Uno dei più grandi Fotografi del Novecento
Giovanni Cardone
Fino al 13 Ottobre 2024 si potrà ammirare al Museo Diocesano di Milano una retrospettiva dedicata a Robert Capa – Robert Capa. L’Opera 1932-1954 a cura Gabriel Bauret. L’esposizione è patrocinata da Regione Lombardia e dal Comune di Milano, è promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in collaborazione con Magnum e prodotta da Silvana Editoriale. La mostra composta da 300 opere, selezionate dagli archivi dell’Agenzia Magnum Photos, che vuole rivelare il temperamento e le sfaccettature di un personaggio passionale e sfuggente, insaziabile e forse mai pienamente soddisfatto, che non esitava a rischiare la vita per i suoi reportage. Di lui così scrisse Henri Cartier-Bresson: “Per me, Capa indossava l’abito di luce di un grande torero, ma non uccideva; da bravo giocatore, combatteva generosamente per se stesso e per gli altri in un turbine. La sorte ha voluto che fosse colpito all’apice della sua gloria”. La rassegna si svolge cronologicamente fornendo uno sguardo dettagliato sul percorso artistico e professionale di uno dei fotografi più influenti del ventesimo secolo, esplorando i suoi scatti più iconici, e al contempo delineando il metodo di lavoro che Capa utilizzava, dal quale trapela la complicità e l’empatia che il fotografo riservava ai soggetti ritratti, soldati ma anche civili, sui terreni di scontro in cui ha maggiormente operato. Nell’intento del curatore, il progetto vuole porre l’accento sulla dimensione umana di Robert Capa,sulle altre angolazioni verso cui dirige il suo obiettivo: le popolazioni vittime dei conflitti, i bambini, le donne. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Robert Capa e del fotogiornalismo di Guerra che è divenuta convegno interdisciplinare e seminario universitario. Non possiamo dare inizio ad una discussione sul fotogiornalismo e l’etica dell’immagine ad esso connessa, se non facciamo innanzitutto una premessa riguardo ciò che è alla base del processo di rappresentazione della realtà attraverso le immagini. Il presupposto di tale riproduzione è costituito ovviamente dalla fotografia. L’etimologia della parola fotografia deriva dalla lingua greca; due parole: φως (phos) e γραφίς (graphis) riassumono letteralmente la funzione di questa pratica artistica, ovvero scrivere (grafia) con la luce (fotos). L’invenzione della fotografia fu incoraggiata da diversi fattori, alcuni di carattere storico e sociale, altri più prettamente tecnici. Il primo di questi fu la “memoria dello sguardo”, che si era radicata nella coscienza delle persone di pari passo con il linguaggio. Italo Zannier scrive a tal proposito che: “La memoria dell’uomo ha sempre cercato garanzie nei segni, sonori tattili grafici, promuovendo una sequenza di processi, che hanno impegnato unitariamente l’evolversi della nostra cultura per quanto riguarda l’immagine, si è passati a poco a poco, dai disegni delle caverne sino alla fotografia, una tecnica meccanica che realizza immagini talmente ricche di informazioni da costituire una seconda realtà.” Si ritiene che i primi studi su tale fenomeno vennero condotti addirittura da Aristotele, il quale osservò che la luce, passando attraverso un piccolissimo foro, proiettava un’immagine circolare. Fu però lo studioso arabo Alhazen Ibn Al-Haitha che a ridosso dell’anno Mille descrisse questo fenomeno ottico, assegnandogli il nome di camera obscura. Da quel momento, successive implementazioni tecniche, quali l’applicazione di lenti convesse e dispositivi per ridurre le aberrazioni, consentirono di ottenere una migliore qualità e definizione dell’immagine riflessa. Il percorso che portava all’invenzione della fotografia era, però, ancora lungo. Un’accelerazione di questo processo avvenne solo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, e coincise con un fattore sociale decisivo: l’ascesa della nuova borghesia.
Far parte della classe borghese significava anche riprendere tradizioni, usi e stili di vita dell’aristocrazia. Fra questi, la consuetudine del ritratto di famiglia, un vero e proprio status symbol. Gli appartenenti alla nuova classe sociale però, a differenza dei nobili, si caratterizzano per la parsimonia nelle proprie scelte, e quindi anche le opere figurative dovranno essere a buon mercato e facilmente riproducibili per una più ampia diffusione. Parallelamente a questo fenomeno aumenta, anche in campo editoriale, la richiesta di libri e periodici illustrati . Il passo fondamentale da compiere, perché si potesse avviare e diffondere la pratica fotografica, restava la combinazione dei fenomeni ottici già scoperti e studiati fino a quel momento, con particolari fenomeni chimici che consentissero alle immagini di restare impresse su un supporto materiale. La pratica di raccontare delle storie giornalistiche attraverso le fotografie fu resa possibile dalle innovazioni tecniche nel campo della fotografia e della stampa avvenute alla fine del XIX secolo, per la precisione fra il 1880 e il 1897. Mentre eventi di rilevanza giornalistica cominciarono ad essere fotografati già intorno al 1850, i processi di stampa a partire dalle incisioni, furono possibili solo negli ultimi due decenni del secolo. Prima di allora era possibile soltanto pubblicare delle litografie derivate dalle foto, in quanto, quest’ultime, non possono ancora essere stampate sulla carta insieme alle righe di piombo. La Guerra di Crimea, combattuta dal 1853 al 1856, è stato il primo evento di una certa rilevanza storica (e giornalistica) del quale conserviamo una testimonianza fotografica, documentazione che dobbiamo a Carol Szathmari, il primo fotogiornalista della storia. Purtroppo sono solo poche, fra quelle scattate, le immagini sopravvissute fino a noi. Le immagini di William Simpson dell’«Illustrated London News» e le foto di Roger Fenton, furono pubblicate come incisioni. Allo stesso modo, le foto della Guerra Civile Americana, scattate da Mathew Brady, furono incise prima della loro pubblicazione sull’«Harper’s Weekly». Il pubblico aveva però voglia di rappresentazioni che fossero più realistiche di quelle presenti sugli articoli dei giornali. Così, era pratica comune che le fotografie più interessanti venissero esposte in gallerie fotografiche, oppure riprodotte in un limitato numero di copie. La prima foto giornalistica fu pubblicata il 4 Marzo 1880, sul giornale newyorkese «The Daily Graphic». Tecnicamente si trattava di una riproduzione in mezzi toni (invece che di una xilografia come era stato fatto fino ad allora). «Negli ultimi anni del secolo scorso iniziava così finalmente a svilupparsi quello che è stato il più importante mass medium contemporaneo, prima dell’avvento e della diffusione pubblica della televisione: il fotogiornalismo» . Furono anni che videro la realizzazione di numerose innovazioni. In questa fase, le prime lampade al magnesio permettevano di generare un forte lampo di luce che metteva gli operatori nelle condizioni di poter fotografare anche in interni. Ad utilizzarle, fra i primi importanti fotogiornalisti, spiccava Jacob Riis, reso famoso per il suo bel lavoro sugli slums newyorkesi, intitolato How the Other Half Lives (Come vive l’altra metà della città), con i suoi scritti e le sue immagini, che vide la luce nel 1890. Sfortunatamente al momento della pubblicazione le tecniche di riproduzione tipografica delle fotografie lasciavano ancora molto a desiderare e quindi, delle treantacinque immagini presentate solo diciassette furono stampate a mezzi toni peraltro di qualità assai scadente, mentre le altre vennero riprodotte con la tecnica del disegno e dell’incisione, perdendo così quasi completamente tutti quegli elementi di immediatezza e di aderenza alla realtà che le caratterizzavano all’origine . Susan Sontag sottolinea che «la fotografia, intesa come documentazione sociale, era uno strumento di quell’atteggiamento essenzialmente borghese, insieme missionario e soltanto tollerante, curioso e indifferente, che va sotto il nome di umanesimo, e che vedeva negli slum il più affascinante degli ambienti». Solo nel 1897 fu possibile riprodurre le fotografie con la tecnica dei mezzi toni nel processo di stampa veloce dei giornali, siano essi periodici o quotidiani. In ogni caso, la velocità con la quale giungevano le notizie scritte in redazione, era decisamente superiore rispetto allo sviluppo e alla stampa delle fotografie, che quindi non potevano essere presenti sul giornale al momento della pubblicazione della storia. C’era sempre un margine di alcuni giorni fra il primo lancio della notizia e la pubblicazione della foto che la accompagnava. Nonostante fossero state avviate tutte queste innovazioni, rimasero altrettanto numerose le limitazioni tecniche, ed infatti molte delle storie presenti sui giornali sensazionalistici dell’epoca, furono presentate attraverso disegni ed incisioni. Eravamo comunque in quella fase, molto importante per lo sviluppo del giornalismo moderno, inaugurata da Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst il New Journalism e la Yellow Press che diede tendenzialmente maggiore spazio alle immagini e alla cronaca cittadina.
Nel 1921, per la prima volta, la telefoto rese possibile la trasmissione di immagini alla stessa velocità con cui viaggiavano le notizie. Tuttavia, servirono il lancio della prima fotocamera “commerciale” Leica con formato 35mm nel 1925, e le prime lampade flash fra il 1927 ed il 1930, affinché fossero presenti tutti gli elementi necessari per poterci considerare pienamente nell’“età d’oro” del fotogiornalismo. Da quel momento il termine fotogiornalismo si è designato come un genere a sé, caratterizzato e fortemente distinto nell’ambito della storia della fotografia. Un settore indipendente entro i propri confini «quasi un continente, con un fronte ideologico, al quale si opporrebbe quello degli artisti, anzi dei cosiddetti fotografi-artisti, con le loro estetiche e filosofie, che ai fotogiornalisti sembrano perlopiù manie, velleità, inutili o eccessive ambizioni». Il fotogiornalismo acquista la sua identità a partire dagli anni Venti del Novecento sebbene, come già accennato, fosse il periodo a cavallo fra il Diciannovesimo ed il Ventesimo secolo ad aver creato le condizioni per lo sviluppo di questo nuovo genere nel sistema dell’informazione. Le innovazioni tecnologiche ed un clima socio-culturale favorevole sono stati i genitori di tale nuovo approccio, per il momento ancora embrionale, al mondo della notizia. Per quanto la fotografia avesse ormai piena legittimità nella società di metà Ottocento, ad essa non era ancora riconosciuta la capacità di raccontare le notizie allo stesso modo delle parole, di conseguenza i quotidiani e i periodici che venivano sfogliati dagli stessi soggetti immortalati nei ritratti di famiglia o nelle più diffuse e popolari carte de visite facevano un utilizzo del tutto limitato di immagini sulle loro pagine. Le poche volte che comparivano non servivano ad altro che da contorno al testo, avevano, infatti, solo carattere decorativo. Il giornalismo di fine Ottocento, però, fu radicalmente reinterpretato grazie alle innovazioni tecniche, e ad un nuovo approccio socio-culturale. Questo progressivo cambiamento portò all’affermazione della stampa illustrata, e alla successiva comparsa delle fotografie sui giornali. Inizialmente, la stampa venne arricchita solo di disegni e xilografie, per l’avvento delle immagini fotografiche si dovette attendere il perfezionamento delle nuove procedure di stampa. Prima del 1840, solo alcuni settimanali o mensili come l’«Observer» e il «Weekly Chronicle» in Gran Bretagna riproducono, piuttosto raramente, qualche xilografia. I quotidiani non sono quasi mai illustrati. Negli anni 1840 si assisteva alla prima comparsa in massa di immagini sulla stampa. Nello stesso momento in cui il dagherrotipo si diffonde trionfalmente nel mondo, vedono la luce molte riviste popolari, nelle quali l’impressione delle incisioni viene fatta su legno, dai disegni originali. La nascita del primo periodico illustrato è datata 1842, si tratta del «The Illustrated London News», che nasce nella capitale britannica ad opera di Herbert Ingram. Un nuovo tipo di concezione della notizia, un prodotto editoriale che avrebbe dovuto offrire ai lettori un «resoconto continuo degli avvenimenti mondiali importanti, dei progressi sociali e della vita politica, per mezzo di immagini costose, varie e realistiche» . La pubblicazione illustrata riscosse un enorme successo, e le vendite crebbero vertiginosamente. Fra il 1855 e il 1860 la sua tiratura passa da 200.000 a 300.000 copie. I buoni risultati raggiunti consentirono all’editore di arricchire l’offerta del giornale ampliando il numero dei collaboratori, giornalisti e disegnatori, che furono inviati a testimoniare sia le vicende che si svolgevano in importanti teatri di guerra (guerra di Crimea, guerra franco-tedesca, Comune di Parigi) che gli eventi di grande rilevanza economica, storica, sociale, politica e culturale (funerali di stato, efferati omicidi, ecc). Con la fondazione a Londra, nel 1869, del «Graphic», la rivista di Ingram deve fare i conti con un serio concorrente. Questo nuovo prodotto editoriale si consolida in tutta Europa e si assiste alla nascita di numerose testate a tema, come le francesi «Le Monde Illustré» e «L’Illustration» (Parigi) e la tedesca «Illustrirte Zeitung» (nata nel 1846, da non confondere con la «Arbeiter Illustrierte Zeitung – AIZ», periodico del partito comunista tedesco stampato dal 1921 al 1938). In Italia nel 1847 nacque «Il Mondo Illustrato» (Torino) che rappresentava il primo giornale italiano di grande formato, illustrato con incisioni in legno; esso avrà però vita breve in quanto chiuderà già alla fine del 1849. A Milano nel 1864, uscirono sia «L’Illustrazione Italiana» (editore Cima) che «L’Illustrazione Universale» (editore Sonzogno). La prima chiuse quasi subito, in quanto utilizzava un tipo di incisione di lenta lavorazione e tiratura limitata; anche la seconda non ebbe vita facile in quanto non disponeva di abili incisori. Solo «L’Illustrazione Italiana» (Milano), nata nel 1875 su iniziativa di Emilio Treves e con la collaborazione di una fitta rete di laboratori di incisori, ebbe la fortuna di essere pubblicata per diversi decenni. Nacquero e si diffusero riviste illustrate anche aldilà dei confini del Vecchio Continente, si tratta di «Harper’s Weekly» e «Frank Leslie’s Illustrated Newspaper» (New York), «Revista Universal» (Città del Messico), «A Illustraçao» (Rio de Janeiro), fino all’australiana «Illustrated Australian News» (Melbourne).
Tutte pubblicazioni basate sulla presenza delle immagini, che facevano di queste la propria peculiarità nei confronti degli altri giornali e che senza dubbio rappresentano le antesignane dei fotogiornali. La svolta sarebbe avvenuta di lì a poco. Nel 1869 il «Canadian Illustrated News» pubblicò la prima illustrazione ricavata direttamente da una fotografia, mentre, a partire dagli anni 1880, con l’invenzione della lastra a mezzatinta fu possibile, finalmente, stampare le fotografie sui giornali utilizzando la stessa macchina necessaria per i caratteri tipografici. La fotografia comincia quindi a fare la propria comparsa sui giornali e, rispetto alle illustrazioni, consente un notevole risparmio di tempo. In quegli anni i disegnatori cominciano a portare con sé, nei reportages, apparecchi fotografici per se così si può dire «prendere appunti». Numerose fotografie scattate dall’équipe di Mathew Brady servono durante la guerra di Secessione come «materia prima visuale» nei laboratori d’incisione delle maggiori riviste americane. Tutta una serie di procedimenti di stampa fotomeccanici consente di ottenere risultati notevolmente definiti e dettagliati, ma si tratta di operazioni lunghe, costose e spesso più vicine a produzioni artigianali che a riproduzioni in serie. Negli anni 1890, le incisioni su legno cedono progressivamente il posto ai clichés in mezzatinta, tratti da fotografie ma spesso con retino grossolano e quindi poveri di dettagli. In questo periodo di transizione i disegnatori, per raggiungere una maggiore apparenza di realismo, eseguono «istantanee» e gli incisori si soffermano su particolari e sfumature. Si ottiene una sorta di osmosi che vede le illustrazioni sempre più vicine all’immagine fotografica, e fotografie – spesso molto ritoccate e retinate – somigliano sempre più ad incisioni manuali. Nel 1898, lo scoppio della guerra tra Spagna e Stati Uniti segna l’irruzione nella stampa americana del reportage fotografico. Pagine intere riportano le immagini dei combattimenti a Cuba, scattate da Jonh C. Hemment, James Burton, F. Pagliuchi, William Randolph e James Henry Hare. Proprio quest’ultimo, prima di documentare il primo conflitto mondiale, fra il 1900 e il 1914 fotografa la guerra contro i Boeri, quella russogiapponese e le rivolte nell’America Centrale. A partire dal conflitto russo-giapponese del 1904-1905, le sue immagini, largamente riprodotte dalla stampa americana, sono anche vendute a periodici illustrati europei: si fondano così le basi della diffusione internazionale delle immagini fotografiche. La fotografia fornisce la materia prima, un po’ come avviene per le agenzie di stampa nascono nello stesso periodo in cui viene inventata la fotografia, la prima è la francese Havas, del 1835 che forniscono i dispacci necessari alla composizione del giornale. La foto è una risorsa particolarmente pregiata perché internazionale sin dalla sua realizzazione, insensibile ai confini linguistici che richiedono per i testi scritti una lunga e laboriosa traduzione. Immagini dai fronti di guerra, istantanee di soldati e militari, testimonianze da città e quartieri degradati, si accompagnavano a veri e propri fotoreportages che, sebbene vincolati alle scelte politiche soprattutto per quanto riguarda vicende militari o editoriali, facevano trasparire l’identità e la professionalità dei fotogiornalisti.
Capacità che andavano ben oltre i ritratti posati fino a quel momento realizzati dalla maggior parte dei fotografi. In Germania, l’«Illustrirte Zeitung» pubblicò nel numero del 15 marzo 1894 due istantanee raffiguranti le manovre dell’esercito tedesco, si trattava di stampe tratte da lastre incise a mezzatinta. Inizialmente, comunque, le immagini fotografiche ebbero un ruolo puramente illustrativo. Solo nel 1890 nasce una rivista che ha lo scopo di usare prettamente la fotografia: l’«Illustrated American». Nel suo primo numero, in una nota dell’editore, si legge: «Il proposito particolare della rivista è quello di approfondire le possibilità, fino a oggi quasi inesplorate, della fotografia e dei vari procedimenti di riproduzione». Nello stesso anno nascono in Germania diverse riviste illustrate che raccolsero molto successo, fra queste la «Berliner Illustrierte» e la «Münchner Illustrierte Presse» le quali «nel momento di maggiore successo, stampano sia l’una che l’altra circa due milioni di copie e sono alla portata di tutte le tasche, giacché un esemplare costa solo 25 pfennig . Alla fine del Diciannovesimo secolo, «Paris moderne» (1896), giornale dall’impaginazione più tradizionale rispetto alle nuove riviste illustrate, introduce una concezione del fotogiornalismo che preannuncia i lavori di Salomon, Kertész, Cartier-Bresson (artefice e fautore del momento decisivo). Nell’editoriale del primo numero il direttore afferma che la rivista nasce «nel momento giusto» e che, volendo essere «non un imitatore, ma un innovatore, un pioniere» egli intende affidare un ruolo di primo piano all’istantanea e creare così una documentazione inestimabile, «un riflesso straordinariamente realistico della vita in tutte le sue forme». A suo giudizio, è passato il tempo del «Fermo così». Compito di un giornale illustrato deve essere quindi quello di «rendere in immagini avvenimenti pieni di vita». Purtroppo la rivista chiude dopo pochi mesi di pubblicazioni, ma le intuizioni del suo fondatore, Auguste Deslinières, furono decisive per lo sviluppo del fotogiornalismo. Arrivati a questo punto, in cui il rapporto tra fotografia e stampa si fa sempre più stretto, la foto può essere considerata un prodotto finito e non più solo una materia prima, «alla fotografia è finalmente aggiunto quanto le mancava per essere veramente un medium, cioè un circuito di distribuzione». Ancora una volta, sono le innovazioni tecnologiche a segnare il passo. Il Ventesimo secolo si inaugura con la nascita della stampa mediante rotativa di immagini e testi fotograficamente incisi su cilindri. Successivamente perfezionata, questa tecnica consentì di arrivare pronti all’importante appuntamento con la prima guerra mondiale. I giornali erano ormai in grado di diffondere immagini d’attualità con tirature ingenti e qualità soddisfacente. Si da avvio all’era moderna della stampa illustrata. Si afferma la categoria professionale dei reporter fotografi, i fotogiornalisti come oggi li intendiamo. Inizialmente i quotidiani riservano uno spazio minore alla fotografia, rispetto ai settimanali. Le foto sono in numero limitato sulle pagine e rappresentano solo un corredo della notizia, la carta utilizzata, fra l’altro, condiziona negativamente la resa delle immagini. I settimanali, invece, stampati su carta più pregiata, dedicano alla fotografia molto più spazio, non avendo l’obbligo della completezza delle notizie, come il quotidiano, selezionano alcune storie, conformi alla linea editoriale della rivista e ritenute interessanti a tal punto da essere diffusamente raccontate. Di questo racconto le immagini (molteplici per ogni servizio) sono prima il corredo e poi, sempre più, l’ossatura. Testo scritto e fotografie cominciano ad integrarsi e compenetrarsi profondamente. Ogni foto reca una didascalia in cui l’immagine viene spiegata e interpretata, aggiungendo spesso giudizi e opinioni. Alla vigilia della Grande Guerra, le immagini fotografiche fanno ormai parte dei media, sono al servizio dell’informazione ma anche della propaganda come vedremo in particolar modo nelle Seconda Guerra Mondiale. Il fotografo di inizio Ventesimo secolo ha raggiunto ormai una consapevolezza matura dei mezzi a propria disposizione e della capacità di raccontare le vicende politiche, storiche e sociali tramite immagini scattate da apparecchi fotografici sempre più leggeri, maneggevoli ed efficaci. Ciò che distingue il fotoreporter da un qualsiasi altro operatore fotografico sta in quella abilità, prontezza e temerarietà nel saper cogliere istanti di vita vissuta, condensandoli in immagini spesso insolite, ma significative. L’abilità decisiva sta nel cogliere l’attimo preciso in cui far scattare l’otturatore della macchina fotografica per poter catturare quell’accadimento che solo un secondo dopo potrebbe essere perduto. Il bravo fotoreporter sa che quella deve diventare un’operazione istintiva, che non può dar spazio all’esitazione. Cartier-Bresson dirà che fotografare «è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere.» Un esempio emblematico di tale approccio fu l’episodio che vide coinvolto William Warnecke, fotografo del «World» , quando andò a fotografare, nel 1910, il sindaco di New York, William J. Gaynor, che si imbarcava per un viaggio in Europa. Arrivato in ritardo, quando ormai tutti i suoi colleghi erano già andati via, pregò il sindaco di posare per un’ultima foto. Nell’esatto istante in cui scattava, un assassino sparò due colpi di rivoltella verso Gaynor. Nonostante la confusione generale, Warnecke riuscì a restare calmo e a fotografare il sindaco che, ferito – fortunatamente non a morte – cadeva fra le braccia dei suoi accompagnatori. Alla fine degli anni Venti l’Europa, che comincia a rialzarsi dopo i gravi disagi provocati dalla Grande Guerra, vede fiorire in maniera decisiva la propria editoria. Sono anni di consolidamento tecnico e rinnovamento culturale. In Germania, in particolare, si pubblicavano più riviste illustrate che in qualsiasi altro paese del mondo. Il primato statunitense era per il momento superato dall’esplosione editoriale europea. Nel 1930 la tiratura complessiva delle riviste tedesche era di cinque milioni di copie alla settimana, con un numero di lettori stimabile intorno ai venti milioni di persone. La formidabile diffusione si deve soprattutto ad un fattore di scelta editoriale, supportato ancora una volta dal perfezionamento tecnico, l’integrazione di testo e fotografie in una nuova forma di comunicazione, per l’appunto il fotogiornalismo. Le immagini non servivano più solo da ornamento o contorno come avveniva in origine, ma acquisivano una determinata valenza narrattiva e descrittiva, e sempre più forte si avvertiva l’influenza di chi quelle fotografie le aveva cercate, inseguite, scattate. Sono la tenacia e la risolutezza dei fotografi a farla da padrone in questa fase. Newhall scrive che «la fortuna aiuta spesso i fotoreporter, ma le fotografie di attualità che fanno colpo non sono mai accidentali». Così è avvenuto il 6 maggio1937 quando ventidue fotografi, inviati dai giornali di New York e Philadelphia, hanno avuto l’occasione di assistere ad una delle sciagure più importanti della storia: l’esplosione del dirigibile tedesco Hindenburg. Nei quarantasette secondi che seguirono l’esplosione prima che il dirigibile si schiantasse per terra, ciascuno dei ventidue fotografi, ha documentato in modo completo la triste sciagura. L’indomani i giornali hanno potuto riservare pagine su pagine alle foto di quell’accaduto. Un esempio significativo di quel luogo comune secondo il quale una fotografia vale più di mille parole. E in effetti la parola in questo caso non avrebbe saputo descrivere l’evento con la stessa efficacia delle istantanee scattate. Fotoreporter, sempre più affermati sulla scena internazionale, grazie alla disponibilità di apparecchi via via più piccoli e sofisticati, dotati di obiettivi luminosi e pellicole veloci, furono in grado di sfruttare i perfezionamenti tecnologici per portare il lettore-osservatore direttamente sulla scena degli avvenimenti, anziché fornendo loro soltanto una documentazione fotografica. Il fotogiornalista è testimone dei fatti, perché si trova nel posto dove, e nel momento in cui, questi fatti accadono. Può considerarsi testimone privilegiato perché riesce a raccontare gli eventi con una forza e un’immediatezza che raramente le parole possiedono. È tale forte carica emozionale presente nei grandi servizi di reportage, che porta il lettore ad essere in qualche modo compartecipe delle vicende fotografate. Il fotoreporter assume una doppia identità nei confronti del pubblico. Prima di tutto rappresenta una proiezione dello sguardo del lettore. Si dirà che, la rivista «Life» ha fatto molto più che portare la guerra nelle case di tutti gli americani: ha portato gli americani nei luoghi della guerra. In secondo luogo, il fotoreporter è complice di quel meccanismo di autoidentificazione innescato da una fotografia che consiste nella realizzazione di un bisogno di partecipazione. L’idea di essere visti coinvolge non solo l’autore, ma anche il soggetto che riprende. La parola d’ordine è dunque spettacolarizzazione, il lettore deve essere coinvolto dalle immagini, deve sentirsi spettatore. Dalle anonime cartoline che numerose, e anonime, sono circolate per raccontare la prima guerra mondiale, si passa a foto cariche d’azione, e di morte. Lo spartiacque è segnato dalla guerra civile di Spagna. «Per vedere la vita, per vedere il mondo, essere testimoni dei grandi avvenimenti, osservare il viso dei poveri e i gesti dei superbi; per vedere cose strane: macchine, eserciti, moltitudini, ombre nella giungla; per vedere cose lontane migliaia di chilometri; nascoste dietro muri e all’interno delle stanze, cose che diventeranno pericolose, donne amate dagli uomini, e tanti bambini; per vedere e avere il piacere di vedere, vedere e stupirsi, vedere e istruirsi». Con queste parole Henry Luce presentava il primo numero di «Life», comparso negli Stati Uniti il 23 novembre 1936, con una tiratura iniziale di oltre quattrocentomila copie. Il cuore della rivista «Life» fu senza dubbio rappresentato dalla fotografia, che decretò la sua gloria e il suo successo. Si trattò di un favore reciproco, in quanto fu proprio grazie alla rivista che la fotografia raggiunse ogni angolo del mondo, raccontando la vita dagli aspetti più remoti ai risvolti più comuni. «Life» contribuì a creare il mito del fotoreporter, conferendo alla fotografia il massimo splendore. «Life» fu la prima rivista pianificata da capo a fondo. Henry Luce intendeva realizzare una rivista “brillante” in senso lato, su carta patinata e con immagini luminose. Voleva fare una promozione del fotogiornalismo, sempre pronto, come in una squadra vincente, «a comprare dai migliori quello che c’è di meglio». La caratteristica che però, sin dall’inizio, distinse «Life» dai competitors fu quella di lavorare con un’équipe di quattro o cinque fotoreporter titolari, questo consentì alla rivista di definire il proprio stile ed a i suoi fotografi di essere ricordati come i fautori di uno dei progetti editoriali più riusciti del Ventesimo secolo. La copertina del primo numero della rivista riportava l’impressionante fotografia di Margaret Bourke-White che rappresenta la diga di Fort Peck, simbolo di volontà e successo. Accanto ad una delle prime donne-fotoreporter – sicuramente fra le più importanti – lavorava una validissima squadra dai grandi nomi. Alfred Eisensteaedt, giunge negli Stati Uniti nel 1935 dopo aver lavorato per diverse riviste europee, ed essersi consacrato grande fotografo grazie al reportage sulla guerra d’Etiopia. Carl Mydans, proveniente dalla Farm Security Administration che si specializzò in problemi dell’Estremo Oriente. Fritz Goro, proveniente dalla «Münchner Illustrierte» e dedicatosi alla fotografia scientifica. John Phillips che, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, girò in lungo e in largo il mondo per seguire avvenimenti di ogni genere. Un nome che la storia ricorda, fra i più importanti, è quello di un altro collaboratore di «Life»: William Eugene Smith, uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi. Smith, nella sua travagliata vita consacrata alla fotografia, ci ha regalato fra i più bei reportages che il fotogiornalismo possa annoverare, ne ricordiamo tre in particolare: Country Doctor, Spanish Village e Nurse Midwife. Il primo fu pubblicato nel settembre del 1948, quando Smith era ormai piuttosto famoso per via delle foto di guerra eseguite nel Pacifico meridionale. “Villaggio spagnolo” apparve nel 1951 ed è forse il servizio di Smith più conosciuto, quello che rappresentò per molti fotografi un punto di riferimento. Il terzo, pubblicato nel dicembre dello stesso anno, è forse il più bello, «quello che riesce a coniugare mirabilmente le ragioni informative con quelle stilistiche e umane dell’autore» . Smith rappresenta per il fotogiornalismo una figura di santo e di martire. «La forza e la grandezza delle sue immagini, violentemente espressioniste ed estremamente elaborate in fase di stampa, hanno qualcosa di epico». La vita di Smith fu caratterizzata da due contraddizioni che Colin Osman definisce «terribili e feconde al tempo stesso». Prima di ogni cosa, pretende di essere il solo a decidere delle proprie foto, compresa la pubblicazione. Smith, infatti, non permetteva a nessuno di intervenire sulle immagini che aveva scattato. Egli stesso dirà: «non voglio che un qualsiasi difetto di presentazione mi rovini il lavoro. Prima di fotografare cerco di capire, poi fotografo con passione quello che ho voglia di fotografare. Poi esamino i risultati, e il modo di utilizzarli, con metodo impassibile e freddo. Soltanto allora lascio che la passione ritorni». Allo stesso tempo, però, questo modo di fare, rendeva Smith insopportabile a chi gli stava intorno, ed anche da un punto di vista professionale non furono rari i cambiamenti durante la sua vita. Conoscere il percorso fotografico di questo fotografo ci consente di fare delle riflessioni sull’etica della fotografia intesa come veritiero racconto di notizie per immagini. I suoi reportages letteralmente “riportare” la realtà erano giornalismo o erano arte? Lo stesso Smith è consapevole del considerevole disaccordo fra l’obiettività del fotogiornalista e la soggettività del grande fotografo “creatore” di immagini. «Sono continuamente lacerato – dirà Smith – fra l’atteggiamento del giornalista coscienzioso, che riferisce i fatti, e quello dell’artista creatore, il quale sa che poesia e verità letterale stanno male insieme». Si evidenziano, in maniera decisiva, le contraddizioni del reportage classico. Smith con la sua intransigenza professionale e con il suo stile eroico e drammatizzato, ne rappresenterà allo stesso tempo il capolavoro e la fine. «Le riviste americane come “Life” esaltavano i loro fotografi, ma in nome del corporativismo aziendale più che dello spirito e della continua specificità della fotografia». Per rilanciare la professionalità dei creatori di immagini, sottraendosi allo sfruttamento e alle pressioni di ogni genere, alcuni – grandi – fotografi, all’indomani del secondo conflitto mondiale, decisero di unirsi in cooperativa: nacque l’agenzia Magnum Photos, fondata nel 1947 a Parigi da Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David ‘Chim’ Seymour e George Rodger. Solo un anno dopo, l’agenzia aprì una sede a New York. Era appena nata la più prestigiosa agenzia fotogiornalistica del mondo. L’agenzia Magnum Photos nasceva in dichiarata opposizione ai più famosi fotogiornali dell’epoca e al sistema di potere che ne controlla l’attività.
A tutela dei propri soci, Magnum prevedeva che i diritti delle immagini restassero di proprietà degli autori e non delle riviste; rimanere titolari dei diritti significava aumentare il proprio potere contrattuale e vendere i reportages fotografici a più testate in paesi diversi, moltiplicando le possibilità di guadagno e visibilità. Ancora una volta, come per la rivista «Life», la storia di questa agenzia passa per le vicende dei suoi protagonisti. Primo fra tutti Robert Capa già all’epoca uno dei più famosi fotoreporter che, fra i padri fondatori, è stato presidente della Magnum dal 1950 al 1953. La sua vita fu dedicata principalmente ai reportages di guerra. Alcune sue immagini, come quella del miliziano spagnolo colpito a morte scattata durante la guerra civile del 1936, sono diventate vere e proprie icone del Novecento. Con Capa il fotogiornalista assume una natura autonoma. Nel 1938 Robert Capa fu definito dalla prestigiosa rivista inglese Picture Post “Il migliore fotoreporter di guerra nel mondo”. Senza dubbio l’esperienza bellica fu al centro della sua attività di fotografo: iniziò come fotoreporter durante la guerra civile spagnola dal 1936 al 1939, proseguì attestando con i suoi scatti la resistenza cinese di fronte all’invasione del Giappone del 1938, la seconda guerra mondiale dal 1941 al 1945 fra cui spicca la documentazione dello sbarco in Normandia e ancora il primo conflitto Arabo-Israeliano del 1948, e quello francese in Indocina del 1954, durante il quale morì, ucciso da una mina antiuomo, a soli 40 anni. Una fama che gli permise di pubblicare nelle più importanti riviste internazionali, fra le quali Life e Picture Post, con quello stile di fotografare potente e toccante allo stesso tempo, senza alcuna retorica e con un’urgenza tale da spingersi a scattare a pochi metri dai campi di battaglia, fin dentro il cuore dei conflitti; celebre, in tal senso, la sua dichiarazione “Se non hai fatto una buona fotografia, vuol dire che non ti sei avvicinato a sufficienza”. Queste sue fotografie sono ormai patrimonio della cultura iconografica del secolo scorso. Ma il lavoro di Robert Capa non si limitò solo esclusivamente a testimoniare eventi drammatici, ma spaziò anche in altre dimensioni non riconducibili alla sofferenza della guerra. Ecco perché il fotografo non vuole più essere considerato un artigiano dell’immagine, succube delle scelte dei giornali e degli abusi nei sui confronti. Il fotografo deve piuttosto essere un autore a tutti gli effetti, con diritti e tutela per il proprio prodotto culturale. Capa, scrive Romeo Martinez che l’ha frequentato anche durante la guerra civile spagnola, «volle essere quasi a modo suo un maestro di vita, rispettando sempre le attitudini personali e le vedute dei compagni. Stabilendo i dettami e i canoni della professionalità, tentò di inquadrare gli uomini. Puntualizzò un’etica e una coscienza ben staccate dal puro interesse economico ed è in questo spirito che Magnum Photos prosegue il suo cammino» . Anche George Rodger fu un grande fotoreporter di guerra, ma le sue immagini più famose restano quelle scattate in Africa Centrale. David Seymour, che succedette a Capa come presidente della Magnum, rimase ucciso nel 1956 durante lo sbarco a Suez. Tragica è stata la fine anche di un altro fotografo, Werner Bischof che, entrato nell’agenzia nel 1949, muore nel 1954 in un incidente d’auto, non prima però d’averci lasciato splendide immagini scattate in Cina, Giappone e Perù. La morte di tanti fotografi non segnò la fine della Magnum, che nonostante le difficoltà si sviluppò in maniera considerevole, lavorando principalmente per la stampa americana e scoprendo nuovi talenti, come fa tuttora. L’idea di fondare una cooperativa di fotogiornalisti si era rivelata vincente. Affrancandosi dalle grandi testate giornalistiche ed agenzie che avevano sempre disposto del loro tempo e, soprattutto, dei loro negativi, i fotografi potevano mantenere così libertà d’azione e indipendenza. Eve Arnold, Elliott Erwitt, Erich Hartmann, Marc Riboud, Ferdinando Scianna, Sebastião Salgado, Steve Mc Curry sono tra i nomi che hanno raccontato per Magnum la storia fotografica dei principali fatti dell’umanità. Ma, fra tutti i protagonisti, colui che lega il proprio nome all’avventura della Magnum in maniera probabilmente più forte e duratura è Henri Cartier-Bresson. Il genio ed il rigore formale che lo caratterizzano, lo portano a scattare, per decenni, grandi fotografie di reportage in giro per il mondo. Oltre a centinaia di immagini, sintesi della sua sincerità espressiva e figlie del «momento decisivo», a Cartier-Bresson si deve la definizione più puntuale del gesto fotografico del reporter: «la fotografia è, nello stesso istante, il subitaneo riconoscimento del significato di un fatto e l’organizzazione rigorosa delle forme percepite visualmente che esprimono e significano quel fatto». Si cerca di cogliere un momento denso di realtà che sia allo stesso tempo armonizzato nelle forme, una soluzione grazie alla quale scaturirono fotografie di raffinata eleganza e profondo sentimento. Negli anni Sessanta-Settanta, lo sviluppo incalzante della televisione, che presenta un linguaggio immediato e spettacolare, accompagna il reportage fotografico alla strada del suo declino. La fotografia torna a ricoprire il ruolo di semplice illustrazione sui giornali e intanto si converte verso una tipologia di largo uso e consumo, è il boom della stampa scandalistica e sensazionalistica. La fase discendente del fotogiornalismo coincide fatalmente anche con due fatti tragici che hanno segnato inevitabilmente la fine di quell’epoca precedente all’avvento della televisione caratterizzata dal reportage d’autore. Nel 1954 Robert Capa è in Indocina, inviato della rivista «Life» per fotografare l’esercito francese in difficoltà contro i partigiani vietnamiti. Durante una sosta del convoglio insieme al quale Capa si muove, per poter effettuare un ripresa più ampia della pattuglia dei soldati francesi, si allontana per alcuni metri dal gruppo. Purtroppo calpesta una mina antiuomo, e muore. Solo due anni dopo, a Suez, in Egitto, troverà la morte un altro dei fondatori della mitica agenzia Magnum Photos. David Seymour muore colpito per errore da una mitragliatrice. Le fotografie di Robert Capa e di molti altri reporter, erano la prova della presenza partecipe sul luogo dell’accaduto, laddove si svolgevano i fatti e nascevano le notizie. Anche gli spettatori riuscivano a percepire questa presenza fisica, quasi feticistica, a contatto con la realtà. La pervasività della televisione, invece, e il flusso delle immagini in movimento che la caratterizza, trasmette agli spettatori l’idea della contemporaneità. Telegiornali e servizi portano gli spettatori sul terreno della storia, consentendo loro di seguire in diretta gli eventi. Caratteristica che il cinema e la fotografia, non avevano mai avuto. Le immagini in movimento penetrano, ormai, nella coscienza degli spettatori, mutando radicalmente la percezione degli eventi e le caratteristiche del giornalismo per immagini. Si conclude l’epoca dell’immagine-icona. La guerra di Indocina segna il punto oltre il quale i fotogiornalisti non si troveranno più da soli sul teatro degli eventi, ma saranno circondati dagli operatori televisivi. La guerra in Vietnam rappresenterà l’ultimo conflitto con una forte componente fotografica, da quel momento i reporter faranno parte di singole unità di soldati, diventeranno fotografi embedded, e le loro fotografie talvolta perderanno di quella veridicità che fino a poco tempo prima le qualificava. In seguito – nonostante non manchino ancora oggi reportage d’autore – il fotogiornalismo si è assestato su dei binari nuovi. Non a caso, le foto più dure del secondo conflitto iracheno saranno quelle scattate amatorialmente ad opera di militari, nella prigione di Abu Ghraib – diventata presto luogo di torture –, ed inviate ai propri amici e parenti come trofei di guerra . Sono esempi di quel citizen journalism, di quel reporting amatoriale, spesso svincolato da ogni considerazione deontologica, che ha ritrovato slancio negli ultimi tempi grazie a social networks quali MySpace e Facebook e alla formula istantanea della diffusione via web di contenuti scritti, fotografie e video . Mai come in questo caso vale la dinamica del trovarsi nel posto giusto al momento giusto. I “nuovi reporter” non devono più preoccuparsi neanche dell’attrezzatura fotografica, in quanto talvolta basta un cellulare di recente costruzione per poter disporre degli strumenti necessari a documentare i fatti ai quali si è presenti. Il percorso della mostra di Robert Capa è diviso in nove sezioni che narra la storia attraverso il suo obiettivo fotografo :
Fotografie degli esordi, 1932 – 1935
La speranza di una società più giusta, 1936
Spagna: l’impegno civile, 1936 – 1939
La Cina sotto il fuoco del Giappone, 1938
A fianco dei soldati americani, 1943 – 1945
Verso una pace ritrovata, 1944 – 1954
Viaggi a est, 1947 – 1948
Israele terra promessa, 1948 – 1950
Ritorno in Asia: una guerra che non è la sua, 1954
Insieme alle fotografie, sono esposti in mostra una serie di documenti, pubblicazioni, un filmato e una registrazione sonora(l’unica esistente con la voce di Capa) che permettono di dissipare l’aura mitologica da cui è avvolta la sua figura e tracciare i contorni di una vita il cui esito non è sfuggito alla tragedia. Accompagna la mostra un catalogo edito da Silvana Editoriale, curato dallo stesso Gabriel Bauret, con testi del curatore e di Michel Lefebvre
Biografia di Robert Capa
Nasce a Budapest il 22 ottobre 1913, come Endre Friedmann. Nel 1932, va a Berlino dove viene assunto alla Dephot, una nota agenzia fotografica. Nello stesso anno pubblica il suo primo reportage su Leon Trotskij. Nel 1933, dopo l’ascesa al potere di Hitler, fugge da Berlino alla volta di Parigi, dove incontra André Kertész, David Seymour (o Szymin, alias “Chim”) e Henri Cartier-Bresson. L’anno successivo conosce Gerda Pohorylle (poi Gerda Taro), una rifugiata ebrea tedesca che diventa sua compagna e agente. Nel 1936 documenta l’ascesa al potere del Fronte Popolare e i conseguenti scioperi. Il 18 luglio scoppia la guerra civile spagnola, che segue da reporter. Inizia la collaborazione con la rivista “Life” di New York. Nel 1938 si imbarca per Hong Kong, dove lavora a un documentario sulla resistenza cinese all’invasione giapponese. In ottobre torna in Spagna dove assiste alla partenza delle Brigate Internazionali e alla fine del conflitto. L’anno successivo segue il Tour de France. Allo scoppio della guerra in Europa parte per New York, dove “Life” gli commissiona diversi servizi negli Stati Uniti e in Messico. Nel 1943 segue la campagna degli Alleati in Nordafrica, la liberazione della Sicilia e l’avanzata alleata in Italia. L’anno dopo attende lo sbarco a Londra e fa parte della prima ondata americana che approda su Omaha Beach. Avanza verso Parigi a fianco delle truppe di liberazione ed entra nella capitale con la Seconda divisione corazzata francese. In Belgio, assiste all’offensiva delle Ardenne. Nel 1945 fotografa la liberazione della Germania.
Incontra Ingrid Bergman a Parigi, con cui inizia una relazione che durerà due anni. Nel 1947 con Henri Cartier-Bresson, David Seymour (“Chim”), George Rodger e William Vandivert fonda l’agenzia fotografica Magnum, organizzata in forma di cooperativa. Il 14 maggio 1948 è testimone a Tel Aviv della proclamazione dell’indipendenza dello Stato israeliano e della guerra che ne seguirà. Nel 1954 trascorre tre settimane in Giappone e poi parte per l’Indocina dove assisteall’evacuazione dei prigionieri feriti a DiênBiên Phu. Il 25 maggio, mentre entra in un campo per fotografare una pattuglia francese che accompagna un distaccamento tra NamDinh e Thai Binh, nel Vietnam del Nord, viene ucciso da una mina antiuomo che gli esplode sotto i piedi.
Museo Diocesano di Milano
Robert Capa. L’Opera 1932 -1954
dal 14 Maggio 2024 al 13 Ottobre 2024
Martedì alla domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00 – Lunedì chiuso