Giovanni Cardone
Fino al 31 Maggio 2025 si potrà ammirare presso la Fondazione Puglisi Cosentino – Palazzo Valle a Catania la mostra dedicata ai ‘I Miti dell’Arte Contemporanea’ a cura di Francesco Poli e Vincenzo Sanfo. Un’importante mostra dedicata ai grandi maestri fra XX e XXI secolo. “I miti dell’arte contemporanea” è un percorso attraverso installazioni, dipinti, sculture, video, disegni e opere grafiche, che riassumono il lavoro creativo di artisti che, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, hanno cambiato l’idea stessa di arte. L’arte concettuale, l’arte povera, l’arte comportamentale, l’arte astratta raccontano le esperienze e le ricerche di artisti quali Sol Lewitt, Mario Merz, Marina Abramovic, Vettor Pisani, Ai Wei Wei che, unitamente a Alighiero Boetti, Giuseppe Penone, Zhang Hongmei, Michelangelo Pistoletto, Franco Politano, Lamberto Pignotti, David Tremlett, Xiao Lu e molti altri, compongo l’ampio mosaico dei linguaggi dell’arte contemporanea. In una mia ricerca storiografica e scientifica sugli anni Sessanta del Novecento e suoi vari movimenti artistici del tempo apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che negli ultimi anni l’esperienza estetica si è contraddistinta per alcuni aspetti che è possibile ritrovare nel multiforme panorama dell’Arte concettuale, movimento nato intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento con l’intenzione di spostare l’attenzione artistica dalla dimensione sensibile ed emotiva al piano concettuale. Nel fare ciò l’artista assunse un atteggiamento di tipo analitico, spostando in questo modo i procedimenti del fare artistico dal piano espressivo o rappresentativo, a quello riflessivo di ordine metalinguistico. Attraverso questo spostamento, l’artista fu chiamato ad impegnarsi nella costruzione di un discorso sull’arte a partire proprio dal momento stesso in cui iniziava la sua produzione artistica. In aggiunta, l’investigazione concettuale, nello specifico, si servì del linguaggio come strumento indispensabile per risalire dal dato sensibile a quello astratto, dalla fisicità della cosa ai procedimenti mentali che sottendono ad essa, per arrivare a comprendere ciò che sta a monte della formazione dell’arte. All’insieme di questi meticolosi processi si interessò in particolar modo Joseph Kosuth, padre dell’Arte concettuale,che si rivela essere quindi, in questo orizzonte di ricerca, una figura emblematica per comprendere l’evoluzione di tali questioni . L’artista infatti elaborò nella sua poetica un abile intreccio atto non solo a svelare la natura dell’arte, come sottolineò fin dai suoi primi scritti, ma anche a penetrare nelle dinamiche che si celano nella società contemporanea,frutto delle relazioni di potere e mercato, figlie della società capitalista, impegnandosi inoltre nel ridefinire il ruolo dell’artista, non soltanto mero esecutore ma soggetto attivo nella ricerca del significato dell’arte. In aggiunta, Joseph Kosuth elaborò un forte dissenso nei confronti di tutta quella sfera di critici e intermediari dell’arte che professavano valori autentici, a favore di un’arte alta; nonostante ciò, tuttavia, le sue riflessioni presentano nella loro essenza molteplici contraddizioni che sottolineano ambigue aderenze proprio a quel sistema che lui stesso mise in discussione sin dall’inizio della sua carriera. Tali questioni presero voce quindi a partire dai suoi primi scritti, ed in particolar modo nella vivace critica che l’artista mosse contro il formalismo del critico statunitense Clement Greenberg. Nel 1969 Joseph Kosuth scrisse L’arte dopo la filosofia. Il significato dell’arte concettuale, testo fondamentale per comprendere il fare dell’artista fin dai suoi primi albori. All’interno dello scritto emergono alcune questioni molto importanti riguardanti la funzione specifica dell’arte, la sua vitalità e la conoscenza più precisa del termine “Arte concettuale”. Il concetto più importante che emerge da questo scritto e che accompagnerà Kosuth in tutto il suo percorso è l’idea che l’arte sia una tautologia linguistica: in questa prima fase della sua carriera l’opera d’arte quindi non fornisce informazioni di nessun tipo sull’esperienza concreta; essa è soltanto una presentazione dell’intenzione dell’artista, ovvero una proposizione linguistica presentata nel contesto dell’arte a commento sull’arte . Solo in questo modo infatti, secondo il padre del Concettualismo, l’arte si poteva allontanare da errate supposizioni filosofiche, prendendo pertanto le distanze dalla concezione di arte formalista che era stata elaborata dal critico Clement Greenberg per cui l’arte e l’estetica erano la stessa cosa. Infatti, l’arte e la critica formalista accettavano, secondo Kosuth, una definizione di arte fondata unicamente su basi morfologiche; in questo modo l’arte era semplicemente decorazione e puro esercizio estetico. Se invece pensiamo all’arte Povera in questo mio studio che poi in seguito è divenuto un saggio dove ho parlato del postmoderno e degli artisti che facevano parte. Osservando l’Arte Povera e le vicende che ne hanno direzionato il corso ci si accorge come le sue peculiarità e il modo in cui state percepite l’abbiano resa uno dei risultati emblematici di quella società postmoderna che inconsciamente non riesce ad accettare l’eterogeneità in arginabile delle sue espressioni artistiche. Con questo s’intende fare particolare riferimento alla figura e all’attività di Germano Celant, che dal 1967 ha associato inestricabilmente il suo nome al gruppo dirigendone i movimenti ed eleggendone gli scopi e i traguardi. In occasione della mostra Arte Povera – IM Spazio, organizzata da Masnata e Trentalance presso la loro Galleria La Bertesca a Genova nel 1967 tra il 27 settembre e il 20 ottobre curata da Celant, compare per la prima volta, a sorpresa, la dicitura ‘Arte Povera’ poiché, come ricorda Pistoletto: “E’ solo nel catalogo che si è scoperta l’espressione ‘Arte Povera’, di cui nessuno sapeva nulla prima dell’apertura della mostra stessa.” Un termine strano, che lasciava e lascia tutt’ora perplessi alcuni degli artisti che ne fanno parte come Pistoletto, che confida a Giovanni Lista: “Devi chiedere il perché di questa parola “povertà” a Germano Celant. Ho sempre avuto dei problemi in proposito. Personalmente, non so nulla di cosa volesse dire”. Le connotazioni che può assumere sono spesso ambigue,come fa notare sempre l’artista biellese: “Mi ha sempre causato una strana sensazione perché da giovane, facendo del restauro con mio padre, avevo avuto l’occasione di restaurare mobili definiti di ‘Arte Povera’ sistema decorativo veneziano del XVIII secolo. Non era pittura,ma una sua imitazione. Così, quando sentivo questa parola, avevo sempre paura di questa idea contenuta nella parola ‘povera’. Oltretutto, temevo la connotazione politica, non la politica in sé, ma la connotazione del ‘politico’ ripresa a quell’epoca”. Talvolta possono addirittura compromettere la corretta comprensione del lavoro di questi artisti, come quando l’aggettivo è associato a una miseria di intenti e mezzi che non rientrava nelle idee e nelle inclinazioni del gruppo. A questo proposito Merz riferirà in un’intervista qualche anno dopo lo scioglimento del gruppo: “E’ una definizione questa che mi piace poco, perché riduce il nostro movimento a un fatto esclusivamente mercantile. C’era effettivamente in gioco il concetto di valore, ma si trattava di ben altri valori. C’era in gioco il ruolo stesso dell’arte e dell’artista nella nostra società”. Ma con il termine “povero” Celant si riferiva a ben altro, a una concezione del termine che esula dall’uso comune e che si rifà al progetto e alla scuola del teatro povero di Jerzy Grotowski, in cui il regista e l’attore rifiutano tutti quegli elementi superflui una ricchezza di sovrastrutture espressive con cui il teatro si è sempre soffocato e che ostacolano il vero incontro dell’interprete con se stesso e con i suoi impulsi, per avviare una ricerca personale volta a rimetterlo in contatto “con gli strati intimi del proprio essere” e che si traduce, sul piano della recitazione, in un gesto puro e semplice, “essenza di un’espressione integrale”. Nel primo saggio critico dedicato all’Arte Povera, redatto in occasione della prima mostra genovese, scrive Celant: “Eliminano dalla ricerca tutto ciò che può sembrare riflessione e rappresentazione mimetica, abitudine linguistica, per approdare a un tipo di arte che ci piace chiamare povera. Il teatro elimina la sovrastruttura scritto-parlata, realizza il silenzio fonico e la parlata gestuale . Le situazioni umane elementari diventano segni, nasce l’esigenza di una vera semiologia basata sul linguaggio dell’azione.” Questa eliminazione delle convenzioni iconografiche parassitarie per ridursi alla semplicità del segno in Grotowski si presenta come unico modo per conferire a quell’incontro che è il teatro la pregnanza di un’esperienza diretta e povera di artifici tecnici, basata su gesti autonomi e dotati di una sostanza propria e che si pongono lungo quel filo che collega l’attore allo spettatore. Si rimane all’interno della pratica teatrale, Grotowski si oppone solamente a un certo modo di fare teatro. Al contrario in Celant la depurazione del linguaggio si pone come atteggiamento in aperta opposizione non solo nei confronti del modo di fare arte ma anche rispetto alle dinamiche culturali e del sistema dell’arte allora in atto: il rifiuto delle costruzioni stilistiche e la nascita di una “decultura”all’insegna dell’“insignificante visuale” e delle azioni vengono sbandierati come i comandamenti fondanti un nuovo movimento anticulturale non tanto perché si senta il bisogno di un effettivo rinnovamento delle forme ma per creare una “nuova semiologia” che non può essere addomesticata dal sistema mercantile dell’arte. Eppure nella critica militante di Celant non si riescono a rintracciare un manifesto degli ideali politici definiti in maniera chiara, la cui mancanza riduce il tutto a un contrasto superficiale, genericamente “anti”.Tra l’altro, il rifiuto della sostanza fonica e del testo che Celant riconduce a Grotowski non è presente nella teorizzazione del regista polacco. In primo luogo, il suono e la voce sono considerati, al pari del gesto e dei movimenti, segni ed espressione dell’essere. In seconda battuta il testo, se da un lato non deve essere “la fonte creatrice del teatro”, dall’altro però è lo “stimolo del processo creativo” e avvia il processo di presa di coscienza personale. Questo perché in Grotowski il testo non deve essere interpretato o rielaborato, ma essere l’innesco di una creazione teatrale in cui le parole in sé perdono d’importanza e diventa fondamentale solamente ciò che si può ricavare da esse, ciò che gli dà vita e le trasforma in “Verbo”. Molti altri sono gli elementi prelevati dalle tesi di Per un teatro povero: intanto non può non saltare agli occhi la medesima contrapposizione a un’arte ricca, che opera una cleptomania del sistema, dei linguaggi codificati e artificiali. C’è poi da sottolineare come la simultaneità di idea e immagine che concretizza le opere artepoveriste non sia nulla di diverso dalla contemporaneità di impulso e azione che negli attori si traduce in impulsi visivi. Allo stesso modo, l’artista che “diventa il linguaggio di se stesso e lo è, con il suo corpo e i suoi gesti”,si colloca sullo stesso orizzonte dell’attore che ricerca “il proprio linguaggio psico-analitico personale di suoni e gesti”. Inoltre Celant tenta di liberare la nuova arte dal giogo della sua stessa storia applicandovi le conclusioni di Grotowski, elaborate esclusivamente per il teatro, come se l’arte potesse trovare la soluzione dei suoi problemi solamente al di fuori delle sue possibilità d’azione, in un ambito ad alto livello di specificità e con una storia altrettanto corposa e ingombrante alle spalle. Con ciò non si vuole dire che le invasioni di campo, i prelievi di stratagemmi e tecniche tra un’arte e l’altra siano impossibili o sbagliati, anzi, sono proprio ciò che anima, vivifica e rinnova i diversi linguaggi, i quali tuttavia per evolversi in nuove forme dovranno ragionare sugli elementi costitutivi che li differenziano a livello essenziale dagli altri e gli conferiscono quelle caratteristiche proprie che li rendono ciò che sono e nient’altro. L’atteggiamento “anti” di Celant si inasprisce man mano che la costellazione dell’Arte Povera si avvicina al teatro, tra il Deposito d’Arte Presente, il gruppo Zoo di Pistoletto, le scenografie di Kounellis e le installazioni di Calzolari, nonché in seguito ai contatti di questi ultimi con il Living Theatre. E’ infatti in occasione della rassegna di Amalfi e di quelle azioni che invece di chiamarsi “atti in libertà”, secondo l’idea iniziale di ispirazione futurista di Lista e Rumma, si chiameranno anch’esse “povere”, che l’Arte Povera verrà vestita da Celant con il manto dell’anarchismo pacifista proprio del gruppo teatrale di Judith Malina e Julian Beck. Eppure,invece di essere assunto come obiettivo politico e sociale traducendosi anche in azioni di reale protesta e impegno civile come avvenne nel Living Theatre (l’unico che seguirà questa via sarà Gilardi), è ancora una volta semplicemente, genericamente “anti”. Ancora una volta il teatro viene assunto a strategia rivoluzionaria, con l’attore come “forza crito-politica” per la creazione di una “recitazione globale” e di una nuova classe che all’oggettualità del corporativismo oppone “azioni che espongono la propria processualità”. Ma queste operazioni critiche non sono che esercizi stilistici, in pieno accordo con la tendenza postmoderna: l’utilizzo di termini e toni legati all’attivismo politico, la guerriglia, la carica eversiva, l’“agire la realtà” come fatto politico, sono citazioni di un linguaggio specifico assunto a stile. E’ proprio questa forzata connotazione politica della rassegna di Amalfi che se da un lato trovò d’accordo molti critici, dall’altro preoccupò molti artisti che non la condividevano affatto: per esempio, Pistoletto e il gruppo Zoo scrissero, in una lettera inviata a Marcello Rumma il 5 dicembre 1968 che “Noi non aderiamo, non facciamo parte e non accettiamo il termine arte povera benché amiamo gli amici con cui ci siamo trovati ad Amalfi. Per noi il termine povero va bene e basta, perché esso equivale a ricco mentre il termine arte vuol dire ricco tu e povero io”, mentre sembra che Jannis Kounellis si rifiutò di partecipare all’evento proprio a causa della sua potenziale politicizzazione. Ancora più rilevante è il fatto che anche quegli artisti che vivevano la propria arte in maniera più politica si trovarono comunque in aperto dissenso con Celant per la sua volontà di costringere quelle esperienze in un apparato teorico, “che lì mostrava le sue intenzioni di formalizzare, di avviare una codificazione di tutto il lavoro che noi andavamo facendo.” Con il senno di poi si può constatare che Gilardi aveva almeno in parte ragione, perché a causa dell’operazione critica di Celant e degli studi innestatisi su di essa la costellazione dell’Arte Povera viene inscritta in parametri ben definiti e resa pertanto facilmente comprensibile e manovrabile, tanto da potersi approcciare a essa da un’ottica “spettacolare”, come direbbe Debord, impoverendone i contenuti. Come riferisce Alighiero Boetti a Mirella Bandini: “Nel 1968 erano accaduti alcuni fatti… si pensava di portare gli spettacoli negli stadi! Bonito Oliva voleva fare azioni alla televisione, era un’idea veramente pazzesca. Tutto questo ci trascinava ed erano i veri momenti falsi, della facilità, in cui ci lasciavamo andare ai primi impulsi. La mostra di Amalfi è stata proprio la nausea della fine”. Viene dunque avviata quella “duttile iniziativa di integrazione” che nel 1971 constaterà anche Celant stesso, in cui “le strutture d’uso [ossia il mercato dell’arte] con un gesto di falsa azione progressiva stanno tentando di tenere a guinzaglio l’artista e di ridurre la disusabile catarsi di arte in vita in ulteriore consumo”, sancendo il definitivo fallimento del “tentativo di distruzione del mito della cultura” e del movimento dell’Arte Povera, senza rendersi conto di esserne stato uno degli artefici. Al termine dell’esperienza dell’Arte Povera, l’elemento che più di ogni altro si era perso era quella dimensione collettiva di collaborazione spontanea che aveva scandito i primissimi anni di entrambe le frange del gruppo, e che aveva lasciato il posto a esperienze individuali che ricercavano l’elemento partecipativo in aspetti diversi da quello della “comunità artistica”. Le attività dei singoli artisti continuarono così grazie al supporto di quei galleristi, talvolta i primi ad averli scoperti, che gli assicuravano un ampio spazio di libertà espressiva, soprattutto se confrontato con quello offerto dal progetto di Celant, in cui la prospettiva corale e le idee e le convinzioni del critico limitavano inevitabilmente le singole iniziative. Si pensi a Kounellis, entrato insieme a Pino Pascali nel 1966 a far parte degli artisti della Galleria L’Attico di Fabio Sargentini, dove nel 1969 avrà la possibilità di realizzare 12 cavalli vivi, o a Pistoletto, che nella galleria di Christian Stein allestirà tra l’ottobre del 1975 e il settembre del 1976 le dodici mostre consecutive de Le stanze. Allo stesso tempo, tutta l’attività curatoriale contemporanea o precedente all’intervento di Celant, che si è avvicinata alle ricerche di stampo artepoverista da direzioni e presupposti diversi e che aveva riconosciuto nell’elemento mobile e febbrile di quei lavori non solo il loro significato ma anche l’ispirazione per le condizioni espositive più adeguate a sottolinearlo, è stata gradualmente sostituita da una critica soverchiante, che ha parzialmente fissato l’interpretazione di questa costellazione eterogenea e fluida. Senza voler sminuire l’importanza dei contributi apportati da Celant alla comprensione del fenomeno della cosiddetta Arte Povera, non si può non rilevare come un simile apparato teorico, che organizza le opere in modo tale da dare un senso e un ordine a una multiformità difficilmente avvicinabile dalle attività classiche del sistema dell’arte l’analisi storica, l’esposizione e la conservazione, il riconoscimento di un valore artistico ed economico si presenti come segno incontrovertibile di una postmodernità che può fare affidamento esclusivamente sugli appigli forniti dalle narrazioni a essa contemporanee per mantenere in efficienza le strutture tradizionali del sapere. Entrando nella sfera di influenza attiva di un’opera di Mario Merz per prima sopraggiunge un’impressione di straniamento, che nasce dalla sensazione di ritrovarsi in una dimensione alternativa ma allo stesso tempo familiare. Uno spazio popolato da oggetti e materiali non avvertibili come tali, presenti ma allo stesso tempo impalpabili, privi di quella mondanità che ne rende possibile l’abitudine visiva e d’uso e ricondotti a una primordialità essenziale. L’oggetto viene infatti spogliato dei valori che socialmente gli si attribuiscono, dall’economico al funzionale, dall’estetico all’affettivo, per esser depurato da tutto il superfluo e dall’“idea di oggetto-oggetto” ed essere sintetizzato in una nuova forma. In Merz quindi si assiste a una trasfigurazione di questi oggetti che non sono più oggetti ma entità di diverso ordine, sperimentabili a un livello puramente istintivo perché appartenenti a un passato ancestrale di cui non si ha ricordo eppure realmente percepibile, non ricostruibile in maniera razionale in una struttura logica: la coscienza non può far altro che prendere nota di un momento di afasico riconoscimento. In presenza di questi oggetti sublimati si assapora la sensazione di ritrovare dentro di sé un qualcosa di arcaico, di legato a un tempo lontano e non conoscibile, un luogo di memoria condivisa nel quale hanno sedimentato quelle tradizioni e quei saperi che formano il bagaglio di conoscenze innate di ogni individuo. Riunendo in sé il carattere archetipico di un’esperienza mitica comune e la tangibilità di un’esistenza indiscutibilmente reale, l’oggetto, “di un esistenzialismo totale”, si fa depositario di una saggezza pratica, di un modo antico di vedere e fare le cose che nella sua radicale semplicità privo cioè di tutte quelle sovrastrutture culturali che ne celano, con la loro pesantezza e ingombranza, la finalità reale riesce a mettere l’uomo nella condizione di riallacciare quelle relazioni con il mondo che ha dimenticato. Viene così risvegliata la capacità umana di stabilire un intimo contatto prima con la natura, non più tenuta al di fuori ma accolta dentro di sé, poi con gli altri uomini, ora parte di una comunità che si è riscoperta globale e intrinsecamente solidale, e infine, soprattutto, con se stessi. L’azione dell’oggetto si rivela quindi bidirezionale e continua e parte dall’interiorità dell’artista, che riscoprendo una fantasia elementare fatta di solidi e serie numeriche decide di immetterla nel mondo in forma oggettuale, attuando “uno scambio cioè tra reale e immaginario”; in seguito, dall’esterno del suo essere realmente presente si muove verso il dentro dell’osservatore risvegliandolo alla memoria e realizza così un ciclo che esce dalla gerarchia del tempo storico per entrare in una temporalità infinitamente dilatata che si espande tanto nel passato quanto nel futuro, perché il movimento della memoria si propaga in tutte le direzioni, aprendo la possibilità del “tutto” come visione rendendolo materiale.L’essenzialità universale e concreta degli oggetti di Merz affonda le sue radici in una di quelle zone dove gli opposti non sono in contraddizione ma generano dialetticamente nuove possibilità: un limbo archeologico, un archetipo concreto, uno spazio mentale. Ed è proprio in questa zona che si realizza quell’identità tra l’oggetto e il materiale di cui è costituito, perché se l’oggetto, apparendo in primo luogo alla mente sotto forma di idea, necessita del materiale per acquisire organizzazione strutturale e visibilità, il materiale non può fare a meno di essere scelto come risposta alla situazione urgente che anima l’oggetto per assumere una sua espressività. E nonostante la varietà potenzialmente infinita di elementi da usare puri, Merz ha una sua gamma personale e circoscritta a cui affidare il compito di elaborare la fisicità dell’opera. Un po’ come accade al pittore, anche Merz si avvale di un numero limitato di mezzi amorfi fondamentali dalle cui combinazioni è possibile ricavare la totalità delle risposte richieste dalle necessità poetiche e plasmare così la sua sensibilità – del resto, un approccio di stampo pittorico, inteso in senso ampio, accompagna la sua opere fin dagli inizi informali. Eppure ci sono due differenze di metodo tra l’uso che Merz fa della materia prima e quello di un pittore. In primo luogo, la presenza di certi materiali piuttosto che di altri nella sua tavolozza è il frutto di una scelta e non di un obbligo imposto dal soggetto. Bisogna inoltre tener presente che i materiali non sono più identificati con se stessi ma con le loro proprietà e talvolta, come nel caso della tela, con un simbolo di se stessi – ed è proprio ciò che guida la scelta. Ecco che allora Merz usa il vetro non come finestra ma come trasparenza, e i giornali non come mezzi d’informazione ma come parole e storia; il neon, in particolare, non è più una lampadina ma pura luce.In una profusione di pietra, argilla, cera, neon, ombrelli, bottiglie, animali impagliati, i materiali allo stato grezzo e informe tramite il gesto dell’artista assumono una propria identità e diventano elementi attivi che agiscono nella e sulla realtà creando una rete di relazioni mutevoli tra di loro e con lo spazio. Questo polimaterismo non fa che complicare ulteriormente la pratica conservativa, in quanto moltiplica la quantità di ricerche che il restauratore deve condurre per comprendere la composizione e il comportamento dei materiali, oltre che costringerlo a considerare tutti i possibili effetti dell’interazione tra materie diverse. Non sempre però si può conoscere in anticipo il grado e l’intensità con cui influenzeranno a vicenda le rispettive proprietà fisico chimiche e i relativi processi degrado, che potrebbero essere tanto smorzati (come per le materie plastiche su cui sono stese mani di pittura, che le proteggono dalla luce, dall’ossigeno e dai depositi atmosferici) quanto accelerati (incompatibilità chimica, il degrado dell’uno innesca o affretta il deterioramento dell’altro, etc.). La nuova categoria di variabili che si viene così a creare trasforma, semplificandola o rendendola più problematica, la natura e la sostanza delle misure conservative dirette o preventive da soppesare. Data la natura scomponibile e talvolta modulare di gran parte delle opere di Merz, in cui i diversi elementi non sono concretamente legati in maniera indissolubile, in molti casi si è potuto procedere al restauro individuale dei singoli pezzi e talvolta anche alla loro sostituzione. Un’operazione che se nell’etica tradizionale non solo è malvista ma integralmente respinta, per quanto riguarda l’opera di Merz è stata spesso sostenuta dal consenso dell’artista stesso, che in alcune occasioni, come per il restauro di Nella strada (1967), ha addirittura aiutato i restauratori a ricostruire quelle parti (i quattro elementi in legno laccato) ormai prive della loro espressività o andate perdute. Nonostante non si sia mai rifiutato di collaborare con chi gli chiedeva consigli, opinioni approvazioni per la conservazione e l’allestimento, egli non ha mai dato una spiegazione definitiva e sicura delle sue opere dal significato aperto e mutevole che segue lo slittamento spazio temporale dell’oggetto nel suo movimento continuo, lasciando l’interpretazione ai singoli osservatori e mettendo così curatori e restauratori nella condizione di non poter esser certi dell’effettivo valore simbolico di ogni elemento. Ossia, impedisce un’accurata distinzione tra le componenti secondarie e quelle insostituibili. Lungo un percorso che si snoda tra elementi ottusi e materiali morbidi, tra reazioni chimiche ed equilibri precari, l’approccio di Zorio al fattore energetico si manifesta arricchito di una scientificità inedita ad altri suo contemporanei, ricercando quell’“emozione” profonda, che tutto anima, nei processi e nei reagenti chimici e rifiutando allo stesso tempo il materiale in sé, per opporsi al materismo e alla tattilità delle correnti informali ed espressioniste astratte. Come in Merz, il rapporto con i materiali è puramente strumentale e varia secondo la quantità di passione che un’opera richiede e le necessità del momento, nonché in base alla loro capacità di adattarsi e aderire alle intuizioni dell’artista, pur facendo parte di una ben nota tavolozza di elementi primari con cui dare corpo alle diverse vibrazioni delle sue idee traducendole in “eventi di materiali”, il cui carburante sta nella natura contrastante delle materie che interagiscono di volta in volta. Questo entrare nelle rispettive sfere di influenza fisica da parte di sostanze di segno opposto genera un flusso di energia attiva e innesca così un processo dialettico di trasformazione che getta le sue radici nell’alchimia, che “è la parte ambigua della chimica, è la parte più sognante, anche la parte più ‘negativa’, ma è la parte che dà più speranza,perché noi abbiamo bisogno di speranza” che è anche in fondo il motivo per cui per Zorio si fa arte. Liquido-solido, morbido-duro, dolcezza-violenza, calore-abbaglio, leggerezza-peso, vuoto-pieno: nello scontro tra polarità opposte le materie, inevitabilmente concepite come vive Zorio direbbe che il senso animistico di cui riveste i suoi materiali serve a portarli dalla sua parte – cambiano di natura nel momento in cui entrano in contatto, “maturando”l’una nell’altra: ancora una volta l’energia, nonché il movimento da cui scaturisce, si pone come elemento fondamentalmente relazionale. Per esempio in Senza titolo (1967) il cemento si trasforma da ottuso a intelligente nel momento in cui si sfalda entrando in contatto con una fonte di calore esplosiva come il giallo fluorescente. Eppure, nonostante si rifaccia ai meccanismi atomici e molecolari, i suoi distillati cinetici di una realtà ribollente e in fermento non appartengono a una dimensione naturale, intesa come matrice originale e non rielaborata, come il loro essere primi ed essenziali potrebbe suggerire, ma la ricordano soltanto. Il cloruro di cobalto, nonostante sia proprio la sua transizione cromatica dal blu al rosa a conferire significato a Rosa-Blu-Rosa (1967), non è un colore,così come il giallo di Senza titolo (1967), con la sua fluorescenza, non è che un prodotto di fattura industriale, a dispetto del fatto che sia proprio questa sua qualità, che l’artista definisce “radioattiva”, a determinare il cambiamento del pesante cemento. Ecco che allora in Zorio il naturale e l’energia che sprigiona vengono resi attraverso l’artificiale, attraverso la sintesi, intesa in un doppio senso. Da un lato è una creazione non reperibile in quello stato in natura,ossia qualunque prodotto dell’uomo indipendentemente dal grado di complessità e dalla sfera d’applicazione, dal chimico al culturale, mentre dall’altro è il risultato di una depurazione dalle scorie e dal superfluo, riferibile sia oggetti concreti che mentali. Si prenda la torcia,utilizzata da Zorio in più occasioni sia da sola, per accendere la curiosità e le riflessioni dello spettatore, sia come componente di installazioni più complesse, nelle quali attiva gli altri elementi: è allo stesso tempo sineddoticamente fuoco, che veicola energia, mettendo in moto reazioni e processi, e materia culturale, con origini riconducibili a un’era primitiva in cui il rituale era parte fondamentale della vita sociale e della sua organizzazione. L’intervento umano sulla realtà, che crea una dimensione alternativa e parallela a quella naturale, si pone – s’impone – come altro elemento relazionale essenziale alla costruzione del mondo tangibile. La manipolazione della realtà da parte dell’uomo si presenta da sempre,paradossalmente, come un tentativo di conoscenza e addomesticamento della natura, le cui grandezze per lui inaffrontabili e incomprensibili vengono domate attraverso l’unica entità di cui conosce l’estensione e il volume: se stesso. Il corpo umano come misura del mondo, la misura dell’uomo come sostanza concreta grazie alla quale aver la possibilità di entrare in contatto con le altre materialità. In Tenda (1967) il lago salato è all’altezza degli occhi, e i tubi che formano l’impalcatura, con il loro valore modulare, rimandano alle nostre dimensioni; allo stesso modo in Cerchio di terracotta (1969) il diametro equivale alla lunghezza del braccio dell’artista, mentre la piattaforma di vetro è posta a un’altezza corrispondente alla sua. Questo comporta due conseguenze. Innanzitutto, in quanto luogo naturale di cui per primo si è partiti alla scoperta, anche il corpo umano viene letto chimicamente, viene sintetizzato. Così i tubi sono vene e le arterie cittadine si rifanno al sistema circolatorio, per non parlare dell’alambicco: “E’ uno strumento trasparente, in pyrex, e serve a richiamare le viscere del corpo umano. Ti dà l’idea di un cosmo sotterraneo mostruoso, ma magico ed affascinante. E’ un cosmo, come la testa, in cui il cervello è il luogo dei sogni. Al pari della fantasia si aggrappa dove può.”In secondo luogo, e come del resto abbiamo già visto in Merz, l’artista procederà alla ricerca di quei primissimi e primordiali esempi di modellazione, esplorazione o sintesi della natura,come ad esempio la terracotta o la canoa o il piombo. Oggetti antichi, con una storia alla spalle tanto ramificata nello spazio e nel tempo da perderne di vista le forme, ma all’origine- un’origine che viene recuperata ogni volta che vengono riattivati – della quale si possono rintracciare una “logica e una memoria del gesto” che determinano un “segno-costellazione” dell’uomo e del suo modo di vedere il mondo. In questo gioco di consonanze le opere non possono che essere in “rapporto con la dimensione fisica del mio raggio d’azione”, che quando non ricalca la grandezza del corpo si esprime nel gesto di attivare processi dei quali non si conosce l’esito, meccanismi che si autoalimentano e oltre a essere vitali e continui sono anche autonomi, talmente indipendenti da chi li ha azionati da animarsi, e non è solo l’artista-spettatore a interrogare l’opera ma anche l’opera che inizia a porre domande a chi la guarda: due situazioni vive a confronto che attendono le risposte l’una dell’altra. Un momento di sospensione, attesa e tensione, resa dall’incontro-scontro tra materiali di natura opposta (non solo quelli interni all’opera ma anche tra opera e spettatore) e dall’impossibilità di conoscenza dell’immagine finale, in cui si può seguire quell’istinto primordiale dell’uomo all’esplorazione di dimensioni ignote, del sogno come della realtà. Piero Gilardi, il grande escluso dalla narrazione dell’Arte Povera, imprime a sua volta un brusco cambiamento sia a livello qualitativo che espressivo a quell’energia relazionale fluida di cui si è parlato fino a ora, andando oltre la sua rappresentazione o l’impiego di archetipi concretizzati per richiamarla alla mente, liberandola dall’isolamento all’interno di considerazioni di esclusivo carattere artistico. Nell’arte di Gilardi le relazioni tra oggetti, persone e memoria costruite e rese possibili dall’opera non rimangono confinate al momentodella sua fruizione, con le riflessioni e le emozioni temporanee che ne scaturiscono, ma invadono la realtà sotto forma di azioni creative e collettive di stampo politico. L’importanza di una tale componente sociale e interattiva inizia a nascere e a prendere forma grazie agli scossoni intellettuali generati dalle discussioni con Aldo Mondino e Michelangelo Pistoletto, tra le poche occasioni di dibattito costruttivo di stampo artistico e talvolta politico in quella Torino di inizio anni Sessanta così isolata dalla scena italiana e internazionale a causa della sua “monocultura industriale”, che ne limita, non promuovendolo, lo sviluppo culturale e lo scambio di idee, e dove la maggior parte degli artisti di conseguenza si allinea passivamente alle tendenze, relegando ogni tentativo di ricerca e innovazione a fenomeno underground. Se questo elemento attivo e solidale inizialmente assume le forme di un’invasione da parte degli oggetti dello spazio dell’esperienza, attraverso opere che coniugano l’interazione con il visitatore a un confronto vissuto come positivo con un’ipotetica società futuristica (le Macchine per il futuro, la serie dei tappeti-natura), ben presto si evolverà, in virtù di una consapevolezza infine maturata, in interventi sulla realtà che superano la limitatezza dell’oggetto per farsi esperienze di aggregazione comunitaria. L’avvicinamento graduale all’intervento attivo nella dimensione politico-sociale inizia nel 1967 in seguito al rifiuto, da parte di Ileana Sonnabend, di quegli oggetti minimali di ispirazione contadina che avrebbero dovuto rappresentare la necessaria evoluzione dei tappeti-natura, in quanto meno vibranti e meno “pop” di questi ultimi. Un rifiuto che per Gilardi è da imputarsi allo scarso appeal visivo delle nuove creazioni,soprattutto se paragonate alla produzione precedente che grazie ai suoi colori e alla sua vitalità aveva riscosso grande successo sia di pubblico che di mercato. Da qui deriva una riflessione sui meccanismi, avvertiti come coercitivi, esercitati dal mercato nei confronti della libertà creativa dell’artista e che porta Gilardi a una dematerializzazione sempre maggiore del suo lavoro. Nel 1968 giunge così alla teorizzazione dell’arte microemotiva, descritta come una ricerca su un movimento “microscopico e globale”86 avvertito come “vibrazione libera ed asimmetrica, che si pone come rappresentazione dell’energia primaria” e che “interpreta un atteggiamento mentale che ha superato l’alienante identificazione del media con il messaggio, attraverso l’intuizione di una nuova ‘qualità’ della libertà individuale ed emotiva”. Nel corso di numerosi viaggi nei Paesi Bassi, nel Regno Unito e soprattutto negli Stati Uniti, Gilardi constata che la tensione verso un tipo di arte analoga a quella “microemotiva” rappresenta una tendenza diffusa in diversi paesi con altrettanto variegati background storico-artistici, diventando uno stimolo a promuovere la nascita di una rete internazionale di artisti, liberi e indipendenti dal mercato, attraverso la diffusione delle idee rivoluzionarie tramite riviste di settore (come Flash Art e Arts magazine) e l’organizzazione di eventi collettivi. Solamente un anno dopo però Gilardi prende atto del fallimento del suo “progetto di emancipazione interno alla comunità artistica”, avvenuto essenzialmente per due motivi: da un lato l’amara osservazione che, dopo un periodo più o meno lungo d’incubazione, il sistema dell’arte alla fine assorbe sempre tutte le spinte controtendenza, legittimandole nella loro opposizione. Dall’altro, l’analisi a posteriori che un siffatto progetto, con quel “corporativismo” che lo lasciava confinato a un settore assai ristretto della società, non poteva che fallire: il problema che viene rilevato non è infatti ridotto al solo mercato artistico, ma è radicato in una più ampia dimensione economica e sociale i cui rapporti sono esasperati dai sistemi di produzione. Ne consegue che il processo di rinnovamento e liberazione deve aver un raggio d’azione molto più esteso poiché, come afferma Gilardi in più di un’occasione, “per liberare l’arte occorreva liberare la vita”. Ecco che allora inizia quella fase di impegno sociale e politico durata per tutti gli anni Settanta e scandita dall’attività di arte-terapeuta presso diversi centri (come il centro d’incontro del quartiere Aurora) e dalla partecipazione a diversi collettivi (Lenin nel 1970, La Comune nel 1974) di cui curava la sfera propagandistica, dagli striscioni ai volantini ai pupazzi di gommapiuma da usare durante le manifestazioni. La scelta della “militanza politica ‘creativa’” assume le connotazioni di “una soluzione alternativa basata sull’utopia negativa della ‘non-arte’”. Negli anni Ottanta, con il succedersi delle scoperte tecnologiche nell’ambito dell’IT e del networking, Gilardi ritorna a quella dimensione tecnologica e scientifica che lo aveva sempre affascinato e che ora è più di un espediente dal sentore romantico per parlare di una società migliore, diventando un elemento attivo delle opere, che dal progetto Ixiana fino al Parco d’Arte Vivente diventano installazioni virtuali interattive che l’artista equipara agli eventi collettivi del decennio precedente, per le loro capacità di “offrire la stessa penetrazione nel mondo dell’impulso e la stessa condivisione di un’espressione simbolica ed estetica”. Come già riscontrato in Merz e in Zorio, anche l’opera di Giuseppe Penone è incentrata su una cultura popolare universalmente condivisa scelta come veicolo per la riscoperta dei legami stretti con una natura di cui si era ormai dimenticata l’affinità con l’uomo, riferimento che nell’artista garessino risulta più spiccato in quanto attinge direttamente dalle tradizioni della comunità montana in cui è cresciuto. Allo stesso tempo però mancano non solo i rimandi sia alla sfera della sintesi delle forme e dei processi naturali, sia al mondo artificiale della chimica e dell’intervento culturale, ma anche la riduzione della natura al concetto di naturalità,ossia a un qualcosa di incontaminato, primario, essenziale, primordiale e antico, quindi essenzialmente intangibile perché intesa come idea od ordine di idee: la natura di Penone è al contrario concreta, è pietra, albero e acqua, tanto sporca e immensa da inquietare l’uomo che non può che opporle i suoi paesaggi antropomorfi e nemmeno riesce a ritagliarsi alcuna possibilità di ritorno e congiunzione, come invece constata Merz.Nonostante questa sua anomala concretezza, la natura non viene usata dall’artista come materiale poiché egli non tenta di dominarla, ponendosi in una situazione di superiorità (e rifiutando così il problema ecologico), ma istituisce con essa un rapporto che definisce paritario, in quanto “l’uomo non è spettatore o attore ma semplicemente natura”. Ecco che allora tutta la poetica di Penone sarà all’insegna di un parallelismo tra le forme dell’uomo e quelle della natura: i rami confluiscono nel tronco dell’albero come le dita nei palmi delle mani, e la scorza dell’ontano è come la pelle umana sia per i colori che per la possibilità di essere trasformata in strumento musicale, mentre le pietre sulle montagne “scaglie di pelle che lasciano il corpo che le ha generate”; allo stesso modo le idee sono “foglie impregnate di luce” e giacciono racchiuse nel cranio come la crisalide lo è nel bozzolo, e vi è analogia tra lo scolpire dell’uomo e quello del fiume. Le opere maturano quindi attorno all’idea di un lento e armonioso adeguamento e sincronizzazione dei ritmi vitali, a dispetto del fatto che questi siano diametralmente opposti, quello della natura corrispondente all’alternanza delle stagioni e degli eventi climatici, scandito dall’adattamento ai cambiamenti dell’ambiente circostante, e quello breve,sincopato, dell’uomo. Data un’aderenza così stretta tra uomo e natura, nonché una preponderanza visiva di tronchi, foglie e acqua, gli elementi culturali potrebbero quasi passare inosservati. Eccezion fatta per i rari casi in cui il riferimento alla cultura contadina è evidente, come in Zappare, le connotazioni culturali sono sempre più velate, minime, essenziali. Elementi come la ciclicità derivata dall’organizzazione agricola del lavoro, il respiro come soffio vitale, l’albero e il bosco come mito e religione, il gesto e le impronte come sculture involontarie, il tutto accompagnato all’eliminazione degli elementi con una connotazione simbolica troppo accentuata, riconducono come in Zorio a un’operazione culturale primordiale di utilizzo di sé e del proprio corpo per conoscere e interpretare la natura, che in Penone viene però declinata come consonanza intima con le strutture della natura di cui si fa parte: gli automatismi culturali, come i numeri e l’alfabeto, con cui si prendono le misure del mondo, sono tali perché corrispondono ai meccanismi fisiologici dei battiti del cuore, ai ritmi biologici e a quelli stagionali. A differenza di Zorio, Penone non prende in considerazione le dimensioni concrete del corpo ma le costruzioni culturali che derivano in via diretta dalla natura e che si presentano come coscienze fisiche e tattili. Ecco che allora la cultura è profondamente legata alla natura e da essa deriva, non come reazione e tendenza alla dominazione ma come ispirazione: la prima forma culturale dell’uomo non è infatti identificata da Penone con il rifugio, ma con la religione animistica che vede l’albero e il bosco al centro, come mezzi per calcolare e scrivere il tempo e per comprendere la vita. La cultura allora non è necessario che prenda le forme di pratiche particolarmente complesse e articolate per essere tale, e soprattutto non si presenta come un qualunque prodotto dell’uomo, bensì è concepita come interazione e scambio con la natura e con la realtà. In quest’ottica, la cultura diventa per Penone “la pelle di un popolo”, laddove la pelle si presenta come interfaccia ed elemento relazionale di confine e contatto, che definisce e delimita i singoli involucri, come li chiama l’artista, e assicura alle singole entità la possibilità di poter ricercare la propria identità in relazione alle altre, nonché la “capacità di identificarsi o farsi identificare” in forme diverse dalla propria, fondando così la possibilità dell’opera d’arte. Sono qui ben riconoscibili i concetti di relazione e di energia primaria che lo allineano con le teorizzazioni degli altri artisti, e che seppur non vengano mai chiaramente menzionati nei suoi scritti, prima fase di ogni creazione, sono ben percepibili nelle sue opere, dove corpi e mani (o le loro impronte) vengono impressi su tronchi, e le patate sotterrate sviluppano nasi e orecchie umane. Laddove la tattilità risulta essere centrale, con la capacità di illustrare all’uomo che se ne serve le forme delle cose del mondo al di là dei rischi di menzogna e illusione di cui la vista inevitabilmente cade vittima, il corpo si pone come condizione di tutto e il “pensare” non può sussistere senza il “pesare”. Da queste considerazioni nasce quella riflessione che si rivelerà centrale nella poetica di Penone e che percorrerà tutta la sua opera, ossia quella che vede la scultura come un’“interferenza casuale di un’intelligenza pesante carica di terra, serva degli occhi e delle mani”. Nel momento in cui un costrutto culturale precisamente definito come la scultura viene depurato di riferimenti storici e particolari, ne viene riscoperta la reale essenza fisica e viene riconsegnato sotto forma di una “qualunque mutazione tridimensionale della realtà”, ecco che ogni gesto, per quanto minimo e insulso possa sembrare, è scultura. Toccare, sfregare, sfiorare, premere, misurare: questi gesti, che permettono di entrare in contatto con il mondo e definire il proprio spazio e lo spazio degli altri, rendono possibile un’interazione costruttiva che dà luogo a forze positive di reciproca influenza. Le impronte, i gesti, i passi, ma anche i pensieri e le idee, sono tutte pressioni effettuate nella terra e nella corteccia che da queste vengono assorbite, conservando il passaggio dell’uomo, poiché i loro tempi lunghi, a differenza dell’essere umano, non dimenticano. La natura diventa così in Penone un luogo della memoria, sia della natura stessa, con i suoi ricordi visibili di torsioni, distruzioni e cambiamenti, sia dell’uomo. Ciò che allora differenzia l’uomo comune dallo scultore è proprio la volontarietà e la direzione temporale del gesto: laddove il primo compie azioni per necessità, accumulando a livello fisico, nella terra, tracce, impronte e sentieri che costituiscono la sua storia e la storia del suo rapporto col mondo, il secondo lavora in senso contrario, immergendosi nella natura e lasciandosi avvolgere da essa, attendendo di riscoprire a livello corporeo la sua appartenenza a essa, scavando nella memoria del fango per ritrovare quell’interazione prima, quella scultura prima, il sentiero perduto, da fossilizzare in un movimento eterno per “avvicinare l’uomo ai vegetali costretti a vivere eternamente sotto il peso dei ‘gesti’ del loro vissuto”, come in Continuerà a crescere tranne che in quel punto (1968), dove il gesto della mano che tocca l’albero viene incastonato nel bronzo per indicare con una forma concreta ciò che accade non visto. Oltre al nucleo di opere dei tredici artisti legati all’Arte Povera, l’esposizione comprende pezzi e documenti che ripercorrono le tappe fondamentali di quelli che possono essere considerati gli esordi del movimento. Nato a Genova il 5 novembre 1940, ma trasferitosi due anni dopo a Bergamo, dal 1952 Giulio Paolini si stabilisce con la famiglia a Torino. Terminati gli studi grafici, nel settembre 1960 realizza il suo primo quadro, Disegno geometrico , per poi partecipare l’anno successivo al “XII Premio Lissone” su invito di Guido Le Noci, titolare dalla Galleria Apollinaire di Milano. Da quel momento fino al 1964 non si profilano ulteriori occasioni espositive: la sua produzione rimane pertanto un laboratorio privato e del tutto sconosciuto. La svolta giunge solo nel 1963 quando, venuto a sapere dell’indisponibilità di Le Noci ad appoggiare il suo lavoro, Paolini si reca a Roma per cercare fortuna da Guido Montana, direttore della rivista “Arte Oggi”, il quale, oltre ad offrirgli la possibilità di pubblicare il suo primo scritto, gli propone di entrare a far parte del Gruppo Uno (proposta però subito declinata) e lo mette in contatto col mondo artistico romano. Paolini conosce così Plinio De Martiis, titolare della galleria La Tartaruga, per il cui spazio espositivo concepisce una personale, rimasta tuttavia allo stato di progetto (Ipotesi per una mostra, 1963 Fallita la collaborazione con De Martiis, l’artista, grazie all’intermediazione dell’amico Aldo Mondino, si reca da Gian Tomaso Liverani e nella sua galleria (La Salita) tiene la sua prima personale nell’ottobre 1964. Da qui, la successiva occasione di esporre una serie di opere su carta alla collettiva 12 giorni La Salita grande vendita, organizzata dallo stesso Liverani. Inaugurata il 19 dicembre 1964, la mostra propone “12 giorni di clamorose offerte – 200 articoli a un prezzo straordinario. Il 5 gennaio alle ore 9,30 verrà sorteggiato un quadro d’autore! Solo 100 biglietti sono in vendita. Affrettatevi!”. L’evento, dall’evidente componente ludica, vede come protagonisti principali, non tanto le opere esposte sui banchi di vendita prestati dalla Standa, quanto gli spettatori medesimi, disposti a partecipare alla vendita e all’estrazione del premio finale. Tra gli artisti invitati, Paolini presenta la seconda serie dei cosiddetti “Disegni” del 1964. Sotto il vetro del banco vendita, i “disegni” appaiono chiusi in quanto piegati in quattro e annunciati dalla scritta “Disegni Giulio Paolini L1000”. Ricorda l’artista: “ciascun esemplare fu messo in vendita – ma non fui io a farlo in galleria – al prezzo della banconota che conteneva, in modo che l’eventuale acquirente si vedesse rimborsato subito della cifra pagata” (Giulio Paolini) . L’anno successivo, grazie all’intermediazione di Carla Lonzi che aveva visitato la personale del 1964 a La Salita, Paolini intraprende la collaborazione con Luciano Pistoi, titolare della Galleria Notizie di Torino. Da allora fino ai primi anni Sessanta, Pistoi sarà il suo principale mercante e gli farà da tramite per la conoscenza di autori, collezionisti e frequentatori della Galleria Notizie quali Mario Merz, Saverio Vertone, Ippolito Simonis e Anna Piva, futura moglie dell’artista. L’11 novembre 1966 Pistoi accoglie la prima personale torinese di Paolini, poco dopo averlo invitato a partecipare alla mostra Accardi, Castellani, Paolini, Pistoletto, Twombly (28 maggio-15 giugno 1965). Alla collettiva, Paolini presenta tre quadri del 1965 nonché un esemplare su carta dello stesso anno. Sebbene ad oggi non sia possibile identificare con certezza quel “disegno”, è ipotizzabile che fosse legato al tema concettuale della fotografia così da risultare affine alle tre tele esposte. Di particolare rilievo la presenza alla mostra di Enrico Castellani che, di lì a poco, introdurrà Paolini alla Galleria dell’Ariete di Milano. Da qui, la sua prima personale milanese nell’aprile 1966, costituita da nove opere di grande formato e da “sei disegni”. Anche in questo caso, gli esemplari su carta risultano di dubbia identificazione: si suppone però, data la rispettiva provenienza, che alcuni fossero connessi al tema iconografico-concettuale della riga millimetrata sviluppato a partire da quell’anno Nel 1967 l’attività su carta rimane invece del tutto privata, sebbene Paolini presenti alla Libreria Stampatori di Ippolito Simonis della quale realizza alcune varianti su fogli bianchi da disegno che segue la prima , anch’essa “studiata” su carta . Da ricordare inoltre le due importanti personali dello stesso anno, rispettivamente alla Galleria Stein (8 novembre) e, in precedenza, alla Galleria del Leone di Venezia (7 agosto) dove però espone solo opere di grande formato. La mostra veneziana segna l’inizio della collaborazione con Germano Celant che Paolini aveva conosciuto grazie a Carla Lonzi e dal quale sarà invitato a partecipare, nell’ottobre di quell’anno, a Arte Povera Im-spazio e successivamente alle mostre dedicate al movimento nascente dell’Arte Povera in cui sarà così cooptato. Il 1968 è invece l’anno della prima personale interamente dedicata alle opere su carta che si inaugura il 22 febbraio a Roma, presso la Libreria dell’Oca. Luisa Laureati, titolare di quello spazio, attribuisce al critico Giorgio de Marchis la paternità dell’idea della mostra, mentre l’artista la assegna alla stessa gallerista . Posso dire che Giulio Paolini che la personale si inserisce a pieno all’interno del programma espositivo della Libreria inaugurato nel 1967 proprio con un’esposizione di Disegni di Novelli. Paolini espone per l’occasione trentadue esemplari su carta: sebbene destinati alla vendita, a fine mostra, come egli ricorda, solo due risulteranno acquistati . La peculiarità dell’evento risiede non tanto nella quantità e nel genere di opere presentate, ma soprattutto nella modalità d’allestimento. “Essendo una libreria”, spiega l’artista, “lo spazio a disposizione era completamente occupato da numerosi scaffali che non permettevano di sospendere a parete i collages. Come dice Giulio Paolini : Decisi allora di inserirli, ad uno ad uno, in tasche di plastica trasparente che portai a Roma da Torino, per poi appenderli con delle pinzette a quegli scaffali. L’allestimento così ottenuto, non avvalendosi né di cornici né di passe-partouts, dava l’impressione di volatilità: le buste trasparenti pendevano qua e là come se fossero siparietti davanti ai libri”. Se è verosimile il ricordo dell’artista e della gallerista, per cui la scelta di non incorniciare i collages fosse stata dettata da impedimenti ambientali nonché economici, è opportuno al contempo constatare che l’inserimento di un’opera entro una busta di plastica trasparente richiama alla memoria il quadro presentato da Paolini al Premio Lissone nel 1961 e le sue varianti dello stesso anno , dove il plexiglas trasparente avvolge/contiene una tela vergine sospesa mediante fili di cotone entro un telaio vuoto. Non solo: la busta trattenuta agli scaffali con le pinzette sembra trasformare ogni esemplare in un oggetto “impacchettato”, messo in vetrina e pronto per essere venduto come se fosse un libro, oltre a porsi in continuità con alcuni lavori su carta del 1967-68 nei quali uno o più negativi fotografici sono trattenuti al foglio di supporto per mezzo di un fermaglio metallico . Non essendo stato pubblicato un catalogo sulla mostra né esistendo alcuna documentazione d’archivio che ne permetta l’esatta ricostruzione, non è possibile individuare con certezza i collages esposti. L’unica testimonianza in merito è quella di Giorgio De Marchis che in una recensione su “L’Espresso” parla di una “serie di ‘soli’ e ‘lune’, elementi di immagine strappati da qualche paesaggio pubblicitario e incollati al centro del foglio bianco, altri spazi altre immagini”, nonché di “una fotografia di Jasper Johns sotto un foglio trasparente su cui sono incollate qua e là le stelle della famosa ‘bandiera americana’ ricondotte a significati celestiali”. Seguendo le brevi e sommarie descrizioni delineate nell’articolo, si suppone che alcuni degli esemplari esposti possano essere quelli qui schedati che, datati ante 1969, presentano i motivi iconografici ivi accennati . Tra il 1968 e il 1969 non si registrano ulteriori esposizioni in cui siano presenti opere su carta, nonostante Paolini intraprenda una vasta attività espositiva che comprende non solo quattro personali (rispettivamente: alla Galleria Notizie, alla Galleria De Nieubourg di Milano, allo Studio La Tartaruga di Roma e alla Galleria del Leone di Venezia), ma anche importanti collettive quali Arte Povera a Bologna e Trieste, Arte povera più azioni povere ad Amalfi e Campo Urbano a Como. In questa mostra Giulio Paolini mette in campo una sua visione duale tra il Museo del Novecento e quello di San Marco dove l’artista come vedremo nella sala cinema del museo viene proiettatala registrazione video di Teorema, balletto ispirato all’omonimo romanzo di Pier Paolo Pasolini, messo in scena al Teatro del Maggio Musicale di Firenze dal 28 aprile al 6 maggio 1999.
Cogliendo la “sfida all’impossibilità del racconto” offerta dal testo pasoliniano, Giulio Paolini aveva realizzato una scenografia essenziale, il cui rigore geometrico dialoga con la fisicità di danzatori vestiti in abiti contemporanei. Con l’installazione La pittura abbandonata del 1985,presente all’interno di una delle sale al piano terra del museo, viene rappresentata la figura scontornata di una giovane donna. È la silhouette capovolta dell’Arianna addormentata, la cui iconografia affonda le proprie radici nella statuaria classica divenendo nei secoli fonte di ispirazione per artisti e letterati. La figura appare riversa sulla riva del lago di Nemi, che trae il suo nome da un bosco sacro anticamente dedicato al culto di Diana, divinità del pantheon romano usualmente assimilata alla greca Artemide. Proprio per mano di quest’ultima, secondo una versione del mito, Arianna sarebbe stata uccisa. La rappresentazione del piccolo invaso, che prende le forme di una tavolozza, si lega quindi alle vicende che hanno avuto per protagonista la giovane, il cui braccio sembra sorreggere il grande telaio addossato alla parete, con un angolo poggiato a terra. In alto, all’estremità superiore, la struttura in legno è avvolta dal lembo di una lunga tela preparata che ricade sul pavimento. Come un grande quadro “abbandonato”, l’opera ci pone di fronte all’enigma di una ‘visione’ tradita così come fu Arianna nel mito: tradita e abbandonata da Teseo dopo averlo aiutato ad uscire dal labirinto in seguito all’uccisione del Minotauro. “L’arte – suggerisce Paolini – è imitazione di un modello non dato. L’arte è l’imitazione dell’arte e non dice, perché non sa, a che cosa vuol aderire, quale sia appunto il modello da scoprire». L’opera conserva quindi «la materia intatta e ancora segreta del suo divenire”, rendendo vano qualsiasi tentativo di interpretarla e di ricondurla ad un modello. Nella sua universalità Paolini ci fa immergere in uno spazio costellato di richiami al crepuscolo della vita, agli interrogativi che accompagnano l’inarrestabile scorrere dei giorni, alle relazioni con noi stessi, con gli altri, con ciò che ci ha preceduto e che deve ancora accadere che segnano il nostro passaggio su questa terra: un passaggio scandito da istanti infiniti, in cui si annida, nonostante tutto, l’eternità. Mentre Marina Abramovic nasce con la Body Art : Il Novecento può essere considerato come il secolo di caduta di ogni certezza che l’individuo possedeva sulla religione, la politica, la scienza. Queste certezze hanno iniziato a frantumarsi già dall’Ottocento, per poi crollare definitivamente nel corso del Novecento, rendendo il contesto dove l’uomo viveva da assoluto a relativo. In ambito scientifico nel 1915 Albert Einstein propone la Teoria della relatività, che rivoluziona i concetti di tempo e spazio. Dalla Teoria emerge che questi non sono concetti assoluti e immutabili, ma sono relativi alla percezione del singolo individuo. Questo, prima ancora di avere una conferma scientifica, era già stato avvertito dalla mente delle persone. Infatti l’invenzione di nuovi mezzi di trasporto, come il treno (la prima ferrovia pubblica fu inaugurata in Inghilterra nel 1825) e l’automobile (frutto di diverse scoperte e adattamenti che si ebbero dalla seconda metà dell’Ottocento in poi), rivoluzionano completamente il modo di percepire l’ambiente circostante: le distanze si accorciano drasticamente, così come i tempi di percorrenza da un punto ad un altro. Lo spazio si riduce grazie anche ad un’altra invenzione: attraverso il telefono (il cui brevetto viene depositato da Alexander Graham Bell nel 1876) due persone che si trovano fisicamente in due luoghi diversi possono comunicare come se fossero uno di fronte all’altro, eliminando virtualmente le distanze. È il 1882 quando ne “La Gaia Scienza” Nietzsche propone il suo aforisma più celebre «Dio è morto», intendendo la morte di tutti i valori morali e scardinando in tal modo non solo le credenze legate strettamente alla religione, ma anche i principi su cui si regolavano gli uomini nella società . Voler teorizzare determinate forme artistiche, al fine di collocarle in specifici contesti culturali, potrebbe apparire come un tradimento dal momento che l’oggetto di studio è un tipo di arte che si caratterizza per essere aperta a qualsiasi contaminazione, un’arte dinamica, che rifugge l’iconicità, ed è principalmente finalizzata a far vivere esperienze e nuove pratiche comportamentali e sperimentali. Le conseguenze di questo sgretolarsi delle fondamenta si riflette anche in letteratura: Pirandello lo declina in una vana ricerca della verità. Essa non è assoluta, ma relativa, ed è impossibile da conoscere totalmente, poiché mascherata da convenzioni sociali, esteriorità e apparenza . Accade dunque che il precedente credo positivista, con la sua fiducia nella scienza, nella ragione e nel progresso, venga smontato mattone dopo mattone fino a ritrovarsi, agli inizi del Novecento, sostituito definitivamente da una crisi di valori e da uno smarrimento collettivo. Questa crisi viene ulteriormente accentuata dalle due Guerre Mondiali, dall’orrore dell’Olocausto, dalle incalcolabili morti causate. Dov’era Dio in tutto ciò? Dov’erano i tanto elogiati “valori morali”? A cosa sono serviti la scienza, il progresso? Che ruolo può avere l’arte dopo tutto questo orrore? Domande che nascevano spontanee, e anche quando non formalmente formulate echeggiavano tra le persone. Tracey Warr ne Il corpo dell’artista spiega come «morte e distruzione su così vasta scala riportarono al centro dell’attenzione il corpo in tutta la sua materialità, scardinando credenze e valori fino ad allora ritenuti saldissimi» . Oskar Schlemmer, artista viennese, scriveva dal fronte nel 1918: «è nato un nuovo strumento artistico molto più diretto: il corpo umano» . L’uscita del corpo dalla tela, prima solo rappresentato su di essa, inizia ad avvenire in maniera più concreta con Jackson Pollock, la cui tecnica, definita dripping , nasce nel 1947 e impone una riconsiderazione del rapporto tra corpo e opera. Egli introduce novità rivoluzionarie: sposta la tela dal cavalletto a terra, e soprattutto crea l’opera camminando attorno ad essa e lasciando sgocciolare il colore da pennelli o direttamente dai contenitori. Ciò che muta rispetto alle creazioni artistiche del passato è la rilevanza assunta non più solamente dal prodotto finale, ma anche dall’azione generatrice, identificabile nel movimento del corpo attorno alla tela. Quest’azione viene avvalorata e diffusa dalle fotografie pubblicate sulla rivista Life nel 1949 che documentavano il procedimento usato da Pollock, e dal video esposto al MoMA di New York che mostrava l’artista intento nel creare l’opera. Il corpo salta fuori dalla tela con un balzo, ci gira attorno, e poi la attraversa violentemente: è il 1955, e Saburo Murakami si esibisce nella performance At One Moment Opening Six Holes, perforando di corsa col proprio corpo una fila di schermi di carta fissati ad un’intelaiatura di legno e posti uno dopo l’altro. Murakami non è l’unico artista del Gruppo Gutai che si è avvalso del corpo per la sua arte: Kazuo Shiraga, nell’azione Challenging Mud del 1955, si rotola nel fango in una lotta contro la materia. Il corpo, una volta riappropriatisi della propria autonomia come mezzo espressivo, può essere adoperato anche come pennello per dipingere: questo è l’uso che ne fa Yves Klein. La prima volta che egli si avvale di un corpo umano come pennello è nel 1958, dove a casa di un amico, davanti ad un pubblico, ordina ad una modella nuda di ricoprirsi di blu I.K.B. e di trascinarsi su un grande foglio bianco appoggiato sul pavimento, così da lasciare la sua impronta. Dal 1960 queste creazioni prenderanno il nome di Antropometrie , e verranno realizzate non solo con impronte dei corpi di modelle, ma anche dello stesso artista. Il ruolo assunto nella storia dell’arte dalla modella è da sempre fondamentale: poteva essere rappresentata in modo verosimile oppure idealizzata secondo lo sguardo del pittore, in entrambi i casi si trattava di un tramite tra l’artista e la realtà circostante. Piero Manzoni decide di nobilitare questo corpo, impiegato solitamente come mero strumento utile alla riproduzione (fedele o meno) della realtà, trasformandolo in opera d’arte. Per ottenere questo egli firma le modelle come per i ready-made di Duchamp, è sufficiente la firma dell’artista per trasformare un oggetto o una persona in opera d’arte. Manzoni compirà quest’operazione anche con personaggi famosi: tra i tanti, firmerà Umberto Eco. Questi corpi si tramutano così in sculture viventi che scendono dal piedistallo e camminano sul terreno della quotidianità mantenendo tuttavia un’aura speciale: vita e arte confluiscono in una sola opera, e, andando contro la possibilità di riproducibilità tecnica temuta da Benjamin, Manzoni investe questi corpi di una nuova aura conformata ai dettami della società contemporanea. È grazie a queste premesse se la funzione del corpo viene rivalutata, iniziando ad essere considerato «non più come mero “contenuto” dell’opera, ma come vero e proprio strumento, alla stregua di una tela, di un pennello, di una cornice o di una superfice». Inoltre, gli artisti ora si possono sentire liberi «di presentare sé stessi in carne ed ossa, esasperando il potere sciamanico della fisicità o usandola come via per rendere pubblico un disagio» . Voler teorizzare determinate forme artistiche, al fine di collocarle in specifici contesti culturali, potrebbe apparire come un tradimento dal momento che l’oggetto di studio è un tipo di arte che si caratterizza per essere aperta a qualsiasi contaminazione, un’arte dinamica, che rifugge l’iconicità, ed è principalmente finalizzata a far vivere esperienze e nuove pratiche comportamentali e sperimentali. Quando si parla di arti performative infatti si allude a un ampio ambito di attività che spaziano dalla danza all’opera, dal teatro al mimo, dal circo alla musica. In termini generali si può affermare che si tratta di forme espressive in cui l’artista agisce e si esprime usando il proprio corpo; l’opera consisterà quindi nell’esecuzione delle azioni da parte dell’artista rivolte ad un pubblico pronto a reagire, un pubblico che dovrà ricoprire a sua volta un ruolo non più contemplativo ma attivo. La performance, caratterizzata dall’uso del corpo, si differenzia quindi dalle altre forme d’arte dove gli artisti creano oggetti materiali o compongono testi scritti. La Performance Art, nell’accezione solitamente utilizzata, inizia ad essere identificata a partire dagli anni Settanta per indicare un ambito più ristretto di pratiche performative adottate da artisti che provengono prevalentemente dal campo delle arti visuali. Si tratta di modalità espressive che trovano nelle avanguardie storiche del primo Novecento le loro fondamenta; quelle avanguardie che hanno contribuito a infrangere i legami con la tradizione contribuendo a ridefinire la figura dell’artista, del fruitore il concetto stesso di opera d’arte. Il termine Performance Art si riferisce quindi a una forma d’arte che ha avuto origine con le avanguardie storiche europee ma che successivamente si è sviluppata negli Stati Uniti dove ha assunto, tra gli anni cinquanta e sessanta, un carattere più definito attraverso il lavoro di artisti come Allan Kaprow che conia il termine Happening. Per capire meglio che cosa si intende con Performance Art può essere utile spostare l’attenzione sui meccanismi che si generano in fase di una valutazione critica di questo fenomeno performativo. Quando l’oggetto in questione è una performance i criteri estetici convenzionali, abitualmente adottati per valutare un’opera d’arte tradizionale, si rivelano del tutto inadeguati in quanto le performance tendono a superare i confini tra i generi rendendo così dubbia l’appartenenza di una data azione a una disciplina piuttosto che ad un’altra. Per una valutazione completa si sente la necessità di integrare questa materia rivolgendosi a categorie analitiche spesso prese in prestito dalle discipline che studiano il comportamento e l’azione sociale. I motivi sono da ricercare nei fondamenti che caratterizzano questa espressione artistica, la quale, similmente all’atto teatrale, si presenta come un’azione effimera, intangibile, e che presuppone come elemento determinante nella creazione del suo significato la relazione con il pubblico. Per molti anni si è pensato alla Performance Art come ad una forma artistica lontana dal mondo teatrale nonostante in ambito teatrale si fossero già da tempo sperimentati linguaggi nuovi e si fossero abbattute certe definizioni statiche, logore e dettate da quel teatro che ormai abbiamo solo nella nostra mente e che definiamo teatro all’italiana. È difficile stabilire una data esatta di nascita della Body Art, tuttavia indicativamente essa si sviluppa a livello internazionale, sia in Europa che negli Stai Uniti, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Posso affermare che Marina Abramović è una delle performance artist più conosciute al mondo, la sua vita però non è stata affatto semplice . Fin da piccola ha dovuto lavorare molto su sé stessa, le risultava difficile credere in lei, soprattutto per via delle mancanze d’affetto da parte dei genitori e per colpa dell’aspetto fisico che non la soddisfaceva mai, ma che poi, con il tempo, imparò ad apprezzare . Marina Abramović proviene da una famiglia benestante, ed è anche per questo che inizia ad avvicinarsi al mondo della cultura, in particolare a quello dell’arte; è altrettanto vero che è proprio imparando a conoscerla che inizia a volerne creare una diversa, una che fosse al di fuori degli schemi; è per questo che risulta problematico darle l’appellativo di “artista” in quanto lei, per prima, cerca di andare oltre l’arte accademica . È da notare che il suo studio non inizia subito con qualcosa che va oltre l’ordinario, ma le prime esperienze riguardano dei quadri che lei dipinge e che avevano come tema principale il sogno, ossia i suoi sogni, e che poi colorava con due tonalità: blu e verde . Oltre ai quadri, lei ritagliava dai giornali foto di scontri automobilistici e ferroviari in modo da creare dei lavori dove si potesse vedere la violenza, il disastro; ne era molto affascinata ed è anche per questo che inizia a staccarsi dall’arte accademica. Marina Abramović inizia, però, a rendersi conto che questa non è la sua strada e decide di percorrerne un’altra, soprattutto quando si accorge che per lei «il processo era più importante del risultato, così come la performance ha maggiore significato dell’oggetto». Questo passaggio è significativo perché inizia a capire che l’arte non è solo il quadro o la pittura, ma diventa libertà di espressione, in qualsiasi forma e la sua prediletta sarà, ovviamente, la performance. Negli anni Settanta, a Belgrado, fu creato un centro culturale studentesco chiamato SKC Marina Abramović ne faceva parte, ed è anche grazie a questo che iniziò ad esplorare il mondo della performance. Inizialmente molti dei suoi lavori vennero bocciati, si trattava di idee complicate e soprattutto fuori dalla norma, come installare delle vasche lungo la galleria del centro per pulire i vestiti; secondo la sua idea i visitatori avrebbero dovuto darle i loro stessi abiti e lei li avrebbe di conseguenza puliti e stirati. Per l’epoca era ancora troppo presto proporre qualcosa del genere, per questo l’idea venne respinta, ma la Abramović non si dette per vinta e continuò verso questa strada. Infatti, durante la prima mostra dell’SKC, Drangularium, cioè collezione di cianfrusaglie, dove gli artisti erano tenuti a esporre degli oggetti quotidiani per loro significativi, presentò Nuvola con la sua ombra: prese un’arachide con il guscio e la appese al muro con un chiodino, questa idea venne ripresa dai dipinti con le nuvole; è proprio da qui che si aprì una dimensione nuova . Dopo Drangularium, Marina Abramović inizia a rendersi conto, sempre di più, che l’arte possa sradicare qualsiasi costrutto preesistente; proprio per questo mette in scena una performance fenomenale, si tratta di Rhythm 10. Era il 1973 e lei si trovava a Edimburgo ed è da una storiella paesana che prende spunto per realizzare il suo lavoro: si trattava di un gioco praticato dai contadini russi e jugoslavi che prevedeva di mettere la mano aperta sul tavolo e di colpire, grazie all’altra mano, gli spazi tra le dita con un coltello. Quando i giocatori si facevano male dovevano bere e, ovviamente, più si beveva, più c’era la probabilità di ferirsi, ma era proprio qui che risiedeva il gusto del gioco, era qui che stava il coraggio, ma anche l’imbecillità, in quanto, a volte, si rischiava molto. Per questo era considerato il perfetto gioco slavo. Sicuramente la Abramović replicò il gioco non tanto per l’idiozia che stava alla base, ma per il coraggio; per lei stava diventando fondamentale il rischio, cercando infatti di sfidare la paura, nonostante sapesse che è un sentimento imprescindibile dall’essere umano, l’idea che stava alla base era quella di buttarsi a capofitto, senza pensarci troppo e cercando così di tirare fuori un nuovo lato di sé stessi . Decise quindi di creare una sorta di variazione del gioco, non c’era un solo coltello, ma dieci, ed era quando si procurava del male che accadeva la performance; ma cosa fece nel dettaglio? Decise di porre un grande foglio di carta spessa bianca nella palestra del Melville College e iniziò così la sua performance, mettendo una mano sopra il suddetto foglio e posizionando i dieci coltelli che avrebbe poi utilizzato, con due registratori che immortalavano i suoni che emetteva quando si auto lesionava . In questo modo sperimentò la gestualità rituale, sempre per provare a superare i limiti mentali e fisici che, secondo lei, possono essere superati attraverso la performance . In questo caso è da notare che una tra le cose più importanti che si andranno ad analizzare in questo scritto, ossia il rapporto con il pubblico, il quale diventa un tassello fondamentale; lei stessa, prima di iniziare la performance in questione, si trovava in uno stato di ansia dovuto da molteplici fattori, in primo luogo non sapeva quello che stava per avvenire, aveva quindi timore che le cose non sarebbero andate a buon fine. La paura è un sentimento che la performer decide di accogliere in modo tale da poterlo gestire, ecco che questa svaniva quando iniziava ad esibirsi, era come se fosse entrata in un altro mondo, dove lei si sentiva a suo agio e capiva che poteva fare qualsiasi cosa volesse. Per il pubblico non era lo stesso, anzi, molti avevano il terrore di quello che stava succedendo; vedere come la performer si procurava quelle ferite provocava anche a loro dolore; è altrettanto vero che, con il trascorrere del tempo e l’esaurirsi dei dieci coltelli, il rapporto con gli spettatori cambiò, la Abramović e il suo pubblico divennero una cosa unica . Marina Abramović disse queste esplicite parole: «era come se fossi diventata, contemporaneamente, il trasmittente, e il ricevitore di un enorme flusso di energia, come in un apparecchio di Nikola Tesla» . Capisce così, sempre di più, che nella vita vuole intraprendere questo percorso, dove lei, nel momento della performance si estrania e così facendo scompaiono paura e dolore, il suo corpo in quegli istanti è senza limiti, la parola d’ordine diventa infatti libertà . Diventa quindi interessante come si va a creare questo rapporto con il pubblico, un rapporto che è composto da fedeltà e fiducia; senza il pubblico di certo non sarebbe la stessa cosa in quanto è proprio l’energia, che si crea attraverso i suoi lavori, uno dei protagonisti delle sue performance. Un altro elemento da non dimenticare è che lei, quando si tagliò con l’ultimo coltello, riavvolse il nastro del primo registratore e lo fece ripartire, cominciando a registrare con il secondo e ripartendo da capo il gioco con il primo coltello. Si trattava di qualcosa di veramente straordinario e allo stesso tempo anormale anche perché lei, nel mentre, cercava di seguire i gemiti che aveva fatto durante la prima performance che stava ascoltando dal registratore per non sbagliare nuovamente e infatti successe solo un paio di volte e questo fu veramente incredibile . Un fenomeno molto importante, all’interno dell’operato di Marina Abramović è quello della replicabilità; ciò su cui ci si focalizzerà in questo scritto, ma cosa vuol dire questo termine? Secondo il dizionario Treccani: “Singolo elemento di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabile e trasmissibile per imitazione da un individuo a un altro o da uno strumento di comunicazione ed espressione a […].” Questa particolarità non si trova in tutte le performance dell’artista, ma allo stesso tempo, molto spesso, si trova un legame con questo elemento. È infatti noto che le performance dell’artista erano uniche, ma è altrettanto vero che potevano essere replicate e in particolar modo questo si noterà con il passare del tempo. Già in questo caso, con Rhythm 10, vediamo un caso di replicabilità proprio perché la performance venne riproposta due volte nell’arco della stessa esibizione, per quale motivo? per mostrare, ancora di più, quella sensazione che lei provava di libertà assoluta, dove l’estasi era a mille perché questo era il suo scopo nella vita, solo questo tipo di arte poteva regalarle determinate sensazioni . Un altro elemento che fa riflettere è l’uso del registratore, collegato anche questo alla replicabilità in quanto in questo modo lei riesce a far in modo che passato e presente si sormontino e perciò, di conseguenza, diventa imprescindibile il fatto che si mescolino e fondino in qualcosa che diventa, per chi è spettatore, quasi surreale . Allo stesso tempo, è da ricordare che Rhythm 10 venne eseguita anche a Roma, si tratta quindi di un altro modo di replicare il lavoro; questa volta Marina Abramović usò venti coltelli e di conseguenza si vide molto più sangue. Ancora una volta dalla replicabilità è nato quel sentimento focoso che faceva capire all’artista che di fronte alla performance art c’erano troppe strade che non erano ancora state aperte e che lei, in un modo o nell’altro, voleva aprire a qualsiasi costo. Un elemento da non dimenticare è che lei non realizzò solo questo lavoro con il titolo Rhythm, ma che diventa una sorta di serie e, anche in questo caso, c’è quindi l’elemento della replicabilità perché questi lavori avevano un comune denominatore, ossia il titolo che conteneva sempre il termine Rhythm e un numero a fianco. Quello che lei cercherà di esplorare, all’interno di questi lavori, è il suo corpo e il cercare di spingersi verso limiti estremi ed è fermamente convinta di poterli superare. È altrettanto importante il rapporto che crea con il pubblico, molto spesso si affida a questo legame che analizzerò nelle prossime performance, e anche qui si vedrà come il limite di sopportazione sia veramente infinito . Un altro elemento fondamentale, all’interno di questo lavoro, è il fuoco; le venne in mente di utilizzarlo verso la seconda metà del Novecento, lo stesso Beuys le disse di stare molto attenta, perché con il fuoco non si scherza, ma a lei non interessava molto essere prudente . La performance venne eseguita nel 1974 a Belgrado, durò novanta minuti, durante i quali vi fu terrore per la maggior parte del tempo in quanto Marina Abramović decise di progettare una grande stella di legno dove lei doveva inserirsi e toccare con le estremità del corpo. Ovviamente non poteva essere una stella di legno qualsiasi, doveva essere infuocata e per questo non ce n’era solo una ma due e nello spazio tra l’una e l’altra mise dei trucioli che avrebbero poi preso fuoco. Nella sua testa tutto funzionava, la stella aveva poi un grande significato per lei in quanto era il simbolo del comunismo, e così iniziò la sua performance gettando, oltre ai trucioli, anche le sue unghie, i suoi capelli, insomma parti del corpo che indicavano che lei ormai era diventata un tutt’uno con la stella . Quando si mise all’interno della stella molti rimasero sbalorditi, lei stessa in quel momento si trovava in uno stato particolare in quanto terrore e paura erano scomparsi, pensava solo alla performance la cosa, in realtà, le sfuggì di mano in quanto svenne. Fu grazie ad un medico presente in platea in mezzo al pubblico che fortunatamente venne salvata perché si accorse che qualcosa non andava quando il fuoco arrivò alla gamba e lei non si mosse: era in realtà abbastanza prevedibile che il fuoco avrebbe consumato l’ossigeno tra le due stelle e che di conseguenza lei avrebbe perso conoscenza. La performance però, nonostante tutto, ebbe successo; anche se alcuni ritenevano che il posto della Abramović fosse in un manicomio visto ciò che proponeva nei suoi lavori ma, c’è anche da dire che, ancora una volta il rapporto con il pubblico era molto forte tant’è che, questa volta, le salvò persino la vita. Per Marina Abramović, però, era impensabile aver perso il controllo perciò tutte le esibizioni a seguire, che prendevano sempre il nome Rhythm con un numero a fianco, andavano a indagare anche questo; diventa sempre più importante esplorare il proprio corpo e acquisire una tale maturità da poter trovare una sorta di equilibrio tra consapevolezza e perdita di controllo. Si può notare un particolare: è dallo studio di come far in modo di non ripetere quello che la performer chiama errore, che in Rhythm 5, in realtà, scopre nuovi modi di utilizzare la performance art. Proprio per questi motivi, l’artista, molte volte venne giudicata in maniera negativa, non veniva capita, molti pensavano e scrivevano di lei che ciò che faceva non era arte e che lei era solo una persona che voleva farsi notare procurandosi dolore. Marina Abramović però continuò i suoi lavori e il suo studio del corpo, per questo decise, con l’opera che analizzeremo ora, di non realizzare qualcosa con le sue mani, ma di lasciare questo ruolo al pubblico; si tratta proprio di Rhythm 0. Marina Abramović arriva a Napoli perché voluta proprio dallo Studio Morra nel 1975, l’aveva invitata per chiederle di eseguire una delle sue fantastiche performance. Decise di progettare qualcosa di assai particolare, sarebbe stato il pubblico a compiere tutte le azioni e quindi creare la performance mentre lei doveva stare immobile, vestita di nero, davanti un tavolo, nella galleria . Sopra questo tavolo lei aveva posto delle istruzioni per i partecipanti e ben settantadue oggetti, questi, secondo ciò che c’era scritto nelle istruzioni, potevano essere usati su di lei a piacimento del pubblico. La cosa sorprendete è che c’era anche scritto che lei era l’oggetto della performance e per questo si assumeva totale responsabilità; il tutto sarebbe durato sei ore . Tra le varie cose si potevano trovare: una penna, un giornale, uno scialle, degli spilli, una macchina fotografica Polaroid, un coltellino e persino una pistola con un proiettile di fianco; questi ultime due, in particolare, mettevano il pubblico, ormai diventato performer, in soggezione . Come si può notare, si tratta di oggetti comuni ma anche di alcuni assai ambigui; l’enigma era cercare di capire come il pubblico si sarebbe comportato davanti ad essi. Sicuramente ciò che ha fatto scatenare l’inferno è stata la voglia di spingersi oltre; all’inizio non successe nulla di particolare, è dal compiere sempre le stesse azioni che il pubblico, quasi annoiandosi, decise di provare qualcosa di diverso e meno scontato, in questo caso si potrebbe anche dire che superò qualsiasi limite e soprattutto decenza . Quando si fece notte all’interno della galleria, cominciò ad avvertirsi una certa tensione sessuale, e questo si notò soprattutto quando alla Abramović venne tagliata e poi tolta la maglia che indossava . Come mai si arrivò a tanto? Questo accadde perché ormai le azioni nei confronti dell’artista erano sempre le stesse, si sentiva il bisogno di andare oltre, di non fermarsi alla replicazione ma di cercare qualcosa di diverso, c’è anche da dire che, in realtà, poteva finire veramente male questa performance, ma fortunatamente non fu così. In questi istanti Marina Abramović era diventata una sorta di marionetta, era completamente passiva davanti a loro e le cose si fecero pian piano sempre più audaci quando due uomini la sollevarono e la misero sul tavolo con le gambe aperte, ponendole un coltello vicino ai suoi genitali. L’artista notò che era proprio il genere maschile ad avere atteggiamenti immorali, non c’era alcun pudore, alcuni pensarono che lei fosse veramente una bambola, per questo la punsero con degli spilli. Marina Abramović racconta che ha ancora le cicatrici di quella performance in quanto degli uomini la tagliarono con il coltello e per questo ha ancora, sul collo, il segno . Si può quindi affermare, attraverso questa esibizione, che diventa anche una sorta di esperimento, che l’uomo può veramente superare qualsiasi limite se gli viene posta la possibilità, lo fa senza alcuno scrupolo e senso civico che tanto ha bramato per secoli . Come è già stato detto tante volte Marina Abramović cerca e riesce di non mostrare mai paura durante le sue performance, anche quelle più pericolose; in questa performance però, ad un certo punto arriva un uomo che le mette ansia e terrore, in quanto costui inserisce il proiettile nella pistola e poi la fa prendere alla donna nella sua mano destra. L’azione non si fermò là in quanto l’uomo gliela puntò sul collo e toccò il grilletto; quello fu un attimo di terrore, non solo per la stessa Abramović ma anche per il pubblico che poi, fortunatamente, lo bloccò . Come finì la performance? È stata proprio la gallerista ad arrivare e avvisare che ormai le sei ore erano trascorse quindi Marina Abramović se ne andò via mezza nuda, sanguinante e con i capelli bagnati . Attraverso questo lavoro lei capisce una cosa che le rimarrà impressa per sempre e cioè che il pubblico, se vuole, può fare qualsiasi cosa, anche uccidere . In questo caso diventa quindi fondamentale il rapporto che si era creato con lo spettatore, inizialmente tranquillo e sereno per poi trasformarsi pian piano a tal punto che le azioni sfuggirono di mano; la performance aveva lasciato che loro potessero sfogare qualsiasi impulso represso, tant’è che molti se ne resero conto il giorno seguente chiamando e scusandosi con la galleria per ciò che era accaduto . In quel caso, come disse la stessa Marina Abramović, «era successa la performance» . Era stato incredibile in quanto era proprio il pubblico, con la presenza passiva della performer ad aver creato tutto ciò partendo da oggetti che erano esposti sopra un tavolo, oggetti che, però, riflettevano le paure dell’uomo come il dolore e la morte Ancora una volta si rivede il termine replicabilità perché lei non faceva altro che riproporre le paure degli uomini che poi, a loro volta, le replicavano sul corpo dell’artista. Questa performance è stata l’ultima di tutta la serie intitolata Rhythm , una serie che ricorda la body art; il suo corpo è messo in primo piano, tutto gioca intorno alla ricerca del suo corpo, di quello che è il mondo conscio e inconscio. Sappiamo inoltre che Rhythm 0 venne replicata più volte, in particolare la ricordiamo all’interno del salone di primavera del museo d’arte contemporanea di Belgrado, ma è anche stata riproposta più avanti, nel 2009, come parte della mostra retrospettiva di Abramović al Museum of Modern Art di New York. Esiste in un’edizione di tre più due prove d’artista, e la copia di Tate è la numero uno nell’edizione . Between breath and fire raccoglie e racconta l’intero percorso artistico di Marina Abramović, in un itinerario che parte dalle prime celebri performance, come Lips of Thomas in cui l’artista, nel 1975, si incise una stella a cinque punte sull’addome e si sdraiò su blocchi di ghiaccio fino all’intervento risolutivo del pubblico o come Art Must Be Beautiful, The Artist Must Be Beautiful, video in cui la ripetizione ossessiva del titolo è accompagnata dalla visione dell’artista che si pettina aggressivamente con una spazzola. Interventi che sono passati alla storia e hanno consacrato Marina Abramović come maestra della performance. In mostra non solo opere storicizzate, ma anche lavori che l’artista ha scelto di riattualizzare e riattivare, anche grazie al coinvolgimento del pubblico, chiamato ad avere un ruolo attivo. È il caso di Mambo a Marienbad, in cui Abramović balla con scarpe magnetiche su un piedistallo. Di fronte al video, uno spazio è delimitato sul pavimento e il pubblico è invitato a danzare davanti alla proiezione, in modo da sfumare i confini tra partecipazione e presenza. Nel leggere Nicolas Borriaud e la sua visione estetica sull’arte contemporanea e la teoria filosofica che analizza e valuta le opere d’arte in funzione della loro capacità di produrre relazioni umane e attività sociali. Tale teoria è diffusamente conosciuta come il sistema di pensiero alla base dei processi dell’arte relazionale, vale a dire l’insieme delle pratiche artistiche diffusesi durante gli anni Novanta, soprattutto in contesto europeo e nordamericano, il cui obiettivo primario è lo sviluppo del contesto sociale e delle relazioni interpersonali tramite azioni, eventi o installazioni generalmente allocati in luoghi tradizionalmente deputati alle attività espositive. L’eterogeneo gruppo di artisti mai circoscritti tramite l’adesione a un manifesto o limitati da confini precisi che agiscano in termini prescrittivi sulla definizione di tale movimento che opera entro tali confini mette, dunque, in secondo piano la vera e propria produzione di immagini e/o oggetti – anche se ciò non viene escluso a priori – a favore della creazioni di luoghi che invitino lo spettatore a fare delle esperienze. Per gli artisti relazionali presentare all’interno di una mostra o di un evento artistico uno o più prodotti oggettuali è, dunque, funzionale alle conseguenze che la loro presenza desta nello spettatore e nel contesto: «Il fine non è la convivialità, ma il prodotto di quella convivialità, cioè una forma complessa che unisce una struttura formale, gli oggetti messi a disposizione del visitatore, e l’immagine effimera nata dal comportamento collettivo» . Le categorie estetica relazionale e arte relazionale vengono usate in modo diffuso soprattutto a partire dalla teorizzazione che ne fece Nicolas Borriaud . In quegli anni, infatti, il critico francese pubblicò una serie di testi teorici su riviste e cataloghi che accompagnavano esposizioni, che in seguito avrebbe raccolto (affiancandoli a materiale inedito) nel fortunato libro Esthétique relationnelle pubblicato in Francia nel 1998. Tale volume, che nel corso degli anni venne tradotto in numerose lingue, diventò in breve tempo un punto di riferimento ineludibile per la teoria critica recente. Sotto il profilo teorico-filosofico lo scrittore francese rivendica l’appartenenza alla tradizione materialistica francese citando Louis Althusser e lo «stato di incontro imposto agli uomini», ma soprattutto trova negli scritti di Gilles Deleuze e in particolar modo Pierre-Félix Guattari, a cui dedica un intero capitolo del libro, la fonte d’ispirazione per i suoi ragionamenti sull’arte e sugli artisti. Se dal punto di vista normativo il libro di riferimento è Esthétique relationnelle, la prima grande mostra che vide riuniti molti degli artisti che avevano lavorato riferendosi alle procedure lì teorizzate fu Traffic, curata da Bourriaud nel 1996 presso il CAPC Musée d’art contemporain di Bordeaux. In tale esposizione, la prima in cui si fa esplicito riferimento all’arte relazionale, erano stati invitati tra gli altri Henry Bond, Angela Bulloch, Liam Gillick, Douglas Gordon, Gillian Wearing tutti esponenti dei cosiddetti Young British Aritists , gli artisti francesi Dominique Gonzalez-Foerster, Pierre Huyghe, Philippe Parreno, Xavier Veilhan, gli statunitensi Christine Hill, Jason Rhoades, gli italiani Vanessa Beecroft e Maurizio Cattelan, il belga Carsten Höller, il giapponese Noritoshi Hirakawa e il tailandese (nato in Argentina) Rirkrit Tiravanija. Tutti gli artisti citati, per la maggior parte nati negli anni Sessanta, si ritrovano anche nelle pagine di Esthétique relationnelle e possono essere considerati le figure di riferimento di tale movimento. Questo modo di intendere l’arte e i suoi obiettivi non è però prerogativa esclusiva degli artisti invitati dal curatore francese: gran parte delle attività espositive di quegli anni è infatti riconducibile entro tale orizzonte programmatico. Solo per rimanere in Italia, si possono individuare molti artisti della stessa generazione di Cattelan e Beecroft che in quegli anni lavoravano in termini collaborativi o relazionali come, tra gli altri, Cesare Pietroiusti, il gruppo dei Piombinesi Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica, Tommaso Tozzi, Emilio Fantin o Premiata Ditta Vincenzo Chiarandà e Anna Stuart Tovini, presenti anche nel testo di Bourriaud. Partendo dalle teorie di Sergio Lombardo nel 1977 fu il punto di partenza culturale del Gruppo di Piombino quando Nardone e Pietroiusti erano legati al Centro Studi della Psicologia dell’Arte “Jartrakor”, volendo superare la fase stanca e di declino della ricerca pura, in quegli anni, ha inteso restituire centralità alla sperimentazione. Ha puntato a cogliere tra gli spettatori esperienze imprevedibili, quindi eventuali. L’evento è diventato, così, elemento primario nella realizzazione dell’intero processo artistico. L’opera, nella sua fisicità, ha perso qualsiasi valore, senza la sua complementare unità: il fruitore. Il Gruppo di Piombino, pur collocandosi in una posizione di continuità con le teorie del centro “Jartrakor”, è andato oltre. Mentre gli artisti eventuali operavano in un luogo deputato all’arte, ristretto e chiuso, quasi un laboratorio, i piombinesi trasferivano il loro lavoro all’aperto in un vero e proprio spazio pubblico. Mentre nel primo caso lo stimolo era già noto agli spettatori e perdeva pertanto la sua efficacia, nel secondo non doveva essere dichiarato a priori, ma doveva agire senza che il pubblico ne avesse la consapevolezza. Anche l’obiettivo dei piombinesi corrispondeva a quello dell’ Enventualismo che dice : “Che l’arte è un campione rappresentativo, o un modello rappresentativo dei più caratteristici valori di una cultura. L’arte varia al variare di questi valori. Lo scopo dell’arte è proprio quello di esprimere dei valori latenti che tentano di affermarsi caratterizzando una cultura storica. Quello che rende arte un oggetto è dunque il fatto che quell’oggetto è stato scelto a rappresentare certi valori, o sistemi di valori, che non erano mai stati rappresentati prima nella storia e che sono ritenuti una novità, o che comunque sono ritenuti caratterizzanti per una cultura nascente, che si vuole affermare nella storia dell’umanità e che vuole, attraverso la rappresentazione di quei valori nuovi, costruirsi un’identità storica originale. Ciò vale anche se questi valori nuovi che si vogliono affermare sono valori anacronistici. La cultura che si riconosce nei valori anacronistici, infatti, si vuole affermare nella storia come un’idealizzazione di valori del passato. E’ chiaro che questa idealizzazione non può ripetere il passato, ma rappresenta il punto di vista di una cultura attualmente emergente, che idealizza il passato e che perciò rifiuta la direzione verso la quale è orientato il progresso. Ciò che confuta con maggiore evidenza le teorie statiche dell’arte, quelle che ritengono sia l’arte ovvero incommensurabile ed eterna e senza progresso, ma orientata verso eterni e immutabili valori umani, perciò apprezzabile secondo il metodo del tutto o nulla, se è arte, allora è incommensurabile ed eterna, altrimenti non è arte è proprio il fatto che, per quanto si vogliano perseguire valori anacronistici, l’arte è sempre databile storicamente. L’incommensurabilità semmai è dovuta alla diversità e originalità degli scopi delle diverse culture storiche. Se gli scopi culturalmente condivisi sono raggiunti, gli oggetti che rappresentano storicamente questo raggiungimento sono arte, quelli che continuano a raggiungere gli stessi scopi già storicamente rappresentati, magari perfezionandoli tecnicamente, sono oggetti di artigianato. Gli oggetti di artigianato sono utili, ma non sono modelli rappresentativi dei nuovi valori che generano una nuova cultura storica. Cambiare era il centro d’azione e d’uso e ciò che contava, per loro, era sempre il processo innescato da uno stimolo proposto a spettatori inconsapevoli”. Stefano Fontana in ‘Oggetti Smarriti’ del 1987 racconta con la sua opera che: In una piccola cittadina della Toscana, caratterizzata da un notevole flusso turistico, l’artista ha disseminato “a random” circa 500 rettangolini di legno di diverso colore. Tutti i rettangolini recavano sulla faccia posteriore una piccola piastra magnetica. Nella piazza principale punto di passaggio obbligato dell’itinerario turistico era stata collocata in bella vista una lavagna metallica. Sui muri della cittadina erano inoltre stati affissi dei manifesti che raffiguravano alcuni rettangolini sormontati dalla scritta “Oggetti Smarriti”. Connettendo tra loro gli elementi descritti, i turisti hanno preso ad attaccare sulla lavagna i rettangolini che casualmente avevano trovato. Ogni ora circa, senza farsi notare, l’artista sostituiva la lavagna con una nuova. Dal momento che questa operazione ha avuto il corso di una intera giornata, ne sono risultate dieci configurazioni successive rese stabili dall’artista. I rettangolini, i manifesti e la lavagna fondano un sistema di possibilità virtuali praticamente infinite entro cui l’opera può essere realizzata. Allo stesso tempo questi elementi definiscono i termini di una situazione-problema che l’artista introduce, in maniera inapparente e non esplicita, nel clichè di una visita turistica. La realizzazione dell’opera scaturisce dal rovesciamento di un comportamento largamente codificato. Essa va infatti a compimento solo se, da una pratica di appropriazione ed eventuale restituzione dietro ricompensa, la situazione creata dall’artista riesce ad ottenere una condotta di restituzione gratuita. Nel dettaglio, è probabilmente il piacere estetico nel comporre delle forme multicolori sulla lavagna a consentire il superamento dell’interesse pratico di appropriazione. Ed è proprio questa emancipazione del comportamento indotto dal principio di utilità che regola la vita quotidiana che la realizzazione dell’opera assume a suo necessario presupposto a costituire il senso ultimo di questo lavoro di Stefano Fontana. Nel 1991 Stefano Fontana realizzò l’operazione Fatanon. L’idea era quella di simulare la campagna pubblicitaria di lancio di una inesistente linea di prodotti cosmetici, chiamata appunto Fatanon. L’artista mise a punto alcuni dispenser che mettevano a disposizione del pubblico i prodotti cosmetici e invitavano a provarli su delle teste e delle mani di gesso in essi inserite. Questi dispenser, affiancati da un manifesto che riproduceva la testa di manichino sottesa dalla scritta «Fatanon» in caratteri cubitali, furono istallati nei reparti di profumeria di alcuni supermercati. Dopo un certo periodo di tempo, Fontana ritirò i dispenser e li espose in una galleria con le tracce di smalti, rossetti, etc. che le prove del pubblico avevano lasciato sulle teste e le mani di gesso. L’elemento incongruo, inserito nel contesto di un’apparentemente normale campagna pubblicitaria, era senz’altro rappresentato dalle teste di gesso che sormontavano i dispenser e che richiamavano piuttosto la fisionomia dell’extraterrestre del film di Spielberg. Oltre a ciò. come forse già notato, il nome dell’inesistente marca di cosmetici celava l’anagramma del cognome dell’artista. Questa operazione catturava l’espressività involontaria presente nel modo in cui ognuno aveva provato i prodotti sulle teste, generando una scultura involontaria collettiva, secondo una dinamica paragonabile a quella del cadavre esquis surrealista. Le strategie di contrasto, messe a punto dal movimento subliminale diffuso nei confronti delle affissioni pubblicitarie, assumono spesso la forma dell’attacco diretto. Molte delle etichette adesive prodotte – la già citata ‘Non è vero, tutto il contrario è vero, inutile, vergogna’, etc. – possono tranquillamente essere giustapposte ai messaggi pubblicitari stigmatizzandone il contenuto. Una soluzione più radicale sembra tuttavia quella proposta dalla disordinazione Pubblicità legale. Nell’ opera ‘Pavimenti 1987’ : “La prima operazione di Salvatore Falci consisteva in una serie di lastre di vetro, uniformemente ricoperte da uno strato di tempera nera, che venivano sovrapposte ad alcuni tavoli all’interno di spazi pubblici (pub, sale d’aspetto, aule di scuola, ecc.). Le lastre raccoglievano i segni che la gente lasciava su di esse a graffito. Falci le esponeva quindi ribaltate, sottolineando così il proprio interesse per l’aspetto grafico, piuttosto che per quello semantico, delle produzioni registrate. L’evoluzione successiva del suo lavoro ha ulteriormente precisato questo orientamento. Egli ha infatti messo a punto delle superfici che gli consentono di raccogliere – cristallizzandoli nella fissità della scrittura- i segni che le nostre azioni consuetamente lasciano nel pavimento” scrive Domenico Nardone che prosegue “Tanto nel caso dei tavoli che in quello dei pavimenti che accentuano il carattere involontario del fenomeno preso in esame l’operazione di Falci porta alla luce, nel contesto delle azioni che maggiormente riteniamo svolgersi sempre uguali a se stesse, differenze, a volte macroscopiche, che possono essere ricondotte a specifici situazionali o ambientali”. Nota inoltre Nardone che l’aspetto che Falci sembra maggiormente condividere con i suoi allora compagni di strada, Stefano Fontana, Pino Modica e Cesare Pietroiusti, è quello del coinvolgimento del pubblico nel processo di produzione dell’opera. Pubblico come autore. “Le superfici di Falci rilevano le tracce di un fenomeno tra i più involontari e automatici immaginabili, quale quello rappresentato dalle azioni che normalmente si svolgono sul pavimento. Eppure le vistose differenze di grafia e di colorazione che emergono nel raffronto tra il pavimento di un ambiente e quello di un altro, stabilendo un nesso di relazione tra la tipologia delle azioni e le caratteristiche proprie dell’ambiente e delle situazione in cui hanno luogo, ne rivelano la non casualità” (Nardone). La rilevazione è diventata rivelazione. (Laura Cherubini). Mentre Domenico Nardone dice su l’opera di Pino Modica : L’artista come “detective universale”, come lo definisce Renato Barilli, il contesto dell’intervento come “luogo del crimine”: questo l’approdo cui giunge Pino Modica in questa ultima fase dell’esperienza piombinese. Lo dimostra l’opera presentata alla galleria Alice in occasione della mostra Storie le lastre di vetro del bancone di un bar, retroilluminate, evidenziano le sagome degli oggetti che vi sono stati poggiati. La metafora dell’indagine poliziesca è calzante, e supportata dalle parole dell’autore l’oggetto ha bisogno di un alibi per inserirsi nella realtà del quotidiano, per non essere riconosciuto come straniante; l’artista agisce come detective che circoscrive e analizza gli indizi; le sagome degli oggetti e le impronte prese sul ‘luogo del delitto’ sono appunto gli indizi, portatori di un’istanza di relazione, di un rapporto instaurato tra l’individuo, l’oggetto, lo spazio, frammenti di un’esperienza quotidiana, di un vivere il delitto, infine, è quello operato dall’oggetto rispetto alla percezione dell’ignaro avventore, tratto in inganno, autore preterintenzionale, complice suo malgrado dell’artista nella sua delittuosa soppressione trasformazione degli aspetti ripetitivi dell’esperienza quotidiana. La ricerca di Modica scandaglia l’interazione tra individuo e macchina come avviene in Labyrinth, Biliardino e Flipper e quella sulle Prove materiali. Infine Cesare Pietroiusti le sue opere : Sono riproduzioni ingigantite di piccoli comportamenti, azioni minuscole ed insignificanti di persone qualunque su oggetti qualunque. Quei lavori avevano alcune caratteristiche tipiche degli anni ottanta, perché grandi, costosi e curati nei particolari (e spesso apprezzati dai collezionisti…). La mia risposta alla ideologia “spontaneista” degli artisti neo-espressionisti era iniziata anche prima, a partire dal 1982 quell’anno pubblicai sulla “Rivista di Psicologia dell’Arte” un testo dal titolo Funzionalità ed estetica dello scarabocchio, dove era già esplicita una critica alla pittura anni ’80 e alla Transavanguardia. Forse si potrebbe dire che la mia era una reinterpretazione della critica che Sergio Lombardo aveva mosso, nei primi anni ’60, nei confronti dell’Action Painting. Bisogna, inoltre, sottolineare che, anche a livello storico, non si può considerare questa propensione degli artisti a concentrarsi su contesto e rapporti una novità degli anni Novanta, e anche Bourriaud, in Esthétique relationnelle, indaga il legame con alcune delle principali esperienze artistiche sviluppatesi nel corso del Novecento. L’attenzione al contesto e al ruolo dello spettatore, anche in funzione della ricerca di un significato che l’opera può assumere, trova in Marcel Duchamp la figura di riferimento. Si deve, infatti, soprattutto al lavoro dell’artista francese se l’ambiente, l’allestimento delle opere, l’attenzione degli spettatori, il gioco di relazioni che si possono creare attraverso l’accostamento di oggetti, frasi o immagini, le collaborazioni più o meno esplicite tra artisti sono diventati altrettanti motivi di interesse per le ricerche più avanzate dell’arte contemporanea. A ben guardare anche in gran parte delle sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta si possono individuare gli antecedenti diretti delle pratiche che Bourriaud ascrive all’arte relazionale. Gli happenings di Allan Kaprow o le performance dei componenti del gruppo Fluxus, così come le opere installative degli artisti del minimalismo americano e delle coeve sperimentazioni in Europa – il cui intento era sicuramente di dare spazio alla percezione dello spettatore –, sono da ritenersi ulteriori premesse dell’arte relazionale. Bourriaud però, oltre a individuare le radici di tale movimento, sottolinea anche i punti di divergenza tra l’arte relazionale e le precedenti ricerche. Gli artisti relazionali, infatti, sono affrancati dall’ossessione dell’analisi linguistica e metalinguistica, tipica delle avanguardie degli anni Sessanta, e dall’assoluta preminenza dell’aspetto visivo dei media, che erano elementi fondanti dell’arte degli anni Ottanta e appaiono evidenti nei lavori di artisti come Jenny Holzer, Cindy Sherman o Jeff Koons. Alla base del lavoro degli artisti riuniti da Bourriaud, inoltre, non c’è una comunanza di stile, ma piuttosto un orizzonte comune che si può individuare nella sfera dei rapporti umani, elemento che «sta all’arte di oggi come la produzione di massa stava alla pop art e all’arte minimal». Tale orizzonte, sempre seguendo il suo ragionamento, favorisce scambi orizzontali tra artista e fruitore e tende a far coincidere il piano etico con quello estetico. In altre parole, presentare un momento conviviale, come fa Tiravanija quando condivide le sue zuppe con gli spettatori, rientra nella sfera estetica a patto, però, che la nostra attenzione si sposti dall’oggetto artistico tradizionalmente inteso al meccanismo di socialità e di scambio proposto dall’artista. L’arte relazionale, dunque, nell’analisi che ne fa Bourriaud, si è svincolata sia dagli aspetti esclusivamente per-formativi o di assoluta egemonia del momento progettuale a scapito dell’oggetto, tipica degli anni Sessanta, sia dall’esaltazione delle immagini caratteristica degli anni Ottanta, a favore di momenti di partecipazione sociale (anche suscitati da oggetti che diventano catalizzatori di tali processi), di dialogo con discipline esterne al mondo dell’arte, di attenzione ai processi temporali di trasformazione. Tutti elementi che il critico francese considera capaci di provocare ricadute in termini politici: «L’arte contemporanea sviluppa apertamente un progetto politico quando si sforza di investire la sfera relazionare problematizzandola. Il merito del lavoro di Bourriaud consiste sicuramente nell’aver analizzato e cercato di sistematizzare teoricamente in modo, almeno parzialmente, organico una serie di pratiche artistiche molto diffuse e apprezzate, anche a livello museale, negli ultimi anni del 20° sec. e nel decennio di apertura del 21°. E la fortuna del termine nasce anche dal ruolo ricoperto dal critico francese come curatore di mostre e da quella prossimità con gli artisti che gli ha permesso di non scindere mai l’attività critica da quella curatoriale. Negli anni Novanta Bourriaud ha, infatti, ideato e realizzato numerose mostre tra le più significative e rappresentative del decennio che lo hanno portato anche ad assumere la carica di direttore (assieme a Jérôme Sans) del nuovo centro d’arte contemporanea al Palais de Tokyo di Parigi, sito dedicato alla creazione contemporanea (questo era il titolo voluto dalla direzione) che, soprattutto nei suoi primissimi anni di attività, ha rivestito un ruolo di primo piano nel dibattito artistico internazionale per le innovative modalità espositive che ne facevano un luogo espressamente dedicato all’incontro e alla possibilità di creare relazioni. Il concetto di arte relazionale, e più in generale il lavoro di Bourriaud, possono essere considerati anche esempio di uno sforzo per tenere uniti il campo della critica e della teoria estetica con quello più propriamente curatoriale, aspetto che, a partire dagli anni Ottanta, è diventato prioritario nelle mostre di tutto il mondo. La figura del curatore, proprio in questi anni, infatti, ha assunto una centralità sempre maggiore tanto che spesso, soprattutto nel caso di esposizione temporanee collettive, è diventata importante quanto quella dell’artista. Paradossalmente la primazia di tale ruolo rende meno significativi gli aspetti critici e teorici in favore di una spettacolarizzazione della mostra stessa, delle ‘novità’ introdotte dalla proposta curatoriale e dalla rete di rapporti intessuta con musei e gallerie private. Vista in relazione con le scelte coeve, la proposta di Bourriaud è risultata sicuramente molto più approfondita, ragionata e criticamente convincente rispetto alla maggior parte dei progetti portati a termine dai suoi colleghi attivi sul fronte curatoriale che, pur proponendo molti degli artisti ascrivibili all’arte relazionale, non sono stati sempre in grado di fornire una lettura complessiva del fenomeno. L’arte relazionale è stata anche soggetta ad aspre critiche, spesso ampiamente motivate, che hanno aperto un lungo dibattito non ancora conclusosi. Sulle pagine della rivista «Third text» (2004) è stato infatti imputato a Bourriaud di aver condotto una lettura superficiale delle ricadute politiche di un movimento che in realtà non fa altro che perpetuare le nuove strategie dell’economia globale. Altrettanto dura è stata la critica mossagli da Claire Bishop (2004) sulle pagine della rivista «October» che non sembra riconoscere una specificità e una profondità all’arte relazionale così come viene proposta da Bourriaud, tanto da affermare che, dal punto di vista teorico, le tesi del curatore francese non differiscono in modo sostanziale da quelle esposte da Umberto Eco nel 1962 in Opera aperta. Inoltre, secondo la studiosa, le pratiche artistiche relazionali non si distanziano da un solco già tracciato in passato (Fluxus e Joseph Beuys) e allo stesso tempo non hanno la coscienza politica di altre coeve operazioni artistiche realmente improntate alla creazione delle premesse necessarie per concrete trasformazioni sociali (la Bishop porta come esempi Santiago Sierra e Thomas Hirschhorn). Bourriaud ha in seguito proseguito nella sua ricerca teorica approfondendo l’analisi delle pratiche artistiche recenti sotto altre prospettive, usando, il concetto di Postproduction (2002; v. postproduzione), e la struttura di Radicant (2009), da lui considerati paradigmi in grado di favorire una lettura complessiva della produzione artistica recente. Nel 2002 il critico francese ha curato una mostra al San Francisco Art Institute dal titolo Touch. Relational art from the 1990s to now, sempre incentrata sulle pratiche relazionali in cui ha presentato i lavori di Bulloch, Gillick, Felix Gonzalez-Torres, Jens Haaning, Parreno, Wearing e Andrea Zittel. Anche la mostra theanyspacewhatever, curata da Nancy Spector al Solomon R. Guggenheim Museum di New York tra il 2008 e il 2009, si può considerare un’ulteriore ratifica dell’importanza dell’estetica relazionale. L’esposizione ha visto, infatti, la partecipazione dei dieci artisti più famosi tra quelli promossi da Bourriaud (di cui è presente un testo in catalogo) attraverso libri ed esposizioni: Bulloch, Cattelan, Gillick, Gonzalez-Foerster, Gordon, Höller, Huyghe, Jorge Pardo, Parreno e Tiravanija. Nel suo primo scritto Bourriaud analizza quali siano i caratteri fondamentali che emergono dall’osservazione delle pratiche artistiche negli anni Novanta. Nel testo, attraverso esempi concreti, getta le basi dal punto di vista teorico, pratico ed estetico che hanno portato l’arte relazionale a diventare una delle correnti artistiche più significative dell’ultimo ventennio. Si può dire che ciò che Bourriaud definisce nei suoi libri sono allo stesso tempo una visione personale dell’arte, una teoria della “nuova forma” e una revisione teorica ed estetica nata dall’esperienza personale concreta nel ruolo di curatore e critico. Le origini di questo pensiero, nel senso di spinta ragionata che ha portato il critico a fare determinate affermazioni, sono cercare di definire un nuovo tipo di arte che si può riconoscere come ci ricorda nel suo testo Palais de Tokyo, l’autore Paola Nicolin nella precedente e tutt’oggi attiva militanza di Bourriaud in un gruppo di eclettici giovani intellettuali francesi, che dall’inizio degli anni Ottanta si erano riuniti sotto il nome di Societè Perpendiculaire, di dichiarata ispirazione dada. La società è nata come acerba sperimentazione di un gruppo di liceali interessati alla New Wave e a Tristan Tzara ed è cresciuta come collettivo di ricerca e produzione di eterogenee ricerche artistiche. La Societè Perpendiculaire attraverso riviste, manifesti, saggi e poesie, articoli e libri, è cresciuta come “vita estetica” e come alchemica possibilità di una contemporanea disseminazione culturale in senso ampio. Lo spirito perpendicolare non era dunque ”un corpus dogmatico, una griglia critica, tesa alla raccolta della totalità di un patrimonio da rileggere in un’altra prospettiva.” L’idea era quella di disarticolare la realtà e decostruire il linguaggio. E’ divenuto poi una modalità della critica perpendicolare afferrare un’opera o un artista e dissolverlo sotto un nuovo sguardo. In un’intervista fatta a Nicolas Bourriaud nel 2001, Bennett Simpson chiese esplicitamente a Bourriuad da dove parta l’analisi fatta in Estetica Relazionale, se sia una strategia critica nei confronti degli artisti che sempre ha curato oppure se sia una sua riflessione personale teorica. Egli rispose: Le mie idee riguardo l’estetica relazionale partono dall’osservazione di un gruppo di artisti: Rirkrit Tiravanija, Maurizio Cattelan, Philippe Parreno, Pierre Huyghe, Vanessa Beecroft e molti altri. L’estetica Relazionale è un metodo critico, un modo di approcciarsi all’arte degli anni ’90, cosi come una sensibilità che questi artisti hanno condiviso. Una delle più importanti idee per me è quella che io chiamo “criterio di coesistenza”. Prendiamo ad esempio l’antica arte giapponese e cinese, che lascia sempre spazio allo spettatore di completare la scena. Questi dipinti sono delle ellissi. Mi piace l’arte che permette al suo pubblico di esistere nello spazio in cui essa stessa esiste. Per me, l’arte è lo spazio delle immagini, degli oggetti, e degli esseri umani. L’estetica relazionale è un modo di considerare l’esistenza produttiva dello spettatore dell’arte, lo spazio di partecipazione che l’arte propone. In Estetica Relazionale, Bourriaud fa riferimento soprattutto a occasioni in cui ha avuto modo di aver contatti personali con artisti, occasioni espositive, opere concrete che l’hanno fatto ragionare su questo nuovo modo di pensare e di praticare l’arte. Partendo da appunti e articoli che ha scritto tra il 1993 e il 1998 riguardanti pensieri e annotazioni sul suo lavoro e su quello che lo circonda, è arrivato poi a scrivere questo saggio che analizza nello specifico le pratiche artistiche che hanno come inizio e fine ultimo l’intersoggettività, la relazionalità e il coinvolgimento del pubblico che non è più spettatore ma esso stesso artefice in qualche modo dell’opera. Bourriaud parla della stessa estetica relazionale che Tenta di decodificare e capire le tipologie di relazioni prodotte nello spettatore dalla visione dell’opera. Il minimalismo ha affrontato la questione della partecipazione dello spettatore in termini fenomenologici. L’arte degli anni ’90 invece indirizza la questione in termini di utilizzo. L’intuizione avuta dal critico è stata messa in scena nella mostra intitolata Il faut construire l’hacienda, evento collaterale ad Aperto ’93 durante la Biennale di Venezia e nella mostra Traffic a Bourdeux nel 1996. Estetica Relazionale è nata da una necessità del critico di formalizzare e conferire dignità teorica alle pratiche artistiche in cui è immerso. Nell’introduzione Bourriaud ha descritto il motivo delle sue riflessioni e ha dato una motivazione specifica alla scrittura che chiarisce le sue idee in merito all’arte degli anni ’90. Secondo l’autore è il momento giusto per cercare di oltrepassare il discorso teorico presente nei dibattiti sull’arte di quel periodo. Bisogna superare i malintesi nella comprensione di quelle opere e bisogna assolutamente abbandonare i metodi tradizionali d’interpretazione in quanto inadatti alla comprensione dell’arte contemporanea. L’interpretazione precedente aveva definito criteri precisi come i tempi di osservazione, la distanza dall’opera, l’oggettività critica, lo studio dell’opera sotto canoni classici come tecnica, storia, struttura. Le opere erano diverse da quelle presenti oggi: l’arte era considerata immutabile e oggetto di osservazione e contemplazione ma non d’interazione. Oggi non si può considerare l’arte come uno spazio da percorrere ma quasi come un periodo da sperimentare e vivere. Non si possono utilizzare i giudizi estetici che sono stati ereditati dalla critica tradizionale e ci si pone il problema di come affrontare le opere in questione che sono considerate da Bourriaud sfuggenti in relazione alla loro conformità legata al comportamento e alla processualità. Soluzione individuata è quella di partire dall’analisi delle opere e della loro forma. In una visione critica si devono individuare le domande che gli artisti si pongono nella creazione di un’opera e tramite queste capire le risposte che ogni artista fornisce. Il bisogno di rintracciare le nuove strutture di pensiero artistico è nato soprattutto dal cambiamento di alcune condizioni sociali e dal cambiamento del modo di vivere nel mondo moderno. La globalizzazione e i rapporti sociali sono variati e così anche la società che è caratterizzata da una riduzione degli spazi sociali in cui ci si può incontrare e si può comunicare. Ciò che è ridotto è lo spazio di relazione tra individui. Proprio per questo motivo, secondo il critico bisogna rilevare quali siano le nuove domande che si pone la società e che si pone l’arte. Un’arte centrata sulla produzione di tali modalità di convivialità come può rilanciare, completandolo, il progetto moderno di emancipazione? In cosa permette lo sviluppo di mire culturali e nuove politiche? In molte occasioni nel saggio ci si interroga sul valore che hanno le relazioni interpersonali in un contesto che ha tolto la spontaneità negli incontri e nelle azioni sia individuali e collettive, in un contesto in cui le relazioni non sono totalmente vissute personalmente ma sono ridotte per la limitazione degli spazi liberi in cui avviene il confronto diretto. Il legame sociale è quasi diventato un prodotto industriale. L’autore si chiede se l’arte e gli artisti possano influire e aiutare a modificare il pensiero e le modalità del confronto. La problematica più attuale dell’arte di oggi: è possibile generare ancora rapporti con il mondo in un campo pratico tradizionalmente destinato alla loro rappresentazione? Contrariamente a quel che pensava Debord, il quale non vedeva nel mondo dell’arte che un serbatoio di esempi di ciò che si doveva realizzare concretamente nella vita quotidiana, la pratica artistica sembra oggi un ricco terreno di sperimentazioni sociali, una riserva in parte preservata dall’uniformità dei modelli di comportamento. Le opere discusse in questo libro danno un resoconto di altrettante utopie disponibili. Si tratta di un’analisi che presenta l’arte come spazio di sperimentazione, di creazione di relazioni sociali e di modelli e di rapporti, non più un’arte legata alla rappresentazione oggettiva della realtà. Bourriaud ha analizzato il concetto di avanguardia e la possibilità che si possa modificare la cultura e la mentalità attuali restando ancorati a modelli passati. L’autore lo contestualizza in un momento artistico immerso totalmente nell’ideologia del razionalismo moderno. Nel periodo delle avanguardie in qualche modo l’arte preannunciava e preparava le persone al futuro mentre ora con l’arte relazionale si elaborano concretamente modelli di relazione possibili e attuabili nel presente. Il critico ha sottolineato che l’arte del periodo ripropone modelli percettivi e sperimentali legati a filosofi e artisti del passato ma che gli stessi vengono utilizzati non più come fenomeni che prevedono un’evoluzione storica ineluttabile. Al contrario questi modelli si ritrovano come frammentari e isolati e soprattutto non più appesantiti da un’ideologia regolata da rigide norme. L’arte ora può agire senza funzioni prefissate e statiche e può cercare di creare varianti e mondi differenti. L’arte tenta di contrapporre azioni sperimentali di partecipazione collettiva a meccanismi sociali standardizzati, alla costante ricerca di emanciparsi totalmente dalla prevedibilità e dai controlli dati dalle configurazioni tradizionali. Questo è il concetto cardine del pensiero che sta alla base di Estetica relazionale: l’opera che vuole modificare il modello di partecipazione collettiva e che diventa interstizio sociale, modificando il modo di fruizione stesso. È importante riconsiderare il ruolo delle opere nel sistema globale dell’economia, simbolica o materiale, che regge la società contemporanea: per noi, al di là del suo carattere commerciale o del suo valore semantico, l’opera d’arte rappresenta un interstizio sociale. Il termine interstizio fu utilizzato da Karl Marx per qualificare quelle comunità di scambio che sfuggono al quadro dell’economia capitalista, poichè sottrae alla legge del profitto: baratti, vendite in perdita, produzioni. L’interstizio è uno spazio di relazioni umane che, pur inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetto a quelle in vigore nel sistema stesso. Bourriaud non ha parlato di una modificazione a lungo termine, di non pensare al futuro come spazio temporalmente ampio ma di considerare il periodo temporale di un giorno o al massimo di una mostra. Si tratta di micro-utopie che vanno a sostituirsi all’utopia in senso ampio. Le utopie sociali e la speranza rivoluzionaria hanno lasciato il posto a micro-utopie quotidiane e a strategie mimetiche: ogni posizione critica diretta della società è vana, se si basa sull’illusione di una marginalità oggi possibile, quando non regressiva. L’obiettivo centrale di questa nuova sensibilità artistica è quindi la presentazione di modelli di partecipazione sociale più o meno concreti all’interno dello scenario socio culturale contemporaneo. L’arte relazionale produce attraverso questi modelli una serie di strette connessioni con il presente. Non si limita a fare un’analisi critica della società ma fa delle proposte attraverso strumenti con cui intervenire nella quotidianità. L’attività artistica si sforza di stabilire modeste connessioni, di aprire qualche passaggio ostruito, di mettere in contatto livelli di realtà tenuti separati gli uni dagli altri. L’artista crea opere e momenti di relazione, di socialità e cerca di riempire con il suo lavoro i vuoti presenti nel tessuto relazionale. La pratica artistica di questi professionisti indaga i processi intersoggettivi di scambio sociale e di comunicazione e le loro opere diventano punti di riferimento nei rapporti interpersonali. La forma artistica contemporanea si estende oltre la propria materialità e diventa elemento legante. L’arte non presenta e rappresenta la realtà, ma la produce creando qualcosa di nuovo rispetto al passato. Questa nuova corrente è diventata interprete di un desiderio condiviso, una sorta di riappropriazione della dimensione collettiva in risposta alla crescente disgregazione della socialità contemporanea prima descritta. La sfera artistica risponde a questo disagio attivando una maggiore attenzione verso le relazioni interpersonali, analizzandone i meccanismi per riproporre forme nuove di socialità anche concretamente realizzabili. L’elemento sociale e l’interesse per modelli di condivisione hanno fatto coincidere l’intervento artistico con altri interventi facendo sì che ci sia anche una progressiva evoluzione del ruolo dell’artista che si avvicina alla progettualità in modo differente. Quest’orientamento evolutivo mira al raggiungimento di una comunicazione diretta e biunivoca tra artista e spettatore escludendo la mediazione altrui. In Estetica Relazionale di Bourriaud ci si chiede quale sia la forma dell’opera relazionale. Il critico risponde all’interrogativo richiamando il “materialismo dell’incontro”, secondo il quale tutto è dato dal principio di casualità e di istantaneità del presente e dell’attimo contrapposto a teorie escatologiche che risultano vane. Questa visione filosofica è derivata dalle teorie di Lois Althusser che parla appunto di questo concetto. Il materialismo dell’incontro ha come punto di origine la contingenza del mondo, che è considerata priva di un senso che la preceda e senza una ragione che determini la sua fine. Secondo questa logica anche l’umanità e l’incontro sono privi di un’origine e una fine, ma si esprimono tramite la forma sociale che è incontro casuale tra individui. Bourriaud precisa che l’estetica relazionale non è una teoria artistica ma piuttosto una teoria della forma, dedica molto alla riflessione sulle forme strutturali e tecniche con cui gli artisti si esprimono. C’è una nuova concezione del termine “forma”, l’opera artistica in questo momento particolare si dà al pubblico più come “fatto” che come “cosa”, fatto che si realizza nel tempo e nello spazio senza una forma precisa ed elaborata: da un oggetto esposto si passa ad una situazione che ingloba lo spazio e si concede in esso. L’arte fa tenere insieme momenti di soggettività legati a esperienze singolari. Nel testo Estetica Relazionale la forma è data dall’incontro tra elementi che sono sempre stati paralleli tra di loro. Il richiamo è quello dell’artista e del suo pubblico. Essi sono elementi diametralmente opposti e dotati ognuno di una propria individualità e personalità che si mescolano e sono in grado di rapportarsi se si trovano a condividere uno stesso spazio. Il critico porta ad esempio delle sue tesi testimonianze di opere che sono predisposte a questa forma relazionale, che si propongono principalmente di formare quest’incontro in ambiti museali e istituzionali. Musei, gallerie e fondazioni diventano, come le definisce Bourriaud, micro-comunità e i momenti di relazione avvengono quindi in un ambiente museale e artistico. L’opera nasce da questo incontro in cui lo spazio è mediatore. L’intersoggettività non rappresenta solo il quadro sociale della ricezione dell’arte che costituisce il suo ambiente e il suo campo, ma diventa l’essenza della pratica artistica. È centrale quindi nella creazione di queste opere che lavorano su di essa e tramite essa. È nostra convinzione che la forma non prenda consistenza, non acquisisca una vera esistenza, se non quando mette in gioco delle interazioni umane. La forma di un’opera d’arte nasce dalla negoziazione con l’intelligibile che abbiamo ereditato. Attraverso essa, l’artista avvia il dialogo. L’essenza della pratica risiede così nell’invenzione di relazioni fra soggetti; ogni opera d’arte sarebbe la proposta di abitare un mondo in comune, e il lavoro di ciascun artista una trama di rapporti col mondo che genererebbe altri rapporti, e così via, all’infinito. La forma così intesa dal critico francese non è un dato permanente e duraturo, tuttavia questa sua caratteristica non ha accezione negativa, ma al contrario ha valore positivo per il rapporto dinamico che può instaurarsi tra gli elementi. La mostra diventa la nuova unità di base dell’arte. In precedenza la mostra era considerata in un’ottica promozionale in cui l’artista esponeva le proprie opere che potevano esser viste da un pubblico. L’unità di base era l’opera, era l’oggetto artistico in quanto cosa oggettiva preziosa e speciale che aveva bisogno di un luogo preposto e di una progettazione circostanziata. L’esposizione era pensata per l’opera e solo per lei ma avviene un cambiamento sostanziale. L’opera e la mostra a livello espositivo ci danno la sensazione che si fondano l’una con l’altra e nessuna delle due ha preponderanza perché entrambe sono “in tempo reale”. Bourriuad ha descritto un esempio di questa fusione durante una mostra curata da lui stesso Ogni artista che esponeva poteva, nel periodo dell’esposizione, modificare il suo operato artistico e addirittura poteva decidere di sostituire l’opera con qualcos’altro. L’interazione dello spettatore in questa situazione è stata fondamentale e determinante per la costruzione della struttura espositiva che è diventata duttile e modificabile nel tempo. Il centro d’interesse degli artisti relazionali è quindi traslato rispetto alle correnti precedenti: dall’artista stesso, al pubblico, alla voglia di partecipare, di comunicare e condividere. L’arte assume allo stesso tempo una sorta di funzione sociale agendo tramite il pubblico. Un’arte di questo genere è considerata per molti aspetti “pubblica” perché comunica senza interferenze con gli stessi fruitori e da essi può ricevere allo stesso tempo una risposta attiva e reattiva. Tuttavia Bourriaud rifiuta l’apparentamento con la cosiddetta Public Art. Lo spazio in questo tipo di commento cambia funzione e diventa luogo all’interno del quale si contestualizza l’interazione e l’intervento artistico. Tutto questo non è del tutto nuovo nella realtà artistica del Novecento e non basta per spiegare la novità della relazionalità in queste pratiche. Il critico nel saggio Estetica Relazionale ne è consapevole spiegando che ogni opera d’arte è l’incontro e la negoziazione tra spettatore ed opera e, per sottolineare che si tratta di un processo dinamico, specifica che quella che avviene è un’evoluzione. Dopo l’ambito delle relazioni fra l’umanità e la divinità, poi fra l’umanità e l’oggetto, la pratica artistica si concentra ormai sulla sfera delle relazioni interpersonali dall’inizio degli anni Novanta. L’artista si concentra sui rapporti che il suo lavoro creerà nel pubblico, o sull’invenzione di modelli di partecipazione sociale. In Estetica Relazionale vengono citati molti artisti che Bourriaud inserisce come appartenenti a questa nuova estetica. Un capitolo viene dedicato soprattutto a quello che ritiene che formalizzi in senso compiuto le teorie ufficiali dell’estetica relazionale: Felix Gonzales Torres. Nelle sue opere si ritrovano degli aspetti teorizzati da Bourriaud, come la convivialità e la disponibilità dell’opera nel confronto con lo spettatore. Anche se le opere sono caratterizzate per la maggior parte della sua carriera da un significato simbolico preciso, la precarietà e la ridotta durata temporale di esse fanno si che rientrino nell’analisi. L’opera è considerata dall’artista stesso come un “dono”, egli stesso voleva offrirsi in piccoli frammenti al suo pubblico, per esempio grazie alle caramelle negli angoli delle gallerie con le quali vuole esprimere il grave momento personale che sta vivendo. Ha anticipato il lavoro di artisti che vengono dopo di lui, in particolare sviluppando la consapevolezza dello spazio come ambiente legato all’intersoggettività a all’abbandono di se stessi nel rapporto con gli altri. Ha anticipato in particolare una specie di negazione verso la forma completamente statica. L’istanza anti-formale è sfociata in un processo e in un’opera che viene “creata” e modificata dall’interazione con lo spettatore. Nella parte conclusiva del testo il critico si è soffermato più volte sulla riflessione di Felix Guattari. La nozione di soggettività descritta dalla sua filosofia voleva essere una risposta alle patologie derivate dal capitalismo che secondo Guattari, con tutto quello che deriva dall’accumulazione e dal consumo di prodotti, ha generato una specie di vuoto nella soggettività delle persone. Proprio per questo vanno considerate delle tecniche per recuperare questa soggettività. In questi pensieri si inserisce la teoria di Bourriaud, che vede nell’arte un aiuto prezioso per il recupero e per l’esercizio della soggettività. L’arte nella contemporaneità diventa uno spazio d’ibridazione in cui vari metodi, concetti e idee si mescolano e si integrano per definire spazi relazionali nuovi. L’ibridazione diventa una delle caratteristiche predominanti nelle opere legate all’estetica relazionale. Come potremmo descrivere le opere degli artisti relazionali? Happening? Performance? Installazioni? Negli anni Novanta le opere sono diventate altamente refrattarie a definizioni univoche. Esse danno allo spettatore notevoli spunti per una riflessione, presentandosi come modelli di partecipazione attiva più o meno concreta che fanno pensare. Innanzitutto bisogna accettare che le pratiche performative in cui la partecipazione dello spettatore è più o meno presente sono diventate una costante della pratica artistica moderna. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti esse derivano da soluzioni anteriori agli anni ‘90 e vengono qui riprese dagli artisti contemporanei. Il fattore interattivo è sempre presente ed è una costante più che marcata nella contemporaneità. D’altro canto anche una veloce riflessione sulla società odierna ci fa capire che si vanno a formare ogni giorno nuovi spazi in cui comunicare e in cui formare collettività e in cui relazionarsi. Grazie a nuove tecniche e al sempre più presente internet nelle case, si capisce quanto stia diventando sempre più importante la ricerca di nuovi spazi di convivialità e di relazione. Le persone cercano il dialogo, cercano la relazione dietro i loro schermi, attraverso sempre più numerosi canali di comunicazione. Spazi però che non sono i luoghi pubblici e relazioni che non sono dirette e personali, ma sono tramite medium comunicativi che standardizzano qualsiasi contributo. Artisti come quelli analizzati non fanno altro che dar la possibilità attraverso le loro creazioni di allargare questo desiderio relazionale creando spazi aperti e opere non chiuse che presuppongono la negoziazione tra interlocutori e destinatari in un dialogo continuo e allargato. Si fa un passo in avanti, perché se l’interazione tra spettatore e opera c’è sempre stata e l’interazione è intrinseca nel processo artistico, in questo momento le relazioni tra individui e i modi di relazionarsi diventano in tutta la loro complessità vera e autentica forma artistica che merita di essere analizzata e studiata in quanto tale. Per completare questa rapida premessa alle forme artistiche dell’estetica relazionale, ricordiamo che esse si presentano allo spettatore in modi completamente differenti le une dalle altre, e che esse presentano pochi punti in comune tra di loro dal punto di vista rappresentativo, ma si possono riunire sotto la stessa volontà d’interazione e comunicazione. Nicolas Bourriaud cerca di classificare le forme che studia in categorie specifiche nelle quali si possono ritrovare le diverse pratiche artistiche. Quelle che in Estetica Relazionale sono le tipologie vengono denominate in cinque sottogruppi: connessioni e ritrovi, convivialità e incontri, collaborazioni e contratti, relazioni professionali e clientele ed infine occupazione delle gallerie. Siamo abituati a pensare all’opera d’arte che si dà al pubblico nella sua materialità e in tutta la sua disponibilità di spazio temporale, siamo abituati a pensare a queste opere come oggetti “fissi” che non mutano nel loro aspetto nel tempo e nel luogo in cui sono posizionate ed esposte. L’opera per questa caratteristica si può dare allo spettatore in qualunque momento. Questo cambia nella contemporaneità, l’opera diventa non disponibile in ogni istante ma si può vedere solo in un determinato periodo e tempo. Bourriaud parla di “non-disponibilità” e l’esempio perfetto è il caso della performance di cui rimane solamente una mera documentazione al termine della stessa. Le opere che sono inserite in questo sottoinsieme sono chiaramente caratterizzate da un contatto che si instaura tra artista e spettatore, in un tempo preciso e reale e solo tra chi convoca l’artista nella partecipazione. L’opera suscita incontri e fissa appuntamenti, gestendo la propria temporalità. Performance che molte volte non sono gestite nella loro forma classica ma in modo diverso. Per esempio come nel momento in cui i fruitori sono stati obbligati a spostarsi per assistere ad una data esperienza descritta dall’artista che li invitava alla partecipazione, come nel caso delle opere di Robert Barry, che ha come fonte e oggetto principale delle sue opere le parole oppure nel caso di un’opera che sopravviveva nel tempo nella forma di biglietti o lettere inviati nel futuro a determinati destinatari con scritta data e orario di un dato ritrovo. Nel mio lavoro il linguaggio di per se stesso non è l’arte. Uso il linguaggio come un segno per indicare che c’è arte, la direzione nella quale questa esiste, per preparare a essa. Tutto questo va a dimostrare la funzione relazionale dell’opera nella quale sono presenti più persone contemporaneamente. Innanzitutto è da sottolineare che l’arte ha una funzione ben particolare nella produzione collettiva della società, dato che il suo scopo ultimo è fatto dello stesso materiale del quale è intriso lo scambio sociale. Quando un’opera d’arte riesce ad arrivare alla sua realizzazione completa, essa mira al superamento della sua semplice presenza nello spazio. L’opera deve creare dialogo e discussione, in una sorta di negoziazione tra individui, che va a comporre il significato. Ogni creazione mostra allo spettatore nello stesso tempo la produzione e la fabbricazione fisica della stessa e contemporaneamente la sua funzione all’interno di determinati scambi tra opera e spettatore con relativi ruoli. Quest’ultimo passaggio è molto rilevante, perché in realtà ciò che è sempre stato considerato opera è il risultato di un percorso che deriva dal comportamento dell’artista: è la somma quindi di una serie di passaggi che derivano da atti e pensieri della persona che fanno sì che l’opera acquisisca una certa presenza e rilevanza nella contemporaneità. Bourriaud definisce “trasparenza” questa disposizione dell’opera che esprime pienamente questo comportamento, che permette di capire semplicemente i gesti e gli effetti che la formano e la riempiono di significato, e che quindi sono parte integrante del soggetto. La trasparenza della produzione, è un ordinamento che crea scambio, anche in ambito sociale. Ed è proprio in questo preciso momento che avviene lo scambio, la relazione, e quindi è in questo caso che si esprime a tutto tondo la vera funzione dell’opera, la sua flessibilità e la sua disponibilità di apertura al prossimo. In effetti è proprio quando si apre allo scambio e alla comunicazione che assume reale significato nella società. Si crea quasi un commercio, una negoziazione che ha come argomento comune un valore che può esser condiviso o meno, come fosse una merce qualsiasi e che invece non è. Una merce che però, nello scambio tra artista e spettatore, non presenta una regolazione tramite moneta, e quindi tramite una cosa comune tra gli interlocutori, ma tramite valore. Quello che determina questo rapporto è un comportamento che accomuna la pratica artistica personale, quindi in conclusione vengono prodotte relazioni tra persone tramite oggetti estetici diversi. Infatti ogni artista, in particolare ogni artista che lavora in campo relazionale, lavora seguendo un determinato modo di fare e comportarsi, oltre che ad una determinata estetica che è quella relazionale e assemblando un sistema di forme predefinito, e un percorso e una problematica stilistica che non è mai uguale a quella di un altro artista. I diversi autori non condividono nessuna tematica o iconografia ma operano in seno a uno stesso orizzonte teorico che è la sfera dei rapporti tra le persone. Le opere mettono in moto scambi sociali, diventano in qualche modo interattive e si relazionano con lo spettatore all’interno di esperienze estetiche che vengono proposte e create. Il soggetto delle opere gira attorno a questa ricerca di relazione, e tutti i protagonisti sono accomunati dalla sfera relazionale lasciando in secondo piano nella maggior parte dei casi la visività. Negli anni Novanta l’osservatore diventa interlocutore diretto, e questo la differenzia da tutte le pratiche artistiche che l’hanno preceduta. Per la prima volta dopo l’arte concettuale degli anni Sessanta questi artisti non reinterpretano un movimento del passato, ma tentano qualcosa di differente. Non viene ripreso nessuno stile, ma l’opera ha principio dall’osservazione del presente e da un’analisi del destino dell’arte nel futuro. La novità sta nel fatto che questa corrente artistica considera la relazione sociale come punto d’inizio e di termine dell’esperienza artistica. Lo spazio è quello dell’interazione tra individui, che è uno spazio aperto in cui si formano esperienze interpersonali che cercano di oltrepassare le restrizioni della quotidianità. L’arte relazionale cerca di elaborare modelli di partecipazione alternativi e costruiti. L’arte non cerca più di figurare utopie, ma di costruire spazi concreti. Le opere sono quindi il risultato della personalità dell’artista che si mette da parte e che utilizza spazio e tempo a suo piacere e innanzitutto parte dal rapporto umano e dagli incontri tra individui. In concreto le opere non sono oggetti comuni commercializzabili, ma in realtà ciò che è considerato l’oggetto del lavoro è un rapporto personale con il mondo, che si concretizza in un’opera che determina le relazioni che si hanno verso questo rapporto. A partire dai saggi di Nicolas Bourriaud si è gradualmente affermata questa corrente estetica che dagli anni Novanta ha fortemente contrassegnato la pratica artistica contemporanea. Una breve analisi di quelle che sono state le maggiori esposizioni che testimoniano l’evoluzione di questa corrente è importante per capirne il significato e il senso della pratica. Il passaggio fondamentale per la reale legittimazione di queste pratiche è stata la mostra curata dallo stesso Bourriaud, Traffic del 1996, tenutasi presso il CAPAC di Bourdeaux. Questa tendenza artistica poi ha sconfinato in mostre dal carattere internazionale come per esempio la XXVII edizione della Biennale di San Paolo. È considerata però vera e propria approvazione di questa corrente relazionale la retrospettiva Theanyspacewhatever, curata da Nancy Spector la quale riunisce la maggior parte degli artisti che Bourriaud segue presso il Guggenheim di New York nel 2009. Gran parte delle opere in mostra, alcune delle quali di rara visione, proviene da collezioni private di grande rilevanza. Un omaggio al grande Giulio Paolini, che sarà presente con una sala personale, conferma la rilevanza di una esposizione che presenta il Gotha dell’arte internazionale. Importante anche la presenza in mostra dei protagonisti della scena dell’arte cinese contemporanea, che ha visto l’apparire di nuove personalità e una visione creativa meno occidentalizzata e più consapevole dei propri mezzi e delle proprie componenti, sia storiche che sociali. Alla generazione che ha fatto della contestazione politica il suo cavallo di battaglia, spesso sfruttandola a fini anche commerciali, di cui l’esempio più alto e celebrato e il noto Ai Weiwei, si è pian piano affermato un gruppo di artisti più consapevole e che, abbandonando l’arte come messaggio politico, tout-court, ha elaborato linguaggi che non guardano all’Occidente ma ricercano, tra le pieghe di una millenaria tradizione, una via che possa condurli verso il futuro.
Artisti in mostra
Marina Abramović, Ai Weiwei, El Anatsui, Giovanni Anselmo, John Armleder, Alighiero Boetti, Ugo Carrega, Sandro Chia, Jago, Jan Jedlička, Jeff Koons, Sol LeWitt, Ma Han, Luigi Mainolfi, Mario Merz, Jonathan Monk, Nika Neelova, Giulio Paolini, Tancredi Parmeggiani, Giuseppe Penone, Lamberto Pignotti, Vettor Pisani, Michelangelo Pistoletto, Franco Politano, Mimmo Rotella, Mauro Staccioli, David Tremlett, Peter Wuetrich, Gilberto Zorio, Song YonGping, Zhang Hongmei, Xiao Lu, Zhang Zhaohong. La Fondazione Puglisi Cosentino ospita anche una mostra dedicata a Frida Kahlo nelle immagini dei grandi fotografi, realizzata apposta per Palazzo Valle, che racconta con la storia dell’artista inserita nelle vicende messicane.
Fondazione Puglisi Cosentino – Palazzo Valle Catania
I Miti dell’Arte Contemporanea
dal 1 Novembre 2024 al 31 Maggio 2025
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Foto Allestimento mostra I Miti dell’Arte Contemporanea Fondazione Puglisi Cosentino – Palazzo Valle Catania dal 1 Novembre 2024 al 31 Maggio 2025 Foto credit © Valerio Mario D’Urso