Giovanni Cardone
Fino al 4 Maggio 2025 si potrà ammirare a Palazzo Bisaccioni Jesi la mostra dedicata all’Arte Astratta e Informale – La libera maniera – Arte astratta e informale nelle collezioni Intesa Sanpaolo a cura di Marco Bazzini con il coordinamento di Mauro Tarantino. L’esposizione è promossa Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi in sinergia con Gallerie d’Italia e Fondazione Casa Museo Ivan Bruschi di Arezzo e con il patrocinio del Ministero della Cultura e della Regione Marche. La mostra presenta un maggior numero di opere oltre una quarantina, sempre attentamente selezionate dalla ricca collezione di Intesa Sanpaolo, affronta il vitale periodo tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio dei favolosi anni Sessanta in Italia. Un decennio o poco più in cui il Paese viene ricostruito per lasciarsi alle spalle le rovine materiali delle città, dell’economia e della società civile. Allo stesso tempo, in quello che può essere immaginato come un abbandonato e incolto territorio, inizia anche la ricostruzione di una coscienza culturale che aveva pesantemente sofferto le restrizioni durante gli anni del Fascismo e che dopo la tragedia della guerra non rispondeva più a una domanda di “modernità”. Gli anni Cinquanta sono gli anni della rinascita del Paese, della formazione della Repubblica, di nuove geografie produttive e sociali, del risvegliarsi delle arti attraverso molteplici esperienze che non risparmiano accese polemiche. Il dibattito, guidato da fronti opposti che non ignorano differenti orientamenti poetici, è la prova di una vera vitalità e ripresa anche nell’arte italiana. In una mia ricerca storiografica e scientifica sull’Arte Astratta in Italia e l’Informale apro il saggio dicendo : Nel secondo dopoguerra dalla fine degli anni cinquanta del Novecento che significa scontrarsi con un paradosso, molti studiosi continuano ad apportare significativi contributi sulla scultura italiana dei primi quattro decenni del secolo scorso e sono sempre più radicati gli studi sugli anni sessanta, la produzione plastica italiana dalla metà degli anni quaranta alla fine dei cinquanta è un terreno sostanzialmente se non proprio del tutto non esaminato. L’Italia uscì duramente sconfitta dal secondo conflitto mondiale, lacerata dalla guerra che aveva procurato lutti, rovine e miseria e dilaniata dall’interno da anni di lotta armata civile. L’orrore e la tragedia di quanto vissuto restò vivo negli animi dei superstiti. Nel campo dell’arte avvenne una profonda presa di coscienza da parte degli artisti che si fecero interpreti di quel profondo dolore. I gruppi che avevano animato il dibattito artistico negli anni precedenti il conflitto si erano ormai sciolti, e molti di quei protagonisti si unirono a nuovi schieramenti, con nuovi programmi, che animarono un nuovo dibattito nell’Italia del secondo dopoguerra. La polemica che infiammerà le discussioni in quegli anni ruotò attorno la querelle fra realisti e astrattisti, che si fondava sulla divisione netta di due linguaggi teoricamente inconciliabili. Nel febbraio del 1946 sul primo numero della rivista milanese ‘Il 45’, diretta da De Grada, fu pubblicato un saggio di Mario de Micheli intitolato Realismo e poesia, che fu considerato il primo manifesto ufficiale del realismo. Nel marzo dello stesso anno sulla rivista ‘Numero’, sempre a Milano, fu pubblicato il Manifesto del realismo, detto anche Oltre Guernica. Oltre Guernica è il manifesto artistico del realismo di pittori e scultori, stilato a Milano nel 1946 da un gruppo di artisti, Ajmone, Bergolli, Bonfante, Dova, Paganin, Peverelli, Tavernari, Testori, Vedova, Morlotti, in occasione dell’omonimo premio. Nel manifesto si danno per scontate le ragioni dell’impegno politico e si ribadisce la necessità di un legame stretto con la realtà e la scelta espressiva della figurazione. Il manifesto è pubblicato su Argine Numero e rivista Il 1945 manifesto del realismo che uscirà solamente in tre numeri. Fondamentale è la proposta di Cezanne considerato l’unico pittore moderno. Birolli guarda al cubismo picassiano senza troppo preoccuparsi se queste scelte siano rispondenti alle esigenze del partito, per cui dal 1950 le sue immagini vireranno sempre più verso matrici tendenti all’astrattismo. Per lui la pittura è architettura di emozioni. Morlotti, Cassinari e Vedova da subito cercheranno un distacco formale dal neorealismo. Roma, è il centro del potere politico, è il luogo dove si metteranno in piedi i veri meccanismi di controllo, in particolare, nel 1948, con il VI congresso del Partito Comunista si decreta che la pittura aveva il compito di affiancare la politica e di essere mezzo attivo di propaganda. Il PCI ha un ruolo fondamentale attraverso il suo organo di informazione l’Unità. Il partito organizzerà la prima manifestazione artistica romana,l’arte contro la barbarie1944 ed il mensile Rinascita. Il periodo è fervido, intenso e permeato dai tentativi dei partiti di invadere un campo considerato propagandistico, anche perché gli artisti – praticamente tutti – si considerano innovatori e l’innovazione sta in tutto ciò che è distacco dalle posizioni politiche precedenti. Molti tra loro si rifanno all’autorevolezza della figura di Guttuso, magari frequentando il suo studio di via Margutta, luogo fino a poco prima considerato borghese. Contemporaneamente a quest’ultima pubblicazione, la stessa rivista, organizzò una mostra alla quale parteciparono Giovanni Dova, Ennio Morlotti, Giovanni Testori, Emilio Vedova e altri artisti settentrionali. Le istanze teoriche espresse nel saggio di De Micheli furono già precedentemente manifestate in un documento redatto nel 1943, a firma di De Micheli stesso, di Emilio Morosini, di Raffaele De Grada, di Ennio Morlotti, di Emilio Vedova e di Ernesto Treccani, dove si condannava la metafisica, il surrealismo, l’espressionismo, il novecentismo e si affermava marxisticamente la necessità di un’arte dal carattere nazionale e popolare. Col termine ‘realismo’ non solo si ricusava l’accademismo novecentista ma anche l’espressionismo di ‘Corrente’, considerato intimista e sentimentale e in netta opposizione al ‘formalismo’, termine che includeva tutte le avanguardie storiche. Per i realisti il modello di riferimento fu Guernica di Picasso, considerata una sorta di realismo moderno derivato dal cubismo. Col termine di “neocubismo” vennero poi indicate le opere di Renato Guttuso, Armando Pizzinato e degli scultori Pericle Fazzini e Leoncillo Leonardi. Ricordiamo, inoltre, che nel 1945 a Roma venne fondato l’Art Club, che iniziò un’intensa attività di mostre e dibattiti sull’arte contemporanea, la cui direzione venne affidata a Enrico Prampoli. Nodo centrale del dibattito fu la questione dell’astrattismo in opposizione al discorso sul realismo, che vedrà l’affermarsi di due diverse posizioni: da una parte Leonello Venturi e dall’altra Max Bill. Nell’articolo pubblicato da Leonello Venturi sulla rivista ‘Domus’ nel gennaio 1946, il critico usa il termine ‘astratto-concreto’ per indicare una certa produzione figurativa di stampo neocubista-astratto, una sorta di astrattismo di derivazione cubista. Max Bill di contro, nell’articolo pubblicato sulla stessa rivista nel febbraio del 1946, chiarisce la sua posizione che prevede il riesame di tutta la produzione astratto-geometrica che si avvicina al concetto kandiskiano, neoplasticista e neocostruttivista. Pittore e architetto, Bill si era formato al Bauhaus di Dessau al tempo di Walter Gropius e concepiva la ricerca artistica quale processo di un pensiero orientato matematicamente. Quel fervido clima di discussione e confronti diede notevole impulso alla creazione di nuovi gruppi artistici che si fecero interpreti e mediatori delle diverse istanze critiche. Nel 1946 fu pubblicato il Manifesto del Fronte Nuovo delle Arti dove sfociarono in direzione neocubista le idee espresse nel Manifesto del realismo, detto anche Oltre Guernica. Le sculture prodotte in quest’ambito manifestarono una chiara derivazione dalla produzione di Picasso da Guernica in poi. Le opere di Fazzini e Leoncillo presentavano, infatti, una costruzione delle forme ottenuta nell’intersecarsi di linee oblique, creando nelle figure diverse spigolosità e angolature, come in Profeta del 1947 e dello stesso anno Studio di Sibilla erano le opere di Fazzini mentre le opere di Leoncillo sono Cariatide del 1946 , invece I lottatori del 1947 e Ritratto di Elisa del 1948. In Leoncillo il ricorso al colore, utilizzato in maniera antinaturalista,evidenzia non solo i diversi tasselli che compongono la figura ma ne accentua la drammaticità dei gesti e l’espressione dei volti. Partecipe alle esposizioni del Fronte Nuovo delle Arti fu anche Alberto Viani, la cui posizione all’interno del gruppo fu sicuramente singolare. I suoi Nudi realizzati alla metà degli Quaranta si caratterizzarono per un certo biomorfismo che riecheggiava la produzione surrealista di Picasso; un richiamo a quei dipinti e a quelle sculture che lo spagnolo realizzò dal 1929 al 1939 e che Viani conobbe attraverso la pubblicazione su “Cahiers d’Art”. Viani quindi, contrariamente agli altri componenti del Fronte, non si ispira al Picasso di Guernica ma venne comunque invitato a esporre con loro. Le novità del suo linguaggio unito alla predilezione per Picasso sono aspetti di ammirazione da parte degli artisti del Fronte. Ritornando al dibatto ricordiamo che nel 1947 venne pubblicato il Manifesto del gruppo Forma, in cui i firmatari si dichiararono ‘formalisti-marxisti’, sposando quindi le idee di Leonello Venturi, mentre nel 1948 venne costituito a Milano il MAC, Movimento Arte Concreta, in linea con le istanze di Max Bill. Nel programma di MAC il termine ‘concreto’ fu utilizzato in senso antinaturalistico e in opposizione all’accezione venturiana di ‘astratto-concreto’. Nell’ambito di Forma 1 interessante risulta la produzione plastica di Pietro Consagra, riconoscibile per l’originalità dello stile: la ‘frontalità’ o la ‘bifrontalità’ sono le sue cifre stiliste. Le sculture di Consagra si caratterizzano per la verticalità di sottili elementi astratto-geometrici, realizzati in diversi materiali come il legno, il bronzo, il marmo e il ferro, verniciati a campitura piena con colori naturali o artificiali. La bidimensionalità delle opere non impedisce però l’idea di spazialità che viene suggerita dal sottile spessore della lastra plastica. In questo modo l’autore stravolse il concetto stesso di scultura tridimensionale e il tradizionale modo di fruirla. L’opera venne concepita e realizzata come se fosse una tela dipinta su tutte e due le facce e fruita da un unico punto di vista, cioè quello frontale. Per Consagra la frontalità della scultura, ottenuta attraverso l’eliminazione del volume, fu una scelta teorica attuata nella volontà di estrapolarla da uno spazio ideale, per liberarla dai valori simbolici,religiosi e sociali, che per secoli la caratterizzava. La frontalità obbliga il fruitore ad un dialogo diretto con l’opera, in un discorso intimo sul fare artistico. La prima mostra di MAC si tenne a Milano nel dicembre del 1948 presso la Libreria Salto, specializzata in pubblicazioni di architettura, di design, di grafica, di fotografia, che pubblicherà, inoltre, i bollettini del movimento, di cui uno,datato 1949, a firma di Gillo Dorfles riportava le idee di Bill: “L’arte concreta rende visibili, con mezzi puramente artistici, pensieri astratti e crea con ciò dei nuovi oggetti. Il fine dell’arte concreta è di sviluppare oggetti psichici ad uso dello spirito, nello stesso modo in cui l’uomo crea degli oggetti per uso materiale. La differenza tra arte astratta e concreta consiste nel fatto che nell’arte astratta il contenuto del quadro è legato ad oggetti naturali, mentre nell’arte concreta è indipendente da essi”. Nell’ambito di MAC interessante risultò la presenza di Osvaldo Licini e di Bruno Munari che attestarono una certa continuità di ricerca con l’astrattismo degli anni Trenta. Munari produsse sculture astratto-geometriche come del resto altri scultori all’interno del movimento, tra i quali ricordiamo: Renato Barisani, Guido Tatafiore, Antonio Venditti, Nino di Salvatore, Mauro Reggiani. Per questi la scultura rientrava nel progetto più ampio di sintesi delle arti con propositi di rinnovamento che comprendevano anche l’architettura, la pittura, la fotografia, la moda e il design, non a caso molti di loro si cimentarono in più forme espressive. Nell’autunno del 1948 si tenne a Bologna la Prima mostra nazionale d’arte contemporanea cura dell’Alleanza della cultura, filiazione del partito comunista italiano, dove si presentò compatta tutta la compagine del Fronte nuovo delle Arti, nel tentativo di verificare lo stato dell’arte. Il giudizio che venne espresso sulle pagine della rivista ‘Rinascita’, rivista fondata e diretta dal segretario del partito comunista Palmiro Togliatti, fu assolutamente negativo. Le opere furono giudicate orribili e mostruose e venne liquidato definitivamente l’ipotesi del Neocubismo come veicolo di un realismo moderno. Con lo scioglimento del Fronte Nuovo delle arti, non restò altra via all’istanza realista, d’obbligo per gli artisti che obbedivano al partito, di indirizzarsi verso una figurazione di tipo ottocentesco o tutt’al più un eclettismo figurativo accademico, con caratteri didattici, devozionali e illustravi, di cui Guttuso con Occupazione delle terre in Sicilia divenne chiaro esempio e modello iconografico di riferimento. L’Astrattismo è definito come “il complesso delle ricerche che nel Ventesimo secolo hanno teso deliberatamente a escludere ogni rapporto della forma artistica con gli aspetti del mondo naturale, basandosi esclusivamente sugli elementi specifici del proprio linguaggio colore, forma, armonia, composizione”.Movimento nato come avanguardia artistica grazie a Wassilj Kandinskij, che nel 1910 dipinge un acquarello considerato a tutti gli effetti la prima opera astratta della storia, si declina nei decenni a seguire secondo diverse tipologie e stili.L’Italia, all’inizio del Novecento, viveva già una piccola rivoluzione interna grazie all’irriverenza del movimento futurista e alla pittura visionaria di Giacomo Balla, che – sotto alcuni aspetti – può essere considerata astratta, anche se in realtà l’idea di dinamismo e di forza della natura tende comunque ad avere una base figurativa. Un tentativo riuscito invece, fu quello di Alberto Magnelli, che dal 1915 raggiunse notorietà grazie alle sue composizioni astratte, ma rimase fuori dal dibattito italiano preferendogli la vita artistica in Francia.Insomma, in Italia l’astrattismo arrivò con un certo ritardo rispetto ad altri paesi, ma dagli anni Trenta in poi si sviluppò un movimento di grande spessore che portò alla ribalta artisti come Giulio Turcato, Carla Accardi, Piero Dorazio, e molti altri dando il via a una frammentazione del concetto stesso di astrattismo in diverse sotto correnti. Le percezioni dell’artista sono infinitamente più preziose che le descrizioni più fedeli della realtà. Per noi l’arte è questione di spirito; solo lo spirito riconosce lo spirito. La fine dell’arte è imitare la natura. E’ morto le “trompe-l’oeil” solo esiste le “trompe-l’ésprit”. Atanasio Soldati – Galleria del Milione, Milano, marzo 1935. Il primo astrattismo italiano si divide tra Milano e Como. La città meneghina ospitava la rinomata Galleria del Milione, attorno alla quale si riunivano artisti come Lucio Fontana, Luigi Veronesi e Osvaldo Licini mentre Como, celebre all’epoca per la presenza di Terragni, si rivelò un luogo estremamente aperto alle influenze del suprematismo russo e del Bauhaus con Manlio Rho, Mario Radice, Carla Badiali e diversi altri artisti legati a quel nuovo modo di fare e interpretare l’arte. Dopo la seconda guerra mondiale l’astrattismo si affermò in tutta Europa e oltreoceano: espressionismo astratto, action painting, tachisme, minimal art, spazialismo e astrattismo geometrico sono solo alcune delle tante declinazioni dell’arte astratta del secondo dopoguerra. In Italia, l’astrattismo si evolve dagli anni Cinquanta ad oggi, secondo un continuo susseguirsi di influenze e nuovi stimoli creativi. Introdotto e perfezionato da Mario Radice, Manlio Rho e Carla Accardi, nel secondo dopoguerra l’astrattismo geometrico venne influenzato dal dripping americano e dal concetto di gesto tanto caro a Pollock. Gli artisti italiani che reinterpretarono la corrente americana adattandola a nuove ricerche furono principalmente Piero Dorazio, Giulio Turcato, Emilio Vedova, Afro Basaldella e Tancredi Parmeggiani. L’informale fece il suo corso e sfociò presto nella sua antitesi. Lucio Fontana teorizzò un nuovo rapporto fra la luce, lo spazio e la tela nel suo Manifesto Blanco, Roberto Crippa indagò lo spazio dell’opera con il movimento delle spirali, mentre Manzoni e Castellani fondarono nel 1959 la rivista Azimuth e l’omonima galleria Azimut. L’esperienza anche se si esaurisce in poco meno di un anno – è la base della connessione tra architettura, arte e design che verrà in seguito. “Azimut è nodo fondante di un network transnazionale particolarmente decisivo per la nascita di una nuova visione artistica europea: una situazione che tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta assiste alla maturazione di un generalizzato superamento dello spazio espressivo del soggetto, legato alla stagione informale del secondo dopoguerra, per lasciare invece luogo a una nuova e libera relazione con lo spazio del mondo, e da questo con la dimensionalità espansiva dell’intero universo. “Francesca Pola – tratto da ‘Manzoni: Azimut’ Le opere si fanno monocolore, spesso bianche, e sono le superfici a parlare: estroflesse, modificate, tagliate, inchiodate, nasce così un nuovo rapporto tra l’artista e l’opera. Negli anni Sessanta le ricerche relative al movimento, al colore e all’illusione ottica, sfociano in quella che è definita Arte Cinetica, ma che nella sua stessa definizione comprende ben altro oltre alla pittura. All’estero il Cinetismo è consacrato dalla mostra «Le Mouvement” a Parigi, presso la Galleria René, che espose opere di Agam, Calder, Tinguely, Vasarely e Soto. Proprio in Francia nacque anche il GRAV, groupe de recherche d’art visuelle, in cui spicca il nome di Julio Le Parc. In Italia i capiscuola furono invece Gianni Colombo, i cui lavori si basano sulla prospettiva, Alberto Biasi che creò immagini illusorie e Getulio Alviani che ideò le «superfici a testura vibratile» sfruttando i riflessi dell’alluminio. Sebbene l’arte cinetica sia considerata l’ultimo step dell’astrattismo in Italia, un passaggio fondamentale è anche quello degli anni Settanta con la Pittura Analitica o Pittura-Pittura. Il movimento nasce come volontà di reagire ai dettami dell’arte concettuale che, proponendo il definitivo abbandono di ogni necessità di rappresentazione, considerava la pittura ormai superata. La pittura analitica si pose quindi come analisi delle componenti materiali dell’opera e di conseguenza della pittura – tela, materia, cornice, segno – e del rapporto tra l’artista e la sua creazione. Achille Perilli autore di un astratto caldo noto per le composizioni di forme che somiglianti alla proiezione sul piano di parallelepipedi che risultano alla fine inverosimili ed irregolari, quasi irrisolti allo sguardo. Perilli compie le sue opere attraverso un utilizzo del colore forte – gradevole e rigoroso insieme – e supporta il proprio lavoro con una voluta «imprecisione» che va a vantaggio dell’espressività. Dopo aver frequentato il liceo classico, nel 1945 si iscrive alla Facoltà di Lettere; negli anni seguenti è allievo di Lionello Venturi, con il quale prepara la tesi di laurea sulla pittura metafisica di Giorgio De Chirico. Con Dorazio, Guerrini, Vespignani, Buratti, Muccini, Maffioletti, Perilli fonda il Gruppo Arte Sociale (GAS); allo stesso tempo collabora alla nascita e alla redazione delle riviste “Ariele” e “La Fabbrica”, organo del GAS, delle quali esce un unico numero. Nel 1947 partecipa alla redazione del manifesto Forma 1 firmato oltre che da Perilli, da Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Sanfilippo, Turcato che viene pubblicato sul primo numero della rivista omonima. In ottobre dello stesso anno espone alla prima mostra del gruppo Forma 1 che si tiene nella Galleria Art Club: durante lo steso mese tieni nei locali dell’Art Club una conferenza dal titolo ‘Del formalismo’. Forma , Manifesto del Gruppo Romano dicendo: Noi ci proclamiamo Fomalisti e Marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano Inconciliabili, specialmente oggi che gli elementi progressivi della nostra società debbono mantenere una posizione rivoluzionaria e Avanguardistica e non adagiarsi nell’equivoco di un realismo spento e conformista che nelle sue più recenti esperienze in pittura e in scultura ha dimostrato quale strada limitata e angusta esso sia. La necessità di portare l’arte italiana sul piano dell’attuale linguaggio europeo ci costringe a una chiara presa di posizione contro ogni sciocca e prevenuta ambizione nazionalistica e contro la provincia pettegola e inutile quale è la cultura italiana odierna. Perciò affermiamo che: 1. in arte esiste soltanto la realtà tradizionale e inventiva della forma pura. 2. Riconosciamo nel formalismo l’unico mezzo per sottrarci a influenze decadenti, psico- logiche, espressionistiche. 3. Il quadro, la scultura, presentano come mezzi di espressione: il colore, il disegno, le masse plastiche, e come fine un’armonia di forme pure. 4. La forma è mezzo e fine; il quadro deve poter servire anche come complemento decorativo di una parete nuda, la scultura, anche come arredamento di una stanza – il fine dell’opera d’arte, è l’utilità, la bellezza armoniosa, la non pesantezza. 5. Nel nostro lavoro adoperiamo le forme della realtà oggettiva come mezzi per giungere a forme astratte oggettive, ci interessa la forma del limone, e non il limone. Noi rinneghiamo: 1. Ogni esperienza tendente a inserire nella libera creazione d’arte fatti umani attraverso deformazioni, psicologismi e altre trovate; l’umano si determina attraverso la forma creata dall’uomo-artista e non da sue preoccupazioni aposterioristiche di contatto con gli altri uomini. La nostra umanità si attua attraverso il fatto vita e non attraverso il fatto arte. 2. La creazione artistica che si pone come punto di partenza la natura intesa sentimentalmente. 3. Tutto ciò che non ci interessa ai fini del nostro lavoro. Ogni nostra affermazione trae origine dalla necessità di dividere gli artisti in due categorie: quelli che ci interessano, e sono positivi, quelli che non ci interessano, e sono negativi. 4. Il casuale, l’apparente, l’approssimativo, il sensibilismo, la falsa emotività, gli psicologismi, come elementi spuri che pregiudicano la libera creazione. Nell’anno seguente collabora con Sottsass jr all’organizzazione della prima mostra di arte astratta in Italia che si tiene alla Galleria di Roma. Presentato da Lionello Venturi, Perilli partecipa al I Congresso Internazionale di critici d’arte che si tiene a Parigi nel 1948, presentando insieme a Dorazio una relazione sulla situazione della pittura italiana del ‘900. Nel 1950 fonda, con Dorazio e Guerrini, la Libreria-Galleria “Age d’Or”; a cura dell’ “Age d’Or” viene pubblicato il primo quaderno tecnico-informativo d’arte contemporanea Forma 2. Il primo e unico numero è un “Omaggio a V. Kandinskij”, con testi di Max Bill, Nina Kandinsky, Enrico Trampolini e altri; il saggio di Perilli è dedicato alla grafia di Kandinsky. In occasione dell’Anno Santo l’ ”Age d’Or” organizza uno spettacolo di contestazione: il “Galileo Galilei” di Bertold Brecht, con la regia di Vito Pandolci e come protagonista Perilli nelle vesti di Urbano VIII. L’ “Age d’Or”, in collaborazione con l’Art Club, organizza inoltre la mostra di Arte astratta e concreta in Italia la prima rassegna completa dell’astrattismo italiano che si tiene in febbraio alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. L’artista, sempre assieme a Dorazio e Guerrini realizza il numero 4 della rivista di architettura “Spazio”, interamente dedicato all’arte astratta; Perilli vi pubblica un saggio dal titolo «Quarant’anni d’arte astratta in Italia». Nello stesso anno Lucio Fontana invita l’ “Age d’Or” a collaborare alla Triennale di Milano: Perilli, Dorazio e Guerrini realizzano in collaborazione due grandi pitture murali, premiate con medaglia d’argento. Nel 1957 Perilli espone ad una mostra personale allestita alla Galleria La Tartaruga, presentato da Nello Ponente mentre, cinque anni più tardi, ha una sala personale alla Biennale di Venezia, dove nel catalogo è presentato da Umbro Apollonio. Nel 1963 partecipa a Palermo alle riunioni del “Gruppo 63”: realizza scene, proiezioni e costumi per lo spettacolo “Teatro Gruppo 63” alla sala Scarlatti di Palermo. Contemporaneamente espone una mostra personale a New York alla Galleria Bonino. All’inizio degli anni Settanta espone una serie di opere dal 1961 al 1969 in una mostra personale che si tiene alla Galleria Nazionale di Praga ed espone ad una serie di mostre personali in Italia e ancora all’estero: alla Galleria Marlborough di Roma, alla Galerie Espace di Amsterdam, alla Frankfurter Westend Galerie di Francoforte, alla Jacques Baruch Gallery di Chicago con solo opere grafiche. Partecipa alla International Biennal Exhibition of Prints in Tokyo. Nel 1979 organizza e realizza per il comune di Roma la mostra ‘L’avanguardia polacca 1910-1978’ al Palazzo delle Esposizioni. Negli anni Ottanta Perilli partecipa alla realizzazione di “Retina”, rivista degli artisti, dove pubblica il manifesto Teoria dell’irrazionale geometrico. Una sua ampia mostra retrospettiva, dal titolo «Achille Perilli, continuum 1947-1982», è allestita al Palazzo dei Congressi della Repubblica di San Marino. Successivamente espone in una mostra retrospettiva degli anni 1969-1984 al Paris Center di Parigi dal titolo «Achille Perilli. L’irrazionale geometrico». Nelle opere degli anni Novanta il linguaggio di Perilli si rafforza ulteriormente in un cromatismo acceso, ilare, vivace e brillante: le forme si sviluppano in condizione bidimensionale, espandendosi nello spazio della tela e acquistando strutture di grande eleganza e movimento. Le opere di Perilli si qualificano in una direzione assolutamente astratta e al contempo si articolandosi cromaticamente lasciano che il colore possa argomentare e aiutare l’emergere e l’esprimersi stesso delle forme. Non dimentichiamo che in quegli nasce il MAC – Movimento Arte Concreta gli esponenti furono: Gillo Dofles, Gianni Monnet , Atanasio Soldati e il grande Bruno Munari. In un saggio “giovanile” pubblicato nel 1933 dal titolo Goethe, grande disegnatore, Gillo Dorfles all’anagrafe asburgica Angelo Eugenio Dorfles, fu Carlo che afferma che «per comprendere a pieno la personalità di Goethe è necessario abbracciare tutta la sua produzione letteraria, scientifica e, soprattutto, pittorica». Per una singolare coincidenza, tale principio vale non solo per J.W. Goethe, ma anche per lo stesso personaggio “Dorfles”, il quale nel corso della sua lunghissima esistenza fu medico, storico e critico dell’arte, poeta, romanziere, filosofo dell’estetica e del gusto, pittore, scultore, accademico, designer, collezionista, giornalista, musicista… e molte altre cose ancora! Per conoscere veramente la personalità di Dorfles e il suo genio, dunque, è essenziale ricostruirne anzitutto i primi anni di vita, anche grazie ad alcuni suoi “appunti sparsi”, oggi felicemente ripubblicati nel volumetto Lacerti della memoria. Taccuini intermittenti: come già recita il titolo, non si tratta di un diario costante e sistematico Dorfles, in generale, non amava le autobiografie ma di una piccola raccolta di pensieri che ci aiuta oggi a sapere qualcosa sugli anni della sua crescita e formazione. Personalmente, poi, in occasione di alcuni indimenticabili incontri presso la sua residenza milanese di Piazzale Lavater, ho avuto il privilegio di ascoltare dalla sua viva voce alcuni dei fatti o anche solo aneddoti che di qui a breve verranno esposti. Gillo Dorfles, discendente dal settecentesco avo Hermann Dörfles, era nato il 12 aprile 1910 in una Trieste ancora austro-ungarica, regnante il vecchio Kaiser Franz-Joseph che aveva guadagnato il trono nientemeno che nel lontanissimo e turbolento 1848 e sarebbe morto nel 1916; tuttavia, durante la Prima guerra mondiale, i Dorfles si erano rifugiati a Genova, presso i parenti materni, per scampare al massacro del conflitto. Gillo, dunque, nasce tecnicamente “austriaco”, anche se non intratterrà mai con la felix Austria una particolare relazione di affetto o di appartenenza; di teutonico, forse, egli ha sempre conservato un certo “distacco fisico” dai propri consimili e persino dai suoi stessi familiari, se egli in un taccuino dell’estate del 1951 confessa di non aver mai amato «i baci, gli abbracci, le carezze e i maneggiamenti». Al contempo, nelle sue vene scorre anche sangue balcanico, corroborato dall’importante presenza della bàlia paterna, di origine slovena. Dopo la fine della grande guerra, i Dorfles possono finalmente tornare nella loro terra d’origine, ove Gillo ha la possibilità di terminare gli studi, frequentando al contempo la casa di Saba (ove conosce, tra gli altri, Montale) e anche Villa Veneziani, la storica dimora di Italo Svevo. In particolare, il primo contatto tra Dorfles e Saba avviene intorno al 1925-26, presso la libreria antiquaria che il poeta aveva fondato alla Via San Nicolò; un Gillo appena quindicenne sfoglia con curiosità le settecentine di Platone e di Ficino, ma Saba lo pietrifica con frasi come «No xe roba per ti!» . Al ginnasio, Dorfles studia con interesse ma altrettanto spesso distrattamente, e la sua mente si libra già in mille universi paralleli, tanto che il giovane studente si trova più volte assorto, rapito dalle sue idee o anche solo impegnato a intarsiare, con infiniti e sofisticati ghirigori, i margini dei libri di testo, segno in nuce della sua innata inventiva grafica. I “lacerti della memoria” cominciano a cristallizzarsi nella primaveraestate del 1928: Dorfles ha appena compiuto diciotto anni nella sua Trieste ormai italiana, e deve scegliere quale facoltà universitaria frequentare, e presso quale ateneo: nella sua mente balenano le più disparate ipotesi, da Lettere classiche o moderne a Filosofia, da Medicina o Matematica ad Architettura; ma in realtà ogni decisione è buona, pur di «abbandonare la cattività familiare». Una cosa gli è ben certa: il processo di liberazione post-adolescenziale si dovrà svolgere a Milano, città che Gillo conosce da sempre la sua bisnonna, infatti, originaria di Casale, abitava in un palazzo di corso Venezia, «quello con le quattro colonne al civico 34» e nella quale decide, alla fine e quasi per ventura, di iscriversi alla facoltà di Medicina. Fin da allora, il giovane Dorfles ha già immaginato il suo “dopo”: non farà genericamente il medico, ma più esattamente lo psichiatra; studierà l’anima malata dell’uomo e i modi per curarla. In realtà, il trasferimento universitario a Milano si dimostra ben presto solo un pretesto, o meglio «una parentesi di autoflagellazione», vista la particolare complessità degli studi prescelti: al giovane Gillo stanno già stretti i soli incombenti accademici e, con l’aiuto dell’amico triestino Bobi Bazlen (1902-1965) altro geniaccio come lui!, viene a contatto con letterati del calibro di Piero Gadda Conti e Giovanni Titta Rosa, che gli propongono senza indugio di collaborare con l’Italia Letterata, con recensioni di mostre e simili amenità. Dorfles aveva conosciuto Bazlen a casa di Umberto Saba, «nella cupa via Crispi»; era stato Bobi che con Linuccia Saba aveva una storia non solo platonica a iniziare precocemente l’amico a La Recherche, a Kafka, Rilke, Freud, Kriss, Spengler, Kraus e, soprattutto, a James Joyce. Dopo i tre anni milanesi, durante i quali aveva superato a fatica i primi esami di medicina, Gillo ritiene più saggio lasciare le nebbie alto- padane per trasferirsi a Roma e iscriversi al IV anno della stessa facoltà, sotto la guida del celebre Cesare Frugoni, in vista di una futura specializzazione in neuropsichiatria o neurologia. Il giovane studente, in realtà, porta ben presto a sublimazione gli studi di anatomia, trascorrendo svogliatamente le giornate a disegnare su scartoffie di recupero le interiora dell’uomo: i contorni del fegato, le alterazioni dei reni, le bizzarre valvole cardiache (il tema ricorrerà, mutatis mutandis, in una poesia scritta nel marzo 1944, nonché in un diario del 1961, non senza qualche reminiscenza anche nelle opere pittoriche). Inoltre, più che la fredda storia clinica dei pazienti e l’individuazione della relativa terapia, al giovane Dorfles interessa sottoporre gli stessi a lunghe “interviste” (o interrogatori?), per indurli a raccontare le loro stranezze e bizzarrie esistenziali, oppure per realizzare dei veloci schizzi che ritraggano i “matti” (sic, ben prima degli odierni politically correct) nelle loro pose più caratteristiche: Gillo non ha la pasta di un “normale” medico ed è già un pensatore a tutto tondo, dalla fantasia fervida e a tratti fanciullesca. Egli non ha mai avuto un “maestro” in senso stretto e la sua formazione è sempre stata alquanto eterodossa e per lo più da autodidatta; in tale contesto, nel 1933 debutta su Le arti plastiche con un interessante saggio Goethe, grande disegnatore in cui, a soli ventitré anni, dimostra già una spiccata originalità e un tratto intellettuale inconfondibile. Lo scritto è oggi ripubblicato nel monumentale volume Estetica senza dialettica, che raccoglie i più importanti saggi di Dorfles dal 1933 al 2014, con un ricchissimo saggio introduttivo di Luca Cesari (Dorfles. La Pianta originaria). Nel 1934, dopo sei anni esatti dall’immatricolazione, dedicati più alla critica d’arte che ai corsi accademici, Dorfles si laurea puntualmente in medicina, «non so ancora bene», scrive lui nei “lacerti”, «se per puntiglio o se per una autentica volontà di fare il medico, che credo non sarà mai soddisfatta (troppi altri interessi incombono)»; la carriera clinica non arriverà mai, poiché il giovane dottore ha già optato per altre strade, come quella della filosofia estetica e della “critica del gusto”, non senza seducenti incursioni esoteriche nella Società Antroposofica fondata da Rudolf Steiner e alla quale era legata la madre di Dorfles (del ’34 è la visita al Goetheanum di Dornach presso Basilea, per seguire i corsi antroposofici, fra i cui pilastri vi era la congiunzione – e non la cesura – fra arti e scienze). Proprio negli anni ’30, poco dopo un viaggio in Germania coronato dall’incontro con l’arte di Kandinskij e Klee, principia anche l’avventura figurativa di Gillo Dorfles, come testimonia il poderoso Catalogue Raisonné, quasi cinquecento pagine pubblicate nel 2010 a cura di L. Sansone, imprescindibili per chiunque intenda conoscere a fondo la figura dell’artista e intellettuale Dorfles; proprio in occasione di un’intervista svolta da Lea Vergine, Gillo confessò che la sua vera anima era quella di pittore, e che egli avrebbe volentieri vissuto di sola arte figurativa, se non avesse però aborrito tutta quella necessaria attività “auto-promozionale” che, sola, consente ad un artista di farsi veramente conoscere e apprezzare in vita. Il primissimo “incunabolo” – del 1930, risalente dunque ai primi anni universitari – è rappresentato da una stramba china su carta, contenente tre figure mostruose messe di profilo, a metà strada fra l’orco e la piovra, fra l’animale e il vegetale; al biennio ’34-’36 appartengono poi altre opere a tempera grassa all’uovo (tecnica piuttosto rara e ricercata), costituite perlopiù da figure spiritate, aeree e liquide, quasi «ectoplasmi fluttuanti in un etere denso» che ricordano da un lato le rotondità di Jean Arp e di un certo Miró, dall’altro lato le atmosfere spirituali e oniriche dei cosiddetti “dipinti steineriani”. Come segnala Corgnati, «in queste opere, la scelta di una tavolozza piena di accensioni e di stesure nervose e brillanti sembra ricondurre all’espressionismo astratto prima maniera, al Kandinskij e al Klee di Blaue Reiter (visti direttamente già nel 1929 nel corso di un viaggio in Germania), e persino certe suggestioni fauves, in particolare riferibili a Matisse: come per esempio suggerisce la predilezione quasi esclusiva per la linea morbida, curva, posta quasi a ritmare l’alternanza di pieni e di vuoti, di corpi e di spazi, di pause e di sonorità. Il risultato, nell’insieme, presenta un’originalità straordinaria». Dopo il servizio militare biennale prestato al Reggimento Nizza Cavalleria di Torino, nel 1936 Dorfles si sposa con Chiara Gallignani (a tutti nota come “Lalla”), figlia del direttore del Conservatorio di Milano, Giuseppe Gallignani, grande amico di Verdi e poi di Toscanini (ricordiamo che Gillo era anche un ottimo pianista e organista); la cerimonia si tiene nella Chiesa di Santa Maria della Passione di Milano, e il ricevimento viene allestito nella mitica magione dei Toscanini. La vita culturale del capoluogo lombardo è particolarmente fervida, se solo si pensa all’importante mostra internazionale di arte astratta e concreta, organizzata dal gruppo “L’altana” nel ripristinato Palazzo Reale, con opere di Kandinskij, Klee, Hans Arp e Georges Vantongerloo. Nel settembre del 1939 scoppia la Seconda guerra mondiale e il 10 giugno 1940 arriva la dichiarazione di guerra dell’Italia: Dorfles ha una speciale avversione per Mussolini e per il regime; la guerra per lui è «spia della necessità di un male brutale», come possiamo leggere nel drammatico taccuino del 16 giugno. La famiglia Dorfles è costretta, allora, ad abbandonare per la seconda volta Trieste e ripara nella tenuta di Lajatico (Pisa), vicino a Volterra, per scampare alle atrocità della guerra di confine; nel 1944, tuttavia, la località prescelta sarà per alcune settimane attraversata dal fronte degli anglo-americani, verso i quali Gillo nutrirà sentimenti contrastanti: da un lato la gratitudine, dall’altro lato la disistima e il fastidio verso la loro «stupidaggine e fanciullaggine» (soprattutto degli americani), nonché «la loro cecità politica». È questa l’epoca dei «turbamenti etici, piuttosto che estetici; sentimentali, piuttosto che concettuali», causati dall’«atmosfera irreale e insieme cruenta della guerra»; ed è anche l’epoca in cui Gillo si dedica molto alla scrittura di versi, che egli conserverà gelosamente e con un certo pudore, sebbene poeti come Sergio Solmi e Vittorio Sereni avessero manifestato apprezzamento per la sua opera letteraria (sarà Solmi a curare la pubblicazione dei versi di Dorfles nel lontano 1948). In particolare, del periodo bellico è la raccolta Guerra, costituita da venti brevi componimenti fra i quali spiccano Carri armati, La generazione perduta (1945), Il tempio della mia pace (1943) e Il silenzio è ricordo (1945): si tratta di un “verso libero” scarno, volutamente disadorno, che proietta sullo schermo della poesia le immagini del conflitto armato e le contrite sensazioni del poeta, alla continua ricerca di luce e di pace, quest’ultima scolpita come un vero e proprio «delta sognato». Quest’«ansia d’un’altra rinascita» traspare anche dalle coloratissime ed esuberanti opere pittoriche degli anni ’39/’45, una delle quali Composizione su tromba, su fondo grigio-rosa sembra proprio rappresentare l’annuncio di una nuova e tanto attesa era dell’umanità da parte del poeta-buccinator. In effetti, non può non colpire l’apparente contrasto tra le fosche ambientazioni dei versi bellici e il ricchissimo arc-en-ciel che caratterizza, invece, le opere pittoriche degli stessi anni: permane anche in tal caso lo stile “liquido” già sperimentato da Dorfles alla metà degli anni ’30, con prevalenza di forme sinuose e avviluppate, disancorate da qualsiasi riferimento naturalistico e tendenti a una sorta di “psicanalisi cromatica”. Al biennio ’44/’45, inoltre, appartengono alcune preziose ceramiche prodotte da Gillo all’interno di una vecchia fornace di laterizi da lui coraggiosamente riattivata a Lajatico; si tratta di opere di piccole dimensioni, oggi purtroppo in gran parte distrutte, che rappresentavano oggetti e quasi minuscoli “idoli” facilmente trasportabili. Gli ultimi esemplari ancora conservati sono stati oggi catalogati dalla pag. 433 del già menzionato Catalogue Raisonné. Pur dopo vari decenni, Gillo teneva particolarmente a queste sue antiche e bislacche creazioni, tant’è che, in occasione di una recente mostra organizzata a Venezia (“Open 20”), egli aveva deciso di esporre una riproduzione in grandi dimensioni (130 x 44) di una di queste piccole terrecotte realizzata nel 1944, a dimostrazione del fatto che si trattava di opere ancora perfettamente “attuali” e non certo rinnegate dal loro artefice. Nel 1945 arriva la tanto attesa fine della guerra, la quale «[aveva] spezzato un ordine, un frutto di secoli d’amore e di cultura. Tutto è rovesciato: non restano che il disordine e la sporcizia»; di quell’anno è il saggio Valéry e la “recusation de l’enthousiasme”, pubblicato ne La nuova Europa del 23 settembre. Con la cessazione del conflitto, la famiglia Dorfles lascia allora la tenuta di Lajatico e può finalmente recuperare i suoi consueti ranghi triestini. Gillo torna così a frequentare di nuovo la casa tergestina dei Saba, «lurida, piena di oggetti accatastati, poltrone sgangherate, libri sfasciati. Eppure, dagli occhi azzurri del vecchio poeta irradia ancora un fuoco sacro non sai bene se di genio o di follia – mentre parla con enfasi profetica dei destini della psicanalisi». La vena poetica di Dorfles trova nuova espressione in particolare nella raccolta Grottesche sotto forma di atmosfere non più belliche, ma venate di surreale: da Parrucca agitata dal vento (1946) a Il cocker nero (1945), da Suino strinato (1948) a Dolci megere baffute (1946) fino a Tre manichini neri (1947), i versi di Gillo assumono ora una inedita piega sarcastica e, per l’appunto, grottesca, così che la sua fantasia di poeta può finalmente librarsi indisturbata, ormai libera dalle brutture e sofferenze della guerra. In quest’epoca Dorfles sottopone ancora a Saba i suoi versi sparsi; il poeta della cosiddetta “Prima Generazione”, però, li scompagina «con stizza, affermando a priori che non possono valere niente, e brontola un po’ seccato: “Bel, bel, ti xe molto abile però ti manchi de cuor, no xe vera poesia. Però le podessi aver successo, per la modernità dei versi!». Anche con Montale – da lui considerato «il massimo poeta italiano del Novecento» Gillo ha numerosi contatti ancora risalenti agli anni Trenta, caldeggiati dal comune amico Bobi Bazlen, nonché da “la Mosca”, ossia Drusilla Tanzi, moglie del noto storico dell’arte Marangoni. Dopo la guerra, inoltre, il pensatore triestino approfondisce ulteriormente lo studio della filosofia estetica – primi fra tutti Vico, Schelling, Bergson, Husserl e Cassirer e scrive i suoi primi importanti articoli e libri di “critica del gusto”. Del 1946, in particolare, è l’interessante saggio Attualità del barocco, in cui l’Autore illustra i caratteri essenziali del “barocco” storico consistenti, a suo dire, nella penetrazione dell’elemento dinamico-musicale all’interno dell’architettura per poi individuare le tendenze neo-barocche della contemporaneità, caratterizzata anch’essa (a suo dire) dal predominio dell’elemento musicale rispetto agli altri. In quasi tutti i suoi scritti, Dorfles dimostra il proprio interesse non già per una filosofia “pura”, bensì per un’estetica il più possibile intrecciata e “contaminata” dall’antropologia e dalla psicologia, il che rende il suo pensiero profondamente originale nel suo prezioso sincretismo multidisciplinare. Ma è il 1948 l’anno della svolta: Gillo Dorfles, insieme ad alcuni fedelissimi (Atanasio Soldati, Bruno Munari e Gianni Monnet), fonda il “Movimento per l’Arte Concreta” (“MAC”) sull’orma della Konkrete Kunst elvetica (primo fra tutti, Max Bill), e in contrapposizione sia all’arte figurativa del periodo fascista, sia ai pittori cosiddetti “astratti” dell’epoca. È una vera e propria fucina di creazioni e di riflessioni intellettuali, avviata con la celebre Prima cartella di arte concreta presentata alla Galleria/Libreria “Salto” il 22 dicembre 1948, avventura che durerà per un lungo decennio fino allo scioglimento avvenuto nel 1958, anno della morte di Monnet. Come scrive lo stesso fondatore triestino, l’Arte Concreta doveva intendersi «proprio in contrapposizione alla tanto diffusa voga dell’astrazione, perché [essa] non proviene da nessun tentativo di astrarre da oggetti sensibili, fisici o metafisici, ma è basata soltanto sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese concrete in immagini di forma/colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale»; «restando [così] lontani da ogni ricordo naturalistico, ma anche da ogni suggestione surreale o metafisica», in modo che i nuovi “oggetti” pittorici siano puri fatti grafici e non, in modo ancillare, astrazione di oggetti “già noti”. Tali canoni estetici informano anche le opere figurative prodotte da Dorfles tra il 1947 e il 1951, in cui scompaiono i (già rarissimi) riferimenti a corpi reali – anche in polemica con il “nuovo realismo sociale” di Guttuso e Migneco e la pittura diventa fatto puramente grafico e simbolico, sia nelle forme sia nei colori, con recupero e “sdoganamento” di ciò che la tradizione occidentale aveva da sempre (s)qualificato come pura “decorazione”; tutto ciò, nell’espresso intento di rendere l’Arte autonoma sia rispetto alla figurazione pedissequamente naturalistica, sia alla “pseudo-astrazione” forgiata dalla sublimazione/distillazione di un oggetto fisico o metafisico. Ben presto il MAC coinvolge anche poeti illustri (Sanguineti, Balestrini, Pagliarani, Porta, Erba) e artisti di tutta Italia, dal gruppo torinese (Carol Rama, Parisot, Scroppo), a quello genovese (Alloria, Biglione, Mesciulam) e napoletano (De Fusco, Tatafiore, Venditti, Barisani); l’ideale che muove Dorfles «non è arrivare all’assurda “synthèse des arts” lecorbusiana, ma di far comprendere al pubblico (e soprattutto ai critici) come non esistano barriere stagne tra i diversi linguaggi artistici» come, ad esempio, le arti figurative, l’urbanistica, la pubblicità, la Gestaltpsychologie e il design. Del 1949 è l’articolo La “costituzione d’oggetto” e il Carmine di Brandi, in cui l’Autore prende posizione in merito alla corrente del Surrealismo, così affermando: «Le accuse feroci di Brandi al surrealismo sono indubbiamente giustificate; non è chi non veda come, attraverso lo scrupoloso realismo con cui vengono dipinti gli assurdi oggetti di Dalì o di Tanguy, non si possa giungere a un rinnovamento della realtà, ma solo ad una pretesa surrealtà più realistica d’ogni riproduzione naturalistica». Dello stesso anno sono, poi, i due saggi Goethe e la teoria dei colori, e Fernand Lion: introduction à une phénomenologie de l’art78. Il 1951 è un altro anno cruciale nella vita di Gillo Dorfles, poiché coincide con la fondazione di Aut Aut (Rivista di filosofia e di cultura) insieme al filosofo Enzo Paci allievo di Antonio Banfi . Come è possibile leggere nel primo editoriale della rivista, a quell’epoca «l’aut aut [era] molto semplice: o libertà della cultura o barbarie»: dopo secoli, se non millenni, in cui la civiltà occidentale aveva creduto nel regno della necessità e della verità, l’era contemporanea rappresenterebbe il nuovo regno della possibilità (cui i passatisti contrapporrebbero invece la categoria dell’impossibilità, come impossibilità della libertà umana di darsi una norma e di essere veramente libera; «la nuova filosofia», continua l’editoriale, «non offre totali garanzie, non offre la sicurezza di un ordine necessario, non vuol rinchiudere in sé l’infinito. Al filosofo rivelatore dell’assoluto sostituisce la più modesta ma più concreta figura del filosofo che vive da uomo tra gli uomini e cerca con essi di superare gli ostacoli, di persistere nella via della civiltà, di affrontare e vincere i pericoli del comune destino». Il mitico “n. 1” della rivista dalla copertina rossa – prezzo di lancio: «L. 350» – contiene scritti che oggi fanno letteralmente tremare le vene ai polsi: dopo il citato ambizioso editoriale, svetta nientemeno che la Lettera sul ‘Doctor Faustus’ di un anziano Thomas Mann (sarebbe morto nel 1955), seguita da Il significato dell’irreversibile di Paci. E ancora: Romanzo, personaggio e lettore di Carlo Bo, Sulla strada della dodecafonia di Luigi Dalla piccola, una ricca rassegna di Prospettive, fino ad arrivare a Bilancio di mezzo secolo alla Biennale di Venezia dello stesso Dorfles, saggio particolarmente denso e significativo nel quale l’Autore, dopo avere criticato la «pletorica» (sic) 25a Biennale appena conclusasi, traccia un bilancio dei primi cinque decenni di arte contemporanea in Italia. Partendo dal Fauvismo, il Futurismo e il Cubismo, che avevano scalzato l’allora imperante Espressionismo europeo, Dorfles esamina più nel dettaglio quello che egli definisce «il dramma vissuto dal colore» tra il 1905 e il 1915, ossia il passaggio dal colore tonale e ancora ottocentesco degli impressionisti, al colore più “timbrico” (cioè puro, spesso piatto e avulso dall’oggetto naturale rappresentato) dell’espressionismo, fino al recupero di un colore più “armonico” da parte dei cubisti e dei futuristi (involontari precursori dell’astrattismo), i quali avrebbero concentrato la propria attenzione non più sull’aspetto cromatico, bensì sulla scomposizione delle forme. Ciò premesso, l’Autore si sofferma più diffusamente sulla grande mostra retrospettiva di Vasilij Kandinskij , definito il «Cristoforo Colombo della pittura moderna», nella cui opera regna sovrano il colore inteso come entità indipendente dalle forme, come avviene mutatis mutandis anche in Mondrian; nello stesso articolo viene, poi, illustrata la mostra di James Ensor precursore dell’espressionismo e del surrealismo. Sorprende un po’ leggere oggi l’aspra disapprovazione di Dorfles verso l’opera di Jackson Pollock , la quale (a suo dire) «ci porta a dar credito alle critiche di coloro che accusano l’attuale pittura di non essere più arte ma solo un disordinato groviglio di colori, senza nesso e significato. Tale è senza dubbio l’arte di Pollock che va a tutto discredito della migliore pittura d’oggi. Cosiffatta pittura, priva d’uno schema compositivo, d’una ragione logica, e solo basata su accostamenti arbitrari e spesso tutt’altro che armonici di colori già di per sé impuri, non ha nessuna ragione di affermarsi né di imporsi all’attenzione del pubblico». L’Autore chiude il saggio dando atto che entrambe le vie, quella figurativa e quella non figurativa, appaiono per ragioni diverse ancora foriere di futuri sviluppi e fruttificazioni, nessuna delle due essendosi ancora rinchiusa nel vicolo cieco dell’aporia. L’annata 1951 di Aut aut sarebbe stata particolarmente felice, visto che la rivista avrebbe ospitato scritti di celebri personalità come Luciano Anceschi, Elio Vittorini, Nicola Abbagnano, Vittorio Sereni, sino a Giuseppe Ungaretti nel fascicolo n. 4 di quell’anno. Aut aut avrebbe poi ospitato scritti di Dorfles fino ai giorni nostri: pensiamo, fra tutti, all’articolo dal titolo Enzo Paci, un “maestro” (1986), in memoria del co-fondatore della rivista, a dieci anni dalla sua scomparsa. Come sappiamo, la rivista – attualmente diretta da Pier Aldo Rovatti esiste ancora oggi, pur dopo alcuni mutamenti di assetto e di veste grafica, e senza dubbio l’antica origine dorflesiana la illumina di Storia. Possiamo dire che Gillo Dorfles proprio nelle sue prime opere si percepiscono, a fondo, non solo quegli studi in Medicina e in Psichiatria, reificati in modelli e forme artistiche, ma anche tutte quelle curiosità che Dorfles ha mostrato, in un preciso momento della sua attività artistica (e critica), nei confronti di un filone, quello antroposofico, assimilato attraverso un viaggio a Dornach, in Svizzera, un centro steineriano vicino a Basilea. Ma è pur sempre l’ambiente triestino, l’intelligenzija triestina degli anni Trenta, gli incontri e i circoli culturali del proprio paese natio, ad offrire a Dorfles le basi della propria prima formazione. In realtà, indica lo stesso autore in uno dei tanti dialoghi e incontri tenuto con Flavia Puppo, già prima di frequentare le lezioni a Dornach “realizzavo opere che non avevano nulla a che vedere con l’antroposofia, ma che subivano l’influenza di un pittore triestino, Arturo Nathan, un metafisico che creava paesaggi lunari alla De Chirico. Combinando le due influenze, per un certo periodo la mia pittura si basò su personaggi misteriosi. La cosa più importante era l’uso dei colori. Utilizzavo tempere o acquerelli, mai pitture a olio, dato che desideravo mantenere quella qualità di trasparenza. All’epoca la pittura era un’attività che mi piaceva, anche se non pensavo certo di esporre i miei lavori”. “Ho dipinto da sempre, si può dire pure quando frequentai il ginnasio” è ancora una volta Dorfles a ricordarlo in un’intervista tenuta con Lea Vergine disse : “facevo degli sgorbi sui margini dei libri di testo. Dico sgorbi ma in realtà li tenevo da conto anche allora, alcuni compagni li ammiravano molto; difatti erano originali. A tempera, a olio. Li tenevo per me, aspettando il futuro. A un certo punto della mia vita, molto più avanti, insieme ad alcuni amici fondai il MAC (movimento arte concreta).dal ’48 al ’58 esposi in molte mostre in Italia e all’estero. Quella fu l’epoca della mia maggiore attività pittorica”. Ora, riconsiderare le linee tracciate dal Movimento per l’Arte Concreta, la sua nascita, i suoi sviluppi successivi, le sue diramazioni nazionali e internazionali e, infine (dopo un decennio di attività), il suo collasso, vuol dire, monitorare non solo una stagione, particolarmente significativa, dell’arte italiana e della sua avanguardia, ma anche ritessere, all’interno di questa, il percorso artistico di una figura poliedrica della cultura italiana, Dorfles appunto, personalità tra le più interessanti e attente dei cambiamenti e dei processi socio-culturali, nonché antropologici, del secondo Novecento. Seguire una fase, quella del secondo dopoguerra in Italia, attraverso l’esperienza del Mac milanese e attraverso le azioni, i gusti e le preferenze critiche, di uno dei suoi più straordinari interpreti, vuol dire riconsiderare un’intensa stagione dell’arte italiana, nonché le peculiarità di ogni singolo autore che svolse un ruolo decisivo in questo aggrovigliato panorama artistico. Occorre affidarsi, spesso, alla cronologia, alla cronografia, ai movimenti, ai vari gruppi che hanno animato questo clima culturale, alle tendenze stilistiche, alle poetiche che ogni artista o ogni gruppo e «forse siamo in un periodo storico in cui i gruppi funzionano meglio delle singole personalità» mette in campo per dispiegare il proprio discorso pratico in assunto teorico suggerirebbe Luciano Anceschi che pure gioca un ruolo fondamentale in questo brano di storia. Ciò nondimeno, rincorrere tutte le pagine di un periodo ricco di suggestioni, incanti e anche forti polemiche, comporterebbe abbandonare l’obiettivo principale della riflessione. Ci sia consentito, pertanto, almeno un veloce defilé di alcuni nomi, luoghi ed occasioni utile a comprendere il panorama in cui è andata plasmandosi e modificandosi l’esperienza del Mac e in cui, soprattutto, si è andato formando, tra attività pratica e teorica, il pensiero di Gillo Dorfles. Genericamente il secondo dopoguerra mostra un contrasto, spesso pungente e polemico, tra astrazione e figurazione, ovvero tra astrattisti e realisti. Non a caso, Rodolfo Pallucchini, segretario generale della XXIV Biennale di Venezia la prima edizione del dopoguerra 1948 anno decisivo per l’arte italiana, scriverà, nell’Introduzione del catalogo, una testimonianza assai indicativa in cui rinnova un dibattito già avviato a Milano con una Mostra Internazionale d’Arte Astratta e Concreta che, di lì a poco, sarebbe stato il centro gravitazionale della cultura artistica italiana. “Anche da noi come in “quasi” tutti i paesi d’Europa, il contrasto fra arte figurativa e arte astratta si fa sempre più vivo, anzi drammatico. Alla mostra organizzata dagli animatori de L’Altana tenuta tra il gennaio e il febbraio del 1947, presso gli spazi dell’ex Palazzo Reale, parteciparono i nomi più significativi dell’arte europea, offrendo così, al pubblico e agli esperti, la possibilità di vedere opere di Kandinsckij, Vantongerloo, Vordemberger-Gildewart, Herbin nonché quelle di alcuni italiani, tra i quali Licini, Mazzon, Munari, Rho, Veronesi e Sottsass, e soprattutto di importanti autori svizzeri o in Svizzera residenti: Arp, Bill, Bodmer, Graeser, Hinterreiter, Klee, Leuppi, Lohse, Taube-Arp e lo stesso Max Huber che ne organizzò l’allestimento e ne promosse, con l’aiuto di Lanfranco Bombelli Tiravanti, Max Bill ed Ettore Sottsass jr. la riuscita. “ La mostra prevedeva anche opere della collezione di Leonce Rosemberg e altre di diversa provenienza che documentassero il lavoro di Mondrian, Van Doesburg, Moholy-Nagy, Pevsner, Brancusi, Kupka e di artisti americani, inglesi e russi. Ma le difficoltà del momento, all’indomani della fine del conflitto mondiale, impedirono il completamento del progetto. Si tratta di una crisi già da molti anni preavvertita ed oggi aperta: non sappiamo ancora quali conseguenze essa potrà avere nell’avvenire dell’arte italiana. Era, conclude Pallucchini, doveroso documentarla”. D’altro canto, nello stesso anno, pure a Roma, ritornano le attività della Quadriennale che organizza in contrapposizione stilistica alla Biennale veneziana , presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, la Rassegna Nazionale di Arti Figurative. La predisposizione artistica in un mondo che propone giovani progetti e idee è sicuramente quella legata all’astrattismo, ad una linea aniconica che fugge (sensibilmente) dai dettati formali di matrice realista per proporre, di volta in volta, e di programma in programma, nuovi schemi compositivi e nuove prospettive. Nelle contese culturali del dopoguerra, l’arte italiana e dunque l’ambiente intellettuale in cui si muove Dorfles mostra, perciò, aspetti radicalmente antitetici; dettati, spesso, da una questione di natura politica che, ideologicamente, ne asseconda le scelte. Sarebbe sufficiente ritornare a leggere in seguito all’eredità di Corrente e ai realismi di Roma e di Milano le aspre polemiche nate nel veneziano Fronte Nuovo delle Arti, dopo l’energica disapprovazione che Alderigo di Castiglia (pseudonimo di Palmiro Togliatti) ha mosso, con «un corsivo bruciante», verso la pittura astratta (non riconducibile alla rappresentazione), o la severa presa di posizione critica di Lionello Venturi che diffida tanto dei realisti, troppo inclini a seguire i dettami politici, quanto degli astrattisti, troppo portati alla pura decorazione di superficie. All’interno di queste due tendenze, che sembrano dividere radicalmente l’arte italiana, fuoriescono molti altri itinerari, percorsi intermedi a volte provvisori e passeggeri come gli entusiasmi condizionati dal picassismo (Oltre Guernica), o le linee generali di matrice realistico-esistenziale. A Brescia, ad esempio, troviamo, nella galleria di Guglielmo Achille Cavellini, il Gruppo degli Otto teorizzato, rappresentato e tutelato dallo stesso Venturi. A Roma, nasce, nel 1949, il gruppo di Origine la prima mostra è del 1951 che ruota attorno ai nomi di Giuseppe Capogrossi, Ettore Colla proprietario dell’omonima galleria e Alberto Burri. E poi le grandi novità apportate da Lucio Fontana con la nascita dello Spazialismo il cui primo manifesto risale al 1947, stesso anno in cui viene alla luce, a Roma, Forma 1; il Movimento nucleare fondato anch’esso a Milano nel 1950, da Enrico Baj, Joe Colombo e Sergio Dangelo, o ancora l’Informale che si pone come collante d’uno stato d’animo internazionale teso a sganciarsi da ogni schema formale appunto per aprirsi ad una dimensione materica, segnica (sotto alcuni aspetti gestuale) che ritorna ad agire nel mondo della vita attraverso tutti i materiali che offre la nuova realtà. È in questa situazione variegata che, sul finire degli anni Quaranta del Novecento, si muove quel nuovo scenario milanese derivante dall’astrattismo attivo tra le due guerre, quando Persico e Belli dialogavano con gli artisti della Galleria il Milione che sarebbe diventato,presto il Movimento per l’Arte Concreta. Proprio con la nascita del Mac, avvenuta a Milano, in quel complesso e fatidico 1948, presso la «benemerita e ospitale»la Libreria Salto, grazie all’incontro prestabilito di quattro artisti che con la prima mostra del Mac si tenne il 22 dicembre presso lo spazio di Giuseppe Salto, al numero 18 di via Santo Spirito. Durante questo primo incontro furono esposte 12 «stampe a mano» di Pietro Dorazio, Gillo Dorfles, Lucio Fontana, Augusto Garau, Mino Guerrini, Galliano Mazzon, Gianni Monnet erano artisti di estrazione decisamente diversa: Atanasio Soldati, Bruno Munari, Gianni Monnet e Gillo Dorfles, lo scenario culturale italiano, la cui situazione pittorica era, in quel momento, quanto mai statica e provinciale, si riapre ad un nuovo dialogo transnazionale in cui la stessa operazione pittorica e teorica è pensata, dal nucleo del Mac milanese, già in un senso internazionale e non più provinciale come era allora buona parte dell’arte nostrana. Giovanni (Gianni) Monnet nasce a Torino il 12 maggio 1912; figlio di un ingegnere elettrotecnico, Eugenio, e di Elisa Thöni. Dopo il liceo artistico, si iscrive alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, laureandosi nel 1937. Si trasferisce, nello stesso anno a Roma, dove è collaboratore di cantiere dell’impresa ing. Ferrara nelle costruzioni dell’aeroporto di Ciampino. Nel 1938 supera l’esame di stato presso la Scuola Superiore d’architettura; collabora, dapprima con gli architetti Antonio Valente e Guido Fiorini nella realizzazione di scene di vari film e in seguito partecipa con gli architetti Alberto Rosso e Giuseppe Lorini al concorso per il progetto di un nuovo edificio dell’Opera Nazionale a Belgrado. Realizza con Andrej Andreev delle scene per il film “La principessa Tarakanova”, girato a Cinecittà. Nel 1939 torna a Torino, dove collabora alla costruzione di alcuni edifici per lo stabilimento Breda e, poi, a progetti di allestimenti per le mostre EA2 di Roma e dell’Alpinismo di Torino. Nel 1940 collabora alla progettazione degli edifici provvisori della “Biennale dell’Autarchia” di Torino e nella costruzione di una villa a Casalborgone. Oltre alla professione di architetto, negli anni successivi, Monnet intraprende l’attività di critico e di artista. Risale al 1944 la prima mostra, che si tiene a Lugano, nella sala del Circolo Ticinese di Cultura (diretto da Renato Regli e Giuseppe Martinola) situata nel Palazzo Riva di via Pretorio dove presenta opere realizzate tra il 1929 e il 1944. Precoci, infatti, si erano rivelati i suoi esordi pittorici, attraverso opere figurative, in particolare ritratti di famigliari, oltre a dei paesaggi e ad alcune nature morte, in cui apparivano già presenti elementi di carattere postcubista. Una seconda mostra nella medesima sede si terrà nel 1947, alla quale Monnet partecipa esponendo venti dipinti, insieme a pitture e plastici astratti dell’architetto Ettore Sottsass Jr.Un testo di Luigi Quadrelli introduce il lavoro di Monnet, mentre Max Bill presenta il lavoro di Sottsass. Nel 1946, alla fine del conflitto, si trasferisce a Milano, nell’abitazione-studio di via Tarquinio Prisco, insieme alla moglie Antonietta, sposata nel 1940 e figlia del noto psichiatra e umanista svizzero Bruno Manzoni dove, per un periodo, ospiterà l’amico Ettore Sottsass, con il quale condividerà lo studio di architettura. La casa di Lugano rimane comunque un punto di riferimento importante, non solo per le collaborazioni, quale critico d’arte e di architettura, con il Corriere del Ticino e con Radio Monteceneri (il cui servizio culturale era diretto da Felice Filippini) ma anche per il forte rapporto umano e intellettuale con Renato Regli e suo suocero Bruno Manzoni che svolge un ruolo importante nelle sue ricerche artistiche e teoriche, animate da un interesse sempre più crescente per la pittura spontanea degli alienati, alimentato anche dai suoi studi sulla pittura di Mirò e del surrealismo. Nel 1947 partecipa alla mostra “Arte italiana d’oggi” premio Torino, con l’opera “Partita a scacchi”. A Milano intraprende pure l’attività di insegnante di costruzioni presso l’Istituto Tecnico per Geometri, dedicandosi a diversi progetti architettonici. In particolare, vince il II premio il I premio non fu assegnato con un progetto per le case a schiera a due piani destinate a reduci, denominato QT8 quartiere sperimentale modello della VIII Triennale di Milano in collaborazione con gli architetti Avetta, Romano, Sottsass Sr. e Sottsass Jr. (Ettore): disegni e fotografie appaiono sulla rivista romana “Metron” nel settembre del 1948. Le abitazioni furono inaugurate il 23 ottobre 1948. Inoltre, la giuria assegnò al gruppo un rimborso spese per un progetto di casette a schiera a quattro letti. Sempre per il QT8, partecipa senza successo al progetto per una chiesa, in collaborazione con l’architetto Norberto Vairano . E` il primo tentativo di Gianni Monnet per un’integrazione delle arti. Nello stesso anno vince il primo premio, ex aequo con Enrico Bordoni, nel Concorso Italviscosa-T8 per “Disegni per tessuti operati”, presentando un lampasso a tre trame. Nel 1948 partecipa con tre opere su tela al salone “Arte Astratta in Italia”, nelle sale del Teatro delle Arti a Roma e alla mostra inaugurale della stagione alla galleria Bergamini di Milano, alla “Mostra del Cambio” di Chiavari, alla II Internazionale di Milano e alla collettiva alla galleria Borromini di Milano. Nel 1947, a Milano, si tiene l’esposizione “Arte Astratta e concreta”, organizzata dall’architetto Lanfranco Bombelli Tiravanti e dal gruppo “L’altana”, nelle sale del Palazzo ex-Reale; la prima in Italia di valore internazionale. Il manifesto fu realizzato graficamente da Max Huber e il catalogo, curato da Lanfranco Bombelli, comprendeva i testi di Wassily Kandinsky, Max Bill, Georges Vantongerloo e Ettore Sottsass Jr.. Gli artisti invitati alla mostra furono: Arp, Bassi, Bill, Bodmer, Bombelli, Bonini, Graeser, Herbin, Hinterreiter, Huber, Kandisky, Klee, Leuppi, Licini, Lohse, Mazzon, Munari, Rho, Sottsass Jr., Taeuber-Arp, Vantongerloo, Veronesi, Vordemberge-Gildewart. L’esposizione svolse un importante ruolo nel riallacciare il dialogo con artisti che nel periodo precedente la guerra avevano aderito al Secondo Futurismo, tra i quali Munari, o ad esperienze gravitate intorno al gruppo che si riuniva alla Galleria del Milione, tra cui Radice, Reggiani e Ghiringhelli. Alcuni di questi artisti aderiranno al Movimento Arte Concreta (M.A.C.), fondato a Milano nel 1948 da Gianni Monnet insieme con Gillo Dorfles, Bruno Munari e Atanasio Soldati. Il gruppo, a cui si legarono artisti dalle esperienze eterogenee, trovò sede nei locali della libreria Salto, a Milano, che era stata importante luogo di incontro di architetti ed artisti modernisti. La libreria Salto si apre a Milano nel 1933, in via Santo Spirito con il nome “Libreria A. Salto, Architettura e Decorazione”. Fondata da Alfonso Salto e successivamente gestita dai due figli, Giuseppe e Giancarlo, questa libreria, grazie alla loro preparazione culturale, aperta verso il pensiero artistico europeo, svolgerà un prezioso contributo nel panorama milanese e italiano del dopoguerra. Le riviste Domus, Casabella, Spazio e la francese Art d’Aujourd’hui sono distribuite dai Salto. Nella sede di Santo Spirito l’apertura verso una serie di mostre è “automatica” e la collaborazione con Gianni Monnet è determinante per un allargamento dell’attività con nuovi strumenti informativi. Monnet aveva inteso raggruppare artisti che si ispirassero alle avanguardie non figurative, nell’intento di superare i provincialismi allora dominanti, in relazione al tentativo di ricostruzione di un discorso artistico per molti anni spezzatosi. Monnet svolgerà sempre il ruolo di divulgatore, di fondamentale importanza nell’opposizione manifestata dal gruppo nei confronti della linea ufficiale rappresentata dal realismo, come, d’altronde, aveva già avuto modo di manifestare, in occasione della mostra a Roma “Arte Astratta in Italia”, i propri principi, in un testo pubblicato sul quotidiano luganese “Corriere del Ticino”, dove enunciava il predominio della forma sul contenuto, indicando nell’astrattismo l’esito estremo ed inevitabile compiuto da tutta l’arte moderna, a partire dall’Impressionismo, verso un linguaggio universale che si affermasse internazionalmente: in effetti l’opera esposta e intitolata “Pittura”, si presenta dichiaratamente astratta. Questo predominio della forma trova diretta corrispondenza nella sua ricerca pittorica a partire dagli anni ’50. Dal 15 dicembre 1948 al 3 gennaio 1949 partecipa all’esposizione “I Mostra di giocattoli d’artisti”, alla galleria Annunciata a Milano, organizzata da Munari, Noe e Bruno Grossetti, esponendo un’acquario surrealista intitolato “Acquario figurato”e un grande collage. Un importante testimonianza di questo evento ci è fornita dal servizio fotografico di Giancolombo, pubblicato sulla rivista “Grazia” e da vari articoli usciti sui quotidiani dell’epoca. A fine dicembre del 1949 17 – 30 dicembre sempre nelle sale della galleria Annunciata per l’esposizione “II Mostra regali per Natale”, Gianni Monnet espone l’opera intitolata “ Parete animata”, realizzata per l’occasione ed esposta nuovamente l’anno successivo alla libreria Salto: in questa esposizione dove le opere realizzate da Gillo Dorfles, Lucio Fontana, Max Huber, Ettore Sottsass e Luigi Veronesi portano titoli come “Biciclette con regia Artistica”, “Palle di Gomma”, “Paraventi”, “Macchine Inutili” “Draghi cinesi” “Lume in un sifone”, “Fossili per diecimila”, la regia di Bruno Munari è evidente. La mostra di esordio del MAC che si inaugura alla libreria Salto il 22 dicembre 1948 presenta la I cartella d’arte concreta, costituita da dodici stampe a mano realizzate da Piero Dorazio, Gillo Dorfles, Lucio Fontana, Augusto Garau, Mino Guerrini, Galliano Mazzon, Gianni Monnet, Bruno Munari, Achille Perilli, Atanasio Soldati, Ettore Sottsass e Luigi Veronesi, con un testo critico di Giuseppe Marchiori. È l’inizio di un’importante attività editoriale del MAC per le edizioni della libreria Salto, a cui seguiranno la cartella“10 litografie originali” di Enrico Bordoni, con un testo di Gillo Dorfles; “Litografie originali di Monnet”; “24 litografie originali” di Afro, Bombelli, Bordoni, Dorfles, Fontana, Garau, Huber, Mazzon, Monnet, Munari, Soldati, Veronesi, con un testo di Giulio Carlo Argan; “10 Forme 1949” di Luigi Veronesi, con un testo di Gillo Dorfles; “10 Incisioni originali Di Salvatore”, con una prefazione di André Bloc e un testo di Nino Di Salvatore, 1951; “Carol Rama”, 5 litografie realizzate nel 1956; “Simonetta Vigevani Jung”, 6 litografie, pure realizzate nel 1956. L’attività editoriale del MAC porterà pure alla produzione di pregevoli pubblicazioni dall’alto contenuto grafico: i due primi bollettini (in formato orizzontale) corrispondenti alle due annate 1949-1950 e 1950-1951, i ventiquattro bollettini (in formato quadrato) che raccolgono l’attività dal 1951 al 1954, quattro pubblicazioni intitolate “Documenti d’Arte d’Oggi” con l’attività dal 1954 al 1958 e contemporaneamente le sei “Sintesi delle arti”, pubblicazioni realizzate tra il 1955 e il 1956. Queste pubblicazioni sono il risultato dell’intensa attività espositiva e l’espressione teorica del movimento. Caratterizzati dall’impostazione grafica di Munari e di Monnet, raccolgono in ordine sistematico le esposizioni con l’apporto di testi e interventi critici. Gli scritti di Gillo Dorfles saranno presenti in diverse pubblicazioni. Le copertine curate dagli artisti e all’interno le grafiche originali diventano dei veri e propri “libri d’artista”, costituendo un unicum nel panorama italiano. Nel 1949, Monnet tiene due mostre personali alla libreria Salto, la prima (dal 2 al 15 aprile) con sedici opere, introdotta da un testo Gillo Dorfles . In “Causa ed effetto” appaiono, forse per la prima volta, gli elementi circolari uniti da linee rette mentre “Forma primitiva” rappresenta uno dei suoi primi tentativi di realizzare per mezzo di motivi curvilinei, arcuati, tondeggianti e definiti da tinte piatte, composizioni dal carattere minimale e dall’aspetto primario. La seconda esposizione (dall’ 8 al 21 ottobre) comprende alcune tempere e le litografie della III cartella d’arte concreta. Nelle litografie prevalgono linearismi dall’andamento sinuoso; la forma per Monnet non è identificabile in un’astrazione geometrica rigida, che egli rigetta. Inizia a realizzare anche collage, fondendo la tecnica e il colore dei papiers découpés di Matisse con elementi biomorfi provenienti da Arp e dall’ultimo Kandinsky. Partecipa all’esposizione della IV cartella “Arte concreta” alla libreria Salto. Partecipa alla mostra del M.A.C. galleria della Vigna Nuova a Firenze e alla mostra d’Arte Moderna nella città di Chieri. Dal 6 maggio 1950, alla galleria del Naviglio di Carlo Cardazzo a Milano, partecipa alla collettiva “Pittura Astratta e Concreta”. (“Arte Concreta 1949-1950”, foglio n. 27), con Bertini, Crippa, Dova, Fontana, Giancorazzi, Joppolo, Licini, Munari, Parnisari, Reggiani, Soldati, Vedova, Veronesi ed espone un “negativo-positivo” in diagonale e un quadro orizzontale con elementi circolari. Dal 7 al 20 ottobre del 1950 espone alla libreria Salto con Galliano Mazzon, con un’introduzione di Mario Ballocco: Monnet ripresenta “Parete animata” del 1949 (di quest’opera andata distrutta rimangono purtroppo solo una serie di fotografie in b/n e un progetto a tempera su carta): quest’opera rivela l’ambizione di Monnet nel voler rapportare la propria pittura allo spazio circostante (per le illustrazioni si rimanda ad “Arte concreta 1950-1951”). Dal 15 al 29 dicembre cura l’esposizione “Pitture di Albino Galvano e Filippo Scroppo” alla libreria Salto, (“Arte Concreta 1950-1951”, foglio non numerato). Nello stesso anno (giugno 1949) è invitato all’esposizione “Arte d’Oggi” a Palazzo Strozzi a Firenze. Nel 1950 partecipa alla mostra del gruppo del MAC, alla galleria del “Grifo” di Torino (22 febbraio). L’esposizione torinese, intitolata “Opere concrete di sette artisti milanesi”, è ospitata subito dopo al Circolo di Cultura di Lugano, con una conferenza introduttiva sull’astrattismo, tenuta da Monnet e Munari. Monnet espone “Metamorfosi” (1949), opera nella quale le forme che sembrano rimandare ad elementi biomorfi, determinano un giustapporsi di campiture nere e bianche su fondo azzurro. Nel 1950 partecipa al V Salon des Réalités nouvelles a Parigi, quale membro societario. Nella capitale francese consolida anche l’attività di critico, entrando in contatto con numerosi esponenti della scena artistica internazionale: André Bloc, Louis Degand, Charles Estienne, Michel Seuphor, incontrati nelle principali gallerie della città e visitando gli studi di Jean Arp, Alberto Magnelli, George Vantongerloo. Importante si rivelò l’incontro, nutrito successivamente anche dal punto di vista epistolare, con Nina Kandinsky, che gli permise di accedere all’atelier del marito e alla sua rilevante collezione privata. Il forte legame con Magnelli solidificò, inoltre, grazie a Monnet, il rapporto tra Parigi e l’Italia. Nello stesso anno, inizia una corrispondenza sull’arte italiana per la rivista parigina “Art d’Aujourd’hui”, collaborando con articoli al periodico milanese AZ-arte d’oggi. Nel 1951 espone alla fondazione del Movimento Espace, a Parigi; al VI Salon des Realites Nouvelles di Parigi; nella rassegna “Arte astratta e concreta in Italia” (3-28 febbraio), tenuta alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, partecipando contemporaneamente, in qualità di relatore, al convegno “Poetiche dell’Arte concreta, oggi” (5 febbraio). In questa occasione presenta oltre al negativo-positivo Ossessione , Forma elementare del 1950 . Queste forme minimali ambiscono a superare la tradizionale superficie del quadro: lo dimostra una serie di coevi interventi a inchiostro su fotografia, in cui egli progettò decorazioni parietali di interni, ricorrendo a numerose variazioni sul tema della Forma elementare appena ricordata; alla Galleria Bompiani (7 – 16 aprile) di Milano nella “II Mostra Concretisti Italiani, curata da Gillo Dorfles con Bertini, Bombelli, Di Salvatore, Dorfles, Galli, Dova, Huber, Mazzon, Munari, Nigro, Regina, Rho, Soldati, Veronesi (“Arte Concreta 1950-1951, foglio non numerato) e poi dal 13 al 26 ottobre alla “Mostra di Arte Concreta” nella Galleria Bergamini, Milano, con Biglione, Di Salvatore, Dorfles, Mazzon, Munari, Pantaleoni, Parisot, Regina e Soldati. La galleria Bompiani, la galleria Bergamini, la galleria del Fiore, la galleria Schettini, il Naviglio di Carlo Cardazzo, L’Annunciata di Bruno Grossetti: sono le gallerie di Milano di riferimento con la libreria Salto per le esposizioni del Movimento. L’attività delle gallerie non deve comunque far dimenticare l’importante contributo di Guido Le Noci (1904-1983) che prima di approdare alla nascita della sua galleria “Apollinaire”, spazio espositivo allestito dall’architetto Vittoriano Viganò (che aveva d’altronde progettato nel 1953 la galleria del Fiore e nel 1955 la galleria Schettini) è presente in svariate collaborazioni alla Bompiani, dove inaugura due esposizioni, la prima “Arte Astratta italiana: i primi astrattisti italiani 1913-1940”, la seconda “II Mostra di Concreti Italiani”. In particolare modo la prima esposizione sottolinea la riscoperta di Giacomo Balla, figura cardine per il movimento che su “Arte concreta” n.2, 1951 pubblicherà in copertina un particolare del suo dipinto “Linee Andamentali” risalente al 1918. In effetti, se a Roma fu il gruppo Origine a riscoprirlo, guidato da Ettore Colla, con il suo spazio espositivo e le pagine di “Arti Visive”, a Milano suscitò l’attenzione di Monnet (per cui realizzò il progetto per la seconda copertina del bollettino “Arte Concreta”) e parimenti del gallerista Guido Le Noci che lo ritenne il pioniere più importante per la mostra storica dedicata all’astrattismo italiano alla Bompiani (febbraio 1951) e naturalmente per la successiva retrospettiva “Pitture astratte di Giacomo Balla dal 1912 al 1920” agli Amici di Francia (10 novembre – 2 dicembre 1951), spazio situato in Corso Vittorio Emanuele 31 a Milano. Di questa importante esposizione, completamente dimenticata dalla storiografia artistica, c’è giunta l’importante testimonianza del servizio fotografico di Giancolombo. Gianni Monnet si attiverà notevolmente per la diffusione dell’esposizione milanese, realizzando per la trasmissione “Attualità culturali” di Radio Monteceneri , la radio della Svizzera Italiana, un servizio intitolato “L’astrattista Balla a Milano” (23 dicembre 1951). Monnet, per la mostra alla Bompiani, con la collaborazione di Bruno Munari e Giulia Sala, cura la grafica, la redazione del bollettino e un testo d’introduzione all’esposizione. Dopo aver scritto per il “Corriere lombardo” (35 articoli), con corrispondenze settimanali sull’arte moderna da Parigi, inizia una proficua collaborazione con il settimanale “Epoca”, scrivendo, in particolare, un testo intitolato “L’Arte Moderna, dalla A alla Z” , che trattava la cosiddetta storia degli “ismi”, dall’Impressionismo al Sintetismo; altri articoli misero a fuoco l’opera di Kandinsky e Magnelli, la storia dell’arredamento, le principali gallerie d’avanguardia milanesi. Collabora, pure, al bollettino della “Permanente” di Milano e studia l’opera dell’architetto Carboni per la rivista “Graphis” di Zurigo. La collaborazione con la rivista parigina “Art d’Aujourd’hui”, gli permette di aggiornare costantemente il dibattito sull’arte italiana; tiene inoltre una rubrica settimanale sull’arredamento per la rivista “Grazia” . Numerosi e importanti si rivelano i rapporti con gli artisti, tra cui i giovani astrattisti romani: Dorazio, Guerrini, Perilli, teorici del movimento “Forma”, con cui il M.A.C. condivide l’idealità di opposizione al realismo. Tutti gli artisti romani tendenzialmente progressisti parteciparono alle mostre del M.A.C. a Milano (Accardi, Manisco, Sanfilippo, Ettore Colla che con il milanese Mario Ballocco, fonda il gruppo “Origine”, per citarne alcuni).
Contemporaneamente conosce l’architetto locarnese Oreste Pisenti: la mostra dell’artista tedesco Arend Fuhrmann alla Galleria Bergamini di Milano è la testimonianza di questo contatto. Nel 1952 partecipa al VII Salon des Realites Nouvelles di Parigi. Ciò che preme a Monnet è il principio dell’integrazione delle arti e della loro interdisciplinarietà, estendendo i suoi interessi alla produzione industriale, alla grafica, agli allestimenti, all’arredamento, e naturalmente all’architettura. Questo concetto era legato chiaramente alla “Sintesi delle Arti” teorizzata da Le Corbusier. Illuminanti sono le seguenti dichiarazioni: “Sono architetto e non ho mai fatto alcuna differenza tra l’architettura, la pittura e la scultura; perché mi pare che il problema sia unico: quello di esprimersi per mezzo della presentazione visiva di configurazioni geometriche spaziali ”. “Dalla fine dell’800 ”, le arti visive hanno inconsciamente teso sempre più a fondersi in una sola forma di espressione. Ma solamente con Le Corbusier e Léger questa tendenza diventò cosciente: la Synthèse des Arts Plastiques, e si cominciò a capire che pittura e scultura astrattiste non sono più quadri e statue, nel senso ottocentesco della parola , ma architettura, allestimento, industrial design. Questo è certamente il ruolo dell’arte d’oggi, ed alla sua realizzazione deve mirare l’artista veramente moderno”. Concludeva Monnet: “Per quanto ho dichiarato sopra, credo di appartenere legittimamente al Movimento Arte Concreta ”. Si doveva quindi, nei propositi, giungere a una perfetta collaborazione tra le arti plastiche e l’industria; l’architettura avrebbe dovuto inglobare la pittura, la scultura, la produzione di oggetti per il vivere. Nel 1952 e nel 1954, questo concetto avrebbe trovato un’espressione nella mostra “Studi per nuove forme di motociclette”, patrocinata dalle ditte Gilera e Innocenti, esposti alla Galleria dell’Annunciata a Milano nel 1952 e “Colori nelle carrozzerie d’auto”, dovuta alla collaborazione tra gli architetti dello studio B24 di Milano, in collaborazione con la ditta Montecatini-Ducco (precedente alla mostra, la creazione di uno stand) nel 1954. Dal 5 al 25 gennaio 1952 partecipa all’esposizione “Forme concrete nello spazio realizzate in materiale plastico” a cura di Lodovico Castiglioni, alla Saletta dell’Elicottero a Milano, dove espone “Stati d’animo” del 1951 (Coll. Museo Cantonale d’Arte, Lugano), opera realizzata con un materiale sintetico quale il rhodoid. Sempre alla Saletta dell’Elicottero dall’ 11 al 31 gennaio il M.A.C. presenta “Materie plastiche in forme concrete” con Casarotti, Di Salvatore, Donzelli, Dorfles, Fontana, Garau, Mazzon, Munari, Nigro, Pantaloni e Regina. I materiali utilizzati sono: rhodoid, sicofoil, celluloide, plexiglas, perspex, laminati plastici. Altro concetto sostenuto da Monnet, ed espresso in un testo da lui redatto in occasione della mostra personale alla galleria Bergamini di Milano (19 gennaio – 1 febbraio 1952) era il criterio dell’”impersonalità”, che sarebbe dovuto emergere quale carattere distintivo dell’epoca moderna. Nello stesso anno, cura con Bruno Munari l’allestimento della mostra “Opere recenti di Soldati” alla Galleria Bergamini. Dal 9 al 29 febbraio partecipa alla mostra del M.A.C. tenutasi a Vienna, presso l’Italienischen Kulturinstitut (1952) e, nel medesimo periodo, progetta il Centro Studi Arte e Industria a Novara, diretto da Nino Di Salvatore che, purtroppo non sarà mai realizzato. Presenta con due testi, apparsi sui bollettini “Arte Concreta” n.6-7, le esposizioni “Opere recenti e un plastico di Nino Di Salvatore” alla galleria Bergamini (26 aprile- 9 maggio), “opere concrete di Garau” (1 – 15 giugno) nel negozio Lagomarsino di Pavia. Sempre nel 1952, Gianni Monnet partecipa a tre mostre del M.A.C., in America latina, a Rosario-Santa Fè (Amigos del Arte), Santiago del Cile (Universidad Cattolica), Buenos Aires (Galleria Krayd) e poi, alla mostra collettiva del M.A.C. (15 al 25 novembre) alla Galleria Gissi di Torino. Partecipa a “Arte organica, Disintegrismo, Macchinismo, Arte Totale e Danger Public”, con Munari, Veronesi, Mariani, Motta, Asinari, Regina, Di Salvatore, Muggiani, Tovaglieri, Iliprandi, Tullier, Franchini, Colombo, Baj, Dangelo (16 dicembre 1952 – 6 gennaio, 1953), organizzata alla galleria dell’Annunciata di Milano, dove firma il Manifesto dell’Arte Totale. Nel 1953 espone nella mostra del M.A.C. alla Galleria S. Matteo a Genova. Collabora alla rivista “Prospettive” con uno studio su Picasso. A Parigi espone al VIII Salon des Realites Nouvelles. Inizia la collaborazione con lo Studio b24 di Milano, dove partecipa alla mostra “Collezione ambientale”; scrive il testo di presentazione “Sintesi artistica con ceramiche di Garau” ed espone nella collettiva “Collezione Ambientata” (3 – 23 ottobre) . Sviluppa i suoi studi sulle forme primordiali, trovandone l’essenza in un elemento arcuato che propone reiterato in alcuni dipinti, a cui accosta forme circolari; questi esiti troveranno una corrispondenza diretta nella grafica, in particolare in “Enten Eller” del 1954, edito dal M.A.C. dove le poesie di Antonino Tullier pittore, poeta e critico, nato nel 1916 aderirà nel 1952 al Movimento Nucleare con Baj, Dangelo, Joe Colombo e Mariani sono presentate graficamente da Gianni Monnet. Nel 1954 collabora con gli architetti Mario Ravegnani e Antonello Vincenti alla “Casa sperimentale” nella Xa Triennale di Milano. Scrive i testi di presentazione per le esposizioni “ Pitture recenti di Proferio Grossi” allo Studio b24 e dei catanesi “Dino Caruso, Michele Santonocito” alla Galleria La Botteghina di Catania. Partecipa alla mostra del movimento internazionale “Espace” a Biot e al IX Salon des Realites Nouvelles di Parigi. Nel 1956 realizza la grafica per la copertina della rivista “Serigrafia”, Arte Tecnica ed Economia del quarto sistema di stampa (anno I, numero 6, 3.09.1956). Dal punto di vista ancora della divulgazione, importante considerare un ciclo di puntate settimanali (25) dal titolo: “Arte moderna dalla A alla Z”, per Radio Monteceneri; i testi degli interventi troveranno pubblicazione in un volumetto, pubblicato nel 1955 dalla Libreria Salto, dal titolo omonimo. Nel 1955 partecipa all’esposizione “Esperimenti di sintesi delle arti” alla Galleria del Fiore di Milano e alle mostre parigine del Groupe Espace al Parc de Saint-Cloud e al X Salon des Realites Nouvelles. Pubblica per le edizioni Salto di Milano la collana Sintesi delle arti “Sulla regolazione del traffico a Milano”, progetto di metropolitana sul piano stradale per la città di Milano. Risale al 1956 la collaborazione con l’architetto Tito Bassanesi Varisco, per la Pellicceria Livio Levi di Milano dove Monnet realizza quattro grandi specchiere a muro (a scomparsa) e quattro ante di vetro scorrevoli per un armadio a muro. In tutti due casi l’intervento è realizzato con pittura ad olio direttamente sul materiale preposto. Se i motivi pittorici delle ante dell’armadio ci ricordano l’opera “Parete animata” del 1949, nelle specchiere, per contro, si ritrovano gli elementi della terza cartella del M.A.C. . Con l’architetto Varisco, Monnet intraprende anche la stesura di un saggio dal titolo “Geometria percettiva”, di cui pubblicherà una breve sintesi in “Documenti d’arte d’oggi” del 1958. Nel 1957 redige un testo d’introduzione alla mostra “Dipinti e sculture di Angelo Bozzola” alla Galleria del Fiore (24 novembre – 7 dicembre). Partecipa alla mostra “M.A.C./Espace. I Rassegna nazionale di Arte Concreta”, alla galleria Schettini (30 marzo – 11 aprile). Nel 1958 espone alcuni pastelli in una personale alla libreria Salto, con un testo di Antonino Tullier (17 – 30 maggio). Nel 1958 espone alcuni pastelli in una personale alla libreria Salto, con un testo di Antonino Tullier (17 – 30 maggio). Muore, prematuramente, a Lugano il 15 dicembre dello stesso anno. Posso dire che la sua formazione artistica muove dalle esperienze pittoriche condotte nell’ambito del Futurismo, dal quale trarrà la sua ricerca visuale e l’interesse per l’oggetto nella sua complessa definizione e identificazione di caratteri, attributi e significati. Nel 1925 conosce Marinetti, simpatizza con Balla e Prampolini, i futuristi che lo influenzarono maggiormente. Dal 1927 partecipa alle collettive futuriste: espone alla milanese Galleria Pesaro, alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma e a Parigi. Sono del 1933 le sue prime «macchine inutili», concepite secondo i presupposti dell’arte programmata, che lo rendono famoso negli ambienti artistici dell’epoca. Inventa «L’agitatore di coda per cani pigri», studia «il motore per tartarughe stanche». Nel 1939 diventa art director della rivista Tempo. Con Max Huber collabora alla creazione dell’immagine della casa editrice Einaudi. Del 1945 è il suo primo multiplo cinetico «Ora X» del 1948 -49 i suoi «libri illeggibili» del 1951 le «strutture continue» tridimensionali, gli esperimenti sul «negativo-positivo» e quindi successivamente quelli sulla luce polarizzata per proiezioni dalla materia; i numerosi film di ricerca, la progettazione di oggetti di arte cinetica; le sue famose «sculture da viaggio» in cartoncino piegabile oggetti di ornamentazione estetica, progettati allo scopo di creare un punto di riferimento, in qualche modo coincidente col proprio mondo culturale, da collocare nelle anonime camere di albergo o in qualunque altro luogo non caratterizzato. Seguono le «Xerografie originali», i «Polariscop», gli oggetti flessibili «Flexy», i giochi per i bambini e tanti vari oggetti di arte cinetica. A questa intensa ricerca nel campo della sperimentazione visiva e attività nel campo della progettazione, s’accompagna quella non meno costante e feconda nel campo della grafica, in quello degli allestimenti e in quello della saggistica. Tra i suoi numerosi scritti, fondamentali sono «Design e comunicazione visiva» del 1968, «Arte come mestiere» del 1966, «Artista e designer» del 1971, «Codice ovvio» del 1971. Premi e riconoscimenti gli giungono da ogni parte del mondo: il premio della Japan Design Foundation del 1985, quello dei Lincei per la grafica del 1988, il premio Spiel Gut di Ulm del 1971 in seguito verrà premiato nel 1973 e nel 1987mentre nel 1989 gli viene conferita laurea ad honorem in architettura dall’Università di Genova.»Il design dà qualità estetica alla tecnica. Non nel senso dell’arte applicata, come si faceva una volta quando l’ingegnere che aveva ideato la macchina per cucire, chiamava un artista che gliela decorasse in oro e madreperla, bensì nel senso che l’oggetto e la sua forma estetica siano una cosa sola ben fusa assieme, senza alcun riferimento a estetiche preesistenti nel campo dell’arte cosiddetta pura. Un oggetto progettato dal designer non risente dello «stile» personale dell’autore dato che il designer non dovrebbe avere, a priori, uno stile col quale dar forma a ciò che progetta, come avviene quando un artista si improvvisa designer ovvero l’oggetto prodotto dal designer dovrebbe avere quella «naturalezza» che hanno le cose in natura: una cavalletta, una pera, una conchiglia, una scarica elettrica; ogni cosa ha la sua forma esatta. Sarebbe sbagliato pensare queste cose in stile: una cavalletta a forma di pera, una scarica elettrica a forma di, quindi un settore diverso dal design, che ha una sua precisa funzione, è lo styling, dove si progetta moda, dove la fantasia e la novità sono dominanti, per un consumo rapido della produzione. Il vero design non ha stile, non ha moda; se l’oggetto è giusto, nel design non si dice bello dura sempre. Oggetti di design ignoto si usano da sempre: il leggio a tre piedi dell’orchestrale, la sedia a sdraio da spiaggia».Bruno Munari è una della grandi figure del design e della cultura del XX secolo. Milanese, ha vissuto tutte le età più significative dell’arte e del progetto, diventandone un assoluto protagonista sin dagli anni Trenta, con la creazione delle «macchine inutili» e con il contemporaneo lavoro di grafica editoriale, del tutto innovativo nel panorama europeo. Ma è nel secondo dopoguerra che Munari si afferma come uno dei «pensatori» di design più fervidi: la collaborazione con tutte le aziende più importanti per la rinascita del Paese dalla Einaudi alla Olivetti, dalla Campari alla Pirelli e una serie di geniali invenzioni progettuali spesso realizzate per la ditta Danese ne fanno un personaggio chiave per la grande stagione del design italiano. Grafica, oggetti, opere d’arte, tutto risponde a un metodo progettuale che si va precisando con gli anni, con i grandi corsi nelle università americane, come l’MIT, e con il progetto più ambizioso di tutti, che è quello dei laboratori per stimolare la creatività infantile, che dal 1977 sono tuttora all’avanguardia nella didattica dell’età prescolare e della prima età scolare. La sua costante ricerca è stata quella dell’approfondimento di forme e colori, variabili secondo un programma prefissato, e della autonomia estetica degli oggetti. Tali premesse hanno trovato conferma nella pratica dell’industrial design. La sua poliedrica capacità comunicativa si è manifestata nei campi più disparati: pubblicità e comunicazione industriale libri per la scuola L’occhio e l’arte. L’educazione artistica per la scuola media, 1992; Suoni e idee per improvvisare. Costruire percorsi creativi nell’educazione musicale e nell’insegnamento strumentale, 1995, entrambi in collaborazioni inventò giochi, laboratori grafici e libri di ricerca. Munari amava raccontarsi e diceva : “All’improvviso senza che nessuno mi avesse avvertito prima, mi trovai completamente nudo in piena città di Milano, il 24 ottobre 1907. Mio padre aveva rapporti con le più alte personalità della città essendo stato cameriere al Gambrinus, il grande Caffè Concerto di piazza della Scala, dove si riunivano tutte le persone importanti a bere un tamarindo dopo lo spettacolo. Mia madre, in conseguenza di ciò, si dava delle arie ricamando ventagli. A sei anni fui deportato a Badia Polesine, bellissimo paese agricolo dove si coltivavano i bachi da seta e le barbabietole da zucchero. Il caffè veniva dal Brasile, a piedi nudi. Sulla piazza del paese, tutta di marmo rosa, si passeggiava a piedi nudi nelle sere d’estate. Nel caffè niente zucchero. Le vacche erano nel Foro Boario dove improvvisavano ogni mercoledì (mercato) dei cori, non come alla Scala, ma con molto impegno. Dopo le vacche ho avuto rapporti carnali con l’arte e sono tornato a Milano nel 1929 e un giorno di nebbia ho conosciuto un poeta futurista Escodamè che mi fece il favore di presentarmi a Filippo Tommaso Marinetti e fu così che inventai le macchine inutili. E adesso sono ancora qui a Milano dove qualcuno mi chiede se faccio ancora le macchine inutili oppure se sono parente col corridore (che poi era mio nonno, mentre lo zio Vittorio faceva il liutaio e il cuoco. Scusatemi se lascio la parentesi aperta.” Dopo aver trascorso l’infanzia in un piccolo paesino del Veneto, nel 1926 Bruno Munari torna a Milano, città che diventerà il centro della sua attività artistica. Qui uno zio ingegnere lo assume nel suo studio e lo aiuta ad integrarsi nella metropoli. Il primo incontro con i futuristi milanesi risale al 1926, ma è bene ricordare che l’artista sente parlare del futurismo per la prima volta ancora adolescente, nell’albergo dei genitori. Lo stesso Munari racconta infatti: Prima della guerra passavano dei viaggiatori di commercio che si fermavano una o due notti, e fu uno di loro che mi parlò del futurismo. Ricordo che aveva al collo un fazzoletto, cosa strana perché allora si portava solo la camicia con la cravatta, e io mi entusiasmai per i suoi discorsi, avevo più o meno diciotto anni, e allora cominciai a fare dei disegni, ma senza sapere niente, inventando. L’incontro che sancirà l’ingresso di Munari nell’avanguardia, avviene invece girando per le librerie antiquarie, dove egli conosce il poeta futurista Escodamé. Questo incontro permetterà al giovane artista di conoscere Marinetti ed entrare nel gruppo di intellettuali che fonderanno il secondo futurismo milanese. Munari vede nel movimento futurista «l’espressione più coerente con l’idea del nuovo» nata durante i primi mesi passati in città: egli, che si avvicina al mondo dell’arte da un percorso non accademico, individua l’innovazione futuristica nel coinvolgimento di diverse discipline caratteristica essenziale nella successiva attività di Munari in particolare l’attenzione ai problemi della grafica, della pubblicità e dell’arte applicata al quotidiano, in contrasto alle tendenze artistiche novecentiste e al recupero dell’arte classica e aulica. Nonostante Munari sia tra i fondatori del secondo futurismo milanese, le sue origini artistiche sono da ricercare nella prima esperienza futurista, quella di Balla, Boccioni, Carrà e Depero. Sarà significativo il rapporto con Enrico Prampolini, uno degli esponenti più importanti del primo futurismo, in particolare per la sua attenzione verso l’Europa e le esperienze d’arte internazionali tra le due guerre, egli viaggia tra Ginevra, Praga, Berlino e Parigi, mantenendo stretti rapporti con gli ambienti delle avanguardie europee. Prampolini verrà citato da Munari come suo unico referente culturale e interlocutore di tutte le esperienze internazionali diffuse nel Vecchio Continente a partire dagli anni ’20. Gli elementi di contatto più evidenti tra Munari e l’avanguardia italiana si possono individuare all’interno del manifesto programmatico pubblicato nel 1915 da Giacomo Balla e Fortunato Depero. Il documento Ricostruzione futurista dell’universo cita anzitutto l’uso di materiali poveri per la costruzione del «nuovo Oggetto (complesso plastico)». Anche nel Manifesto tecnico della scultura futurista firmato da Boccioni viene sottolineato il rinnovamento nell’uso dei materiali, in particolare attraverso la concezione del polimaterismo: 3. Negare alla scultura qualsiasi scopo di ricostruzione episodica veristica. Percependo i corpi e le loro parti come zone plastiche, avremo in una composizione scultoria futurista, piani di legno o di metallo, immobili o meccanicamente mobili, per un oggetto, forme sferiche pelose per i capelli, semicerchi di vetro per un vaso, filo di ferro e reticolati per un piano atmosferico, ecc. ecc. 4. Distruggere la nobiltà, tutta letteraria e tradizionale, del marmo e del bronzo. Affermare che anche venti materie diversi possono concorrere in una sola opera allo scopo dell’emozione plastica. Il manifesto mette in luce due importanti innovazioni: il rinnovamento dei materiali, ovvero la necessità di abbandonare le materie tradizionali per lasciare spazio a quelle nuove e la «compenetrazione tra gli oggetti e lo spazio circostante». Queste caratteristiche innovative della scultura futurista sono visibili nella progettazione (e realizzazione) delle prime Macchine inutili: per queste opere Bruno Munari seleziona con particolare attenzione le materie da usare, ponendo l’accento non solo sull’accostamento dei colori soprattutto tinte piatte e quindi sulla sensazione visiva che l’oggetto artistico provoca, ma anche sull’effetto tattile, nel desiderio di risvegliare tutti i sensi del fruitore nell’atto di contemplazione dell’opera. Nelle Macchine inutili è evidente anche la fusione tra le componenti fisiche e lo spazio vuoto circostante: l’utilizzo di materiali leggeri come cartoncini colorati, bastoncini di legno e fili di seta permette alla costruzione di essere molto leggera e di potersi muovere con un soffio d’aria. A tale proposito, Munari spiega: «pensavo che sarebbe stato forse interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle nell’aria, collegate tra loro in modo che vivessero con noi nel nostro ambiente, sensibili alla atmosfera vera della realtà». I materiali di cui le Macchine inutili sono composte sottolineano la profonda differenza che intercorre tra queste opere e i mobiles di Alexander Calder, con i quali, negli stessi anni, l’artista statunitense conquista la fama nell’ambiente. Anzitutto le sculture di Munari sono composte, come abbiamo visto, da materiali leggeri come cordini di seta, cartoncini con tinte pastello e bastoncini di legno. I mobiles di Calder invece sono di ferro, verniciati di nero o colori violenti. L’elemento comune alle opere risiede nel fatto che entrambe si appendono e girano, ma i modi e i materiali sono agli antipodi. Inoltre gli elementi che compongono le Macchine inutili sono in rapporto armonico tra loro, mentre le forme predilette da Calder sono di ispirazione vegetale. L’attenzione all’uso dei materiali diverrà poi essenziale nella progettazione di oggetti di design e, in particolare, nei giochi e libri per bambini: in ogni progetto di Munari, è il materiale (oltre che la funzione) a suggerire la forma, come nel caso della progettazione della scimmietta Zizì giocattolo in gommapiuma armata che nel 1954 vince il primo “Compasso d’oro” del design italiano dimostrazione di come sia possibile utilizzare in modo innovativo un materiale fino ad allora sfruttato solo per la costruzione di poltrone e divani. Munari viene colpito dalla morbidezza ed elasticità del composto, «che sembra vivo» e che ricorda la sensazione di tenere in braccio un cucciolo. Tornando al manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, Balla e Depero danno indicazioni anche sugli oggetti da realizzare, mettendo in luce l’intrinseca volontà del movimento futurista di «raggiungere il cinetismo». In questo passaggio del testo è evidente l’assonanza tra i «complessi plastici», ovvero le «rotazioni» proposti dai due artisti futuristi e le Macchine inutili di Munari. Lo stesso autore, parlando delle sue opere, spiega: «Gli elementi che compongono una macchina inutile ruotano tutti su se stessi e tra loro senza toccarsi». Le Macchine inutili hanno la capacità di muoversi, spostarsi nello spazio attraverso il vento, che fa muovere le «sagome di cartoncino dipinto e qualche volta una palla di vetro soffiato». In terzo luogo, i due artisti futuristi sottolineano l’interesse per i giocattoli, che non dovranno più «istupidire e avvilire il bambino», ma, anzi, abituarlo. Munari si dedica alla progettazione di giochi per bambini a partire dagli anni Cinquanta e pone particolare attenzione non solo al materiale con cui il gioco è realizzato, ma anche all’interazione del bambino con il giocattolo. A tale proposito Marco Meneguzzo, nel descrivere la cura che Munari riserva alla progettazione per l’infanzia, spiega che in un gioco per bambini «Non ci deve essere nulla di tanto caratterizzato da rischiare d’essere più “forte” della personalità in formazione del bambino, nulla che possa plagiarne lo sviluppo» . I giochi progettati da Munari negli anni successivi, con la collaborazione del pedagogista Giovanni Belgrano, rispondono tutti allo stesso principio. Tornando al futurismo, a partire dalla fine degli anni ’20, Munari partecipa a collettive importanti, tra le quali la Biennale di Venezia (1930, 1932, 1934), la Quadriennale di Roma, ma anche eventi a Milano e Parigi. Per quanto riguarda i temi scelti dal giovane artista, negli anni del secondo futurismo la tendenza è quella dell’aeropittura, «che vuol rendere plasticamente gli stati d’animo, le immagini, i sogni e, in un senso soggettivo ed astratto, gli spettacoli naturali offerti dal volo». A questa ultima declinazione della pittura futurista, che risente di influenze surrealiste e metafisiche, Munari aggiunge alcune “stranezze”: fin dai primi anni di attività è evidente la tendenza dell’artista ad allontanarsi da ogni definizione di stile o corrente. Un anonimo recensore, a proposito della Mostra futurista in omaggio a Umberto Boccioni commissionata dai futuristi alla Galleria Pesaro di Milano nel 1933, scrive: Un artista che si serve di tutti gli espedienti possibili per accrescere di valori tattili i valori pittorici, associandoli in modi curiosi, è Munari, il quale con una sua figurazione intitolata, se ben ricordo, Il mormorio della foresta, applica dei piccoli rami d’albero risegati sulla superficie dipinta, e altrove, sconfinando interamente dalla pittura, intenta una sua “Macchina per contemplare”, composta di fiale e tubetti, e liquidi misteriosi. Stranezze, ma spesso divertenti, come la Radioscopia dell’uomo moderno: scheletro umano formato di legno e metallo, con un globo sospeso fra le costole. L’uomo che porta il mondo dentro di sé. Dalla descrizione sopra citata, è chiaro l’interesse di Munari verso una “contaminazione” di media diversi, nonché la devozione alla natura, che spicca particolarmente in una situazione artistica come quella futurista, che tende al meccanico o allo sconfinamento negli spazi cosmici. Per quanto riguarda gli elementi di sviluppo dei modi di fare arte tipici del futurismo, Munari commenta così l’avanguardia che ha contribuito a fondare: Futurismo. Il pittore futurista vuol dipingere il movimento dell’oggetto e non l’oggetto stesso. Da ciò deriva la simultaneità dell’oggetto con l’ambiente, la scomposizione e la compenetrazione dei piani e tante altre cose mentre il visitatore ignaro si sforza inutilmente di ricostruire l’oggetto che ha fornito l’ispirazione. Da questo momento l’oggetto, approfittando del movimento che gli ha imposto il futurismo, parte e non lo vedrete mai più, sotto forma verista, nei quadri moderni . Munari, nel descrivere con parole sue il futurismo, parla indirettamente della “scomparsa dell’oggetto”, ovvero della «eliminazione della funzione narrativa del quadro», che ha inizio con la partecipazione al secondo futurismo e che si concretizzerà negli anni successivi, in particolare dal dopoguerra, periodo in cui gli interessi dell’artista si muoveranno soprattutto verso il design. Il momento storico entro cui il giovane Munari muove i primi passi in ambito artistico, quello cioè delle avanguardie europee e degli scambi tra movimenti, gli permette la sperimentazione di media e supporti, forme e temi sempre diversi, rendendo difficile tracciare i confini stilistici dell’artista fin dal principio del suo percorso. Bruno Munari si avvicina al mondo dell’arte grazie al secondo futurismo, ma la sua curiosità lo spinge oltre questa avanguardia, alla ricerca di nuove contaminazioni, nuovi temi, nuovi modi. Verso la fine degli anni ’30, Munari entra in contatto con l’arte astratta, soprattutto attraverso la mediazione culturale di Prampolini e la Galleria Il Milione di Milano, che in quegli anni propone numerose mostre. Lo spazio, fondato nel 1930 da Peppino e Gino Ghiringhelli, dedica esposizioni ai più importanti artisti d’arte contemporanea italiani, come Sironi, Morandi, De Chirico, Melotti, Fontana, Soldati, Rho, ma anche europei, tra i quali Matisse, Kandinsky, Picasso, Chagall. A proposito della galleria, Munari scrive: Intorno agli anni Trenta si aprì, a Milano, davanti all’Accademia di Belle Arti di Brera, una piccola galleria che ha avuto una grande importanza culturale perché faceva conoscere, in quei tempi oscuri, quelli che oggi sono considerati i grandi maestri d’arte moderna. Tornando all’arte astratta, di questa esperienza artistica il milanese scrive: «Astrattismo e qui, finalmente, il soggetto, dopo tante metamorfosi, scompare. Il soggetto di un quadro astratto è la Pittura, soltanto la pittura e cioè forme e colori liberamente inventati». Come per il futurismo, anche della maniera astratta l’artista coglie alcuni importanti aspetti: fin dai tempi delle Macchine inutili Munari pone l’attenzione alle forme utilizzate dai pittori astratti e se ne appropria, liberandole nella tridimensionalità di una scultura, anziché intrappolarle nella bidimensione della tela. A proposito della nascita di queste sculture, l’artista spiega: Nel 1933 si dipingevano in Italia i primi quadri astratti che altro non erano che forme geometriche o spazi colorati senza alcun riferimento con la cosiddetta natura esteriore. Spesso questi quadri astratti erano delle nature morte di forme geometriche dipinte in modo verista. Personalmente pensavo che, invece di dipingere dei quadrati e dei triangoli o altre forme geometriche dentro l’atmosfera, ancora verista (si pensi a Kandinsky) di un quadro, sarebbe stato forse interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle in aria, collegate tra loro in modo che vivessero con noi dentro il nostro ambiente, sensibili alla atmosfera vera della realtà. Con le Macchine inutili, Munari rinuncia al supporto e, dunque, allo sfondo. Egli definisce la pittura di Kandinsky, che pur considera suo maestro, «una natura morta di oggetti irriconoscibili naviganti in una atmosfera vaga che fa da sfondo». Riguardo il tema del supporto e dello sfondo, negli anni in cui Lucio Fontana taglia la tela e Moholy Nagy realizza i suoi Dipinti trasparenti, Munari prepara una serie di dipinti intitolata Anche la cornice, che Tanchis definisce una «dichiarazione di poetica», in quanto « l’annessione della cornice al quadro equivale alla distruzione della sua funzione separatrice». Questa soluzione compositiva astratta crea uno spazio «plastico, integrale, concreto» dove tutto è ambiguità percettiva, dall’effetto di profondità, al confine tra opera e suo contorno. Ma il legame tra Bruno Munari e l’astrattismo è rintracciabile soprattutto nel confronto con due grandi artisti, Paul Klee e Piet Mondrian: con il primo, il milanese condivide intenti e riferimenti culturali, mentre dell’olandese Munari è colpito dalla rigorosa strutturazione ortogonale dello spazio, nel quale colore e forma «esprimono solo se stessi». Un confronto critico tra Munari e Klee viene proposto dallo studioso Aldo Tanchis, che individua per i due artisti nonostante oltre quattro decenni separino la loro attività aspetti affini nel loro metodo di lavoro. Il primo elemento in comune tra i due maestri riguarda «il problema del creare» , che per entrambi è più importante di ciò che viene creato. L’attenzione verso il procedimento di realizzazione dell’oggetto artistico, ovvero il metodo di lavoro, è sottolineato da Munari in un brano nel quale, parlando dell’importanza della distruzione dell’opera collettiva realizzata in un laboratorio creativo, afferma: «non è l’oggetto che va conservato ma il modo, il metodo progettuale, l’esperienza modificabile pronta a produrre ancora secondo i problemi che si presentano» . Allo stesso modo, per Klee «Ogni opera non è a bella prima un prodotto, non è opera che è, ma in primo luogo, genesi, opera che diviene». Questo primo elemento comune, richiama subito il secondo, altrettanto importante per i due artisti, ovvero la loro innata vocazione didattica. Se è il metodo di lavoro la cosa più importante del fare arte, è conseguente il fatto che vi debbano essere degli allievi a cui insegnare a sviluppare il proprio processo creativo. Negli scritti di Munari e Klee è evidente il loro desiderio di insegnare e la volontà di condividere con gli altri dei risultati teorici importanti. Entrambi mirano a favorire la propria disposizione creativa attraverso «modelli critici di comportamento». Per i due artisti le idee preconcette e l’eccessivo uso della ragione sono ostacoli alla creazione. Mentre Klee suggerisce ai suoi allievi «che le figurazione proceda dall’interno», ovvero che non ci siano agenti esterni ad influenzare la loro fantasia, Munari spiega ai suoi studenti: Ho detto loro di non pensare prima di fare. Di non cercare di farsi venire un’idea per fare la composizione. Spesso un’idea preconcetta mette in difficoltà l’operatore. Non pensare prima di fare vuol dire lasciare fuori la ragione e usare l’intuizione, cominciare a disporre a caso le forme. In terzo luogo, lo svizzero e l’italiano condividono l’idea di origine orientale che il cambiamento, il movimento e la mutazione rappresentano la vita e sono costanti essenziali della realtà. Per Munari «Il conoscere che una cosa può essere un’altra cosa, è un tipo di conoscenza legata alla mutazione. La mutazione è l’unica costante della realtà», mentre per Klee «Buona è la forma come movimento, come fare: buona è la forma attiva». Munari sottolinea l’importanza della mutazione anche quando parla dello sviluppo della fantasia e della creatività, soprattutto in età infantile. Egli infatti spiega che «Abituare i bambini a considerare la mutazione delle cose vuol dire aiutarli a formarsi una mentalità più elastica e vasta». Dunque, essere pronti al cambiamento, «essere mobili come la grande natura», spinge entrambi gli artisti ad una conclusione condivisa, che ci riporta al punto di partenza: non è l’oggetto che va conservato, ma il modo. In Munari questo aspetto prende forma nella sesta ed ultima regola che riguarda le tecniche di comunicazione visiva da insegnare ai bambini in un laboratorio creativo, ovvero: «Sesto: distruggere tutto e rifare…». Questa regola è utile ad evitare di creare modelli da imitare. Aldo Tanchis riconosce in questa «volontà antimuseificatrice» e distruttrice un’influenza di origine futurista, alleggerita dalla sua personale ironia, ovvero «un invito ad andare oltre, ad ignorare l’ipotesi di un risultato finale». Tra Munari e Klee vi è anche la condivisione dell’interesse per le forme della natura, in particolare le forme in crescita e i loro sistemi costruttivi: entrambi cercano nella natura le forme archetipe, originarie e, per Munari, essenziali. Klee afferma: «Il dialogo con la natura resta, per l’artista, conditio sine qua non. L’artista è uomo, lui stesso è natura, frammento della natura nel dominio della natura». I due artisti partono dunque dalla stessa ricerca, ovvero un’attenta indagine della natura per trovare la forma archetipa, ma arrivano a risultati diversi: per Klee l’obiettivo è il «prelevamento dell’immagine allo stato puro», Munari invece cerca «una forma di naturalezza industriale», visibile nelle sue opere di design. Infine, il milanese e lo svizzero condividono l’idea che le regole del fare artistico si possono trasmettere, ma la «genialità non la si può insegnare in quanto non è regola bensì eccezione» . Per Munari «È proprio la tecnica che si può insegnare] non l’arte. L’arte c’è o non c’è». Le tecniche e le regole per sperimentare l’arte possono dunque essere trasmesse, ma la genialità è innata. Anche la storica dell’arte Gloria Bianchino conferma la grande considerazione di Munari verso il pensiero teorico di Paul Klee, spiegando come «il dialogo con l’artista svizzero sia stato non solo importante, ma determinante per la ricerca del segno di Munari». Cerco di mettere in luce gli elementi di contatto tra il milanese e lo svizzero attraverso la mediazione della scuola del Bauhaus, nella quale, per volontà di Walter Gropius, Klee insegna pittura dal 1920 al 1931. In questi stessi anni, il pittore tedesco-svizzero farà uso dell’ironia «per suggerire il distacco fra l’immagine rappresentata e il suo primo significato, quello espresso nella didascalia» è ipotizzabile, per la Bianchino, che Munari assuma «l’uso di proporre dei titoli con la funzione di suggerire il piano dell’immagine come diverso da quello del suo primo significato» proprio da Klee, per il quale il senso delle rappresentazioni «non è mai stabile, ma muta a seconda della didascalia». Sappiamo inoltre, dalle parole di Tanchis, che Munari legge Klee, conosce i suoi testi, ma li traduce sempre in maniera operativa, ponendo l’attenzione al risvolto pratico del fare artistico. Ma, nonostante una profonda condivisione del metodo e di svariati richiami culturali, esistono alcune differenze che intercorrono tra i due maestri: anzitutto la pratica artistica, che per Klee rimane circoscritta alla tela, mentre per Munari si sviluppa in opere di natura molto diversa dalle Macchine inutili, agli oggetti di design, ai libri per bambini, ai laboratori creativi. Inoltre, è evidente la «diversità di forza e carattere» tra la scuola del Bauhaus, «democratica fondata sul principio della collaborazione, della ricerca comune tra maestri e allievi» e «vivacissimo centro di cultura artistica in contatto con tutte le tendenze avanzate dell’arte europea», di cui fa parte Klee, e il MAC , movimento artistico fondato da Munari, forse l’unico esempio italiano di discussione di teorie e problemi legati al mondo dell’arte, che altrimenti sarebbero stati trascurati, ma che ha dato scarsi risultati per quanto riguarda la produzione di oggetti artistici, al contrario della ricca produzione bauhausiana. Per concludere, la differenza forse più significativa tra Munari e Klee risiede nel rapporto tra arte e vita: lo svizzero vive l’arte come attività consolatoria, in contrasto con la quotidianità, mentre per il milanese questa distinzione è impossibile, poiché non ci devono essere «un mondo falso in cui vivere materialmente e un mondo ideale in cui rifugiarsi moralmente» . Vedremo più avanti che l’intento teorico di Munari sarà infatti riuscire a fondere arte e vita, per giungere ad un’arte democratica e diffusa nel quotidiano. Il giovane Munari deve a Prampolini anche la conoscenza di Piet Mondrian, fondamentale per la formazione del milanese, che con il maestro olandese condivide i motivi di critica al futurismo. A tale proposito, è lo stesso Munari, in un’intervista ad Arturo Carlo Quintavalle, ad affermare: «Prampolini mi mostrò anche delle opere di Mondrian e fui molto colpito dalla essenzialità e dal modo di occupare lo spazio di questo artista». Il milanese si rende presto conto dell’incapacità del futurismo di passare dalla rappresentazione del movimento al movimento puro questione che egli risolve con le Macchine inutili e la tendenza futurista a considerare il quadro l’opera in generale attraverso motivi che vanno oltre l’opera stessa, prescindendo dai valori sensoriali e formali. Munari riconosce in Mondrian l’artista che per primo arriva «al colore e alla forma che esprimono solo se stessi», ed è colpito, in particolare, dalla sua meticolosa strutturazione ortogonale dello spazio e dal tentativo di eliminare dall’opera ogni forma di “stato d’animo”, ovvero elementi che non hanno nulla a che fare con l’oggettività del manufatto. Questi elementi vengono ripresi da Munari soprattutto nella sua attività di designer: tutti gli oggetti da lui progettati si pensi, ad esempio, al Posacenere cubo o all’Abitacolo rappresentano null’altro che loro stessi, la loro essenzialità formale corrisponde ad una essenzialità funzionale. A confermare il legame tra Munari e Mondrian è il pittore Franco Passoni che, nel Bollettino Arte Concreta n. 5, pubblica un breve saggio dal titolo “Teorema di Munari”, nel quale presenta il lavoro del milanese. Passoni scrive: La prima scoperta fondamentale di Munari nacque dalla valutazione sull’arte astratta impostata da Mondrian, in quell’occasione e attraverso esperienze personali, egli capì che una superficie piana può diventare interessante dal modo come viene divisa, selezionata e colorata, seguendo un rigorosismo estetico al di fuori della proporzionalità euclidea conosciuta in arte come !sezione aurea”. Munari giunge alla conclusione che «la forma nello spazio ha una sua esclusiva natura, una sua ragione d’essere in sé e per sé senza limiti stabiliti» ma la ricerca attorno alla forma del quadrato e la realizzazione dei primi Positivi-Negativi metteranno definitivamente in luce la discontinuità con il pittore olandese: Quando nel passato ho lavorato ai negativi-positivi il mio problema era uscire da Mondrian: ho ancora le sue ortogonali dentro di me… A furia di semplificare, di arrivare ai colori primari, Mondrian ha occupato lo spazio della tela in modo asimmetrico al fine di trovare un equilibrio. Era difficile uscire da questa gabbia. Attraverso i miei negativi-positivi ho tentato di arrivare ad un altro tipo di equilibrio. E credo di esserci riuscito. Conseguenza di questa indagine oggettiva è una certa avversione nei confronti dell’espressionismo, il «barocco moderno» così ricco di soggettività e sentimento, che viene tradotto da Munari in una «ricerca del massimo di purezza e sobrietà dell’oggetto», il quale diventa «autosufficiente e autosignificante, si rappresenta e non rappresenta». La ricchezza di dettagli e decori è, per Munari, inutile alla comunicazione del messaggio e, dunque, alla fruizione dell’oggetto: l’obiettivo del designer è il raggiungimento del famoso motto di Mies van der Rohe “less is more”: Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità. Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode. La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte. Come per Munari e Klee, il milanese condivide anche con Mondrian lo stretto legame con la natura: per l’olandese, infatti «Nel naturale possiamo percepire che ogni rapporto è dominato da un rapporto primordiale: quello degli estremi opposti attraverso una dualità di posizioni ortogonali tra loro» . Mondrian è anche responsabile della formazione anti-romantica di Munari, in particolare per quanto riguarda la funzione dell’arte: l’operare artistico dipende, per l’olandese, dalla «riconciliazione uomo-ambiente» e deve proseguire verso una progressiva «scomparsa del tragico». In altre parole, Munari recupera l’insegnamento di Mondrian adattandolo alla situazione italiana e coglie dal maestro la volontà di azzerare il linguaggio visivo corrente per crearne uno di nuovo. Questo codice dovrà segnare una totale autonomia rispetto a ciò che lo ha anticipato in particolare il futurismo e il cubismo per giungere ad una diversa figura d’artista, al quale spetterà il compito di legare il problema dell’arte al problema sociale. Dunque, la nuova funzione dell’arte risiede nella capacità dell’arte stessa di interagire e integrarsi con il mondo e con la società e di essere utile all’uomo, nella maniera più naturale possibile. Infine, l’obiettivo di Mondrian di «ricostruire e rettificare il processo della percezione; correggere le storture di una falsa educazione visiva» è condiviso da Munari sia negli scritti teorici, così attenti all’aspetto didattico, ché nell’attività artistica, la quale mira, come abbiamo visto, ad una nuova educazione visiva, purificata da ciò che è superfluo. Influenzato dalle avanguardie e dagli artisti che vi hanno fatto parte, verso la metà degli anni ’30 Munari sperimenta studi di percezione visiva e giunge, dopo la guerra, alla realizzazione di due opere in particolare che segnano un punto di svolta rispetto alle influenze futuriste e astrattiste. Anzitutto le Sculture da viaggio, nate alla fine degli anni ’50, «oggetti a funzione estetica» , vere e proprie sculture in miniatura, leggere e poco ingombranti, che hanno la caratteristica principale di poter essere smontate occupando uno spazio bidimensionale e rimontate ritorno alla tridimensionalità infinite volte e portate con sé anche in viaggio, appunto. Nello stesso periodo Munari realizza anche i primi Positivi-Negativi, a cui abbiamo già accennato, opere che si inseriscono pienamente nell’attività astratta dell’artista. «L’idea base che genera questi dipinti, sta nel fatto che ogni elemento che compone l’opera, ogni forma, ogni parte della superficie, può essere considerata sia in primo piano sia come fondo». La serie Positivi-Negativi è anche un omaggio a Mondrian: la riflessione sul problema dello sfondo viene risolta con l’effetto ottico dove ogni elemento del quadro può essere letto da diversi punti di vista. Questa parte della ricerca munariana è stata collegata da molti studiosi all’esperienza della scuola del Bauhaus, soprattutto attraverso l’attività di tre artisti: Joseph Albers, Moholy-Nagy e Max Bill. A questo riguardo lo scrittore e critico d’arte Guido Ballo scrive: Munari sente la necessità di “sperimentare”, di applicare decisamente l’arte all’industria, di moltiplicare una stessa opera, con punti di vista diversi; né ha il timore di volgersi alla grafica pubblicitaria e all’industrial design. Sa con chiarezza che l’esempio del Bauhaus può essere efficace proprio per il rinnovamento di un’arte nel rapporto con l’industria. Ma è lo storico Aldo Tanchis, a cui «si deve un saggio assai acuto sul designer» come sottolineato da Gloria Bianchino che realizza un quadro completo riguardo le influenze di ambito artistico che hanno interessato l’attività teorica e pratica di Munari. Cominciamo prendendo in esame, seppur in modo sommario, l’attività artistica di Josef Albers, che dal ’25 al ’33 insegna alla scuola di Dessau. L’artista indaga il problema della densità spaziale e della profondità del dipinto, oltre che le proprietà dei materiali, condizionando non poco l’attività del milanese, come conferma lo storico dell’arte Filiberto Menna: Munari si muove soprattutto sulla via aperta da quest’ultimo (Albers), in direzione cioè di un’arte intesa come pura ricerca visiva, come analisi grammaticale del linguaggio pittorico e plastico compiuta con l’ausilio della psicologia della percezione. Due opere di Munari sono da considerarsi il risultato concreto di queste riflessioni: con i Positivi-Negativi il milanese sperimenta l’effetto OP (optical art), attraverso il quale «ogni forma che compone l’opera sembra che si sposti, che avanzi o che vada indietro nello spazio ottico percepito dallo spettatore». Allo stesso modo, il dipinto Anche la cornice del 1935 va interpretato alla luce del nuovo interesse per i problemi di comunicazione visiva, rivolto in particolare ad «una precisa sperimentazione su fenomeni ottici come la irrequietezza percettiva di un pattern e la ambiguità tra figura e sfondo». L’interesse di Munari verso le ricerche di Albers è confermato anche dalla firma alla prefazione del libro del pittore tedesco Interazione del colore, dove il designer mette in luce le infinite variabili che alterano la percezione dei colori e accenna ad alcune delle sperimentazioni cromatiche proposte da Albers all’interno del saggio. Lo stesso Munari sottolinea come tali ricerche «potrebbero essere utili a operatori in campi diversi» e non solo a chi si occupa di arte pura, accennando l’interesse dei designers nei confronti della percezione del colore su materiali utilizzati nell’ambito dell’arte applicata, come ad esempio la reazione di tessuti di materie diverse ad un bagno dello stesso colore. Anche le indagini di Moholy-Nagy appassionano il giovane artista. Dall’esperienza dell’ungherese nell’ambito di ricerca attorno la luce e il movimento, Munari dà vita alle Proiezioni a luce polarizzata. A differenza delle Proiezioni dirette, che si avvalgono di materie plastiche colorate, trasparenti, semitrasparenti o opache inserite in un telaietto per comporre un “quadro statico” proiettato con un comune proiettore per diapositive, le Proiezioni a luce polarizzata hanno i colori della composizione che cambiano per tutto l’arco cromatico fino ai rispettivi complementari, grazie alla rotazione del filtro polarizzante. Nel telaietto vengono inserite materie plastiche trasparenti ma senza colore. Rispetto a questo tema, è ancora Filiberto Menna ad affermare: «l’artista (Munari) si rivolge ad altri strumenti di comunicazione visiva, proseguendo le ricerche sulle possibilità espressive della fotografia condotte da Moholy-Nagy». Per l’artista bauhausiano «L’immagine non è il risultato, ma la materia e l’oggetto della ricerca»: Poiché non c’è visione senza luce, l’analisi dell’immagine (che è sempre luminosa) diventa analisi della luce: la luce essendo movimento, movimento e luce sono le due componenti fondamentali dell’immagine. Essenziale è quindi lo studio delle qualità assorbenti, riflettenti, filtranti e rifrangenti della superficie (texture) delle diverse materie. Sappiamo che Munari conosce bene «le ricerche di Moholy-Nagy sia in fotografia che sul movimento»; a confermarlo è egli stesso poiché, nell’intervista allo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle, afferma di muovere le proprie sperimentazioni dalla «nuova tecnica fotografica iniziata da Man Ray e da Moholy-Nagy» . Altro punto di contatto con l’ungherese riguarda la ricerca del metodo che risolve il problema dello sfondo: entrambi gli artisti partono dal «rifiuto dell’astrattismo “lirico” di Kandinsky» e arrivano a soluzioni innovative che si avvalgono di strumenti e materiali moderni, dimostrando una profonda attenzione alla contemporaneità. Munari condivide alcuni elementi della sua ricerca anche con Max Bill, allievo dei grandi maestri del Bauhaus e attento indagatore dell’arte concreta, tanto da entrare in contatto, dal dopoguerra, con i fondatori del MAC (Soldati, Dorfles, Monnet, Munari). Nell’intervista a Quintavalle, Munari dichiara di seguire le esperienze di Bill attorno agli alfabeti e ai problemi topologici. La convergenza teorica dei due nei confronti di questioni artistiche oggettive e verificabili, li porta a condividere il rifiuto dello styling, ovvero un tipo di progettazione industriale legato alla moda, che antepone alla progettazione stessa un’idea artistica; l’attenzione ai rapporti forma-funzione, nel modo in cui la forma è il risultato della funzione che l’oggetto deve svolgere; la battaglia per il good design, conseguenza del dissenso allo styling e della ricerca del rapporto forma-funzione. Alla fine degli anni ’40, Munari è ormai proiettato verso la grafica e il design, il suo interesse si è fatto più “pratico” e legato ad un uso quotidiano. La ricerca puramente astratta è limitante per un artista «convinto che l’arte dovesse vivere nel mondo degli uomini, nella realtà fenomenologica, nel flusso delle cose» e anche perché, secondo Munari, «l’arte astratta di allora era in realtà una rappresentazione verista di oggetti. Una natura morta di oggetti inventati: triangolo, quadrati, linee, piani… invece di bottiglie e pere». Le ricerche di Munari, che dagli anni ’40 esplodono in mille direzioni perché è più importante l’operare che l’opera stessa incrociano, lungo il loro percorso di maturazione, anche elementi dadaisti. Filiberto Menna, riferendo la complessità di rintracciare nell’opera di Munari un senso unitario di ricerca e sperimentazione, parla dell’equilibrio della poetica dell’artista tra i temi centrali del futurismo, ovvero la «interpretazione dell’arte come totalità e come strumento di riedificazione dell’ambiente per il tramite della macchina e della tecnica moderna», e i temi ironici e antimacchinistici propri del dadaismo. Munari affronta i problemi teorici legati all’arte con «una componente ludica che sembra derivare dalla astratta ironia metafisica di Duchamp», in particolare attraverso due filoni di indagine collegati al movimento anti-arte: la poetica del casuale e l’uso dell’ironia. La “legge del caso”, che con Duchamp raggiunge la sua massima espressione, viene filtrata e adattata da Munari: il milanese coglie dall’insegnamento duchampiano ciò che gli interessa, come spesso è accaduto anche con altri movimenti artistici, e lo adegua al suo modo di fare arte. Munari fa affidamento alla “legge del caso” nella fruizione delle Macchine inutili, introducendo «un elemento di distrazione nei confronti della funzionalità pura, in modo da porre l’accento sulla componente di una libera e gioiosa contemplazione-fruizione dell’oggetto». Ecco, dunque, che il movimento della macchina inutile dipende da agenti esterni, come il vento o la spinta da parte del fruitore. Ma è nella performance del 1969 Far vedere l’aria che la poetica del caso è particolarmente esplicita, senza dimenticare che questa giocosa operazione ha un precedente futurista: Aldo Tanchis ricorda infatti che nel 1914 Bruno Corra e Emilio Settimelli proposero di «combinare degli organismi con dei pezzi di legno, tela, carta, piume e inchiostro, i quali lasciati cadere da una torre alta 37 metri e 3 centimetri, descrivono cadendo a terra una certa linea più o meno rara». In questa azione-gioco, che Munari progetta fin nei minimi particolari l’artista fornisce misure e forme precise per i pezzetti di carta, lasciando anche la possibilità al pubblico di pensare a forme nuove ed alternative il ruolo del caso è determinante per il movimento e l’atterraggio delle strisce lasciate cadere dalla torre. La poetica del caso viene dunque adattata alle esigenze progettuali dell’artista divenendo, attraverso una puntuale programmazione, un’esperienza di «dada propositivo». In questo senso, la performance ha a che fare con l’idea di “arte” proposta dall’antropologo Alexander Alland. Egli, infatti, definisce “arte” un «gioco con una forma che produce una qualche trasformazione-rappresentazione esteticamente valida», dove per “forma” si intendono le regole del gioco dell’arte. Tornando al tema del caso, in Munari esso è certamente presente, ma è mitigato dalla costante ricerca della regola, che è utile conoscere per poterla trasgredire, ma che rimane il punto di partenza del suo lavoro. Del resto, la convivenza di caratteristiche contrapposte è un elemento importante nell’opera dell’artista milanese, per il quale l’equilibrio risiede nella coesistenza di energie contrarie, come afferma egli stesso: «La vita è un continuo equilibramento di forze contrapposte: il lavoro viene equilibrato col riposo, il giorno dalla notte, il caldo dal freddo, l’umido dal secco, l’uomo dalla donna, e via dicendo». Nel rapporto dialettico tra serietà e gioco, tra positivo e negativo, tra yin e yang esiste un elemento che permette di raggiungere tale equilibrio, forse la caratteristica più appariscente del lavoro di Munari, l’ironia. La funzione che essa svolge nelle opere del milanese è duplice: l’artista sfrutta l’umorismo per mantenere un senso di inafferrabilità nelle sue opere e nella sua stessa professione. Il senso di inafferrabilità sottolinea la volontà dell’artista «di non restar prigionieri di un’immagine qualsivoglia, intellettuale, fisica, poetica o tecnica che sia». Inoltre, se consideriamo il discorso legato all’ironia in rapporto al dadaismo, individuiamo la sua seconda caratteristica, ovvero la capacità di togliere all’oggetto creato nel caso di opere d’arte e di design il senso di sacralità che per Munari diventa un pericolo, qualcosa da cui è necessario allontanarsi. Nel dadaismo «l’arte è gioco» e l’ironia fa da fertilizzante in ogni azione artistica, che in realtà è essa stessa nulla. L’opera perde importanza, valore e significato, ma acquista dignità intellettuale attraverso il gesto desacralizzante dell’artista. Tale operazione, chiamata ready-made e definita da Argan come il processo che determina un valore ad «una cosa a cui comunemente non se ne attribuisce alcuno», dunque considerata non attraverso il procedimento operativo, ma piuttosto come «un mutamento di giudizio» , è descritta anche da Munari che spiega ironicamente «Più vicino a noi Marcel Duchamp presentò un pisciatoio come fontana. Questo oggetto che aveva sempre ricevuto getti liquidi, adesso li restituisce e diventa una fontana» . Ricorda il ready-made l’operazione artistica-gioco del Museo inventato sul luogo, dove oggetti trovati in natura e non solo, raccolti e catalogati, costituiscono la collezione di un museo personale che ognuno può realizzare in casa propria. Munari, con ogni suo progetto, ribadisce la regola per cui «una cosa può essere anche un’altra cosa». A questa regola rispondono molte altre opere del milanese, come gli Olii su tela del 1980, forse l’opera più concettuale dell’artista, con la quale egli critica e desacralizza l’arte accademica ironizzando attorno alla tecnica tradizionale di “olio su tela”: Restano l’olio e la tela. Olio su tela. La tela con i suoi colori raffinatissimi, dalla tela di canapa a quella di lino, a quella di cotone, a quella sottilissima di batista. Gli oli da quello di lino a quello di papavero, a quello di mandorle, a quello di ricino, colori appena visibili. Molto più raffinati del banale rosso e verde bandiera. Olio su tela, olio puro, tela senza telaio, oli su tele. Anche le Proiezioni dirette, nate come opere originali e diventate uno dei giochi del primo laboratorio per bambini di Brera del 1977, rispondono alla regola sopracitata: queste piccole composizioni, realizzate direttamente nei telaietti per diapositive, trasformano banali materie plastiche in opere d’arte. Piccoli pezzi di plastica e carta colorata di diverse trasparenze, fili e reti metalliche, piume e foglie, assemblati in modo creativo e proiettati al muro in scala maggiore diventano espressioni artistiche, recuperando dignità e valore intellettuale. La funzione dissacratoria dell’ironia è rivolta anche all’arte contemporanea, o meglio, alla «pura arte commerciale»: l’obiettivo critico delle pungenti battute, che ritroviamo negli scritti teorici, rivolte ad artisti e/o movimenti affermati del panorama contemporaneo, «è la mancanza di educazione e informazione estetica» , di cui è responsabile la critica, che dovrebbe fare da tramite con il pubblico, ma che sempre più frequentemente tiene conto del profitto e del mercato e mantiene l’ignoranza nella gente. Se prendiamo in considerazione gli scritti teorici di Munari, vediamo che egli utilizza l’umorismo anche per discutere del suo lavoro: il riso, nato da una battuta spiritosa, muove nel lettore riflessioni che altrimenti non germinerebbero ed «è segno di equilibrio interiore». Dunque la funzione temporale dell’ironia, messa in luce da Argan e Tanchis, permette alle opere di Munari di mutare continuamente, prendendo forme nuove e comunicando sempre sensazioni diverse. L’ironia è funzionale al completamento, alla comprensione, all’equilibrio e alla demitizzazione dell’opera e contribuisce a riportare sul piano della realtà il lavoro di Munari. Infine, accenniamo ad un elemento di continuità tra Munari e i movimenti artistici di cui abbiamo parlato fino ad ora, ovvero il “libro d’artista”. Questo tema che certamente richiederebbe un approfondimento ben più ampio di quello che qui proponiamo ha a che fare con l’esperienza del milanese all’interno, o meglio ai confini, delle avanguardie ed è molto importante nella revisione della sua opera, soprattutto tenendo conto delle direzioni che Munari prenderà con il lavoro di editoria per l’infanzia. Il periodo che va dalla fine degli anni Trenta fino alla conclusione della guerra evidenzia una svolta negli interessi del milanese, che si rivolgono in modo significativo verso la grafica. In questo periodo l’artista, che vive a Milano città molto attiva in ambito editoriale ha la possibilità di conoscere il lavoro di autori a lui contemporanei. Attraverso le riviste dell’epoca il giovane Munari entra in contatto con l’attività di molti artisti che utilizzano il libro d’arte per diffondere il loro lavoro, poiché come dice la storica Maura Picciau: L’appropriazione del libro da parte delle avanguardie artistiche è strettamente connessa alla volontà di allargare il proprio pubblico, di uscire, grazie al medium più comune, dal chiuso delle gallerie d’arte. Il libro come tramite comunicativo rapido, economico e democratico. E la fruizione, consapevolmente dinamica, di un libro d’artista, si avvicina all’idea di performance, di esperienza estetica dell’autore e del lettore/fruitore dilatata nel tempo e nello spazio. Il libro diventa un nuovo codice comunicativo, «luogo di confronto con le altre discipline», e come tale è fonte di profondo interesse da parte di Munari che, muovendo dall’esperienza futurista del “libro d’arte” attraverso il lavoro di Marinetti e d’Albisola, ma anche dal dadaismo e da artisti come Hannah Höch o esponenti della Bauhaus quali Oskar Sclemmer o Moholy-Nagy, giunge alla realizzazione dei libri illeggibili, probabilmente la conclusione più radicale della ricerca sull’astrazione. L’esperto di storia dell’editoria Giorgio Maffei non manca di sottolineare come Munari «nella piena maturità dell’astrattismo concretista, dà l’ultima spallata al ruolo informativo del libro eliminandone la sua peculiare caratteristica, la leggibilità, aprendo così la via ad una sua definitiva deflagrazione» . Il libro, con Munari, diventa nuovo linguaggio espressivo, luogo di «equilibrio compositivo e cromatico, di sequenza formale logica» e, come sottolinea Menna, «si trasforma in oggetto inutile, in un libro illeggibile, ma nello stesso tempo si presenta come un modello per libri in grado di offrire la possibilità di letture sempre nuove e ricche di imprevisti». Come abbiamo visto, Bruno Munari sperimenta ogni avanguardia e movimento artistico con cui entra in contatto, dal futurismo, all’astrattismo, al surrealismo, al dadaismo: il suo animo curioso mette alla prova ogni tecnica possibile, ogni riferimento estetico, percorre tutte le direzioni che incontra, per ridurre le innumerevoli esperienze entro la propria visione del mondo e il proprio fare artistico. Per questo motivo è difficile tracciare un profilo chiaro dell’artista ed è impossibile costringerlo in categorie cronologiche o stilistiche: egli è futurista, astrattista, surrealista, dadaista e, allo stesso tempo, non è nulla di tutto ciò. Il comune denominatore della poetica di Munari, l’elemento che tiene insieme tutte le forme d’espressione del milanese, è, come vedremo, l’amore per il progetto, una costante del suo modo di fare arte, design e didattica. Se noi ripercorriamo la storia intellettuale di Bruno Munari, possiamo notare come, dal secondo dopoguerra, egli diriga gli sforzi artistici, intellettuali e progettuali verso un sano e più diretto rapporto con il pubblico. Nel corso di questo processo l’artista si avvicina al mondo dell’infanzia attraverso i primi libri per bambini, nati, come abbiamo visto, da un esigenza personale, la nascita del figlio Alberto. Nello stesso periodo il milanese entra in contatto con l’editoria e la grafica che in Italia, negli anni che seguono il conflitto mondiale, tiene il passo rispetto alle esperienze europee e americane. A tale proposito, Meneguzzo chiarisce che «l’aggiornamento era già un dovere per chi aveva a che fare con l’industria editoriale e pubblicitaria». Ma il dopoguerra è un periodo importante per Munari anche dal punto di vista teorico poiché, come abbiamo precedentemente accennato, egli fonda, nel 1948, il MAC (Movimento Arte Concreta), assieme agli amici artisti Atanasio Soldati, Gillo Dorfles e Gianni Monnet , accomunati dal rifiuto delle tendenze post-cubiste e realiste. Questa esperienza, «non molto ricca dal punto di vista della mera produzione di oggetti d’arte», è però fondamentale per il lavoro di Munari perché sposta l’attenzione su architettura, arredamento e design promuovendo, soprattutto nella sua seconda fase (dai primi anni Cinquanta), l’idea di integrazione e «sintesi tra le arti». Il Movimento, inizialmente orientato a promuovere un nuovo tipo di astrattismo più vicino al costruttivismo puro, si pone il problema della «vera funzione sociale dell’arte» con l’obiettivo di «migliorare non solo l’animo umano ma anche l’ambiente dove l’uomo vive»6. Lo stesso Munari mette in luce l’evidente incomprensione che intercorre tra pubblico e artisti, sottolineando come questi ultimi vivano isolati nei loro ateliers, in contrasto con un pubblico che vive in città grigie, viaggia su brutti veicoli ed è circondato da pubblicità volgari. Il desiderio dei concretisti e di Munari in particolare è dunque riavvicinare gli artisti alla vita reale e alle persone, staccandoli dalla loro arte pura e portando la loro sensibilità artistica all’industria. L’esperienza all’interno del MAC e la collaborazione con gli artisti e gli intellettuali del movimento sarà, per Munari, l’occasione di ragionare su alcune importanti questioni che riguardano l’arte del suo tempo. Tra le innovazioni teoriche del milanese, analizzeremo in particolare il nuovo ruolo dell’artista nella società contemporanea, la democratizzazione dell’arte, che con Munari torna ad essere arte di tutti, la desostantivizzazione dell’oggetto artistico, il quale, per rispondere alle esigenze della società, deve essere riportato alla vita quotidiana e, infine, la regola base della progettazione munariana, ovvero la corrispondenza tra forma, materia e funzione. Una delle prime questioni che Munari affronta muovendo dalle riflessioni nate all’interno del MAC è strettamente legata al suo lavoro d’artista: dopo le esperienze degli anni Trenta e Quaranta con il futurismo, il surrealismo, l’astrattismo e il dadaismo, Munari comprende che l’arte non è utile alla società nella misura in cui lo era un tempo. Arte come mestiere il primo dei testi didattici del milanese dedicati ad un pubblico adulto, pubblicato nel 1966 da Laterza è il risultato di questo primo e fondamentale ragionamento teorico, che porrà le basi per la concettualizzazione di una nuova figura dell’artista di epoca contemporanea. Munari spiega, con un linguaggio tanto semplice da risultare quasi disarmante, che l’artista di oggi deve rimettere in discussione il suo ruolo e il suo modo di intendere l’arte poiché ciò che produce interessa una cerchia ristretta di “addetti ai lavori” e non risponde ai bisogni o alle necessità della società contemporanea. La risposta dell’artista al problema è dunque il design, nuovo linguaggio artistico che risponde ai bisogni reali del pubblico. L’origine di questa intuizione arriva dall’esperienza del Bauhaus filtrata attraverso il MAC e le Gallerie milanesi che promuovevano l’arte delle avanguardie nella quale Walter Gropius voleva «formare un nuovo tipo di artista creatore e capace di intendere qualunque genere di bisogno». Munari, del designer, mette in primo piano il metodo di lavoro che pone al centro la forma dell’oggetto, la quale «ha un valore psicologico determinante al momento della decisione di acquisto da parte del compratore». Tale metodo di progettazione procede attraverso «la stessa naturalezza con la quale in natura si formano le cose», segue un ragionamento logico, quasi scientifico, nella misura in cui «aiuta l’oggetto a formarsi con i suoi propri mezzi» ed è definito da Meneguzzo “astilistico” lo studioso parla di «metodicità “astilistica”» poiché il fine ultimo dell’artista è «disegnare oggetti senza tempo, tanto essenziali da non poter essere modificabili». Dunque, per Munari, con il cambiare dei bisogni della società, è cambiato il modo di intendere e fare arte: un tempo la collettività necessitava di un certo tipo di comunicazione visiva poiché il basso grado di alfabetizzazione rendeva la gente incapace di assorbire informazioni se non attraverso le immagini diffuse per mezzo della pittura. Oggi è il designer «l’artista della nostra epoca» poiché egli «conosce i mezzi di stampa, le tecniche adatte, usa le forme e i colori in funzione psicologica» e «con il suo metodo di lavoro riallaccia i contatti tra arte e pubblico». Bruno Munari inventa e codifica un nuovo mestiere: l’artista, da genio-divo, diventa un operatore visuale, in grado di rispondere ai bisogni veri della società in cui vive attraverso un logico metodo di lavoro. Questa riflessione munariana sottintende un cambio di prospettiva rispetto alla visione filosofica della figura tradizionalmente intesa come genio, elaborata prima da Kant nella Critica del giudizio e ripresa successivamente da Schopenhauer. Per il filosofo tedesco «la conoscenza geniale è quella che non segue il principio di ragione» ed è dunque in assoluta antitesi rispetto all’idea del milanese di intendere il lavoro dell’artista, ovvero l’operatore visuale. Secondo Munari il designer deve procedere seguendo un metodo logico e metodico, quasi scientifico, che giustifichi le scelte formali, le quali non devono essere il risultato di una ispirazione, ma la conseguenza di un ragionamento che tenga conto di tutte le componenti dell’oggetto. Secondo la riflessione munariana il mestiere d’artista è oggi necessario tanto quanto lo era un tempo, la differenza sta soprattutto nel variare dei bisogni della società, la quale, oggi, «chiede un bel manifesto pubblicitario, una copertina di un libro, la decorazione di un negozio, i colori per la sua casa, la forma di un ferro da stiro o di una macchina per cucire». Il milanese, consapevole del fatto che ogni prodotto richiede competenze specifiche, distingue il design in quattro settori: il visual design «si occupa delle immagini che hanno la funzione di dare una comunicazione visiva»; l’industrial design riguarda «la progettazione di oggetti d’uso»; il graphic design «opera nel mondo della stampa, dei libri, dovunque occorra sistemare una parola scritta» infine il design di ricerca, certamente il più sperimentale, che si occupa di strutture plastiche e visive, mettendo alla prova le possibilità dei diversi materiali. Ma Munari non manca di sottolineare anche l’esistenza dello styling, uno degli aspetti più diffusi e facili del design, il tipo di progettazione industriale più effimero e superficiale, poiché «si limita a dare una veste di attualità o di moda a un prodotto qualunque». Naturalmente lo stilista opera in maniera diversa dal designer, limitandosi a recuperare stili e forme dell’arte pura operando per contrasti, ovvero se prima si usavano forme curve, adesso si usano forme quadrate per conferire una nuova immagine agli oggetti: «senza cambiare nulla dell’interno, si cambia il vestito, si lancia come una nuova moda e si dice, attraverso la propaganda, che la forma vecchia non usa più». Il designer, consapevole del fatto «che una scultura e una carrozzeria d’auto sono due problemi diversi» , mira all’oggettività formale nell’atto di progettazione, poiché «l’unica preoccupazione è di arrivare alla soluzione del progetto secondo quegli elementi che l’oggetto stesso, la sua destinazione ecc., suggeriscono». Tale riflessione deve però tenere conto del fatto che la risposta individuale del designer a un bisogno comune sottintende inevitabilmente delle scelte personali, le quali, in un certo qual modo, definiscono uno stile. In questo senso, dunque, è necessario ragionare attorno all’idea che anche il metodo di lavoro proposto da Munari, per quanto miri ad un risultato formale obiettivo e ambisca ad essere esso stesso privo di stile, comporta inevitabilmente una stilizzazione. Munari non si limita a separare il lavoro del designer da quello, certamente meno logico e oggettivo, dello stilista. In un articolo pubblicato su La Stampa, egli pone in evidenza le differenze tra il lavoro del designer e quello dell’artista, sottolineando i due diversi modi di operare. Munari sottolinea il fatto che entrambe le professioni sono utili alla società, ciò che è importante è che il designer non operi pensando da artista, ovvero «anteponendo forme e colori nati nell’arte pura alla progettazione di un oggetto che chiede solo di essere vero secondo la sua epoca», senza cadere nella “trappola” dello styling. Un anno dopo, a partire dal suo percorso professionale in cui è stato sia artista che designer, con la pubblicazione di Artista e designer, recupera e approfondisce la distinzione tra le due professioni e aggiunge personalmente ritengo valide entrambe le posizioni, sia quella dell’artista che quella del designer, purché l’artista sia un operatore vivente nella nostra epoca e non un ripetitore di formule passate sia pure di un recente passato, e il designer sia un vero designer e non un artista che fa dell’arte applicata. In fondo, come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, ciò che interessa a Munari dell’arte è che essa possa ritrovare la sua funzione all’interno della società, che sia utile e necessaria all’uomo per migliorarne la vita, sia dal punto di vista concreto, sia da quello psicologico, così come dichiarato nei bollettini del MAC da diversi intellettuali: «Io credo che quando l’arte tornerà ad essere di nuovo un mestiere, necessaria all’uomo come il pane del fornaio, allora potremo dire di aver ritrovato l’arte». E, in Arte come mestiere, Munari non dimentica di dare una personale opinione rispetto all’arte del suo tempo, la quale, purtroppo, altro non è che «lo specchio della nostra società, dove gli incompetenti sono ai posti di comando, dove l’imbroglio è normale, dove l’ipocrisia è scambiata per rispetto dell’altrui opinione, dove si fanno mille leggi e non se ne rispetta nessuna». Atanasio Soldati nasce a Parma nel 1896. Si laurea in architettura nella sua città natale nel 1920. Qualche anno dopo, in collaborazione con l’architetto Mora, progetta la facciata della chiesa di San Alessandro in Parma. Si trasferisce a Milano nel ’25. Da questo momento non è più possibile rintracciare nella susseguente attività di Soldati altro lavoro che evada dall’ambito della pittura. L’apporto di Soldati all’affermazione dell’astrattismo in Italia è importantissimo, fondamentale. La sua prima mostra personale ordinata nel 1931 alla Galleria del Milione, punto di riferimento delle correnti artistiche anti-novecentistiche milanesi e lombarde, dove espongono artisti europei come Léger e Kandinski e frequentata da poeti come Alfonso Gatto, architetti come Terragni, pittori come Radice e Reggiani, scrittori come Carlo Belli, Sinisgalli e Zavattini, ha il merito di una non trascurabile priorità: è anche la prima mostra di un pittore astratto che viene allestita in Italia. Nel 1932 partecipa a Roma alla collettiva «10 pittori italiani». Nel 1933 è nuovamente presente con una personale alla Galleria del Milione. Compie un breve viaggio a Parigi dove entra in contatto con il gruppo Abstraction-Creation. Nel 1934 esce, sotto la cura di Alfonso Gatto e Leonardo Sinisgalli, la prima monografia sull’opera di Soldati. Nello stesso anno partecipa per la prima volta a rassegne d’arte straniere (Mostra d’arte contemporanea di Ginevra e di Losanna). Nel 1935 è presente alla II Quadriennale d’Arte di Roma, ad una nuova collettiva alla Galleria del Milione e alla collettiva di pittori astratti riuniti a Torino nello studio di Casorati, dove si tiene la prima mostra ufficiale degli astrattisti italiani, con un manifesto firmato da Reggiani, Veronesi, Bogliardi, De Amicis, D’Errico, Fontana, Licini, Melotti e Soldati. Nel 1936 ordina a Roma la sua prima personale alla Galleria Bragaglia. Dello stesso anno sono le sue partecipazioni alla Galleria Nord-Sud di Casablanca (Marocco), a Villa Olmo di Como e alla Galleria Moody di Buenos Aires. Nel 1937 partecipa alla VII Mostra Interprovinciale del Sindacato Lombardo di Milano e alla mostra «60 artisti italiani» a Palermo. Nel 1939 è ancora presente alla Quadriennale romana ed allestisce una nuova personale sempre alla Galleria del Milione. Nel 1941 ordina a Venezia, alla Galleria del Cavallino, una personale e l’anno dopo la Galleria d’Arte Contemporanea di Milano gli organizza un’importante personale. Nel ’43, dopo il bombardamento della sua casa studio, si trasferisce prima a Solbiate Olona, in provincia di Varese, poi a Mornico Losana, nell’Oltrepò pavese, infine a Voghera. Questi anni fino al 1945 Soldati li dedica alla Resistenza e viene eletto presidente del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Accademia di Brera. Subito dopo la guerra, nel 1945, partecipa alla collettiva organizzata dalla Galleria Ciliberti di Milano. L’anno 1946 è particolarmente ricco di partecipazioni: ordina una personale alla Galleria Bergamini e partecipa ad una collettiva allestita dalla stessa galleria: partecipa alla I Rassegna d’Arte Contemporanea dl Milano, alla Il Mostra del Premio Matteotti di Milano, alla Galleria Barbaroux («Omaggio a Giolli») e vince il Premio del Ministero della Pubblica Istruzione: l’anno seguente vince il II Premio alla Mostra d’Arte Contemporanea di Ginevra. Nel 1947, assieme a Dorfles, Monnet e Munari, fonda il Movimento Arte Concreta. Da questa data risulta intensa la sua partecipazione a tutte le più importanti mostre italiane e straniere di arte astratta. È presente a tutte le edizioni del dopoguerra della Biennale di Venezia e alla XXVI edizione della rassegna veneziana vi partecipa con un’importante mostra personale. Dal 1949 alla sua morte partecipa attivamente alle più importanti rassegne italiane e straniere ed ordina ancora mostre personali a Milano, Venezia, Asti e Trieste. In seguito al riacutizzarsi di una grave malattia muore a Parma il 27 agosto 1953. Un altro momento fondamentale per l’Arte Italiana fu l’Informale i maggiori esponenti furono: Lucio Fontana, Alberto Burri e Emilio Vedova. Definiamo con il termine onnicomprensivo di ‘Informale’ tutta una serie di esperinze verificatesi negli Stati Uniti e in Europa tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni sessanta. E’evidente che, nello spazio di tempo di un quindicennio, in una situazione tanto articolata e vasta quanto quella intercontinentale presa in esame, non ha quasi senso parlare di ‘un’ solo ‘movimento artistico’; ed evidente che le sfaccettature sono tante e molteplici da risultare in alcuni casi incomprensibili tra loro. Dobbiamo pensare che in questo periodo vennero battezzate numerose etichette che solo oggi comprendiamo lo stesso termine: Action Painting e Abstract Expressionism in America , ovvero: ‘Pittura Materica o gestuale’ in Italia ‘Tachisme’ in Francia ecc… E’ ovvio in questo senso, che non solo il termine ‘Informale’, come verrà qui usato, ha un suo valore ‘riassuntivo’ rispetto a queste esperienze diverse limitiamoci per ora a constatare delle differenze che sono solo fondamentalmente di orientamento e di scelta puramente formale dividendo tra gestuale, materica e segnica. Possiamo dire che l’Informale1risolve il suo approccio all’arte apparentemente in modo formale con un ritorno al quadro, alla pittura, e alla scultura. Questo ritorno alla pittura consiste quindi nel coprire la superficie della tela con materie colorate questa distinzione tradizionale tra fondo e figura e tra forma e spazio che era sopravvissuta in linea di massima in ogni caso tutto è cambiato c’è quasi un’aggressione al quadro ed inoltre la pittura ‘veloce’ come l’informale richiedeva una trasformazione tra ‘forma e dinamica’ tutto diviene un movimento tralasciando la staticità che c’era nella tradizione astratta. La pittura è un’attività ‘autografica’, quindi quasi una ‘scrittura’, privata del pittore, determinata nel tempo ( che coincide col tempo, in genere veloce, di esecuzione del quadro ), una pulsione interna che viene espressa attraverso il gesto oppure attraverso una sequenza di gesti. Alla base c’è il gesto questa è la novità della nuova ‘pittura’, che si unisce al concetto di ‘improvvisazione’ come avviene anche nella musica ‘jazz’. Poiché la superficie del dipinto si presenta come un insieme in cui non sono realmente distinguibili figura e sfondo, il disegno, quando compare, non si presenta come contorno di una campitura ben delineata, ma come ‘struttura di segni’, che innerva la superficie del dipinto, così come il colore non riempie nessuna forma, ma si contrappone liberamente ad altri colori, facendosi esso stesso disegno,‘figura’, o superficie, o tutte e tre le cose contemporamente. In effetti tutti i residui di illusionismo spaziale che è dato di cogliere sono dovuti alla libera contrapposizione dei colori tra loro. Dato che la superficie è alla base del nuovo percorso comunicativo dell’artista e nel contempo si denota una differenza tra l’astrazione e la pittura informale alla base, c’è un linguaggio lirico di ascendenza espressionista.
Negli Stati Uniti si inizia ha definire un tipo di pittura ‘Espressionismo astratto’, come quella di De Kooning che cerca di percorrere sia il linguaggio figurativo che quello astratto la stessa cosa avviene in Europa dove si afferma il gesto e l’improvvisazione. Molti sono gli esempi l’informale figurativo è una pittura che procede con larghe stesure di superficie, in cui il disegno interviene spesso come una struttura ulteriore, che ricopre la superficie ‘a griglia’. La gabbia dei segni non è necessariamente astratta, pur opponendosi alla nozione di ‘forma’. Anche la linea paradossalmente si fa superficie. Appaiono quindi, a volto, delle ‘figure’ : quasi dei graffiti infantili, come nei quadri di Dubuffet, di De Kooning e di Antonio Saura. In Italia per la maggioranza degli artisti , l’Astrazione e l’Informale sono punti di arrivo , dopo un tentativo di percorrere a tappe forzate un percorso di aggiornamento, altrove più scontato, attraverso una figurazione neocubista o picassiana, e una fase di iniziazione /sperimentazione su nuovi materiali della pittura, spesso basata su suggerimenti provenienti dalla Francia o dall’America . Questo premessa non deve tuttavia far pensare a una situazione povera e provinciale. In effetti l’Italia 16vive, nell’immediato dopoguerra, un’intensa stagione creativa, che la porta in pochi anni a un dialogo intenso e alla pari con altri paesi europei. Come si è detto, molti dei futuri pittorici informali attraversano, durante e subito dopo la guerra, una fase figurativa : alcuni come Morlotti, non la lasceranno mai, dando vita a un curioso ‘linguaggio ibrido’. Artisti provenienti dal clima della scuola romana, come Afro e gli scultori Leoncillo e Mirko che era il fratello di Afro, dopo una fase ‘figurativa e neocubista’ , affogheranno sempre più le loro suggestioni figurative in linguaggio astratto e, in seguito, informale, che tocca il suo apice creativo tra la metà degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta . Artisti origine o formazione veneziana, come Vedova o Turcato daranno una visione nuova all’informale in Italia. Lo stesso succederà in seguito con Lucio Fontana con i suoi concetti spaziali e Alberto Burri che nella sua arte la materia diviene la sua pittura . Lucio Fontana nasce a Rosario di Santa Fé. Il padre Luigi, italiano, in Argentina da una decina d’anni, è scultore e la madre, Lucia Bottino, di origine italiana, è attrice di teatro. A sei anni si stabilisce con la famiglia a Milano, dove, nel 1914, incomincia gli studi alla Scuola dei maestri edili dell’Istituto Tecnico ‘Carlo Cattaneo’. Interrompe gli studi e parte per il fronte come volontario, ma la sua guerra dura poco: viene ferito e presto giungono il congedo ed una medaglia al valor militare. Nel 1927 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera e segue i corsi di Adolfo Wildt. È di questi anni il suo esordio come scultore originale: ‘Melodías’ (1925) ‘Maternidad’(1926), monumento a Juana Blanco a Rosario(1927). Nonostante la lontananza, continua a mantenere intensi contatti con il Sudamerica, dove effettua frequenti viaggi e dove apre uno studio di scultura. Si diploma all’Accademia di Brera nel 1930, e comincia a partecipare regolarmente alle esposizioni, continuando però a realizzare sculture di concezione commerciale. Realizza monumenti funerari e commemorativi. Stringe rapporti con il gruppo degli architetti razionalisti, collaborando ai loro progetti con sculture e rilievi. Un’attività che porterà avanti per buona parte della sua vita. Nel 1934 Fontana entra in contatto con l’ambiente dell’astrattismo lombardo legati alla galleria milanese ‘Il Milione’. L’anno dopo, si lega al gruppo parigino ‘Abstraction-Création’. Alterna opere astratte, come le tavolette graffite o le sculture in ferro filiformi, con le ceramiche ‘barocche’, che realizza presso le fornaci di Albisola e Sèvres. Nel 1939 prende parte alla ‘Seconda mostra di Corrente’. Lucio Fontana17 torna a Buenos Aires nel 1940, dove frequenta i gruppi d’avanguardia e partecipa alla stesura del ‘Manifesto Blanco’ del 1946, che segna la nascita dello ‘Spazialismo’. Nel 1946 è di nuovo in Italia. Qui riunisce subito attorno a sé numerosi artisti e pubblica il ‘Primo Manifesto dello Spazialismo’. Riprende l’attività di ceramista ad Albisola e la collaborazione con gli architetti. Il 1948 vede l’uscita del ‘Secondo Manifesto dello Spazialismo’. Nel 1949 espone alla Galleria del Naviglio ‘L’ambiente spaziale a luce nera’ suscitando al tempo stesso grande entusiasmo e scalpore.
Nello stesso anno nasce la sua invenzione più originale quando, forse spinto dalla sua origine di scultore, alla ricerca di una terza dimensione realizza i primi quadri forando le tele. Nel 1950 esce il ‘Terzo manifesto spaziale’. L’anno successivo alla IXº Triennale, dove per primo usa il neon come forma d’arte, legge il suo ‘Manifesto tecnico dello Spazialismo’. Partecipa poi al concorso indetto per la ‘Quinta Porta del Duomo di Milano’ vincendolo ex-aequo con Minguzzi nel 1952. Firma poi con altri artisti il ‘Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione’, ed espone in modo compiuto le sue opere spaziali alla ‘Galleria del Naviglio di Milano’. Scatenando di nuovo entusiasmo e sgomento, oltre a forarle, Fontana dipinge ora le tele, vi applica colore, inchiostri, pastelli, collages, payettes, gesso, sabbia, frammenti di vetro. E’ ormai noto e apprezzato anche all’estero. Passa poi alle tele dipinte all’anilina e alle sculture spaziali su gambo. Sul finire del 1958 realizza le prime opere con i ‘tagli’, che riproporrà nel 1959 su tela, con il titolo ‘Concetto spaziale’. Del 1959 sono anche le sculture in bronzo ‘Natura’. Nel 1960, parallelamente alle tele con i tagli, avvia il ciclo di tele con i cosiddetti ‘Crateri’, squarci prodotti nella tela, spalmata di colore ad olio. Nel 1962 è la volta dei ‘Metalli’, lastre di ottone o acciaio squarciate. Nel 1963 appare la notissima serie della ‘Fine di Dio’, grandi tele ovali verticali monocrome, recanti squarci. Nel 1964 è la volta dei cosiddetti ‘Teatrini’, tele con buchi, incorniciate da bordi sagomati in legno che simulano una quinta teatrale. Rientrano nell’intensa attività espositiva di questi anni, la retrospettiva del Walker Art Center di Minneapolis e il Gran Premio per la pittura della Biennale di Venezia, entrambi del 1966. Dell’anno seguente sono le ‘Ellissi’, le sculture in metallo verniciato e le scenografie del Ritratto di Don Chisciotte per la Scala di Milano. Poco dopo essersi trasferito a Comabbio, in provincia di Varese, dove restaura la vecchia casa di famiglia e installa il suo nuovo studio, Lucio Fontana muore il 7 settembre 1968. Emilio Vedova proviene da una famiglia operaia e si forma come pittore prevalentemente autodidatta. Tenta svariati mestieri: in fabbrica, presso un fotografo, da un restauratore. A metà degli anni Trenta inizia a disegnare e a dipingere con grande intensità, privilegiando, come soggetti, prospettive, architetture, figure e molti autoritratti. Nel 1936-37 è ospite di uno zio a Roma dove frequenta la ‘Scuola Libera di Nudo’ di Amedeo Bocchi, quindi trascorre un periodo a Firenze frequentando con poca assiduità una scuola libera. Nel 1942 espone tre quadri al Premio Bergamo e aderisce al gruppo milanese ‘Corrente’. Il movimento di Corrente si preparò tra 1934 e 1937 e si costituì intorno alla rivista Vita giovanile -poi Corrente di vita giovanile e infine ‘Corrente- edita’ a Milano nel gennaio 1938 da Ernesto Treccani: fu punto di incontro per Renato Birolli, Renato Guttuso, Bruno Valenti, Emilio Vedova. In seno al movimento, gli artisti adirono a una fitta comunicazione (nuovo fu lo stretto contatto con la critica) e a un certo grado di organizzazione. Al di là dell´entusiasmo per il Picasso di Guernica, fu assunta a modello la pittura di Van Gogh, Gauguin, Ensor e degli espressionisti tedeschi, ricca di accesa emotività. La tendenza fu di proporre alla cultura un forte rinnovamento, con il sostegno di filosofi, poeti e letterati, da Banfi a Ungaretti a Vittorini. I giovani della generazione che succedeva a quella dei metafisici esprimevano la volontà di riunirsi alla tradizione europea. L´opposizione al ‘neoclassicismo novecentesco’ e ufficiale, per ritrovare la libertà dell´arte, avvenne mediante accentuazioni espressioniste verificabili in incrementi nella libertà di ‘ductus’ e nelle tensioni e problematiche germinanti nell´opera. Il movimento significò la costituzione di una vera ‘militanza politica’ d´opposizione al regime, allo scopo di riconquistare l´indipendenza ideologica. La rivista fu soppressa nel maggio 1940 ma l´azione proseguì con edizioni d´arte e letteratura e un´attività espositiva che, iniziata presso la ‘Bottega di Corrente’ in via Spiga 9, diretta da Duilio Morosini, trovò il sostegno del collezionista Alberto della Ragione.
Il gruppo espresso dalla mostra nazionale del dicembre 1939 a Milano, dal coevo Premio Bergamo (che vide partecipare all´edizione del 1942 -con la Crocefissione di Guttuso tutti gli artisti di Corrente) e nelle stesse ‘Gallerie di Corrente’ che ospitarono le personali di molti artisti del gruppo e varie rassegne di gruppo, negli anni tra 1939 e 1943, risulta assai allargato Si considerano, accanto ai citati, i nomi di Broggini, Cantatore, Cherchi, Fontana, Grosso, Lanaro, Levi, Mafai, Mantica, Manzù, Mucchi, Paganin, Panciera, Pirandello, Ponti, Prampolini, Scipione, Tomea, e ancora, Bo, Ferrata, Lattuada, Gatto, Malipiero, G.Labò, Quasimodo, Rebora, Sereni. Nel 1944 il gruppo di Corrente era disperso. Molti dei suoi componenti animarono le file della resistenza. Birolli e Guttuso documentarono nei loro cicli grafici, con il secco ‘disegno realista’, la crudeltà della guerra. La maggior parte degli autori portò a nuovi sviluppi la propria attività creativa nel dopoguerra. Un´ampia rassegna rievocativa del movimento di ‘Corrente’ in tutti i suoi aspetti è stata allestita a Palazzo Reale di Milano nel 1985. L’anno seguente Vedova tiene una mostra di disegni alla galleria La Spiga, subito chiusa dalla polizia segreta fascista. Negli anni 1944-45 partecipa attivamente alla Resistenza e nei lavori di questi anni si nota già un segno più vigoroso. Nel 1946 firma a Milano il ‘Manifesto del realismo’ (Oltre Guernica) ed è a Venezia tra i fondatori della ‘Nuova secessione italiana’, poi ‘Fronte nuovo delle arti’. Inizia la partecipazione ad una serie di mostre collettive internazionali, tra cui la Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950, la Biennale di San Paolo nel 1951, ancora la Biennale veneziana nel 1952, Documenta di Kassel nel 1955. A rassegne come la Biennale di Venezia e Documenta di Kassel parteciperà in diverse altre edizioni. Si associa al ‘Gruppo degli Otto’ (1951), promosso da Lionello Venturi, dal quale si dissocia due anni più tardi con una dichiarazione pubblica nel corso del convegno ‘Alta Cultura’ alla Fondazione Giorgio Cini. Crea collages materici e assemblages e lavora in ambito informale con un’intensa gestualità sulla scala cromatica dei bianchi e dei neri, con inserimento dei rossi. Realizza il Ciclo della protesta e il Ciclo della natura. Nel 1954 partecipa alla II Biennale di S. Paolo del Brasile e gli viene conferito un premio che gli permette di trascorrere tre mesi in Brasile. Qui viene fortemente colpito dalla realtà delle zone interne del Sudamerica e dal Carnevale di Rio. Nel 1956 ha luogo la prima personale in Germania, a Monaco. Nel 1958 inizia un intenso lavoro litografico e ottiene il Premio Lissone. L’anno seguente espone il primo Scontro di situazioni, un ciclo con tele disposte ad angolo, all’interno della mostra Vitalità nell’arte, allestita nel veneziano Palazzo Grassi e curata da Carlo Scarpa. Nel 1960 viene insignito del Gran Premio per la pittura alla XXX Biennale di Venezia, assegnatogli da una giuria internazionale di soli esperti. Dai primi anni Sessanta lavora ai Plurimi, realizzazioni polimateriche ampiamente articolate nello spazio ed estensibili, esposti in una prima mostra alla ‘Galleria Marlborough’ di Roma e presentati da Giulio Carlo Argan. Diverse università americane lo invitano a tenere delle ‘lectures’ sui suoi Plurimi. Avvia una serie di esperienze didattiche alla Sommerakademie für bildende Künste di Salisburgo, dal 1965, e all’Accademia di Venezia, dal 1975. Costantemente rivolto all’innovazione nella ricerca, crea lastre in vetro in collaborazione con la fornace muranese di Venini, Spazio-plurimo-luce, lavora ai cicli di Lacerazioni e Frammenti, realizza i Dischi e i Cerchi, inoltre collabora con Luigi Nono alle scenografie di Intolleranza ’60 e Prometeo. La sua forte volontà creatrice si manifesta anche nella produzione incisoria attraverso sperimentazioni sulle varie tecniche. Tra le ultime mostre personali si ricordano quelle alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Torino nel 1996, al Castello di Rivoli nel 1998, alla Galleria Salvatore e Caroline Ala di Milano nel 2001. Muore a Venezia il 25 ottobre 2006. Alberto Burri è l’artista italiano, insieme a Lucio Fontana, ad aver dato il maggior contributo italiano al panorama artistico internazionale di questo secondo dopoguerra. La sua ricerca artistica è spaziata dalla pittura alla scultura avendo come unico fine l’indagine sulle qualità espressive della materia.
Ciò gli fa occupare a pieno titolo un posto di primissimo piano in quella tendenza che viene definita ‘informale’. Nato a Città di Castello in Umbria, segue gli studi di medicina e si laurea nel 1940. Arruolatosi come ufficiale medico, viene fatto prigioniero a Tunisi dagli inglesi nel 1943. L’anno successivo viene trasferito dagli americani in un campo di prigionia in Texas. Qui inizia la sua attività artistica. Tornato in Italia abbandona definitivamente la medicina per dedicarsi esclusivamente alla pittura. Sin dall’inizio la sua ricerca si svolge nell’ambito di un linguaggio astratto con opere che non concedono assolutamente nulla al figurativo in senso tradizionale. Le prime opere che lo pongono all’attenzione della critica appartengono alla serie delle ‘muffe’, dei ‘catrami’ e dei ‘gobbi’. Questa opere, che esegue tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta, conservano un carattere essenzialmente pittorico, in quanto sono costruite secondo la logica del quadro. Le immagini, ovviamente astratte, sono ottenute, oltre che con colori ad olio, con smalti sintetici, catrame e pietra pomice. Nella serie dei ‘gobbi’ introduce la modellazione della superficie di supporto con una struttura di legno, dando al quadro un aspetto plastico più evidente. Alla prima metà degli anni cinquanta appartiene la sua serie più famosa: quella dei ‘sacchi’. Sulla tela uniformemente tinta di rosso o di nero incolla dei sacchi di iuta. Questi sacchi hanno sempre un aspetto ‘povero’: sono logori e pieni di rammenti e cuciture. Al loro apparire fecero notevole scandalo: ma la loro forza espressiva, in linea con il clima culturale del momento dominato dal pessimismo esistenzialistico, ne fecero presto dei ‘classici’ dell’arte. Con alcune mostre tenute da Burri19 in America tra il 1953 e il 1955 avviene la sua definitiva consacrazione a livello internazionale. La sua ricerca sui sacchi dura solo un quinquennio. Dal 1955 in poi si dedica a nuove sperimentazioni che coinvolgono nuovi materiali. Inizialmente sostituisce i sacchi con indumenti quali stoffe e camicie. La sua ricerca è in sostanza ancora tesa alla sublimazione poetica dei rifiuti: degli oggetti usati e logorati ne evidenzia tutta la carica poetica come residui solidi dell’esistenza non solo umana ma potremmo dire cosmica. Dal 1957 in poi, con la serie delle ‘combustioni’, compie una svolta significativa nella sua arte, introducendo il ‘fuoco’ tra i suoi strumenti artistici. Con la fiamma brucia legni o plastiche con i quali poi realizza i suoi quadri. In questo caso l’usura che segna i materiali non è più quella della ‘vita’, ma di un’energia che ha un valore quasi metaforico primordiale – il fuoco – che accelera la corrosione della materia. Nella sua poetica è sempre presente, quindi, il concetto di ‘consunzione’ che raggiunge il suo maggior afflato cosmico con la serie dei ‘cretti’ che inizia dagli anni Settanta in poi. In queste opere, realizzate con una mistura di caolino, vinavil e pigmento fissata su cellotex, raggiunge il massimo di purezza e di espressività. Le opere, realizzate o in bianco o in nero, hanno l’aspetto della terra essiccata. Anche qui agisce un processo di consunzione che colpisce la terra, vista anch’essa come elemento primordiale, dopo che la scomparsa dell’acqua la devitalizza lasciandola come residuo solido di una vita definitivamente scomparsa dall’intero cosmo. Nell’opera di Burri l’arte interviene sempre ‘dopo’. Dopo che i materiali dell’arte sono già stati ‘usati’ e consumati. Essi ci parlano di un ricordo e ci sollecitano a pensare a tutto ciò che è avvenuto nella vita precedente di quei materiali prima che essi fossero definitivamente fissati nell’immobilità dell’opera d’arte. La poetica di Burri, più che il suo stile, hanno creato influenze enormi in tutta l’arte seguente. La sua opera ha radicalmente rimesso in discussione il concetto di arte, e del suo rapporto con la vita. L’arte come finzione mimetica che imita la vita appare ora definitivamente sorpassata da un’arte che illustra la vita con la sincerità della vita stessa. L’esposizione ha inizio con quelle personalità come Alberto Magnelli e il marchigiano Corrado Cagli che ebbero già una prima esperienza astratta tra le due guerre e che in quegli anni rientrarono in Italia dopo l’esilio, portando con loro le più attuali esperienze artistiche. Sono anni in cui gli artisti si aprono a una libertà espressiva fatta di tante e differenti maniere – da qui il titolo della mostra che riprende il più tipico termine utilizzato a metà del Cinquecento da Giorgio Vasari di cui quest’anno cadono i 450 anni dalla morte – a partire dalla sensibilità polimaterica di Alberto Burri o dalle nuove dimensioni spaziali indagate da Lucio Fontana e con lui da un nutrito gruppo di giovani tra cui presenti in mostra Edmondo Bacci, Gino Morandis, Tancredi Parmeggiani, Cesare Peverelli e Gianni Dova. Le nuove generazioni che dalla fine degli anni Quaranta possono iniziare ad affermare la loro proposta pittorica si indirizzano verso esperienze che scoprono il segno, Carla Accardi, Achille Perilli e Antonio Sanfilippo (esponenti del Gruppo Forma di Roma) ma anche il gesto che può assumere caratteri rivoluzionari come in Emilio Vedova. Colore e cromie decantano nella preziosa pittura di Afro Basaldella e Mario Nanni, mentre altri loro coetanei sono interessati a costruire una realtà tangibile, oggettiva che supera ogni estrazione o riferimento al reale come, tra i presenti in mostra, Gillo Dorfles, Bruno Munari, Atanasio Soldati, Gianni Monnet (appartenenti al Movimento Arte Concreta formatosi a Milano). E ancora c’è chi come RenatoBirolli, Ennio Morlotti e AntonioCorpora continuano a guardare alla natura proponendo dense superfici pittoriche o, al contrario, chi scruta l’universo atomico che in quel momento ha una non poca influenza nelle arti, come avviene in Enrico Baj, Guido Biasi e Mario Persico. Anche le artiste prendono parte a questa nuova dimensione con una sensibilità fortemente autonoma, oltre ad Accardi sono esposte opere di Carol Rama, Renata Boero, Regina, Paola Levi Montalcini e una giovanissima Grazia Varisco. Infine, un nucleo di artisti che si forma in questi anni ma che da tali premesse salta oltre l’Informale per guidare le ricerche del decennio successivo in cui si conquistano nuove dimensioni pittoriche: Toti Scialoja, Gastone Novelli, Mario Nigro, Enrico Castellani, Gianni Colombo e Agostino Bonalumi. In mostra anche opere di Piero Dorazio, Plinio Mesciulam, Alberto Moretti, Cesare Peverelli, Giulio Turcato e Arnaldo Pomodoro alla sue prime esperienze pittoriche di metà anni cinquanta. “La libera maniera” vuole proprio evidenziare la diversificata e multiforme azione che gli artisti, durante gli anni del “miracolo economico” portano avanti. Un periodo fondamentale per gli sviluppi dell’arte italiana che le collezioni di Intesa Sanpaolo riconoscono per la sua importanza fin dai tempi della Banca Commerciale e di cui conservano una ricca raccolta, tra cui queste opere pregiate.
Palazzo Bisaccioni Jesi
La libera maniera – Arte astratta e informale nelle collezioni Intesa Sanpaolo
dal 7 Dicembre 2024 al 4 Maggio 2025
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.30 alle ore 13.00 e dalle ore 15.00 alle ore 19.30
Cesare Peverelli
(Milano 1922 – Parigi, Francia 2000)
Pittura, 1952
tecnica mista su carta applicata su tavola, 48 x 66 cm
Collezione Intesa Sanpaolo
Crediti: Archivio Patrimonio Artistico Intesa Sanpaolo / foto Paolo Vandrasch, Milano
Gastone Novelli
(Vienna, Austria 1925 – Milano 1968)
Per ricordare la vita, 1959
tecnica mista e collage su tela, 125 x 170 cm
Collezione Intesa Sanpaolo
Crediti: Archivio Patrimonio Artistico Intesa Sanpaolo / foto Paolo Vandrasch, Milano
Bruno Munari
(Milano 1907 – 1998)
Senza titolo, 1950
collage e tempera su carta, 45 x 45 cm
Collezione Intesa Sanpaolo
Crediti: Archivio Patrimonio Artistico Intesa Sanpaolo / foto Paolo Vandrasch, Milano
Gianni Colombo
(Milano 1937 – 1993)
O.V. Grigio-02, 1959
peltro su cartone, 54 x 74 cm
Collezione Intesa Sanpaolo
Crediti: Archivio Patrimonio Artistico Intesa Sanpaolo / foto Paolo Vandrasch, Milano
Giosetta Fioroni
(Roma 1932)
Viaggio d’autunno, 1957
olio su tela, 69,5 x 50 cm
Collezione Intesa Sanpaolo
Crediti: Archivio Patrimonio Artistico Intesa Sanpaolo / foto Paolo Vandrasch, Milano