarne il potere politico. Primo, la pervasività della fotografia digitale, nella pubblicità, nei social network, nella comunicazione interpersonale si pensi alle potenzialità di uno smartphone e a quanto l’introduzione di questo “attore” nel mondo digitale abbia influenzato la cultura visiva attraverso, da un lato, l’onnipresenza dell’immagine non solo, ma soprattutto, fotografica e, dall’altro, il suo carattere effimero e svuotato di pregnanza, proprio per il suo essere tanto presente e alla portata di tutti. Risulta quasi ovvio che, nel gorgo di immagini che passano davanti agli occhi dell’osservatore medio occidentale, è la potenzialità semantica della fotografia a perdere forza. Con essa, inevitabilmente, si attenua anche quella politica. Il secondo fattore è costituito dalla tendenza tipica dell’era postmoderna e alla base della logica neoliberale a concentrarsi ossessivamente sull’individualismo: se, come si è visto, l’individuo sta alla base della cultura e dell’ideologia proposta dal neoliberismo, diventa sempre più arduo concepire se stessi come parte di una collettività, o meglio, di una comunità con bisogni, interessi e relazioni comuni. Del resto, una massima di Margaret Thatcher divenuta celebre fu “non esiste la società. Esistono individui, uomini, donne e le loro famiglie”. Partendo da questo presupposto, in una collettività in cui risulta difficile persino creare un senso sociale, costruire una critica o una politica tramite la fotografia sembra un obiettivo irraggiungibile. L’ultimo fattore, nel quale i due precedenti si combinano, è l’ovvio ruolo di internet e dei social media. Internet, ed in particolare i social network tra cui svetta Instagram, è uno dei veicoli grazie ai quali l’immagine è diventata pervasiva. La fotografia, già “democratizzata” di molto nel XX secolo rispetto all’Ottocento, diventa davvero alla portata di chiunque possieda una fotocamera ed una connessione ad Internet, e satura talmente gli occhi di chi osserva da passare quasi inosservata. Inoltre, l’individualismo che già tendeva a stare alla base delle relazioni sociali nella società globalizzata dal neoliberismo si acuisce ancor di più nell’ambito della vita digitale, in cui l’autogratificazione, l’approvazione altrui e la costruzione di legami interpersonali passano attraverso uno schermo. Questi tre elementi sono profondamente interconnessi e portano la fotografia verso un utilizzo puramente personale e narcisistico. Il suo linguaggio tende così a diventare pericolosamente autoreferenziale. A questo punto viene da chiedersi: può la fotografia svolgere una funzione politica in una società in cui ogni “funzione sociale della soggettività”, per usare le parole di John Berger, è stata annichilita? Il rapido sviluppo delle nuove tecnologie non aiuta,in questo modo, la fotografia si trasforma in uno strumento dell’ego, che funziona per farci sentire qualcosa, più precisamente convincerci che stiamo partecipando nel mondo e che vi abbiamo un ruolo ed un’identità insostituibili. Freund scrisse la citazione sopra a metà degli anni ’70, molto prima della rivoluzione digitale che marcò l’avvento di Internet, ma all’inizio dell’era neoliberale, le cui logiche di base iniziano già a palesarsi. Mentre le fotografie sono sempre più onnipresenti ed ognuno può di fatto sentirsi un fotografo, il sovraccarico di informazione visiva è un fatto: abbiamo stabilito con il mondo “un rapporto voyeuristico cronico che livella il significato di tutti gli eventi” , in cui la differenza tra vedere e guardare non esiste più. In quest’ottica, vedere, ad esempio, il reportage di Salgado sul genocidio in Ruanda non è poi così diverso da vedere l’annuncio pubblicitario di un nuovo gusto di Coca-Cola. L’osservatore che si è ormai convertito in un probabilmente acritico consumatore di immagini corre il rischio di cadere nella trappola del vedere senza vedere. Nella società contemporanea, definita da Radich come “the image-saturated postmodern world”, abbiamo tutte le ragioni per preoccuparci dell’eventualità di “vedere talmente tanto da non vedere più”. L’unica via d’uscita – che funziona per ogni tipo di pensiero alternativo nell’era contemporanea è uno sforzo consapevole da parte dell’osservatore: lo sforzo di guardare davvero ed interiorizzare ciò che passa di fronte ai propri occhi, di fermarsi e osservare prima di passare al prossimo post. In sostanza, l’unico modo di rispondere alla tendenza descritta sopra che, in realtà, ricomprende ogni ambito dell’informazione e non solo quello fotografico è estremamente coraggioso e richiede impegno e attenzione: consiste nel pensare in modo critico. Da parte sua, il fotografo gioca un ruolo fondamentale nel dirigere gli sguardi del proprio pubblico. Non necessariamente una fotografia efficace deve generare reazioni violente ed immediate, pubbliche proteste o scioperi; l’effetto politico della fotografia può essere sperimentato ad un livello diverso, meno visibile ma ugualmente rilevante: quello della consapevolezza, dell’informazione, dei modi di interpretare la società che circonda il singolo osservatore. Se con una fotografia è impossibile cambiare la realtà, ciò che resta possibile è interiorizzarla, prenderne atto, farne un memento capace di unire le coscienze e persino di mobilitarle. Lo stesso Salgado ridimensiona le possibilità politiche immediate dei fotografi; quando, durante interviste e dibattiti, gli viene chiesto se sia consapevole del fatto che le sue foto abbiano la fama di aver cambiato il mondo, risponde scettico e fedele alla sua ispirazione politica marxista. Alla luce di ciò, ogni immagine pubblicizzata, nelle fotografie come nei film, lavora indirettamente come strumento politico e qui riemerge la lotta tra discorsi dominanti e critici per lo spazio dell’informazione. Come scrive lo scrittore messicano Carlos Fuentes nel suo romanzo La Frontera de cristal, “todo escrito es político”. Possiamo parafrasare quest’espressione per estenderla non solo al testo scritto, ma anche alle altre rappresentazioni della realtà, di cui fa parte la fotografia. Il fotografo è quindi responsabile della sua decisione di mostrare, o di non mostrare, determinate situazioni, e questo non ha nulla a che vedere con il concetto di “essere militante”. Quest’affermazione sembra essere in netto contrasto con la possibilità di un’efficacia politica per le immagini di Salgado, da Altre Americhe a Migrations e La Mano dell’Uomo, passando per Sahel. Saremo d’accordo con Sontag nel riconoscere che, per ottenere una risonanza, il fotografo deve condividere con il pubblico delle basi comuni, che possono essere identificate nei valori culturali, nel “contesto appropriato di sentimenti e atteggiamenti”, o in una rappresentazione in cui sia fotografo che osservatore possano riconoscere elementi conosciuti, risuonando in quella che Paul Ricoeur definisce “memoria collettiva”. È altrettanto vero, però – e qui dissentiremo dall’affermazione di Sontag – che non è esclusivamente la situazione storica particolare ad essere in grado di stabilire un contatto produttivo con il pubblico. Ad esempio, nelle raccolte di Salgado sono spesso giustapposte fotografie di contesti disparati, e non sempre è presente una contestualizzazione storico-geografica per ognuna di esse. Salgado fa dialogare l’universale ed il particolare, che nella sua opera si compenetrano, attraverso il potere estetico della fotografia. Nei suoi scatti convivono infatti la dimensione locale, ben radicata storicamente e geograficamente eccetto nel caso di Altre Americhe, di cui si dirà, e quella universale, grazie alla dimensione estetica che permette di superare il contingente riconoscendo nel soggetto non un Altro, ma un simile. Questo potere delle immagini di Salgado fa da ponte tra il razionale ovvero ciò che possiamo sapere, ciò che vediamo e sappiamo o supponiamo collegato ad una particolare situazione storico-geografica e l’irrazionale, ovvero la risposta emotiva, quasi istintiva che una fotografia può destare nell’osservatore. Il risultato è una particolare pregnanza e risonanza sia nella critica, sia presso il grande pubblico. Una fotografia politica significativa, quindi, può ancora esistere nella società neoliberale. È necessario uno sforzo concertato, una collaborazione tra fotografo e pubblico ma le immagini hanno ancora il potere di destare attenzione e generare dibattito, e le fotografie di Salgado ne sono una prova. Come lui stesso sostiene, le foto non possono cambiare il mondo, se lo intendiamo come struttura, come sistema che ha impiegato decenni per affermarsi al quale siamo abituati e del quale siamo in larga misura, probabilmente, inconsapevoli. Può però influenzare il pensiero e le convinzioni delle persone, in alcuni casi portando a prese di posizione e cambiamento sociale. L’accostarsi al dolore degli altri in fotografia presenta un’ulteriore problematica. Essa è legata alla domanda che sorge spontanea davanti ad uno scatto che ritrae un essere umano in difficoltà: che diritto ha il fotografo di mostrare questa immagine, che diritto abbiamo noi di guardarla? Nasce così il sospetto che il documentare una tale scena, senza però partecipare al dolore che la caratterizza, faccia del fotografo nient’altro che un voyeur che presto darà l’immagine in pasto ad una folla di altri voyeurs, i quali, non potendo intervenire direttamente sulla causa del dolore rappresentato, si vedranno consegnato un diritto a vedere che non spetta loro, in quanto privo di immediata utilità, e quindi insensato; il fotografo non avrebbe alcun diritto ad accedere a questa dimensione della vita umana, e tantomeno l’avrebbe il grande pubblico. Salgado, quando gli viene chiesto da chi gli provenga l’autorizzazione a scattare in momenti tanto tragici, risponde che un fotografo deve essere in grado di sentire, di percepire quando non è opportuno scattare. Afferma poi di aver più volte rinunciato a fotografare, in situazioni in cui ritrarre la scena avrebbe significato invadere irrispettosamente uno spazio privato. Il fatto di portare agli occhi delle masse scene di difficoltà e disperazione, però, non comporta automaticamente un tale tipo di invasione. Le volte in cui si fotografa, continua Salgado, sono quelle in cui il soggetto autorizza il fotografo a procedere. Citando una metafora che il fotografo brasiliano utilizza spesso, il soggetto “si dà” spontaneamente e volontariamente alla macchina fotografica per mandare al pubblico un messaggio che grazie alla lente viene amplificato. Questa analisi ci è servita a più scopi: a verificare che estetica non significa anestetica, che nonostante le opinioni contrarie la fotografia di Salgado può essere estetizzata e sensibilizzare politicamente lo spettatore, che si deve distinguere la solidarietà dalla compassione e che chi scatta non possiede un titolo speciale di accesso alle vite altrui, ma che la fotografia corretta ed umana dovrebbe essere e nel caso di Salgado lo è il risultato di un processo dialettico tra fotografo e fotografato nel quale chi viene ritratto stringe un “patto silenzioso” con chi lo ritrae: patto in cui non c’è gerarchia, né paternalismo, ma un riconoscimento reciproco e rispetto della propria condizione umana. Questo patto permette a Salgado di operare al di fuori di una logica di utilitarismo propria di una società in cui l’immagine fotografica è un bene e ha un valore capitalizzato; Salgado esce dalla logica del consumismo e dell’ossessione per la produttività e cerca altri mezzi per approcciarsi alle persone e alle problematiche globali. Con un approccio che Audrey Singer definisce sociologico, Salgado spende tempo e mischia la sua esistenza con quella delle persone, instaurando un rapporto che trascende quelle categorie e dicotomie così radicate nel mondo occidentale, quali ricco-povero, bianco-nero, primo mondo-terzo mondo. Da questa vicinanza nascono fotografie nelle quali il dolore degli altri non viene feticizzato o spiato con spirito da voyeur del primo mondo; tutt’altro. Mentre la logica neoliberale si impone anche nell’ambito culturale – o meglio, nel mercato culturale – con i suoi valori di competizione, spersonalizzazione, consumismo, Salgado vi si oppone con decisione: tale opposizione si trova in ogni sua foto, non solo a livello di contenuto che pure è sempre esposizione e denuncia, ma nelle radici stesse dell’immagine, nel modo in cui Salgado la fa nascere. Si passa ora alla presentazione della figura del protagonista di questa tesi: alcune nozioni biografiche ed un breve excursus sul suo percorso professionale sono infatti indispensabili per poter dare un senso ai suoi singoli lavori. Sebastião Salgado nasce nel 1944 ad Aimorés, un piccolo centro agricolo dell’interno del Brasile, nello Stato del Minas Gerais. Cresce nella grande fazenda del padre, allevatore di bestiame; fin dalla prima infanzia Sebastião sviluppa il forte attaccamento alla sua terra (ed alla Terra) che lo accompagnerà per tutta la vita, segnandone anche la visione fotografica. Quasi sempre, nelle sue conferenze intorno al mondo, Salgado racconta nel dettaglio i suoi primi anni in Brasile e la loro importanza per il professionista che è diventato. Nel suo volume autobiografico Dalla mia terra alla Terra, afferma: “qui ho imparato a vedere e ad amare le luci che mi hanno seguito per tutta la vita”. Da Aimorés, Salgado si trasferisce a Vitória, capitale dello Stato di Espírito Santo, per studiare Giurisprudenza; in questa città, molto più grande della piccola Aimorés, osserva da vicino i cambiamenti che si stanno realizzando nel Brasile dei primi anni ’60: da Paese essenzialmente agricolo/semi industriale, stava sviluppando rapidamente un’economia di mercato Vitória era un grande porto commerciale da cui partivano, in particolare, esportazioni di minerali e ferro, ma anche carichi di altri beni come il caffè. Raccontando il suo periodo universitario, Salgado ricorda: Il gruppo con cui vivevo seguiva da vicino l’evoluzione della situazione nel Paese. Vedevamo la gente lasciare le campagne per migrare verso le città. L’industria aveva bisogno di manodopera, quindi intere famiglie partivano. Vedevamo emergere le disuguaglianze sociali, di cui fino a quel momento non mi ero ancora reso conto. Provenivo da un mondo che funzionava al di fuori di ogni sistema di mercato, in cui non c’erano né ricchi, né poveri. Con il sistema industriale, nelle città, la gente che proveniva dalle campagne ha scoperto una vita completamente diversa, e la maggior parte è piombata nella povertà. Il tasso di urbanizzazione è talmente ingente che dal 1944 (anno di nascita di Salgado) al 2013 il Brasile passa da un 92% di popolazione rurale ad un 92% di popolazione urbana. Profondamente colpito da questi sconvolgimenti ed al rapido progresso durante il governo di Juscelino Kubitschek, decide di cambiare facoltà e passare all’ Economia, che gli appare una disciplina più moderna e al passo con i tempi; molto prima di impugnare la sua prima fotocamera, Salgado sviluppa le idee l’interesse per i temi che ne guideranno il lavoro fotografico.
A Vitória, conosce anche l’attuale compagna di vita e di lavoro Lélia Deluiz Wanick, con la quale scopre l’attivismo politico ed inizia a frequentare movimenti di sinistra radicale come l’Azione popolare. Dopo il colpo di Stato ad opera del General Castelo Branco (1964), che prese il posto del Presidente in carica João Goulart, l’impegno politico di entrambi si radicalizza ulteriormente: partecipano a movimenti di ispirazione marxista, orientati alla lotta armata194. Nel 1967, si spostano a São Paulo, dove Sebastião completa un master. La loro attività di dissidenza politica, però, li costringe ad espatriare, così, nell’agosto 1969, Lélia e Sebastião raggiungono Parigi: privati del passaporto, non torneranno a casa per anni. Sebastião rientrerà in Brasile nel 1979 (in occasione del reportage per Altre Americhe) grazie ad un’amnistia, nonostante la fine della dittatura giunga solo nel 1985. È appunto negli ultimi anni di esilio che Salgado inizia il progetto Altre Americhe, cominciando a scattare nei Paesi intorno al Brasile, per poi rientrarvi non appena possibile per scattare anche lì. Durante la residenza in Francia, Salgado prosegue gli studi con un Dottorato di ricerca in Economia, Lélia, invece, intraprende un percorso universitario in Architettura. Sebastião si avvicina alla fotografia quasi per caso; inizia ad armeggiare incuriosito da una Pentax Asahi Spotmatic 2 acquistata da Lélia per esercitarsi nella fotografia architettonica, scoprendosene enormemente affascinato. Nel frattempo, consegue una posizione di spicco come funzionario internazionale presso l’Organizzazione Internazionale del Caffè. Si trasferisce quindi a Londra e partecipa a varie missioni e progetti di sviluppo, principalmente in Africa, luogo che resterà iconico e una referenza onnipresente nel suo lavoro fotografico. Durante questi anni, Salgado non smette di fotografare e finisce per realizzare che questa passione lo arricchisce molto di più del lavoro presso l’Organizzazione. Decide quindi di abbandonare la precedente carriera per dedicarsi totalmente a fare della fotografia la propria professione. Nel 1973, inizia per lui una nuova fase professionale e personale: nasce il suo primo figlio Juliano e la famiglia Salgado si lascia alle spalle la casa di Londra, l’Organizzazione e l’ottimo stipendio di Sebastião per reinventarsi in un ambito lavorativo completamente nuovo. È dello stesso anno il primo reportage, realizzato in Africa, continente che Salgado conosce bene grazie all’esperienza presso le coltivazioni di caffè locali. Con l’aiuto della moglie, che si occupa della stampa, dell’editing e della pubblicizzazione delle fotografie, riesce ad entrare nell’agenzia Gamma nel 1975. Nel 1979 (anno di nascita del secondo figlio Rodrigo, affetto dalla sindrome di Down), Salgado invia un portfolio alla Magnum. L’agenzia si dimostra interessata ed inizia un percorso di collaborazione che durerà 15 anni. In Magnum, ambiente stimolante ma decisamente competitivo, il fotografo brasiliano realizza reportage di fotogiornalismo, documentando, tra l’altro, anche il tentato assassinio di Ronald Reagan nel 1981 a Washington DC. Temendo di acquisire notorietà unicamente per quel lavoro, però, Salgado decide di permettere la pubblicazione delle fotografie solo per un periodo di tempo limitato, per poi ritirarle per sempre dalla circolazione: non intende diventare famoso come “il fotoreporter dell’attentato al Presidente” . Magnum è per lui un ambiente estremamente formativo, nel quale avrà occasione di lavorare al fianco di fotografi del calibro di Henri CartierBresson. Ciononostante, finirà per abbandonare l’agenzia nel 1994, a causa della sua eccessiva rigidità e delle spietate rivalità interne. Terminata questa esperienza, Sebastião si trova a dover organizzare e gestire da solo il proprio lavoro: insieme a Lélia, fonda Amazonas Images, un’agenzia “atipica” per dimensione (solo otto dipendenti) e modalità di lavoro (progetti a lunga durata, numerose collaborazioni con ONG, interesse per grandi temi piuttosto che singoli eventi isolati). Con Amazonas, Salgado pubblica i suoi lavori più recenti, ma anche le raccolte di reportage risalenti agli anni ’80 e ’90. Nel corso del suo lavoro con Magnum, Salgado pubblica infatti Altre Americhe, Sahel. La fine della strada, e Les cheminots, mentre La mano dell’uomo, Terra, In cammino, Children, Un incerto stato di grazia, Genesi ed altre raccolte sono stati pubblicati dopo la fondazione di Amazonas: una produzione mastodontica, nella quale però è sempre e comunque presente la preoccupazione per le tematiche che avevano toccato il giovane economista ai tempi dell’università: disuguaglianze, povertà, diritti umani, lavoro, rapporto umano con la terra e la natura in generale. Riguardo alle tematiche dei suoi lavori, Salgado ne spiega l’origine quasi esse fossero una conseguenza inevitabile della sua esperienza personale accademica e politica: “un giorno, senza sapere come né perché, mi sono ritrovato ad occuparmi di temi sociali. Era abbastanza ovvio. Avevo fatto parte di quella generazione che all’inizio della grande industrializzazione si era interessata molto ai problemi sociali”. Nonostante gran parte del lavoro di Salgado si svolga in solitudine, più volte egli rimarca il fatto che il risultato finale sia possibile solo grazie al contributo altrui, e quindi frutto di una grande rete di collaborazioni: la prima e principale assistente è senza dubbio la moglie, la quale si occupa da decenni del destino delle immagini una volta scattate. Contatti con i partner per stampa e finanziamenti, editing, impaginazione sono sempre stati compiti svolti principalmente da Lélia. Anche durante i suoi viaggi, sul campo, Salgado precisa di non agire mai completamente da solo. L’azione di istituzioni quali Medici senza Frontiere (con cui Salgado realizza il progetto fotografico La fine della Polio), UNHCR e UNICEF (per In Cammino e Children) e OIM (grazie al cui supporto nascono Sahel e In cammino) è stata fondamentale per la riuscita di reportage in ambienti che necessitavano di un solido appoggio istituzionale non solo per la diffusione, ma anche per la riuscita stessa delle immagini. Dopo aver scattato per decenni con l’uomo al centro del proprio lavoro ed aver speso tutto se stesso nel lavoro sulle migrazioni (In cammino, il cui titolo inglese è Migrations. Humanity in transition), Salgado realizza di non essere più in grado di documentare la guerra, la morte, la violenza, l’estrema povertà. In particolare, fotografare il genocidio in Ruanda gli causa una reazione tale da accusare seri sintomi fisic. Alla fine anni ’90, il fotografo ha completamente perduto la fiducia verso il suo soggetto di sempre, il genere umano. Necessita di un allontanamento dagli orrori che ha documentato. È in questo contesto che nasce l’Instituto Terra, fondazione per l’ambiente creata dai coniugi Salgado. Il progetto nasce nella Valle del Rio Doce, in Brasile, nella tenuta in cui Sebastião era cresciuto e che negli anni era andata distruggendosi, a causa della deviazione del fiume per irrigare aree coltivate e dell’ingente deforestazione. L’idea dell’Instituto viene lanciata da Lélia, che propone a Sebastião di ripiantare tutto, per restituire alla Terra ciò che l’uomo le aveva tolto. Lentamente, un progetto che inizialmente era parso utopico si traduce in realtà: con un impegno costante, l’aiuto di un esperto ingegnere e fondi da parte di enti di vario genere e provenienza, la tenuta della famiglia Salgado riprende vita ed il progetto di piantare 2 milioni di alberi ha successo. L’area è oggi tutelata dal governo e l’Instituto continua, la sua opera di riqualificazione ambientale. In quegli anni, Salgado sperimenta un cambio di rotta nel suo percorso professionale: desidera avvicinarsi a ciò che del pianeta Terra è rimasto vivo e intatto, non corrotto da uno schema di sviluppo malato e compulsivo. Comincia dunque a pianificare insieme alla moglie un nuovo ambizioso progetto: a partire dal 2003 e fino al 2011, intraprende un’ennesima, lunga serie di viaggi, probabilmente l’ultima data la sua non più giovane età, per recuperare in una collezione di immagini le aree incontaminate del nostro pianeta. Spazia dalla Siberia alle Galapagos, dall’Amazzonia alla Papua Nuova Guinea. Fotografa paesaggi e animali, gruppi di indigeni e iceberg, per ricordare ai suoi osservatori che il 46% degli ecosistemi della Terra è ancora vivo e protetto. È così che nasce Genesi, definita dall’autore come “una lettera d’amore alla Terra” quest’opera è la prova della centralità della collettività e di una visione, per così dire, olistica da parte dell’autore: “We are entirely implicated in their lives as well as in our lives” afferma, e continua “There really is no ‘other’. It’s us” . L’attivismo di Salgado si concretizza anche nella sua costante partecipazione a conferenze, workshop e seminari in varie istituzioni ed università: la sua opera non viene semplicemente presentata, ma contestualizzata e discussa per permetterne una consapevole ricezione da parte del grande pubblico. Più volte lo si sente sostenere che per lui la fotografia, oltre che un inevitabile modo di vita, è un potente linguaggio capace di travalicare le barriere geografiche, linguistiche e culturali per portare a tutti, indistintamente, un messaggio condiviso, d’accordo con la tesi discussa in precedenza, che vede nella fotografia un essere “lingua”, pur senza un carattere verbale. A livello tecnico, una dimensione non fondamentale per il presente lavoro, ma non per questo trascurabile, è rilevante la scelta di Salgado di scattare in bianco e nero: nonostante in passato egli abbia sporadicamente lavorato a colori, esprime la sua preferenza per il bianco e nero per motivi sia operativi che espressivi: afferma, infatti, che il bianco e nero gli permette di concentrarsi “sull’intensità del soggetto” senza il colore che egli definisce un disturbo. Salgado fotografo è dedicata al carattere “ibrido” di quest’ultimo: infatti, pur essendo originario di un Paese della periferia del mondo, egli è entrato a far parte del “centro” molti anni fa, trasferendosi in Francia. Acquisendo elementi culturali propri di entrambi i mondi, Salgado si pone al confine tra due modi di osservare il mondo, il che è particolarmente rilevante se si considera che la stragrande maggioranza delle sue opere sono state realizzate scattando la periferia e non il centro. Di seguito si vuole indagare quest’attenzione verso determinati temi, riconducendola all’importanza della posizione di Salgado come membro di una comunità subalterna, ovvero quella del Brasile in via di sviluppo. È infatti vero che il fotografo occupa oggi una posizione, per citare Santiago, “in between”, in quanto parla dai margini e parla dei margini collocandosi in un Paese del Primo Mondo (la Francia, dove oggi risiede). Le sue radici, tuttavia, gli trasmettono un retaggio culturale ancora presente nonostante la decennale residenza in Europa: secondo Salgado, esiste un modo latinoamericano di vedere il mondo (latinoamericano e non sudamericano, non a caso, direbbe Santiago) . Salgado, con il suo collocarsi fra due mondi, deve confrontarsi con una “dialettica fra il non essere e l’essere altro” come del resto devono fare anche le diverse culture ibride dell’America Latina; private della loro cultura originale, la cultura, o meglio le culture, sudamericane, possono riappropriarsi di sé, principalmente attraverso tre strade: la prima è l’indigenismo, ovvero il dare risalto alla componente indigena (o nera, nelle aree della schiavitù africana) della società per recuperare le identità che fanno parte del presente, ma sono state in passato rinnegate e marginalizzate; la seconda è la trasculturazione, o ibridazione, che consiste nel fare propri elementi culturali dell’una e dell’altra cultura (la dominante e la subalterna) per creare un’identità nuova che tragga forza dal proprio essere innegabilmente ibrida; da ultimo, la parodia, o pastiche, processo utilizzato soprattutto in letteratura che consiste nell’appropriarsi in modo nuovo – non necessariamente ironico – dei caratteri della cultura dominante per farne qualcosa di nuovo (sia esso uno stile letterario o architettonico, una danza o una composizione poetica). Ciò è particolarmente visibile nelle opere ambientate nella sua terra di origine, Altre Americhe e Terra, discusse nel prossimo capitolo. Per ora basti una breve discussione che aiuti a collocare il fotografo nello spazio tra subalternità della periferia e condizione privilegiata del centro: Salgado si trova in una posizione particolare in quanto si muove dall’interno del centro, ma con gli occhi della periferia. È ancora più cruciale, allora, il suo modo di osservare “se stesso come altro”: se stesso, come sudamericano che ritorna alle proprie origini e ritrae il suo mondo, come altro non solo perché fotografare significa, intrinsecamente, creare una separazione fra autore e soggetto fotografato, ma anche e soprattutto perché, come dice il titolo stesso, le Americhe che sono protagoniste di questi reportages sono altre, separate-segregate-diverseesterne al centro. Egli si trova, pur senza rivendicarlo e quindi, probabilmente, in modo inconscio, a servirsi di tutte e tre le tecniche di riappropriazione culturale: l’indigenismo, attraverso la rappresentazione di comunità indigene, in contrasto con ciò che di più occidentale e globalizzato vi è in America “Latina”, insomma, contro la “Latinità”. Questo barocco, che in architettura s’ispira allo stile importato dai coloni portoghesi rimaneggiandolo, mescolandolo con le particolarità locali e creando edifici unici nel loro genere (si veda ad esempio la città di Recife), si traduce in fotografia nell’estetica di Salgado, che utilizza la luce e la composizione in modi spesso maestosi, roboanti, eccessivi, evocanti il mistico e il magico, barocchi, appunto. Il fotografo porta con sé non solo i suoi paesaggi del Brasile, ma anche la storia e la cultura, che riprende e fa sue per riappropriarsi del suo essere brasiliano. L’ultima tecnica di riappropriazione culturale adottata da Salgado è la trasculturazione ,con queste tre “tecniche”, Salgado entra nelle profondità del suo essere latinoamericano, e ciò gli permette di “parlare da subalterno” pur situandosi nel mondo occidentale. Non è unicamente negli aspetti culturali che si ritrova in Salgado la dicotomia tra centro e periferia, tra subalterno e dominante. Anche per quanto riguarda il lato economico- commerciale del suo lavoro, infatti, egli si colloca tra due sistemi divergenti: l’uno implicato dalla circolazione delle sue fotografie nel mercato internazionale, nel contesto prevalente della globalizzazione neoliberale; l’altro, espressione di una critica a questo stesso sistema, costituito dal tentativo di seguire un agire professionale consapevole e alternativo, che quando possibile non si conformi agli standard del mercato contemporaneo dell’immagine fotografica. Insomma, la dialettica tra centro e periferia si esplica non solo nel contenuto e nella forma dell’immagine fotografica, ma anche nei modi in cui essa viene prodotta, diffusa, commercializzata. Riprenderemo ora le criticità proprie dell’immagine fotografica inserita all’interno del sistema economico neoliberale, concentrandoci sull’atteggiamento di Salgado rispetto ad esse. Innanzitutto, si è detto che il fotografo parla dall’interno del sistema che egli stesso critica: come si può criticare il neoliberismo parlando dall’interno delle sue strutture? In risposta a questa problematica questione, Salgado si riferisce alla sua collaborazione con il club Rotary International per il progetto The end of Polio, nonostante un iniziale scetticismo; egli afferma che il fatto che il mercato globale costituisca il veicolo delle sue opere è per lui secondario: se il suo scopo di creare riflessione e dibattito per una possibile alternativa viene comunque raggiunto, sostiene, “we can bring discussion in any kind of structure” . L’importante, continua il fotografo, è prendere l’iniziativa, fare: anche dall’interno delle strutture e dei sistemi dominanti attuali si possono “correggere le traiettorie” e prendere in mano le proprie responsabilità per la situazione globale attuale. L’approccio di Salgado è quindi estremamente pragmatico, e si basa su una critica il cui corollario pratico è un’azione che mira all’ottenimento di risultati concreti piuttosto che ad una lotta meramente ideologica. Infine possiamo dire che le sue fotografie sono quindi, decisamente, uno strumento di critica sociale, il cui obiettivo è proprio rendere possibile la nascita di un pensiero alternativo, su cui si possa fondare un agire collettivo consapevole e diverso. Il percorso espositivo propone un ampio corredo di testi dedicati al tema dell’acqua: l’Istituto Terra fondato dai Salgado per la riforestazione della Foresta Atlantica, il Manifesto dell’acqua per il XXI secolo, la Giornata Mondiale dell’Acqua 2024, un resoconto dell’Unesco, un testo a firma di Lélia e Sebastião Salgado e altri. Il progetto di mostra nasce dalla riflessione dell’autore sullo stato del Pianeta e in particolare dell’Acqua, l’elemento che lo rende unico nell’universo, tema al centro di un cambiamento epocale che Fondazione Palazzo Ducale accoglie con grande senso di responsabilità. Il riscaldamento climatico e l’innalzamento del livello degli oceani, la desertificazione e le alluvioni avranno conseguenze devastanti per l’ambiente e per milioni di persone che saranno costrette a cambiare la loro vita. La coabitazione armoniosa con l’elemento acquatico e la sua protezione sono sempre più indispensabili alla nostra sopravvivenza e alla salvaguardia della biodiversità nel mondo. Con questi presupposti Sebastião Salgado ha selezionato alcune significative immagini per rappresentare il bisogno, la bellezza, la forza e i misteri dell’acqua, elemento fondamentale e prezioso della Terra. Le fotografie – stampate in bianco e nero su grandi formati – saranno allestite in un suggestivo percorso espositivo. Le foto mostrano il rapporto tra la natura e la vita degli uomini, mettendo in evidenza il legame tra la crisi ambientale e le disuguaglianze sociali. Oltre ad essere un grande avvenimento artistico, la mostra è un’occasione straordinaria per approfondire i temi ambientali di maggiore attualità, ai quali verranno dedicate proposte didattiche per le scuole e per le famiglie, oltre a una serie di incontri internazionali sui temi dell’Acqua e dell’Antropocene a cura di Telmo Pievani e di Andrea Rinaldo, vincitore dello Stockholm Water Prize 2023, considerato “il premio Nobel dell’acqua”. Infine come afferma lo stesso Sebastião Salgado : I racconti del mito e l’immaginario poetico associano spesso l’acqua al ciclo della vita umana. L’acqua è il liquido più prezioso sulla Terra, indispensabile per la nostra esistenza. L’idea di questa mostra è nata da una riflessione sullo stato del nostro pianeta. Il riscaldamento climatico è diventato una minaccia per l’umanità e per la natura. Lo scioglimento dei ghiacciai e la dilatazione termica delle acque marine, dovuta alle temperature elevate, provocano inesorabilmente un innalzamento del livello degli oceani, con conseguenze devastatrici per le popolazioni costiere e per l’ambiente. La coabitazione armoniosa con l’elemento acquatico e la sua protezione sono sempre più necessarie per la nostra sopravvivenza e per preservare la biodiversità nel mondo. Le foreste producono il fenomeno della evaporazione, che forma veri e propri “fiumi aerei” che trasportano acqua dolce a diverse latitudini, riaffermando l’urgenza della loro protezione. Gli oceani, i fiumi, i ruscelli, i laghi, le cascate, la pioggia sono una parte molto importante del pianeta. L’acqua è vitale per il corpo umano, per le piante di cui ci nutriamo, per i biomi e per le specie animali. Tentare di rappresentare con immagini il bisogno, la bellezza, la forza e il mistero dell’acqua è un’impresa difficile, con il rischio di cadere nel luogo comune. In questa mostra l’acqua appare in tutte le sue forme, la purezza e la intensità, l’abbondanza e la scarsità, è colta nella sua solitudine o nelle varie interazioni con l’uomo, con la fauna e la flora, in una selezione fotografica della sua poesia e del suo carattere indispensabile. Come ha scritto il pensatore francese Gaston Bachelard (1884-1962) nell’opera L’acqua e i sogni: «Una goccia d’acqua potente è sufficiente per creare un mondo e per dissolvere la notte. Per sognare la potenza è sufficiente una goccia immaginata in profondità. L’acqua così potenziata è un germe che dà alla vita uno slancio inesauribile»
Biografia Sebastiao Salgado
Nasce in Brasile nel 1944. Si forma come economista prima in Brasile poi in Francia. Agli inizi degli anni ‘70, mentre lavorava per l’ Organizzazione Mondiale del Caffe’, inizia ad interessarsi alla fotografia. Da passione amatoriale, in breve tempo la fotografia diventa una vocazione e un progetto di vita. Salgado trova subito una nicchia di cui diventa protagonista, documentando come i cambiamenti ambientali, economici e politici condizionano la vita dell’essere umano. Ha lavorato su molti dei principali conflitti degli ultimi 25 anni, ma la sua opera piu’ famosa rimane probabilemente “ La mano dell’uomo ”, un colossale progetto sul’uomo e sul lavoro, realizzato in 6 anni attraverso 26 paesi, una delle piu’ importanti opere fotografiche del dopoguerra. A meta’ degli anni ‘90, profondamente toccato dalla crudezza delle scene viste durante il genocidio in Ruanda, Salgado decide di dedicarsi ad un progetto ambientale presso l’ hacienda di famiglia in Brasile. Contemporaneamente , sposta la sua attenzione di fotografo sulle tematiche ambientali, ed inizia a lavorare al progetto “Genesis” che lo portera’ ad abbandonare le sue caratteristiche di ritrattista, ed a realizzare un colossale omaggio al Pianeta, rappresentando animali e paesaggi non ancora contaminati dal progresso umano. Questa trasfortmazione nella sua carriera, e’ raccontata splendidamente nel film-documentario “ Il sale della Terra”, di Wim Wenders.
Palazzo Ducale di Genova
Sebastião Salgado Aqua Mater
dal 22 Marzo 2024 al 14 Luglio 2024
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Crediti Fotografici: Fotografia di ©Sebastião Salgado
Vietnam del sud, 1995
La spiaggia di Vũng Tau, un tempo chiamata Cap Saint-Jacques, è il porto peschereccio e la stazione balneare più vicina alla città di Ho Chi Minh. Da questo sito una gran parte dei boat people ha lasciato il Vietnam alla ricerca di una vita migliore
Papua Occidentale, Indonesia, 2010
Le donne Asmat pescano i gamberi. I fiumi sono ricchi anche di granchi, aragoste e pesci. Tribù di Irian Jaya.
Zambia, 2008
Le cascate Victoria viste dallo Zambia.