Giovanni Cardone
Fino al 7 Luglio si potrà ammirare alla Galleria Nazionale di Arte Antica- Palazzo Barberini Roma la mostra dedicata al grande Genio dell’Arte Michelangelo Merisi detto Caravaggio – ‘Caravaggio 2025’ a cura di Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi eThomas Clement Salomon. L’esposizione in concomitanza con le celebrazioni del Giubileo 2025 le Gallerie Nazionali di Arte Antica in collaborazione con Galleria Borghese e con il supporto della Direzione Generale Musei e Ministero della Cultura. Il progetto è tra i più importanti e ambiziosi dedicati a Michelangelo Merisi detto Caravaggio (1571-1610), con un eccezionale numero di dipinti autografi e un percorso tra opere difficilmente visibili e nuove scoperte in uno dei luoghi simbolo della connessione tra l’artista e i suoi mecenati. Esaminando il contesto che ha reso l’artista una figura centrale nell’arte mondiale, Palazzo Barberini, ospiterà le opere in un allestimento che esalta la potenza e la modernità della pittura di Caravaggio, tra i più grandi maestri della pittura di tutti i tempi. Riunendo alcune delle opere più celebri, affiancate da altre meno note ma altrettanto significative, la mostra vuole offrire una nuova e approfondita riflessione sulla rivoluzione artistica e culturale del Maestro, esplorando per la prima volta in un contesto così ampio l’innovazione che introdusse nel panorama artistico, religioso e sociale del suo tempo. Tra le opere in esposizione il Ritratto di Maffeo Barberini recentemente presentato al pubblico a oltre sessant’anni dalla sua riscoperta, ora per la prima volta affiancato ad altri dipinti del Merisi, e l’Ecce Homo, attualmente esposto al Museo del Prado di Madrid che rientrerà in Italia per la prima volta dopo secoli, accanto ad altri prestiti eccezionali come la Santa Caterina del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, capolavoro già nelle collezioni Barberini che tornerà nel Palazzo che la ospitava, e Marta e Maddalena del Detroit Institute of Arts, per il quale l’artista ha usato la stessa modella della Giuditta conservata a Palazzo Barberini, esposti per la prima volta tutti uno accanto all’altro. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla immensa figura del Caravaggio apro il mio saggio dicendo: Volevo ricordare in questa sede la figura di Roberto Longhi che nel 1951 inagurò dopo anni la prima mostra del Caravaggio in Italia che fu fatta al Palazzo Reale di Milano. Se oggi Caravaggio è considerato uno dei più grandi geni dell’arte italiana e non solo, pittore tra i più amati da pubblico e critica. Attorno alle sue opere e alla sua storia particolarmente tribolata sono fioriti nel corso degli anni mostre, eventi, pubblicazioni, film, documentari, fumetti e iniziative che, grazie al suo nome e all’immaginario che si porta appresso, vanno sempre incontro a un grandissimo successo di pubblico. Per secoli però Caravaggio è stato un artista dimenticato, caduto in un oscuro oblio. È Roberto Longhi che lo ripesca dal dimenticatoio in cui era finito e lo restituisce alla Storia dell’Arte procurandogli un nuovo ruolo, di primissimo piano. Posso affermare che grazie all’incontro con il Prof.. Nicola Spinosa ho iniziato i miei studi su Caravaggio e Caravaggeschi . Il suo percorso artistico si forma a Milano precisamente nel 1571 il suo nome è Michelangelo Merisi, meglio noto come Caravaggio, dal paese bergamasco in cui crebbe e trascorse l’infanzia. Nacque infatti da una delle migliori famiglie del borgo di Caravaggio il 28 settembre 1573, dal «signor» Fermo, «maestro di case», e cioè pratico architetto, dei marchesi del luogo. Il 6 aprile 1584, mortogli il padre e avendo a fideiussore il fratello «unico» Battista […] veniva allogato a studiar arte per quattro anni a Milano presso un pittore in buona considerazione a quei tempi, il bergamasco Simone Petrzano. A quella data il nostro apprendista non aveva compiuto gli undici anni. (Roberto Longhi, Caravaggio, Editori Riuniti, Roma, 2006). Momenti critici e decisivi nei primi anni della sua esistenza saranno senz’altro: il divampare della peste a Milano nel 1576, allorché l’artista, insieme alla corte di Francesco I Sforza presso la quale il padre Fermo svolgeva l’attività di architetto decoratore, fu costretto a rifugiarsi nel marchesato di Caravaggio; le difficoltà della madre a tirare su cinque figli, dopo la morte del padre e dello zio a causa della peste ormai giunta anche nel borgo bergamasco; il passaggio del marchesato dagli Sforza ai Colonna, famiglia che lo proteggerà salvandogli la vita in diverse occasioni. Alla nascita del Caravaggio, pontefice è a Roma Sisto V, sono gli anni cruciali della Controriforma. Il ducato di Milano, sotto il dominio spagnolo, si presenta come un focolaio di reazione religiosa e come epicentro di una fervida produzione artistica: mentre in tutta la penisola spopola la “maniera”, una tipologia di pittura accademica e leziosa, circoscritta a una sterile imitazione dei celebri maestri romani o veneziani, in Lombardia prende forma uno stile più libero e vicino alla realtà. Anche a Milano, sulla scia dei fratelli Campi si stava affermando una scuola che, ispirandosi alla realtà quotidiana, proponeva un nuovo modo di trattare la luce. Forse è Giovanni Girolamo Savoldo a trasmettere a Caravaggio la rivelazione del chiaroscuro: la luce non cadeva più solo dal cielo, come dono divino. Altri artisti come Moretto da Brescia, Vincenzo Foppa e Girolamo Romanino si dibattevano in maniera violenta contro la “maniera”. A Bologna i fratelli Carracci lavoravano animati dallo stesso spirito. A Cremona, dove Caravaggio vide nella cattedrale gli affreschi del Pordenone, la famosa Sofonisba Anguissola, che da giovane aveva conosciuto il grande Michelangelo Buonarroti, alternava ritratti di principi in trono a scene tratte dalla vita reale; in un disegno a gessetto o a carboncino aveva raffigurato suo figlio punto al dito da un gambero. Quel disegno, oggi al Museo Nazionale di Capodimonte, si impresse nella mente del giovane artista: sarà il soggetto di uno dei primi dipinti che realizzerà dopo l’arrivo a Roma. (Gilles Lambert, Caravaggio, Colonia, Taschen, 2008). Dopo la formazione milanese, intorno al 1592 si trasferì a Roma, dove poi soggiornerà per gran parte della sua breve esistenza. Durante il viaggio si fermò senz’altro a Parma, dove Annibale Carracci aveva dipinto ai Cappuccini una Deposizione della Vergine, poi si spostò a Viterbo, dove ammirò la Flagellazione di Cristo di Sebastiano del Piombo e a Firenze, dove a colpirlo furono le opere del Masaccio nella Cappella Brancacci di Santa Maria del Carmine. La sua carriera comincia al soldo di alcuni collezionisti per i quali dipinge diverse opere profane, mentre sarà solo al volgere del secolo che si concentrerà su tematiche sacre. Le sue pale d’altare accesero entusiasmi e, al contempo, destarono serrate critiche: Caravaggio, per via di una vita a dir poco turbolenta, diviene il pittore più discusso del tempo. Del resto la sua scelta non fu casuale, aveva deciso di stabilirsi a Roma poiché era la capitale artistica e culturale d’Italia, vale a dire del mondo. La città è più che mai viva. La cupola di San Pietro, il più grande edificio del mondo, è appena stata terminata, imponenti basiliche come Santa Maria Maggiore o San Giovanni in Laterano proclamano il trionfo della cristianità, si aprono nuove strade, come il Corso. Il porto di Ripetta, sul Tevere, è una porta aperta sul mondo. Sisto V ha lanciato un appello a tutti gli artisti della penisola, architetti, pittori, scultori, incisori, orafi. (Lambert, 2008). L’artista lombardo aveva portato con sé alcune tele dipinte da Peterzano, ma la loro verve realista non suscita gli interessi locali: a Roma a dilagare sono il “manierismo” e la copia di Michelangelo e Raffaello. Gli artisti in voga, privi di ogni sorta di originalità, non hanno lasciato molte tracce nella storia dell’arte. Le nuove tendenze, affermatesi con il lavoro del bolognese Annibale Carracci, designato per la decorazione della galleria di Palazzo Farnese, ispirano ancora diffidenza e faticano quindi a imporsi. Per andare avanti Caravaggio dovrà adeguarsi alla moda imperante. Dopo aver soggiornato nei bassifondi dell’Urbe, in mezzo a esiliati lombardi, spaccapietre senza lavoro, pittori e scultori in torbide acque e avventurieri alla ricerca disperata di un buon colpo, decise di accettare senza eccessivo entusiasmo una commissione dal Lorenzi, noto pittore siciliano ben inserito nel contesto romano. Nella bottega ritrova altri apprendisti bergamaschi, tra cui i fratelli Longhi. Caravaggio alterna così sedute di lavoro, bevute, giri nei quartieri malfamati e ritrovi in campagna nelle “vigne”, domini di ricchi protettori. Stringe intanto amicizia con Lionello Spada, altro giovane pittore senza commissioni. La fortuna giunse improvvisa, gli sorrise nelle sembianze di un ricco prelato, monsignor Pandolfo Pucci, beneficiario di San Pietro, stimato a corte, un uomo dai gusti raffinati e attento alle nuove tendenze artistiche e ai giovani. Fu come rapito dal talento e dalle attitudini di Caravaggio, affascinato dalle sue inclinazioni selvagge e intransigenti: gli offrì vitto e alloggio, l’unica condizione il dover accettare di copiare dipinti religiosi. Monsignor Pucci li inviò poi al convento dei Cappuccini di Recanati, sua città natale. Nessuna di queste opere è stata poi pervenuta. Caravaggio si assicura anche del tempo libero, dipinge ciò che si sente, ogni cosa gli passi per la testa. Di questo periodo il Ragazzo morso da un ramarro, il Ragazzo che monda un frutto, il Ragazzo con una caraffa di rose, e il bellissimo Musica di alcuni giovani, noto anche come I musici. In quest’ultimo dipinto appare il primo autoritratto del pittore, il cantore in fondo a destra. Al soggiorno da monsignor Pucci risalgono anche alcune Nature morte, a lungo attribuite ai fiamminghi, e il magnifico Suonatore di liuto, lo strumentista è uno dei suoi modelli preferiti. Sembra che a ispirarlo siano solo i ragazzi, si dovrà attendere più di un anno affinché una Maddalena piuttosto toccante prenda vita dal suo pennello. Lasciata la residenza del Pucci, forse per l’indole complessa e l’avarizia del prelato, Caravaggio si ritrova in mezzo alla strada, tre anni dopo il suo arrivo nella capitale. A raccoglierlo Antivenduto Gramatica, un vecchio amico della bottega Lorenzi. Poco dopo un altro momento traumatico nell’esistenza dell’artista lombardo: Caravaggio si ammala di febbre romana, male che imperversa su tutta la penisola. Viene allora trascinato dal suo amico Longhi fino al santa Maria della Consolazione, l’ospedale dei poveri, le speranze di rivederlo sono ben poche. Caravaggio finisce tra gli agonizzanti, quella pare essere l’anticamera della morte. Il passaggio del priore dell’ospedale, monsignor Contreras, uno spagnolo intimo di Pucci che lo riconosce, gli vale la salvezza: trasferito in una camera meno nauseabonda viene affidato alle cure di alcune religiose. Dopo sei mesi di ricovero, Caravaggio si riprenderà, ma l’esperienza dolorosa e traumatica lo segnerà per sempre (non guarirà mai completamente, per tutta la vita soffrirà di mal di testa e dolori al ventre), in numerose opere potrà ritrovarsene l’eco, si pensi alla Morte della Vergine o al Becchino malato. Successivamente fu accolto nella bottega del Cavalier d’Arpino, pittore alla moda, su raccomandazione del priore o monsignor Pucci. Questo personaggio era il favorito della buona società e contava buoni contatti presso la corte papale. Qui il pittore milanese incontra i più ricchi mecenati romani, cardinali, ambasciatori e artisti romani, oltre ai più importanti mercanti della città. Tra questi, Valentino, che giunto dalla Francia subito si interessa a lui. Nel mentre, sempre nella bottega del Cavaliere, Caravaggio dipinge un Ragazzo con canestra di frutta, che sarà poi donato da papa Paolo V a suo nipote Scipione Borghese. Il dipinto, insieme al Becchino malato e alla Canestra di frutta, sarà poi requisito nel 1607, per motivi fiscali, dagli emissari di Paolo V, successore di Clemente VIII. Il Cavaliere d’Arpino, ormai circondato da nemici, finirà in prigione per possesso illecito di un archibugio. È inoltre ipotizzabile che nello stesso periodo Valentino abbia venduto altri dipinti di Caravaggio, eseguiti in clandestinità nel laboratorio dell’Arpino. Caravaggio è di nuovo per la strada. Conosce l’élite degli appassionati d’arte, ma è ai vagabondi di Roma che si volge. Sordo ai consigli di Valentino, sicuro di sé e del proprio talento, inebriato di libertà, passa il tempo in giro per piazza Navona o sulle rive del Tevere, in compagnia di amici pittori, per lo più squattrinati come lui. Longhi si è defilato, sostituito da Lionello Spada, sempre disposto a buttarsi in nuove avventure, e dal tempesta, altro transfuga del Cavalier d’Arpino insieme a tanti altri. Si divertono a provocare la polizia papale, frequentano le numerose ragazze facili di Roma, si fanno colossali bevute, scandalizzano i borghesi. Caravaggio ha vent’anni e vuole dimenticare le copie delle Madonne e le ghirlande di bottega, vuole vivere e dipingere a modo suo; ma ha bisogno di soldi. (Lambert, 2008). Fu così che decise di tornare da Valentino, il mercante gli consiglia di impegnarsi nella realizzazione di soggetti sacri, la cui richiesta era piuttosto elevata. Caravaggio si presta, chiedendo colori e pennelli ma, invece di un dipinto a sfondo religioso, consegna un secondo Bacco: il dio, stavolta, ha le sembianze di un giovane in buona salute, dal viso gonfio, lo sguardo languido, avvolto dalle tradizionali foglie di vite, con un calice di vino tra le mani, vicino a una caraffa mezza piena. Rifiutato o venduto con difficoltà, l’opera non risolverà i problemi dell’artista, sempre al verde e alla ricerca di un qualche “protettore” per tirare avanti. Valentino, intuito che si trovasse innanzi un genio, lo supplicò affinché accettasse una “vera” commissione. Forse, per convincere Caravaggio a dedicarsi a un tema di natura sacra, il mercante gli fece balenare davanti la possibilità di guadagnarsi la protezione di uno dei più facoltosi mecenati romani, il cardinale Francesco Maria Del Monte, tra i suoi più affezionati clienti. Presumibilmente stanco del vagabondare e in preda a una crisi interiore, Caravaggio si convinse ad accettare la proposta di Valentino, promettendogli che si sarebbe impegnato a dipingere un quadro di ispirazione religiosa. Dipingerà un capolavoro, che gli aprirà le porte dei grandi collezionisti romani e che, consacrandolo alla fama e alla stima dei potenti, segnerà la fine della sua giovinezza: nella cantina del Valentino vide così la luce il San Francesco in estasi, detto anche Stigmate di San Francesco. L’espressione “tenebrismo” è usata in pittura per indicare l’utilizzo generico di nuance scure, laddove l’ombra è accentuata da un forte contrasto tra luce e buio – la celebre tecnica del chiaroscuro – con l’intento di ricreare nell’immagine un effetto di profondità e di illuminazione. Sebbene non ne sia il demiurgo, Caravaggio è solitamente accostato a tale concetto e questo perché la fama dei suoi dipinti esercitò una influenza senza tempo. L’essenza delle sue opere fu colta con estrema puntualità da uno dei suoi primi biografi, Giovanni Pietro Bellori, nelle Vite de’ pittori, scultori ed architetti moderni: Facevasi ogni giorno più noto per lo colorito ch’egli andava introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi del nero per dar rilievo alli corpi. E s’inoltrò egli tanto in questo suo modo di operare, che non faceva mai uscire all’aperto del sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria bruna di una camera rinchiusa, pigliando un lume alto che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombra a fine di recar forza e veemenza di chiaro e di oscuro. Nei dipinti di Caravaggio, del resto, c’è quasi sempre una ricerca di angoli di luce, di particolari che risplendono in un contesto più scuro. Alcune analisi a riguardo confermerebbero una diffusa presenza, in molti quadri e in più punti degli stessi, di sostanze fluorescenti, e in particolare di sali di mercurio. Di fatto si trattava di primi esperimenti di proiezione: la luce naturale illumina una figura esterna alla camera e trasmette una sua immagine attraverso un foro dell’involucro, passando all’interno dove è raccolta da lenti e riproiettata su una parete interna. Nella Cena in Emmaus (1601), Gesù rivela la sua identità: egli è il Cristo risorto e si mostra a due discepoli che non lo avevano riconosciuto, mentre un locandiere in piedi scruta la scena. La precisa direzione che la luce sembra seguire mette in risalto i personaggi facendoli stagliare con impeto dallo sfondo, mentre al contempo la loro presenza fisica è resa con immediatezza grazie all’aggiunta di elementi realistici, si pensi ai vestiti lacerati, i dettagli dei volti e la vistosa gestualità teatrale delle figure: il gomito del discepolo sulla sinistra e la mano di quello a destra sembra quasi che vogliano sbucare fuori dal dipinto. Si è parlato nella circostanza di figura in carne e ossa: un aspetto solido che prende le distanze dai soggetti idealizzati dall’arte religiosa tradizionale. Del resto non mancarono suoi contemporanei che lo accusarono di mancare di rispetto nei confronti delle figure sacre, riferendosi allo stile e alla resa delle persone. Altri, invece, rimasero sbalorditi dal suo originale modo di rappresentare le storie consuete. La sua opera ebbe una spropositata influenza nel corso del primo quarto del XVII secolo, non a caso si parla di Caravaggismo. Furono in tanti gli artisti che accettarono la “sfida” tentando di emulare le sue tecniche, anche se con troppa frequenza gli esiti andarono a irrigidire o ad affievolire il suo stile, con lo smarrimento della caratteristica grandiosità e potenza espressiva. Caravaggio proseguì il suo peregrinare attraverso le pennellate dei suoi eredi: Artemisia Gentileschi, Battistello Caracciolo, Georges de La Tour, solo per citarne alcuni. Nel 1606 ha inizio il suo peregrinare per il Mezzogiorno d’Italia: fugge da Roma dopo aver assassinato un uomo durante una rissa e in seguito alla condanna da parte delle autorità pontificie, la pena prevista era quella capitale. Non contento di aver rivoluzionato l’arte a Roma, scaraventando il pathos e la teatralità del Barocco in caustiche ambientazioni quotidiane e tenebrosi realismi, Caravaggio fu costretto allora a partire, o meglio, a scappare come un vero e proprio viandante maledetto. Un baratro esistenziale cui corrispose una discesa geografica, che lo vedrà protagonista nei successivi quattro anni tra Napoli, Malta e Siracusa. Lascerà poi questo mondo nel 1610, di febbre, ma soprattutto «infelice e abbandonato». Caravaggio alloggiò fino al 1610 nei Quartieri Spagnoli, come se Napoli, con i suoi elementi mitici e le sue innumerevoli contraddizioni, fosse passaggio imprescindibile nel destino del peregrino milanese: l’alchimia tra Caravaggio e Napoli fu misterica, fruttuosa, ma in primis istantanea. Il segno impresso dal maestro lombardo nella Napoli seicentesca fu di portata storica, la sua eredità artistica raccolta da una nuova generazione di autori. La prima commissione gli venne affidata da un ricco negoziante di Ragusa di nome Radulovic: la Madonna del Rosario o Vergine del Rosario, imponente pala d’altare destinata alla chiesa dei domenicani. Quest’opera segna l’inizio di un nuovo modo di dipingere dell’artista, sempre più realistico e vicino alla vita. Il dipinto sarà considerato scandaloso e rifiutato, sebbene gli stessi Domenicani ne riconosceranno le qualità, i suoi “modelli” fuori dal comune, i giochi d’ombre. A ricompensarlo sarà però un’altra commissione: gli amministratori del Pio Monte della Misericordia gli chiesero una grande pala d’altare di 3,90 metri per 2,60 per la chiesa della Congregazione, il compenso, 470 ducati. Il soggetto, complesso, si ispira alle Sette opere di Misericordia. È stata definita l’ultima fiammata del «barocco caravaggesco». È la prima volta che un pittore osa rappresentare i sette atti di virtù descritti nel Vangelo di San Matteo, non separatamente, ma tutti insieme […] si tratta di un’opera puramente napoletana per lo spirito, la scelta dei modelli e il trattamento del tema. Ricchi e poveri, nobili e umili sono rappresentati, di notte, in una scena di strada. Una donna del popolo allatta un vecchio che si sporge da una cella: “dar da mangiare agli affamati”. Un gentiluomo sguaina la spada per dividere a metà il proprio mantello con un mendicante nudo. Un oste dà da bere a un assetato che, come Sansone, si serve di una mascella d’asino. Un altro accoglie dei pellegrini esausti, nei loro ampi mantelli da viaggiatori. “Seppellire i defunti” è resa con l’immagine dei piedi – solo i piedi – di un cadavere, sui quali si posa un raggio di luce. (Lambert, 2008). Il primo soggiorno napoletano dura otto mesi, giorni durante i quali dipinge due Flagellazioni, una delle quali è proprio a Napoli e fa riferimento alla tortura subita a Roma. In pochi mesi, Caravaggio il proscritto diviene l’artista più rinomato e produttivo del panorama napoletano. Ma improvvisamente lascia la città per recarsi sull’isola di Malta. Le ragioni della precipitosa scelta sono perlopiù congetture. La più verosimile vedrebbe il suo desiderio di ricevere la Croce di Cavaliere di Grazia dell’Ordine di Malta, che gli avrebbe dato diritto di possedere una spada. Nel luglio del 1607 approda a La Valletta, capitale dei nobili cavalieri di Malta, baluardi della fede cristiana di fronte all’Oriente e ai pirati di Barberia. Il periodo trascorso sull’isolo è piuttosto singolare: cinque mesi in cui dipingerà a ritmi forsennati, dipinti sia a carattere sacro che profano. Si pensi al San Girolamo scrivente e alla Decollazione di San Giovanni Battista. Questa tela pare sia l’unica che porti la firma dell’artista. Il nome pare come se fosse tracciato col sangue che sgorga dal collo, circostanza che ha suggerito l’ipotesi che il pittore, per la situazione di pericolo costante in cui si trovava a vivere, si identificasse nella vittima. Il nome è preceduto dalla lettera F che sta per “Fra”: alla consegna del dipinto, quindi, Caravaggio doveva essere già stato nominato Cavaliere di Grazia. E ancora, Ritratto di Alof de Wignacourt e l’Amorino addormentato. Ma lo scandalo seguito alla realizzazione e ad alcuni particolari di queste due opere è gravido di conseguenze: il risultato è dapprima l’arresto e l’essere radiato dall’Ordine, poi la condanna capitale e la fuga dell’artista dall’isola. Caravaggio con notevoli rischi riesce a evadere e a imbarcarsi per la Sicilia. Il Seppellimento di Santa Lucia è la prima commissione che riceve a Siracusa, dove sbarca senza troppo clamore. Con questo dipinto instaura una nuova relazione tra le figure e lo spazio. Ma nella patria di Archimede, come prevedibile, il dipinto viene accolto male: il muro occupa gran parte della scena e i becchini in primo piano, enormi in confronto agli altri personaggi, sembrano schiacciati dallo sfondo. La tiepida accoglienza ottenuta a Siracusa spinge l’artista a muovere verso Messina, dove l’accoglienza è positiva. In breve tempo riceve una commissione per la chiesa della Confraternita dei Crociferi: una Resurrezione di Lazzaro nella quale confluiscono le sue stesse angosce, dubbi e speranze. Stando ai suoi contemporanei, è durante il soggiorno messinese, nel 1608, che Caravaggio dipinse l’Ecce Homo di palazzo Rosso a Genova. La permanenza siciliana durò un anno. Alla fine del 1609 s’imbarcò a Palermo direzione Napoli, con la speranza di poter fare ritorno a Roma in breve tempo. Traumi, vecchiaia, malattia, nulla placa il furore della sua arte né la passione e il desiderio di vivere. Le diverse opere che realizzerà precipitosamente a Napoli ne sono testimonianza tangibile e drammatica. Il pittore non riuscirà nel suo intento di tornare a Roma. A Napoli, per di più, fu vittima di un agguato: ferito, fu abbandonato morente per strada. Il Caravaggio riuscì a cavarsela, ancora una volta, ma riportando uno sfregio evidente sulla fronte. Del 1610 restano solo due opere, la prima è il San Giovanni Battista, dal volto intriso di tristezza e l’espressione abbattuta, l’altra è il Martirio di Sant’Orsola, ultima commissione accettata dall’artista, dipinto intriso di morte, un martirio straziante. Caravaggio, da qui in poi, non dipingerà più. Sono i giorni più caldi dell’estate, dopo aver deposto i pennelli, Caravaggio si appresta a lasciare Napoli. Invece di prendere la strada per Roma, il pittore s’imbarcò a bordo di una feluca, forse perché più sicura, dandogli la possibilità di attendere, in territorio straniero, la notizia sperata della sua grazia. Era diretto a Porto Ercole, località in mano spagnola, non distante dall’imbocco del Tevere. Sbarcando sulla costa malsana, infestata dalla malaria, si avvicinerebbe molto a Roma, lontana solo un giorno a cavallo. Caravaggio appena sbarcato è imprigionato nella fortezza di Porto Ercole e il suo bagaglio requisito. Le sue proteste rimangono inascoltate. Si proclama nobile cavaliere di Malta. Non viene creduto. Non si sa come riesca a tornare libero, forse pagando una cauzione […]Recupera una parte dei suoi beni […] Un racconto lo descrive stravolto, affamato, ammalato, sfinito alla ricerca di una feluca che ha noleggiato o di un’altra imbarcazione. Le sue ferite si sono infettate e ha una recrudescenza di febbre; secondo un’altra versione è vittima di alcuni vagabondi di cui si è fidato. Si troverà un corpo sulla spiaggia, non lontano dalla fortezza […] Caravaggio muore con lo sguardo rivolto a Roma, nel luglio 1610 […] Alcuni giorni dopo o prima il dramma di porto Ercole, il papa Paolo V, cedendo alle richieste degli amici di Caravaggio, appose il proprio sigillo sulla sentenza di grazia. (Lambert, 2008). Una pittura che per molti fu scandalosa, forse più della sua vita, una vera e propria canaglia. Non fu il primo artista a vedersela con la giustizia. Duccio mandò giù troppi bicchieri, finendo spesso alle mani, il Perugino si dilettò in tante risse e zuffe da strada, trascorrendo alcune notti al fresco di una prigione, Benvenuto Cellini, sculture e orafo, fu accusato di frode, omicidio e sodomia, e quindi incarcerato a Roma. Il Caravaggio, arrestato e imprigionato con frequenza, rivelò l’assassinio di un compagno di pallacorda che aveva barato. La nomea gli accollò altri delitti. Un genio, che lavorava in tempi sorprendenti, direttamente sulla tela senza nemmeno disegnare i personaggi, visse tra una prigione e l’altra, dalle quali riusciva a venirne fuori solo grazie all’influenza dei suoi potenti protettori. Dall’ultima detenzione, sull’isola di Malta, evase in un modo a dir poco rocambolesco. Vi era rinchiuso per un’accusa alquanto pesante, pedofilia. Proscritto, rciercato, perseguitato, l’artista milanese scomparve in circostanze sospette su una spiaggia a nord di Roma, forse assassinato. Non aveva ancora quarant’anni. La figura del Caravaggio è cinta di mistero, per molti si è di fronte al pittore più rivoluzionario della storia dell’arte. Fu tra i primi a reagire con violenza alla “maniera”, un modo di dipingere che giudicava limitato, vezzoso e accademico. A Roma, trentaquattro anni dopo la dipartita di Michelangelo, un pittore riuscì a imporre un nuovo linguaggio realistico e teatrale, cogliendo di ogni soggetto gli attimi più drammatici, forgiando i suoi prototipi dalla strada, anche per scene piuttosto sacre come quella della Morte della Vergine, dove non esita a optare per una ambientazione notturna, come ben pochi artisti, prima di lui, avevano osato proporre. Caravaggio proclamava il primato della natura e della verità. Era l’apoteosi di quello che è stato definito Barocco. Due sono le origini di questa parola fatale, ed entrambe hanno a che fare con l’area semantica del bizzarro e dell’irregolare. Gli scolastici del Duecento italiano battezzarono «baroco» un certo tipo di sillogismo. Con l’avvento della cultura umanistica, e fino al Settecento, quella parola ebbe una notevole fortuna europea come sinonimo di ragionamento capzioso: così, da Erasmo a Mointagne, da Francesco Fulvio Frugoni a Pietro Verri rimbalza l’ironia sui pensieri, i discorsi, gli argomenti «in barocco». In Francia, tuttavia, esiste un aggettivo «baroque» (derivante dal portoghese «barroco», o dal castigliano «barrueco») che fin dal Cinquecento serve a designare le perle di forma irregolare, e che viene consacrato dai vocabolari accademici dell’età di Luigi XIV. (Montanari, 2012). L’epoca a cavallo tra XVI e XVII secolo è un periodo segnato da furori, estasi, eccessi. È il tempo della Controriforma: al rigore luterano e calvinista, che ha bandito dai santuari dipinti e sculture, i papi e i gesuiti oppongono un proliferare di immagini, ornamenti, colori, contrasti, arredi ad hoc, l’intento è quello di sorprendere e impressionare i fedeli riaffermando così la supremazia cattolica. L’opera del Caravaggio irrompe in quest’atmosfera burrascosa, amplificandone la portata e gli esiti. Ogni suo gesto uno scandalo, ogni suo dipinto un affronto, i nemici non si contano Nicolas Poussin, pittore francese giunto a Roma dopo la morte dell’artista lombardo, affermò: «Era venuto per distruggere la pittura». Quella generata dalle sue opere fu una vera e propria ondata di choc, consistente e duratura; il ricordo del Caravaggio non resistette. L’artista cadde nell’oblio. Ci vollero tre mesi affinché gli fosse resa giustizia. Il suo nome riaffiorerà sul finire dell’Ottocento, ma sarà solo con le ricerche del critico Roberto Longhi, intorno al 1920, che il pubblico comincerà a scoprire la vera statura artistica del pittore lombardo. Dopo di lui la pittura non sarà più la stessa, con Caravaggio ha inizio, a detta di alcuni, «la pittura moderna». Nel 1606 ha inizio il suo peregrinare per il Mezzogiorno d’Italia: fugge da Roma dopo aver assassinato un uomo durante una rissa e in seguito alla condanna da parte delle autorità pontificie, la pena prevista era quella capitale. Non contento di aver rivoluzionato l’arte a Roma, scaraventando il pathos e la teatralità del Barocco in caustiche ambientazioni quotidiane e tenebrosi realismi, Caravaggio fu costretto allora a partire, o meglio, a scappare come un vero e proprio viandante maledetto. Un baratro esistenziale cui corrispose una discesa geografica, che lo vedrà protagonista nei successivi quattro anni tra Napoli, Malta e Siracusa. Lascerà poi questo mondo nel 1610, di febbre, ma soprattutto «infelice e abbandonato». Caravaggio alloggiò fino al 1610 nei Quartieri Spagnoli, come se Napoli, con i suoi elementi mitici e le sue innumerevoli contraddizioni, fosse passaggio imprescindibile nel destino del peregrino milanese: l’alchimia tra Caravaggio e Napoli fu misterica, fruttuosa, ma in primis istantanea. Il segno impresso dal maestro lombardo nella Napoli seicentesca fu di portata storica, la sua eredità artistica raccolta da una nuova generazione di autori. La prima commissione gli venne affidata da un ricco negoziante di Ragusa di nome Radulovic: la Madonna del Rosario o Vergine del Rosario, imponente pala d’altare destinata alla chiesa dei domenicani. Quest’opera segna l’inizio di un nuovo modo di dipingere dell’artista, sempre più realistico e vicino alla vita. Il dipinto sarà considerato scandaloso e rifiutato, sebbene gli stessi Domenicani ne riconosceranno le qualità, i suoi “modelli” fuori dal comune, i giochi d’ombre. A ricompensarlo sarà però un’altra commissione: gli amministratori del Pio Monte della Misericordia gli chiesero una grande pala d’altare di 3,90 metri per 2,60 per la chiesa della Congregazione, il compenso, 470 ducati. Il soggetto, complesso, si ispira alle Sette opere di Misericordia. È stata definita l’ultima fiammata del «barocco caravaggesco». È la prima volta che un pittore osa rappresentare i sette atti di virtù descritti nel Vangelo di San Matteo, non separatamente, ma tutti insieme […] si tratta di un’opera puramente napoletana per lo spirito, la scelta dei modelli e il trattamento del tema. Ricchi e poveri, nobili e umili sono rappresentati, di notte, in una scena di strada. Una donna del popolo allatta un vecchio che si sporge da una cella: “dar da mangiare agli affamati”. Un gentiluomo sguaina la spada per dividere a metà il proprio mantello con un mendicante nudo. Un oste dà da bere a un assetato che, come Sansone, si serve di una mascella d’asino. Un altro accoglie dei pellegrini esausti, nei loro ampi mantelli da viaggiatori. “Seppellire i defunti” è resa con l’immagine dei piedi – solo i piedi – di un cadavere, sui quali si posa un raggio di luce. (Lambert, 2008). Il primo soggiorno napoletano dura otto mesi, giorni durante i quali dipinge due Flagellazioni, una delle quali è proprio a Napoli e fa riferimento alla tortura subita a Roma. In pochi mesi, Caravaggio il proscritto diviene l’artista più rinomato e produttivo del panorama napoletano. Ma improvvisamente lascia la città per recarsi sull’isola di Malta. Le ragioni della precipitosa scelta sono perlopiù congetture. La più verosimile vedrebbe il suo desiderio di ricevere la Croce di Cavaliere di Grazia dell’Ordine di Malta, che gli avrebbe dato diritto di possedere una spada. Nel luglio del 1607 approda a La Valletta, capitale dei nobili cavalieri di Malta, baluardi della fede cristiana di fronte all’Oriente e ai pirati di Barberia. Il periodo trascorso sull’isolo è piuttosto singolare: cinque mesi in cui dipingerà a ritmi forsennati, dipinti sia a carattere sacro che profano. Si pensi al San Girolamo scrivente e alla Decollazione di San Giovanni Battista. Questa tela pare sia l’unica che porti la firma dell’artista. Il nome pare come se fosse tracciato col sangue che sgorga dal collo, circostanza che ha suggerito l’ipotesi che il pittore, per la situazione di pericolo costante in cui si trovava a vivere, si identificasse nella vittima. Il nome è preceduto dalla lettera F che sta per “Fra”: alla consegna del dipinto, quindi, Caravaggio doveva essere già stato nominato Cavaliere di Grazia. E ancora, Ritratto di Alof de Wignacourt e l’Amorino addormentato. Ma lo scandalo seguito alla realizzazione e ad alcuni particolari di queste due opere è gravido di conseguenze: il risultato è dapprima l’arresto e l’essere radiato dall’Ordine, poi la condanna capitale e la fuga dell’artista dall’isola. Caravaggio con notevoli rischi riesce a evadere e a imbarcarsi per la Sicilia. Il Seppellimento di Santa Lucia è la prima commissione che riceve a Siracusa, dove sbarca senza troppo clamore. Con questo dipinto instaura una nuova relazione tra le figure e lo spazio. Ma nella patria di Archimede, come prevedibile, il dipinto viene accolto male: il muro occupa gran parte della scena e i becchini in primo piano, enormi in confronto agli altri personaggi, sembrano schiacciati dallo sfondo. La tiepida accoglienza ottenuta a Siracusa spinge l’artista a muovere verso Messina, dove l’accoglienza è positiva. In breve tempo riceve una commissione per la chiesa della Confraternita dei Crociferi: una Resurrezione di Lazzaro nella quale confluiscono le sue stesse angosce, dubbi e speranze. Stando ai suoi contemporanei, è durante il soggiorno messinese, nel 1608, che Caravaggio dipinse l’Ecce Homo di palazzo Rosso a Genova. La permanenza siciliana durò un anno. Alla fine del 1609 s’imbarcò a Palermo direzione Napoli, con la speranza di poter fare ritorno a Roma in breve tempo. Traumi, vecchiaia, malattia, nulla placa il furore della sua arte né la passione e il desiderio di vivere. Le diverse opere che realizzerà precipitosamente a Napoli ne sono testimonianza tangibile e drammatica. Il pittore non riuscirà nel suo intento di tornare a Roma. A Napoli, per di più, fu vittima di un agguato: ferito, fu abbandonato morente per strada. Il Caravaggio riuscì a cavarsela, ancora una volta, ma riportando uno sfregio evidente sulla fronte. Del 1610 restano solo due opere, la prima è il San Giovanni Battista, dal volto intriso di tristezza e l’espressione abbattuta, l’altra è il Martirio di Sant’Orsola, ultima commissione accettata dall’artista, dipinto intriso di morte, un martirio straziante. Caravaggio, da qui in poi, non dipingerà più. Sono i giorni più caldi dell’estate, dopo aver deposto i pennelli, Caravaggio si appresta a lasciare Napoli. Invece di prendere la strada per Roma, il pittore s’imbarcò a bordo di una feluca, forse perché più sicura, dandogli la possibilità di attendere, in territorio straniero, la notizia sperata della sua grazia. Era diretto a Porto Ercole, località in mano spagnola, non distante dall’imbocco del Tevere. Sbarcando sulla costa malsana, infestata dalla malaria, si avvicinerebbe molto a Roma, lontana solo un giorno a cavallo. Caravaggio appena sbarcato è imprigionato nella fortezza di Porto Ercole e il suo bagaglio requisito. Le sue proteste rimangono inascoltate. Si proclama nobile cavaliere di Malta. Non viene creduto. Non si sa come riesca a tornare libero, forse pagando una cauzione […]Recupera una parte dei suoi beni […] Un racconto lo descrive stravolto, affamato, ammalato, sfinito alla ricerca di una feluca che ha noleggiato o di un’altra imbarcazione. Le sue ferite si sono infettate e ha una recrudescenza di febbre; secondo un’altra versione è vittima di alcuni vagabondi di cui si è fidato. Si troverà un corpo sulla spiaggia, non lontano dalla fortezza […] Caravaggio muore con lo sguardo rivolto a Roma, nel luglio 1610 […] Alcuni giorni dopo o prima il dramma di porto Ercole, il papa Paolo V, cedendo alle richieste degli amici di Caravaggio, appose il proprio sigillo sulla sentenza di grazia. (Lambert, 2008). Il Museo Pio Monte della Misericordia,nato come istituzione benefica nel periodo della Controriforma, per volere di un gruppo di giovani nobili napoletani, è tra i complessi più antichi della città Partenopea. La struttura ospita oggi al suo interno magnifiche pitture della scuola napoletana del Seicento, tra le quali la tela delle Sette opere di Misericordia del Caravaggio ed espone al pubblico una delle più importanti raccolte private italiane. L’antico edificio vanta uno spazio ampio e stupefacente: al piano terra presenta un portico in piperno composto da cinque arcate; a sinistra del portico, invece, troviamo l’accesso al primo piano che porta alla Quadreria del Pio Monte della Misericordia composta da ben dieci sale. Dalla seconda arcata si accede alla Chiesa seicentesca a pianta ottagonale, realizzata da Francesco Antonio Picchiatti. Appena varcata la soglia della chiesa, si è pervasi da un’atmosfera magnifica che riporta indietro nel tempo, a quando il Pio Monte della Misericordia fu fondato per esercitare le sue nobili attività di misericordia. Tutto intorno, sei cappelle sotto maestose arcate, illuminano ed espongono dipinti di Battistello Caracciolo i quali illustrano singolarmente le opere della misericordia che erano e sono tutt’ora esercitate dall’istituzione; ma prima, lo sguardo è attirato e si concentra sull’altare maggiore, dietro il quale è esposta la tela de Le Sette Opere di Misericordia, capolavoro del Caravaggio. Quel che colpisce subito della tela è che sembra una scena ripresa dal quotidiano napoletano, nei suoi vicoletti stretti, affollati, contornata da un’aria teatrale de “la commedia napoletana”: la sepoltura dei morti, la visita nelle carceri, i pellegrini, e in alto la Madonna col Bambino a supervisionare su Napoli e l’animo nobile del suo popolo. Il primo piano, apre le porte a un’affascinante percorso non museale inaspettato: quello della Quadreria, i suoi salotti e i 140 unici dipinti frutto di donazioni del XVI e XVII secolo. Si vede esposta la copiosa collezione del pittore Francesco De Mura, donata al Pio Monte della Misericordia nel 1782, e le opere d’arte donate da Maria Sofia Capece Galeota nel 1933. Un ultimo particolare… Nella sala dell’anticamera II c’è ancora il grande tavolo rotondo intorno al quale si riunivano i sette fondatori dell’istituzione. Ancora oggi, i discendenti delle rispettive famiglie si ritrovano a quello stesso tavolo per discutere delle attività in corso e da svolgere, delle mostre, eventi e esposizioni. Ora come allora la fiamma della pietas contraddistingue l’essenza dei veri Napoletani. Le Sette Opere della Misericordia di Caravaggio è un dipinto che trova proprio nella sua complessità la sua grandezza. Infatti, su una sola tela la magia del Merisi racconta le sette opere articolandole in scene tra loro indipendenti ma nel contempo coordinate nell’armonia di una rappresentazione complessiva. Per comprendere le finalità che si riproponeva Caravaggio, è necessario partire dalla storia del committente, ovvero il Pio Monte della Misericordia. Questa istituzione laica nasce nel 1602 come organizzazione secolare ma strettamente legata alla chiesa tanto da essere riconosciuta da papa Paolo V nel 1605. Il Pio Monte della Misericordia aveva, appunto, come sua finalità quella di operare proprio negli ambiti indicati dalle Sette Opere della Misericordia. Così, nel 1607, il Pio monte decise di affidare a Caravaggio (che in quell’anno era a Napoli) la realizzazione di un’opera che rappresentasse proprio le sue attività. L’opera fu così apprezzata da essere posta a ornamento dell’altare maggiore della chiesa del Pio Monte che, allora come oggi, si trova in Via dei Tribunali. Sebbene l’edificio sacro a cui accediamo oggi non sia quello dei tempi del Caravaggio ma quello che lo sostituì nel 1653, la grande tela è sempre al posto d’onore. Prosaicamente, al Merisi la tela – un capolavoro, occorre dire – fruttò bene. Ricevette infatti 400 ducati: l’appannaggio del segretario generale del Pio monte era di 24 ducati l’anno. La realizzazione fu però all’altezza del suo genio. Innanzitutto dal punto di vista della concezione generale. Infatti la tela si compone di quattro scene principali nell’ambito delle quali la rappresentazione delle sette opere viene affidata o a singole figure o a emblematici momenti di racconto. Il tutto dominato dalle figure della Vergine e del Bambino nella parte alta del quadro. Partiamo dall’alto e procediamo in senso orario. La Vergine e il Bambino guardano le scene che avvengono sotto di loro sorrette da due angeli. È come se si affacciassero a una finestra. La Madonna tiene abbracciato il Bambino ma è piuttosto complicato comprendere in quale modo i due angeli (tra loro abbracciati) li sorreggano. Al di là della fisica, siamo davanti a un momento di pittura formidabile. Il volto del Bambino (come spesso accade nelle ritratti di bambino del Caravaggio) lascia senza parole. Non meno quello della Vergine. L’ala alta dell’angelo di destra compone iscrive in un tondo la scena insieme al drappo bianco che vediamo a sinistra. Il bianco di Caravaggio è, come sempre, una sciabolata di luce. Nel turbine di ala e drappo, si inserisce il braccio dell’angelo di sinistra che cerca di trovare un punto di equilibrio. Sembra che il Merisi avesse lasciato il suo modello con la mano poggiata su una tavola per ore e la fisicità del braccio e della mano particolarmente intensa. La mano poi con le cinque dita aperte e il palmo schiacciato è una bella esecuzione. È interessante notare come al di sotto della scena celeste laddove Caravaggio rappresenta le vicende terrene, la luce divida la tela in due metà. Quella di destra è caratterizzata dai bianchi (gli abiti) e dalla luce. Quella di sinistra dai chiaroscuri e dalla penombra. Procedendo in senso orario, vediamo una parete. È quella di un carcere. Guardando bene, troveremo un paio di piedi che appaiono a mezz’aria senza il loro proprietario… che è ancora dietro la porta. Scherzi a parte, la scena racconta l’opera di misericordia seppellire i morti. Un sacerdote, la cui torcia da luce alla scena, prega (con la bocca socchiusa) mentre un monatto trascina il cadavere. Quella della sepoltura dei morti era un problema di salute pubblica prioritario e una delle prime finalità per cui si impegnò il Pio Monte della Misericordia. Poco più avanti e in primo piano nella tela, le due opere visitare i carcerati e dar da mangiare ai carcerati rappresentate in un’unica scena. L’immagine di una donna che offre il proprio seno a un carcerato si rifà alla vicenda di Cimone narrata da Valerio Massimo nel De Pietate in Parentes. Il vecchio, destinato a morire di fame in carcere, è salvato dalla figlia che lo nutre al proprio seno. Il Pio Monte aveva riunito queste due opere con una terza, vestire gli ignudi, nella finalità di sostenere i poveri vergognosi. Spostiamoci dalla luce all’ombra. Nella parte centrale della tela, un cavaliere è rappresentato nell’atto di tagliare il suo mantello per dividerlo con due figure a terra. Una si perde nell’ombra, l’altra è davanti a noi di schiena. Con la mano destra ha già afferrato il mantello mentre con la sinistra fa forza per mantenersi eretto. La posizione della mano cambia leggermente ma è la medesima postura della mano dell’angelo di cui abbiamo detto prima. Evidentemente, la scena di ispira alla vicenda di San Martino. Qui Caravaggio collega due opere: visitare gli infermi e vestire gli ignudi. La prima delle due fu anche la prima opera intrapresa dal Pio monte. Guardate con attenzione il cappello dell’uomo rappresentato dietro il cavaliere. Dal buio emerge una conchiglia cucita sul cappello stesso. È la conchiglia di san Giacomo e identifica inequivocabilmente chi la porti come pellegrino. L’uomo che ha di fronte gli sta indicando qualcosa con un dito, probabilmente un luogo dove passare la notte. L’opera di misericordia è senza meno ospitare i pellegrini. Un’attività svolta dal Pio Monte in particolar modo in occasione degli Anni Santi. Come inserito in una “V” formata dalle figure del pellegrino e del suo interlocutore, si propone in modo deciso una figura. I suoi tratti danno conto della sua forza: infatti si tratta di Sansone. Si sta dissetando dalla mascella d’asino con l’acqua miracolosamente inviatagli dal Signore. Il Seppellimento di Santa Lucia realizzato quasi sicuramente dal fuggiasco Caravaggio, approdato in Sicilia in seguito alla sua fortunosa dipartita clandestina dall’isola di Malta (fuga agevolata dall’oscurità del novilunio e avvenuta tra gli ultimi giorni di Settembre e i primi del mese successivo), tra il mese di Ottobre e il mese di Novembre dell’anno 1608 per l’altare maggiore della chiesa normanna extra moenia di Santa Lucia al Sepolcro di Siracusa, detta anche di Santa Lucia alla Marina (XII secolo), situata nella zona di campagne a nord-est di Akradina, fuori dalla cittadella medievale di Ortigia e attigua a un monastero di antica fondazione cistercense, la grande pala d’altare che raffigura il Seppellimento di santa Lucia rappresenta il primo indiscusso capolavoro che l’artista lombardo eseguì in terra di Sicilia, e senza incertezze esso è da mettere in relazione con il luogo che per consolidata tradizione locale veniva identificato con il sito preciso in cui era avvenuto il crudele martirio e la successiva inumazione della santa vergine siciliana. Era infatti di vitale importanza per l’intera cittadinanza rivendicare il diritto legittimo al sepolcro della santa, in considerazione del fatto che le sue spoglie mortali, reliquie tra le più venerate dai cristiani d’Occidente, non si trovavano più a Siracusa da secoli, essendosene appropriata Venezia dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453. Come già opportunamente evidenziato da Gioacchino Barbera, «il dipinto ha una ricchissima letteratura supportata da autorevoli considerazioni critiche, non sempre concordi, su varie problematiche filologiche e stilistiche»; di conseguenza mi preoccuperò in questa sede di ridefinire il contesto culturale della Siracusa nei primi del Seicento, di aggiungere alcune riflessioni riguardo l’opera, per lo più relative ad alcuni aspetti inerenti la genesi del suo originale schema compositivo, e dunque di procedere a una lettura della sua peculiare veste iconografica, in effetti tra le più interessanti e innovative nell’intera produzione artistica del pittore. Infine avanzerò ipotesi riguardo a possibili fonti locali di ispirazione per il pittore e aggiungerò all’analisi del dipinto qualche ulteriore considerazione, specificamente a carattere iconologico. Come già in Roma e successivamente a Napoli e a Malta, così anche in Sicilia, Caravaggio, impegnato sin da subito in importanti commissioni pubbliche, non si limita a riproporre passivamente per i propri dipinti quelle che potevano essere considerate le vesti iconografiche più usitate, diffuse e dunque radicate in una solida tradizione d’arte sacra, che pure egli doveva conoscere abbastanza bene. Al contrario l’artista è portato a stabilire un rapporto intelligente e dialettico con le tematiche sacre che gli si chiede di realizzare: invece di subire il soggetto come un autoritario limite imposto dall’alto alla propria fervida capacità creativa, e lungi dal considerarlo dunque un impedimento invalicabile, egli tende sempre, prestando la dovuta attenzione sia alla destinazione finale del dipinto sia nei riguardi della committenza che lo aveva richiesto, a operare una scrupolosa e non casuale selezione tra i vari registri iconografici a propria disposizione per il medesimo soggetto religioso e infine a scegliere quello che gli sembra il più giusto (ad esempio, per attenersi al ricco repertorio degli aneddoti relativi a vita e morte di santa Lucia, gli episodi di Lucia presso il sepolcro di sant’Agata, di Lucia che distribuisce i beni ai poveri, del Processo di Lucia al cospetto del prefetto Pascasio, dell’Ultima Comunione di Lucia , tema questo prediletto della pittura veneta tra Cinque e Settecento, e per finire del Martirio di santa Lucia, erano tutti molto celebri e fortunati nelle arti figurative ed estrapolati dalla ben nota e ampiamente diffusa Passio latina della santa risalente al VII secolo d.C.) ma non mancando tuttavia di darne una propria interpretazione, sempre adeguando in qualche modo il tema scelto per la sua opera alla propria interiore e personale visione del sacro. Questo non significa necessariamente, come anche è stato supposto, che l’artista si attenesse unicamente a una propria soggettiva interpretazione nella definizione dei temi, scartando a priori, o ignorando del tutto (se non arrivando addirittura a stravolgere di proposito) tradizioni iconografiche non solo valide rispetto ai canoni dell’ortodossia dell’epoca ma che egli sapeva anche essere di sicuro successo, perché ampiamente collaudate, rispetto ai gusti della committenza; né addirittura che quegli stessi contenuti gli fossero del tutto indifferenti, puntando egli unicamente sulla potenza espressiva che sapeva infondere nelle intense figure protagoniste dei suoi dipinti, uomini e donne della quotidianità più umile, rivestiti di volta in volta dei panni di santi, carnefici, eletti o peccatori. Diversamente egli dimostra in più di una occasione di non agire impulsivamente o superficialmente di fronte alle tematiche religiose, rivelandosi attento e molto ben informato ad esempio rispetto a tutte le versioni dei soggetti che si apprestava a realizzare, conoscendo non solo le fonti letterarie colte e ufficiali alla base di quelle stesse immagini, ma anche quel patrimonio più popolare di racconti e leggende edificanti appartenenti al mondo della devozione e sorti nei secoli intorno alle stesse figure dei Vangeli, dei santi e degli eroi biblici che doveva dipingere. Questa volta dunque si trattava di celebrare la veneratissima protomartire Lucia, santa vergine siciliana, prima patrona della città di Siracusa. Questa nobile fanciulla, vissuta a cavallo tra il III e il IV secolo d.C. durante le persecuzioni anticristiane dell’imperatore Diocleziano, aveva incarnato appieno attraverso la propria stessa vita, passione e morte tutti i valori della più fulgida imitatio Christi, e nel suo stesso nome assimilava a sé il concetto evangelico e patristico di lux animae, ripreso e lodato nella Leggenda Aurea da Jacopo da Varagine, inteso come sublime principio spirituale che ispira, illumina e guida sul sentiero della fede (Lucis Via) solo i veri credenti, facendo di se stessa fin dalle origini uno dei primi e più autentici modelli esemplari di somma virtù cristiana (e per cui già Dante le riconosceva un ruolo privilegiato nella Commedia). Importanti elementi teologici questi, comuni tanto alla Scolastica medievale quanto al Neoplatonismo rinascimentale, tutti relativi al concetto di Lux divina, che da tempo dovevano risultare familiari al pittore, anche e soprattutto grazie alle assidue frequentazioni romane di quell’ambiente a spiccato carattere neoplatonico che si stringeva attorno al potente ed erudito cardinale Francesco Maria Del Monte (1549-1627), che era stato suo mecenate e protettore, e alla di questi colta e raffinata élite culturale. Alla fine, per il dipinto di Siracusa il Caravaggio optò per una scelta insolita, cioè per l’evento narrativo della storia della santa più raramente citato nelle fonti agiografiche e meno rappresentato nelle arti figurative, quello del Seppellimento del corpo di Lucia e delle sue esequie dopo il martirio e la morte. Sull’ampia superficie del telero, Caravaggio sceglie di rappresentare dunque, per mezzo di una composizione solo apparentemente semplice ma in realtà accuratamente studiata, di un registro cromatico essenziale e tonalmente dimesso e di una luminosità impietosa, quasi crudele, che inonda e inchioda le figure, la sconcertante verità di un cupo avvenimento post mortem, raggelato nel suo istante di massimo pathos, un drammatico scenario che ha il suo fulcro di più alta intensità emotiva proprio nel fragile corpo senza vita, riverso inerte al suolo, della casta fanciulla cristiana dalla gola tagliata. Per il conseguimento di questo fine egli si serve di tutti gli strumenti tecnici e formali a propria disposizione, espedienti che aveva già avuto modo di collaudare nei pochi ma straordinari dipinti maltesi, dalla ricostruzione meticolosa di una scabra ambientazione cimiteriale ipogea, che egli rende dimensionalmente soverchiante rispetto alle figure, a una intensificazione ai limiti estremi del valore luministico attraverso una fonte unica e intensa di luce proveniente da destra che si abbatte con prepotenza sulle figure sottraendole alla penombra uniforme del fondale, alla presenza fisicamente ingombrante, ma strumentale nel guidare lo sguardo dell’osservatore verso il fulcro della scena, dei due rozzi scavatori intenti alla loro opera in primo piano, alla toccante impaginazione di un dimesso corteo funebre, sintetica, simbolica e corale definizione caravaggesca di corpus ecclesiae, mestamente assiepato in secondo piano, nell’ultimo estremo saluto alla amata benefattrice, infine all’evidenza espressiva e retorica dell’insieme gestuale dei personaggi che chiosa sulla narrazione, in particolare di quello del giovane diacono che intreccia le mani in segno di rassegnata accettazione del dolore (identico gesto di mite resa del Cristo nella stupenda Cattura nell’orto di Getsemani di Dublino) e dell’anziano vescovo avvolto nella sobria dignità dei paramenti sacri che impartisce l’ultima benedizione all’esile corpo della defunta. In questa attenta ricostruzione dell’evento Caravaggio decide, come già aveva fatto pochi mesi prima nella monumentale Decollazione del Battista di Malta, di procedere per contrasti e dunque di invertire un sistema di valori teorici, figurativi e simbolici che aveva alle proprie spalle ben tre secoli di tradizione artistica, e mi riferisco nello specifico al fondamentale rapporto pittorico figura-spazio. Per meglio chiarire questo punto essenziale, che merita un approfondimento, è necessario fare una breve digressione storico-artistica. Tutti gli artisti italiani precedenti il Caravaggio avevano sempre accettato e rispettato una prestabilita gerarchia interna tra i due principali elementi costitutivi della pittura: la figura umana e lo spazio; tale gerarchia garantiva alla figura umana il primato sullo spazio, inteso come il luogo astratto destinato a contenerla e ad esserne scenario per gesta e azioni, subordinando l’autonomia dello spazio reso prospetticamente alla incondizionata verità dell’uomo e della sua forma fisica, in quanto quest’ultima era depositaria di ben più profonde e rilevanti implicazioni simboliche, filosofiche e morali. Caravaggio decide ancora una volta e con una determinazione inaudita, quasi nevrotica, di ricorrere nel suo dipinto siracusano ad un naturalismo intensamente descrittivo, legandolo a una ricerca di effetti visivi fortemente drammatici (e qui trova la sua ragion d’essere quel suo uso particolarmente feroce della luce), per dare voce immediata ed esplicita a un messaggio che era di per se stesso altrettanto intenso ed esplicito, tanto per il pittore quanto per tutti gli uomini del suo tempo: «Memento moriturum esse», «ricordate sempre, non dimenticate mai, che si deve morire» e appare dunque piuttosto scontato che queste soluzioni formali e stilistiche dovessero risultare estremamente congeniali agli umili ma concreti Cappuccini, che desideravano esprimere nella vita di ogni giorno quell’identico monito morale e con altrettanta veemenza e convinzione. Il corpo morto della santa non era stato interrato, ma secondo la tradizione funeraria paleocristiana, avvolto in un lenzuolo di lino bianco e collocato in un loculo ad arcosolio, in una profonda cripta delle catacombe al di sotto del luogo del martirio, su cui in seguito venne edificata la chiesa a lei intitolata. Medesimo trattamento era stato riservato alle spoglie del protomartire Marciano, che furono deposte in un arcosolio in una cripta nel sottosuolo di Akradina, scavato nella roccia calcarea, nelle catacombe di San Marciano, sulla quale venne successivamente edificata la chiesa bizantina di San Giovanni Evangelista, in seguito al terremoto del 1693 ridotta a un rudere ma ai tempi del Caravaggio ancora in piedi e molto visitata per la sua suggestiva medievale bellezza, un sito anche questo accuratamente mappato da Vincenzo Mirabella. Non mi appare affatto casuale inoltre il gesto ripetuto da ben due figure all’interno del dipinto del Caravaggio, quella del gendarme in armatura completa al fianco del vescovo benedicente (figura quest’ultima che ritengo vada identificata con san Marciano, in aderenza con la leggenda, e che per tale accostamento abbia potuto rappresentare anche un omaggio del pittore lombardo al pio vescovo Saladino) e di uno dei fedeli nel corteo: con un gesto delle mani inconfondibile, entrambe le figure indicano l’apertura a doppio arco che si apre sulla parete di pietra, socchiusa da una pesante porta a travi di legno, sicura via di accesso a una cripta: la sepoltura ad catacumbas viene indicata come alternativa all’interramento, affinché in essa e non sotto terra venga deposto e per sempre onorato l’incontaminato corpo della pura martire Lucia. In conclusione, l’insieme delle considerazioni che scaturiscono dalla rilettura iconografica e iconologica sviluppata finora credo gettino in parte una luce nuova, con una particolare attenzione al momento siracusano, sul sofferto percorso umano e artistico del Caravaggio in Sicilia, e aprano ovviamente la strada a ulteriori interrogativi e a nuovi spunti di riflessione sul suo travagliato periodo conclusivo. Certo sarebbe sempre possibile e non del tutto fuorviante leggere in tutto il malessere esistenziale che l’artista riversa nei dipinti siciliani il diretto riflesso, insieme psicologico e sociologico, di un intimo e profondo senso di disagio e di precarietà congenito, proprio non solo al Caravaggio ma più in generale a un’intera collettività, quella del Seicento e di tutta l’Europa, al di là delle differenze di ceto, di cultura e di credo, che si ritrovava a vivere in una difficile epoca di contrasti, di incertezze e di instabilità, un intero secolo dominato dal sentimento ossessivo e angoscioso della precarietà, del mutamento, dell’alterazione e quindi in definitiva dall’incubo della morte. Tuttavia ritengo che una tale chiave interpretativa (psico-sociologica) delle motivazioni che hanno spinto l’artista a questa peculiare definizione delle sue ultime opere, lettura che pure è stata avanzata più volte per meglio inquadrare e comprendere la controversa esperienza del periodo finale dell’artista lombardo, sebbene di certo interessante, pertinente e valida come ulteriore elemento costitutivo del suo personale percorso di vita e di arte, risulterebbe piuttosto riduttiva se venisse considerata come unico canale di comprensione della complessità di una figura nell’insieme molto più articolata e problematica, come fu a tutti gli effetti quella del Caravaggio.
Le prossime due letture di dipinti siciliani del Merisi che mi accingo a sviluppare qui di seguito riguardano due opere pittoriche di livello qualitativo altissimo da datarsi entrambe al 1609, una molto celebre, la Resurrezione di Lazzaro, custodita al Museo Regionale “M. Accascina” di Messina, prima tela eseguita durante il soggiorno messinese e l’altra che dopo l’accurato intervento di pulitura e restauro e le puntuali analisi radiografiche e riflettografiche (sotto la attenta direzione di Rossella Vodret), è stata recentemente considerata autografa rispetto alle molte copie coeve, e viene ascritta al brevissimo soggiorno dell’artista a Palermo prima di lasciare definitivamente la Sicilia per Napoli. Entrambe queste opere, che furono destinate a ordini religiosi di nuova fondazione (Crociferi a Messina, Cappuccini di Palermo), spero possano chiudere il cerchio aperto in premessa e completare questo discorso sul periodo siciliano di Michelangelo Caravaggio, restituendone un’immagine complessiva che, lungi dal voler essere esaustiva, risulti tuttavia il più possibile interessante, coerente e organica. Prima di intraprendere una lettura ed una analisi della celebre Resurrezione di Lazzaro, intenso, suggestivo e inquietante dipinto che Caravaggio realizzò per la chiesa dei Padri Crociferi di Messina, sarà utile riassumere in una sintetica rassegna l’insieme degli eventi che portarono al soggiorno messinese del Merisi e alla realizzazione di questa prima opera pittorica su commissione privata nell’isola, ridefinendo l’ambiente sociale di questa grande città siciliana nel primo decennio del XVII secolo e sviluppando qualche riflessione sulla rete dei committenti locali del pittore. Trascorsi nella tranquilla cittadina aretusea circa due mesi, Caravaggio decise di lasciare Siracusa e la sua relativa sicurezza per raggiungere Messina, la più grande, ricca, popolosa e importante città portuale siciliana dopo la capitale Palermo: doveva trattarsi di certo di un ambiente urbano in grado di offrirgli prospettive più vantaggiose per l’eventualità di nuove commesse, in attesa e in previsione di un suo possibile riavvicinamento a Roma. Dopo aver incassato il pagamento per l’importante commissione del Seppellimento di santa Lucia da parte del Senato siracusano (la cui definizione in cifre non è pervenuta, ma che non dovette essere affatto modesta), Caravaggio disponeva dei mezzi necessari per affrontare il viaggio da Siracusa alla città dello stretto: un trasferimento questo che egli doveva avere pianificato già da qualche tempo e che ritengo più plausibile sia avvenuto per mare che non via terra. In quel periodo infatti i collegamenti stradali interni tra i centri dell’isola erano praticamente inesistenti e le poche vie percorribili, essenzialmente quelle che seguivano la linea costiera, erano poco più che trazziere, disagevoli oltre ogni modo e, per come le cronache dell’epoca riportano (e non abbiamo motivo di dubitarne) infestate da vagabondi, briganti e fuorilegge di ogni tipo, tanto che era del tutto impensabile, per chiunque disponesse di un minimo di mezzi propri, viaggiare senza una discreta scorta; oltre a ciò, data l’impraticabilità delle strade, era praticamente impossibile continuare a viaggiare durante le ore notturne .Certo la storia della Sicilia del periodo riflette anche in questi aspetti i peggiori effetti del più dannoso e opprimente malgoverno straniero, imperante su tutta l’isola durante il fosco periodo di governo dell’impopolare vicerè spagnolo, l’avido Juan Paceco, marchese di Vilhena (1607-1610). Molto più agevole dunque risultava effettuare la traversata da Ortigia fino a Messina via mare: un tragitto che, in condizioni atmosferiche clementi, con l’ausilio di una buona imbarcazione e con correnti favorevoli, era possibile concludere in relativa tranquillità nel volgere di circa dieci ore. Viene comunemente assunto per certo dalla maggior parte degli studiosi e degli storici dell’arte che il Caravaggio si trovasse nella città dello stretto già in data 6 Dicembre 1608, e in effetti questo è quanto si potrebbe dedurre dalla lettura di un documento, oggi purtroppo non più reperibile, che riporta la data di commissione per la edificazione della cappella principale e di una pala d’altare per decorarla nella chiesa messinese dei santi Pietro e Paolo dei Pisani, chiesa ceduta in concessione dal Senato cittadino all’Ordine dei Ministri degli Infermi a Messina nell’anno 1606 e a quei tempi in corso di riedificazione. Tuttavia bisogna sottolineare che nel suddetto documento, che segnerebbe l’inizio del soggiorno messinese dell’artista, il nome del pittore che avrebbe dovuto realizzare materialmente l’opera non viene riportato. A ragione di ciò propendo per credere che in tale data la scelta dell’artista da parte del committente del dipinto, il patrizio Giovan Battista de’ Lazzari, e dei proprietari della chiesa, i Padri Crociferi, semplicemente non fosse ancora avvenuta; questa ipotesi mi appare la più sensata, piuttosto di considerare (come anche è stato fatto) che il Caravaggio, sempre ricercato dagli instancabili persecutori maltesi, anche a Messina preferisse condursi nel più assoluto anonimato; apparirebbe alquanto incongruo in effetti considerare tale omissione del nome del pittore nell’atto di stipula come voluta di proposito dalle parti sottoscriventi, poiché trattavasi di nominare un artista ricercato e fuggiasco. Il pittore lombardo infatti viene espressamente nominato nel successivo documento di consegna del dipinto, datato 10 Giugno 1609, e in esso viene addirittura indicato ancora come «Miles Hyerosolimitanus», appartenente cioè all’Ordine dei Cavalieri di Malta. Nel periodo tra la metà di Dicembre del 1608 e il Giugno del 1609, in cui sappiamo venne realizzata la tela dei Crociferi, deve essere sopraggiunto nella vita dell’artista qualche avvenimento di cui non siamo tuttora a conoscenza, che getterebbe una luce sulle sue reali condizioni, e che possiamo solo tentare di ricostruire con una certa approssimazione, in considerazione tra l’altro del vuoto documentario che circonda i primi mesi del periodo messinese del pittore: forse avendo lasciato Malta e l’Ordine di San Giovanni per sempre non temeva più vendette trasversali da parte dell’ordine offeso o la condanna del pittore, conclusasi con la sua disonorevole espulsione, si considerava ormai scontata oppure ancora (e credo molto più plausibilmente) egli riteneva di poter confidare a Messina su una discreta certezza di incolumità, garantitagli dalla grande celebrità artistica che lo precedeva e dalla sicura protezione che gli veniva anche in questa città dalle potenti istituzioni religiose locali (specialmente dall’Ordine Francescano, rappresentato dalla colta e prestigiosa persona del vescovo Bonaventura Secusio da Caltagirone, già minore osservante), dall’ aristocrazia locale e dai ricchi e influenti mercanti messinesi e genovesi . Se è vero dunque, come personalmente credo e per come si è precedentemente asserito, che la data ultima di consegna della pala siracusana coincidesse con le grandi celebrazioni per il dies natalis di santa Lucia, cioè il 13 di Dicembre, ritengo più naturale che il trasferimento del pittore a Messina sia avvenuto nei giorni immediatamente successivi a tale data, oppure poco prima. Rispetto alla più provinciale e isolata Siracusa, il cui ruolo di centro economico e commerciale nel Mediterraneo era stato irrimediabilmente e definitivamente compromesso dai poco accorti decreti dell’intransigente Filippo III di Spagna che interdicevano i rapporti commerciali del Viceregno di Sicilia con i vicini scali portuali musulmani del nord Africa e del Vicino Oriente (da secoli sbocchi marittimi naturali per l’economia mercantile siciliana), Messina ai primi del Seicento contava quasi centomila abitanti, godeva ancora della vantaggiosa qualifica di porto franco, sicuro approdo marittimo, ben difeso da quattro possenti fortezze, e possedeva una economia commerciale abbastanza florida, basata principalmente sulla produzione e il commercio dei tessuti (in particolare della seta, sia grezza che filata, per la quale da decenni deteneva il monopolio sull’isola). Soltanto questa città in Sicilia, unica eccezione nelle istituzioni civiche del tempo, poteva vantare politicamente un Senato con moderate tendenze democratiche (notevole ad esempio il fatto che in questa municipalità persino personaggi non di nobile lignaggio potessero accedere a importanti cariche pubbliche e partecipare agli organi di governo); inoltre rivendicando antichi privilegi e notevoli esenzioni fiscali acquistate direttamente dalla corte reale di Madrid (scavalcando l’autorità del vicerè ed arrivando a volte ad approntare cifre davvero esorbitanti per l’epoca) Messina era in competizione diretta e continua con l’osteggiata capitale Palermo, alla quale contendeva il ruolo di prima città vicereale di Sicilia96. Gli unici risvolti negativi per questa altrimenti insuperata e “nobilissima” cittadina erano la frequente e distruttiva attività tellurica, cui tutta l’area della Sicilia orientale dalle coste ai monti dell’entroterra era periodicamente soggetta, e l’alta incidenza di violente ondate epidemiche, resa più grave dalla particolare posizione geografica di Messina, proiettata sul mare ma del tutto isolata dal resto dell’isola da alte barriere montagnose . Altro importante elemento, vitale nelle politiche e nell’economia della città dello stretto e che va segnalato perché svolse un ruolo importante in rapporto all’attività messinese del Caravaggio, era costituito dalla numerosa colonia di nobili cadetti e ricchi mercanti genovesi ivi residenti, molto attiva e influente a Messina già dal XV secolo e strategicamente e saldamente piazzata nei settori più importanti del commercio e della finanza; si trattava di giovani imprenditori, genovesi di origine ma trasferitisi da decenni in Sicilia, che con i loro stretti legami familiari e finanziari con le altre comunità genovesi di Palermo e Napoli e tramite rapporti mai interotti con la stessa Repubblica di Genova costituivano una vera colonna portante per l’economia e il commercio messinesi nel Seicento. Ed è proprio a questo esclusivo ambito che tra l’altro apparteneva a pieno titolo la ricca famiglia di Giovan Battista Lazzari, committente di Caravaggio . Sono state formulate diverse ipotesi in particolare negli ultimi cinquant’anni da parte degli storici dell’arte e di vari studiosi sulla situazione materiale e psicologica di Michelangelo Caravaggio, sulla sua particolare indole e sul modo in cui (e fino a che punto) essa abbia condizionato il suo stile di vita oltre che la sua arte. Non per voler indulgere ad un facile psicologismo, approssimativo e alla moda, ma unicamente per esigenze di una maggiore chiarezza di indagine, ciò che più mi preme a questo punto è cercare di mettere a fuoco il peculiare stato d’animo in cui versava il pittore nei mesi trascorsi in Sicilia, in particolare in quale misura il suo stato mentale sembra aver influenzato le sue scelte artistiche e orientato l’intero suo soggiorno messinese, durato all’incirca otto o nove mesi e contraddistinto da una notevole attività pittorica (sono molte infatti le fonti storiche locali che confermano le commissioni private per opere pittoriche ricevute dall’artista durante i mesi trascorsi nella città dello Stretto) . Bisogna tenere in considerazione ad esempio, come è stato puntualmente evidenziato da Rossella Vodret in un recente volume sull’artista, che sono diversi gli elementi che puntano decisamente a leggere la situazione interiore di Michelangelo in quei giorni messinesi come particolarmente instabile, ansiosa, umorale quasi ai limiti della paranoia, e un preciso e diretto rispecchiamento di questo suo profondo squilibrio psicoemotivo si è voluto riconoscere proprio nella Resurrezione di Lazzaro tra tutte le opere che egli realizzò nel periodo siciliano il grande telero da lui eseguito per la chiesa messinese dei Ministri degli Infermi, tra il Gennaio e il Giugno dell’anno 1609. Come si è accennato pocanzi, Giovan Battista Lazzari, committente messinese del Caravaggio, apparteneva alla nuova nobiltà emergente di ricchi mercanti di origine genovese, e si era trasferito con la sua numerosa famiglia (erano in tutto sei fratelli) da Genova a Messina nel 1584, forse in seguito alle gravi agitazioni politiche scatenatesi in seno alla Superba Repubblica nel 1575, come diretta conseguenza delle sempre più pressanti rivendicazioni finanziarie della nuova aristocrazia di censo, cui i de’Lazzari appartenevano, a scapito degli antichi privilegi della vecchia aristocrazia di sangue. Giunti nella città dello stretto, e dopo essersi iscritti prontamente alla Mastra della Nobiltà di Messina, i giovani rampolli Lazzari avevano subito intrecciato rapporti matrimoniali con ricche famiglie dell’aristocrazia locale e avevano creato una solida rete di legami commerciali e finanziari dalla città dello Stretto con Genova, Napoli, Malta, Marsiglia e Palermo. In particolare i fratelli Tommaso e Giovan Battista si erano guadagnati un ruolo di spicco nella società messinese, e quest’ultimo era riuscito a farsi eleggere in qualità di governatore della prestigiosa Tavola Pecuniaria cittadina nel 1602. Ancora una volta dunque Caravaggio si ritrovava a lavorare privatamente per un ricco aristocratico genovese, situazione questa che era iniziata a Roma anni addietro e che si ripete in diversi luoghi e momenti nell’intera vita dell’artista, fino agli ultimi giorni napoletani, in previsione di un rietro a Roma mai verificatosi. I Chierici Regolari Ministri degli Infermi (questo il loro nome completo) invece formavano un ordine religioso di recente costituzione, nato anch’esso dietro la forte spinta rinnovatrice della Controriforma cattolica. A differenza degli altri ordini religiosi di antica e nuova fondazione, ai quali erano richiesti i tradizionali tre sacri voti (povertà, castità e obbedienza), i Crociferi (così detti per il loro emblema, una croce di nappa rossa che portavano cucita sulla spalla e sul petto dell’abito talare) si legavano a livello statutario a un quarto voto solenne, quello dell’assistenza agli ammalati, anche se incurabili, contagiosi o moribondi, e ciò a rischio della loro stessa vita. Il loro padre fondatore, Camillo De Lellis, era ancora vivente e operante a Roma e già circondato da un’aura di santità quando una delegazione del suo nuovo ordine, riconosciuto ufficialmente da papa Gregorio XIV nel 1591, venne accolta con grandi onori a Messina nel 1599. Non stupisce infatti che, in una cittadina periodicamente soggetta a violente ondate epidemiche, la presenza di un ordine religioso che coadiuvasse i Cappuccini nella cura e assistenza dei malati e degli infetti fosse più che ben voluta dal Senato cittadino, che nel 1600 mise a disposizione dei chierici nuovi arrivati a proprie spese un intero palazzo nei pressi del porto in funzione di casa conventuale e nel 1606 gli accordò in perpetua concessione la chiesa dei santi Pietro e Paolo dei Pisani (andata demolita nel 1880), pagandone tra l’altro i lavori per la restrutturazione. In quei giorni inoltre si stava finendo di costruire in periferia a sud lo Spedale Grande, vero orgoglio per l’intera municipalità messinese, cui un’ala era stata concessa nel 1605 in gestione come infermeria ai Padri Cappuccini, ma nel cui statuto generale dovevano figurare, e in posizioni di un certo rilievo, (oltre al vescovo Secusio che ne era governatore) diversi esponenti dei Ministri degli Infermi già da qualche tempo. Le fonti documentarie ci informano infatti che Caravaggio ottenne non solo la commessa per la pala d’altare della cappella de’ Lazzari nella chiesa dei Crociferi, ma alcuni locali di questo nuovo ospedale in comodato d’uso, per alloggiarvi e per poter lavorare indisturbato al suo nuovo capolavoro106; eventi importanti entrambi questi che fanno pensare a una confermata e benevola protezione accordata al celebre pittore da parte delle massime autorità civili e religiose locali, desiderose di entrare in possesso di sue importanti opere. Per questa prima impresa messinese sono state molte volte indicate le forti e innegabili affinità stilistiche, formali, cromatiche e compositive che la legano al dipinto di Siracusa (e infatti per entrambe si può parlare di opere d’arte di altissimo spessore sia a livello concettuale che tecnico), specialmente per il grande risalto dato allo spazio vuoto, che catalizza l’attenzione sulla presenza delle figure, esaltandone le forme, i gesti e le azioni. Il dipinto messinese dunque costituirebbe un’ulteriore tappa evolutiva nella estrema, conclusiva sperimentazione artistica che il Caravaggio andava conducendo negli ultimi anni della sua vita, volta alla sintesi totale di verità, dramma e azione. Alcune differenze però sono ugualmente significative e vanno non di meno sottolineate: anche nel caso della Resurrezione di Lazzaro si tratta sempre di un telero di grandi dimensioni (cm.380 X 275), tuttavia queste sono inferiori rispetto a quelle del Seppellimento di santa Lucia di Siracusa (che erano imponenti per l’altare maggiore di una chiesa del XII secolo), e ciò va letto in considerazione del fatto che questa volta si trattava di adattare una pala d’altare al diverso spazio, più ridotto, di una cappella privata. Altra evidente differenza rispetto al quadro di siracusa è nella scelta del tema: inusuale nelle arti, al limite della rarità, l’iconografia scelta per il quadro di santa Lucia, che abbiamo visto essere in stretta connessione con il sito della sepoltura e con il culto locale della santa; nella tela di Messina invece Caravaggio decide di rievocare l’episodio evangelico della Resurrezione di Lazzaro, cioè il miracolo di Cristo più rappresentato e illustrato nell’arte cristiana di ogni tempo (e frequentissimo ad esempio nella pittura di tutto il Rinascimento e del Manierismo, tanto in Italia come all’estero). Il Susinno ci informa che fu personalmente il pittore a suggerire il soggetto per il quadro ai committenti, in alternativa alla convenzionale richiesta iniziale di una pala d’altare raffigurante una Madonna col Bambino e Santi, tra cui san Giovanni Battista, eponimo del committente108. Non siamo in grado di comprendere fino in fondo se la testimonianza dello storico messinese Susinno sia davvero attendibile o meno (in altri momenti del resoconto sul Caravaggio a Messina infatti il biografo riporta episodi decisamente foschi e macabri, indugiando in una aneddotica esageratamente “nera”, piena di dettagli drammatizzati e romanzeschi, ai limiti della credibilità storica), ma è certo che l’avvenuto cambiamento del registro iconografico dovette risultare molto gradito sia al de’ Lazzari (poiché il nome dell’evangelico Lazzaro di Betania, amico amatissimo dal Cristo e da questi fatto resuscitare, rappresentava per la sua esplicita omonimia un innegabile omaggio al ricco committente messinese e alla sua casata), che ai chierici titolari della chiesa, i Padri Crociferi (e a breve spiegherò le motivazioni di tale innegabile gradimento anche da parte loro rispetto al tema evangelico rappresentato dal Caravaggio). La fonte letteraria per l’iconografia del dipinto è il Vangelo di Giovanni (11:1-44) in cui viene narrato il settimo e più straordinario miracolo di Gesù, quello della resurrezione del suo amico Lazzaro di Betania, morto da ben quattro giorni. Sembra che Caravaggio mostri di rispettare la fonte evangelica e la coerenza storica dell’evento, che egli segue puntualmente sia rispetto alla scelta dei personaggi effettivamente presenti al momento del prodigio (oltre al Cristo e a Lazzaro, Marta e Maria di Betania, sorelle di quest’ultimo, alcuni apostoli che accompagnavano Gesù, i necrofori e una piccola folla di testimoni, gente di Galilea, venuti a consolare le due congiunte del defunto) che rispetto alla definizione del loro semplice abbigliamento, che appare coerentemente reso “all’antica”. Sono del tutto scomparsi infatti dalle tele siciliane del Caravaggio quei vivaci inserti di costume e di vestiario alla moda moderna, tanto frequenti nelle opere del periodo romano e napoletano, come se il pittore in Sicilia, oltre a riaccostarsi a una genuina idea di originaria classicità, scegliesse di immergersi più profondamente nella verità storica degli episodi raffigurati, senza tuttavia rinunziare alle sue istanze di attualizzazione dell’antico e del sacro ma piuttosto perseguendole adesso con mezzi, modalità ed espedienti differenti: puntando ad esempio su più realistici dettagli di ambiente o su una intensificata espressività gestuale, sulla verità atemporale di emblemi e simboli, o ancora sul valore universale degli affetti dei protagonisti. Ma come già era avvenuto a Siracusa, neppure in questa occasione l’artista rinuncia alla propria personale interpretazione del tema, divergendo dal Vangelo di Giovanni nel modo di definire l’ambientazione dell’episodio, che nel testo sacro si individuava in un luogo desolato e all’aperto, nei pressi di uno scabro sepolcro, scavato in una spessa parete di roccia e sigillato da una pesante pietra tombale (conformemente in effetti alla reale tradizione di tombe e sepolcri in Palestina nei primi secoli dell’era cristiana), e che invece il Caravaggio ridefinisce come il buio interno di un vano al chiuso, all’interno di un vuoto edificio monumentale, con ogni probabilità una chiesa, visto che l’avello da cui Lazzaro viene estratto si trova al livello del terreno, cosa che al pittore dovette sembrare molto più “naturale”: era infatti una concreta usanza tradizionale, ancora viva ai tempi del pittore ma di antico retaggio medievale, la pratica di seppellire i morti sotto le lastre pavimentali di marmo, all’interno di edifici consacrati, in particolare chiese, basiliche, martýrion e battisteri (sepultura ad sanctos). Inoltre la scelta di rappresentare un evento sacro tanto straordinario si prestava perfettamente al fine ultimo del pittore, che era principalmente quello di rendere realmente percepibile l’intensità emotiva di un evento drammatico: Caravaggio si dimostra pronto a ricorrere ad ogni mezzo tecnico a sua disposizione nel dipinto dei Crociferi pur di raggiungere questo fine, scomponendo la storia in una serrata sequenza multifocale di scene autonome ma correlate, fino a raggiungere il massimo livello di pathos nel toccante particolare dei due volti incrociati di Lazzaro e di Marta immersi in un silenzioso dialogo, ma senza mai rinunciare alla resa di un’unica sintetica visione d’insieme. Per questa prima prova messinese dell’artista infatti non a caso Maurizio Marini ha chiamato in causa, e ritengo a ragione, una precisa struttura di fondo definita “classica” (lo studioso chiama in causa la falsariga della monumentale Trasfigurazione di Raffaello come modello ideale per il dipinto caravaggesco), messa alla prova dalla ferma volontà, da parte del pittore, di scardinare sistematicamente questo stesso misurato schema compositivo di base, sconnettendone puntualmente ogni legame sintattico interno, come a voler «tingere di nero anche l’antica Grecia», per usare una evocativa ed efficace espressione longhiana. E in effetti una impostazione che è possibile definire “classica” è effettivamente riscontrabile nella Resurrezione di Lazzaro di Messina, sebbene nel quadro in oggetto il Caravaggio si spinga ben oltre la semplice citazione colta dell’arte antica (esempio evidente la figura del necroforo che sostiene il corpo del risorto Lazzaro, nella torsione del corpo, nella gestualità e nella resa anatonica, che riprende puntualmente quella dell’eroe spartano nel celebre gruppo scultoreo di Menelao che sorregge il corpo di Patroclo) . Il pittore inizia con il misurare sull’incrocio di due precisi assi diagonali il cui punto esatto di intersezione corrisponde alla mano destra sollevata di Lazzaro uno spazio reso tridimensionalmente, ampio e monumentale pur nell’oscurità cromatica uniforme del fondale; di seguito imposta le figure “a gruppi” all’interno dello spazio dipinto su una puntuale cadenza ritmica e su precisi rapporti stereometrici, esattamente come avviene negli episodi mitologici scolpiti a rilievo sui fianchi dei sarcofagi marmorei classici: al complesso gruppo del Cristo, degli apostoli e degli astanti sulla sinistra si controbilancia sul lato opposto il composto gruppo delle donne, classico nel lineare disegno del peplo di Marta e nell’elegante profilo di Maria, mentre la funzione di mediare tra gli i due gruppi è affidata al binomio plastico costituito da Lazzaro e dal necroforo disposto in diagonale, al centro esatto dell’impianto compositivo, e questo movimento interno che lega assieme i tre gruppi avviene con un ritmo regolare e nell’insieme armonico, nonostante la gestualità inconsulta degli arti superiori del corpo del risorto e al contempo la rigida pesantezza di morte delle sue gambe. Ma la misurata distribuzione di spazi e la calibrata staticità delle figure subisce da subito una vera e propria aggressione, procedente per gradi: a cominciare dalla resa estremamente naturalistica dei corpi, che si fa quasi minuziosa nella acribìa descrittiva di certi particolari anatomici, come la mano venosa del facchino che regge la pesante lastra tombale, la rigidità legnosa delle ossute gambe di Lazzaro, e l’estrema icasticità nella resa del teschio e delle ossa umane abbandonate per terra. La luce poi, ancora più intensa e contrastata rispetto al Seppellimento di santa Lucia di Siracusa, ha una fonte di provenienza unica ma misteriosamente esterna al dipinto, sulla sinistra, alle spalle di Cristo. In fenomenica conseguenza di ciò il viso del Redentore, reso in un effetto di controluce, quasi ereticamente appare completamente immerso nell’ombra, come se il pittore intendesse ribadire la propria teologia personale, che vede nel Cristo-Uomo solo il tramite terreno dell’effettiva resurrezione miracolosa e non l’originario artefice, che deve identificarsi invece in Dio Padre. Ardita apostasia pittorica quest’ultima, visto che nella pittura sacra prima del Caravaggio e dopo di lui la fonte di luce illuminava del tutto corpo e viso del Cristo, incontrastato protagonista, fino ai suggestivi dipinti luministici degli olandesi Gerrit van Honthorst e Matthias Stom, considerati pure caravaggeschi di stretta osservanza, in cui spesso la sorgente luminosa si sovrappone con il corpo e il volto di Cristo, identificandosi con esso . Questa luce, intensa e folgorante, non riveste una funzione unificante delle forme con lo spazio (come avviene nell’arte rinascimentale) ma sembra piuttosto avere un effetto disgregante sulle forme stesse, trasfigurando la materia fisica in una pura incandescenza luminosa. Le tenebre del fondo poi appaiono ancora più nette, contrastando con forza con i riverberi di lume, e creando un effetto quasi da “negativo” fotografico, che trasfigura i volti in vere e proprie maschere, mentre coerentemente la gamma cromatica sembra ridursi e tendere con forza verso il bianco e il nero, nonostante le due alte note squillanti di puro colore timbrico agli estremi del dipinto, nel peplo arancione di Marta e nella tunica malachite del Redentore. L’anatomia livida e la gestualità estrema e convulsa del resuscitato Lazzaro poi si impone su tutto l’equilibrio interno delle parti, aprendosi paradossalmente in tutte le linee direzionali e sbilanciando con vigore dall’interno le strutture primarie della composizione. Non è un caso inoltre che il suo corpo nudo, liberato dal freddo sudario della morte, assuma simbolicamente la identica postura del Cristo Crocifisso, ed esattamente per due ragioni: una di carattere prettamente teologico, visto che nella miracolosa resurrezione di Lazzaro già i Padri della Chiesa avevano inteso leggere la prima vera prefigurazione metaforica della Resurrezione del Cristo (ma anche dal punto di vista puramente narrativo del Vangelo è proprio in seguito a questo evento prodigioso, vero punto di non ritorno del racconto evangelico di Giovanni, che Kaifa e i sacerdoti del Sinedrio, spaventati di perdere il proprio prestigio di sola autorità religiosa in Galilea, mediteranno di fare uccidere Gesù, innescando quei drammatici eventi che porteranno alla sua Passione, morte e resurrezione). Inoltre l’esibito emblema identificativo dei Padri Crociferi, cucito in evidenza sulle loro scure vesti talari, era proprio il simbolo di una croce di colore rosso: questi chierici erano consolatori degli infermi e dispensatori dell’estrema unzione agli agonizzanti, era loro compito specifico dunque assistere il morituro negli ultimi difficili istanti di vita, ammonendolo ad abbandonare l’attaccamento agli ingannevoli beni terreni, e preparandolo spiritualmente, in articulo mortis, al trapasso nella buona morte cristiana. Per questa ultima ragione in particolare il dipinto può essere letto come un illustre omaggio del Merisi alle preziose funzioni sociali e ai alti valori morali dei Ministri degli Infermi, ed è ovvio che questo tema, fosse proposto o meno dal pittore stesso, venisse subito ben accolto dall’Ordine con grande entusiasmo. Infatti nel Vangelo di Giovanni, quando Cristo assicura l’addolorata ma fiduciosa Marta che Lazzaro resusciterà dalla morte, ella crede in un primo momento che Gesù si riferisca alla resurrezione dei morti alla fine dei tempi, ma il Redentore la rassicura prontamente che egli solo è «la Resurrezione e la Vita, chiunque creda in me, anche se morto, vivrà» (Gv. 11:25). La forma emblematica della croce fatta assumere alle membra del morituro era, oltre al livello puramente simbolico e metaforico, una paradigma funebre di devozione e religiosità comune del Seicento nei paesi di confessione cattolica, rappresentando la visualizzazione mimica esplicita della perfetta e santa morte per il vero credente, che nel supremo simbolo della Passione del Cristo si identificava completamente, affidandosi ad esso anima e corpo, per la remissione dei peccati e nella speranza della futura resurrezione. Il risultato finale che viene restituito nella autenticità della tela messinese, frutto di una sofisticata ideazione concettuale e di un altrettanto complesso processo elaborativo e compositivo da parte dell’artista nonostante l’estrema rapidità che ne caratterizza l’esecuzione, rivela ancora una volta l’assoluta genialità del suo autore: Caravaggio è riuscito a riunire e a fondere in perfetta sintesi dialettica concezioni estetiche e soluzioni pittoriche apparentemente antitetiche (quella della rigorosa lezione classicista e quella del naturalismo decantato al suo massimo grado), con il risultato di un capolavoro pittorico strabiliante, paradossale nella sua impetuosa drammaticità e commozione, e a tratti realmente ossimorico nel forzare la compresenza degli opposti (partes adversae) che riesce a scuotere le coscienze con vigore, immergendole nell’immanente flagranza concreta di un dramma vero e attualissimo . Ogni singolo atto avviene all’interno di una sequenza simultanea quasi traumatica, dalla sorgente di luce esterna (vita) al miracolo della resurrezione della carne inerte (morte), mentre la serrata dinamica “cause-effetti”, rispecchiata nella diversità degli affetti, vi è espressa nel modo più violento ma a un tempo verosimile (disperazione-fede-stupore-commozione), e il tutto viene efficacemente incanalato, trasmesso e diffuso da un singolo gesto del braccio e della mano di Cristo, proprio come nella Vocazione di san Matteo, dipinta dal Merisi a Roma circa nove anni prima. Ma in questo caso particolare, e molto più che in altri dipinti dell’ultimo Merisi, non è improprio affermare che l’opera pittorica più classicamente impostata dell’artista lombardo coincida paradossalmente con il tenebroso dipinto di Messina, un telero eseguito sotto la luce del sole impietoso di Sicilia si tratta senza dubbio alcuno del capolavoro più drammatico e sofferto che Caravaggio abbia mai realizzato in vita sua, e che rappresenta un vero e proprio unicum per la sua intrinseca complessità di concezione, per il forte portato autobiografico e per l’intensità tragica, oltre che per i risultati espressivi in esso raggiunti e ineguagliati. Questo capolavoro magistrale non riuscirà ad avere un autentico seguito nella pittura italiana del Seicento, e forse in ambito europeo soltanto in Olanda, nell’opera, altrettanto geniale, del maturo Rembrandt. La mostra sarà anche l’occasione per vedere di nuovo insieme i tre dipinti commissionati dal banchiere Ottavio Costa, Giuditta e Oloferne di Palazzo Barberini, il San Giovanni Battista del Nelson-Atkins Museum di Kansas City e il San Francesco in estasidel Wadsworth Atheneum of Art di Hartford, e opere legate alla storia del collezionismo dei Barberini, come i Baridel Kimbell Art Museum di Fort Worth, che torna nel palazzo romano dove fu a lungo conservato. Chiude la selezione l’importante prestito concesso da Intesa Sanpaolo:Martirio di sant’Orsola, ultimo dipinto del Merisi, realizzato poco prima della sua morte. L’esposizione si sviluppa in quattro sezioni tematiche per esplorare l’intera parabola artistica del Merisi, coprendo un arco cronologico di circa quindici anni, dall’arrivo a Roma intorno al 1595 alla morte a Porto Ercole nel 1610. Nella prima parte, dedicata al Debutto Romano, l’esposizione affronta gli anni dell’arrivo a Roma, verosimilmente nel 1595, e i primi passi in città, non semplici. I biografi concordano infatti nell’affermare che Caravaggio fu inizialmente costretto a vivere di espedienti, realizzando quadri per pochi soldi. Verosimilmente a partire dall’estate dello stesso anno transitò anche nella bottega del Cavalier d’Arpino, dal quale venne impiegato per dipingere fiori e frutti. Nonostante il rapporto tra i due si chiuda bruscamente nel giro di otto mesi, la produzione di Naturalia lascerà tracce importanti e profonde nella prima produzione caravaggesca, come è evidente nelle nature morte del Mondafrutto e del Bacchino malato, in mostra per la prima volta esposte insieme. Gli incontri con Prospero Orsi e con Costantino Spada diedero la possibilità a Caravaggio di entrare, intorno all’estate del 1597, in contatto con il suo più prestigioso committente: Francesco Maria del Monte, a cui appartennero i Musici, la Buona Ventura e i Bari, capolavori di quella “pittura comica” che caratterizza la fase giovanile di Caravaggio. Parallelamente, il pittore avviò anche il rapporto con il banchiere Ottavio Costa, proprietario del San Francesco in estasi, primo esempio di opera sacra realizzata dall’artista a Roma. È inoltre qui esposta la prima redazione della Conversione di Saulo, che si differenzia dalla versione finale per il supporto utilizzato, una tavola di legno cipresso di grandi dimensioni (237×189 cm), molto più preziosa della tela. Nella sezione Ingagliardire gli Oscuri la mostra introduce la rara produzione ritrattistica di Caravaggio, che, come dimostrano le fonti archivistiche e le stampe, dovette essere molto vasta e stimata, nonostante le pochissime testimonianze giunte a noi. Si ha l’occasione unica di vedere accostate per la prima volta due versioni del ritratto di Maffeo Barberini, provenienti entrambe da collezioni private. Come attesta Giulio Mancini, il pittore ha ritratto Maffeo Barberini in più di un’occasione: qui abbiamo la nota versione “Corsini”, attribuita a Caravaggio da Lionello Venturi (1912), Gianni Papi e Keith Christiansen (2010), esposta accanto a quella recentemente presentata al pubblico a oltre sessant’anni dalla sua riscoperta e attribuzione di Roberto Longhi (1963) unanimemente condivisa da tutti gli studiosi. In quest’ultimo dipinto è evidente il rivoluzionario naturalismo della pittura del Merisi, nel cui ambito il ritratto sembra aver svolto un ruolo molto importante, nonostante fosse ritenuto un genere minore. Vi sono poi esposte le opere in cui una bellissima modella, forse identificabile con la celebre cortigiana Fillide Melandroni, è ritratta: Marta e Maria Maddalena, Giuditta che decapita Oloferne e Santa Caterina d’Alessandria. Nella sezione Il Dramma Sacro Tra Roma e Napoli si parte idealmente dalla prima commissione pubblica, ottenuta da Caravaggio nel 1599 grazie all’intermediazione del cardinal del Monte, ovvero le tele della cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Il ciclo dedicato a san Matteo rappresenta una vera sfida per il Merisi e da questo momento si dedicherà quasi esclusivamente a temi sacri, dando avvio allo stile tragico caratteristico della sua produzione. Sono dunque qui esposte alcune tra le opere religiose più emblematiche del Merisi maturo all’apice del successo, che annoverava tra i suoi committenti personaggi di spicco quali Ciriaco Mattei e Ottavio Costa, per i quali realizzò rispettivamente La cattura di Cristo e il San Giovanni Battista dalla collezione del Nelson-Atkins Museum of Art (Kansas City – Missouri), quest’ultimo posto a confronto con il dipinto raffigurante lo stesso soggetto conservato alle Gallerie Nazionali di Arte Antica. Nella tarda primavera del 1606 la vita del pittore subì una svolta drammatica quando, durante una partita di pallacorda, uccise Ranuccio Tomassoni. Fu costretto a fuggire da una condanna alla pena capitale, rifugiandosi prima nei feudi laziali della famiglia Colonna, dove realizzò la Cena in Emmaus e – forse – il San Francesco in meditazione. Secondo alcuni studiosi a questi anni potrebbe risalire anche il David e Golia della Galleria Borghese, dipinto in cui, raffigurando se stesso nei panni di Golia, l’artista evidenzia il suo bisogno di espiazione. L’Ecce Homo recentemente rinvenuto in Spagna e la Flagellazione, realizzata per la cappella di San Domenico Maggiore, sono invece capolavori rappresentativi del suo periodo a Napoli. L’ultima parte della mostra, Finale di Partita affronta infine la fase finale della sua vita: animato dal costante desiderio di tornare a Roma, Caravaggio lasciò Napoli e nell’estate del 1607 partì per Malta, con la speranza di entrare nell’Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani, provando a ottenere il perdono di Papa Paolo V Borghese. Grazie a opere come il Ritratto di cavaliere di Malta, il Merisi riuscì a ottenere il cavalierato ma, coinvolto in una rissa con un altro membro dell’Ordine, venne incarcerato. Caravaggio fuggì e si diresse prima in Sicilia e poi nuovamente a Napoli, dove realizzò le ultime opere, tra cui il San Giovanni Battista della Galleria Borghese e il Martirio di Sant’Orsola, dipinto per Marcantonio Doria pochi giorni prima del suo ultimo tragico viaggio. Venticinquesima opera della mostra – extra moenia ma eccezionalmente visitabile in occasione della mostra – è il Giove, Nettuno e Plutone , l’unico dipinto murale compiuto da Caravaggio nel 1597 circa all’interno del Casino dell’Aurora , a Villa Ludovisi (Porta Pinciana) su commissione del cardinale del Monte per il soffitto del camerino in cui quest’ultimo si dilettava nell’alchimia. L’opera, raramente accessibile, raffigura infatti un’allegoria della triade alchemica di Paracelso: Giove, personificazione dello zolfo e dell’aria, Nettuno del mercurio e dell’acqua, e Plutone del sale e della terra. Accompagna la mostra il catalogo, edito da Marsilio Arte, che approfondisce i temi dell’esposizione, presentando nuovi studi critici e saggi di alcuni tra i maggiori esperti internazionali, che esplorano gli snodi biografici di Caravaggio, l’evoluzione del suo stile e il contesto culturale che ha influenzato la sua arte, con nuove chiavi di lettura e riflessioni sulla sua eredità. Il saggio di Keith Christiansen apre il catalogo tracciando la parabola artistica di Caravaggio, mentre Maria Cristina Terzaghi e Francesca Cappelletti si concentrano sull’arrivo dell’artista a Roma e sul collezionismo delle sue opere da parte delle grandi famiglie romane. Giuseppe Porzio ripercorre invece gli anni meridionali, tra Napoli, Malta e la Sicilia; Alessandro Zuccari propone una riflessione sul legame di Caravaggio con la spiritualità del suo tempo; Gianni Papi affronta il tema della ritrattistica – vera o presunta – del Merisi; Francesca Curti presenta, a partire da documenti d’epoca, le figure femminili ritratte dal Merisi; Claudio Strinati e Stefano Causa affrontano un excursus storico delle mostre dedicate a Caravaggio e la sua fortuna critica, partendo dalla famosa mostra di Milano del 1951 che fece riscoprire l’artista dopo secoli di oblio; Rossella Vodret chiude infine con un saggio sulla tecnica esecutiva dell’artista. Le schede delle ventiquattro opere in mostra danno conto dei principali problemi critici, attributivi e di datazione.
Galleria Nazionale di Arte Antica- Palazzo Barberini Roma
Caravaggio 2025
dal 7 Marzo 2025 al 6 Luglio 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto dell’ Allestimento della mostra Caravaggio 2025 Galleria Nazionale di Arte Antica- Palazzo Barberini Roma dal 7 Marzo 2025 al 6 Luglio 2025 credit © di Alberto Novelli e Alessio Panunzi