Giovanni Cardone
Fino al 23 Marzo 2025 si potrà ammirare a Palazzo della Penna – Centro per le arti contemporanee di Perugia la mostra dedicata a Dorothea Lange a cura di Walter Guadagnini e Monica Poggi. L’esposizione organizzata dal Comune di Perugia in collaborazione con CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia di Torino e con il gestore dei servizi per il pubblico e le attività di valorizzazione del circuito museale comunale, Le Macchine Celibi soc. Coop. Un focus fortemente voluto su Dorothea Lange, autrice di MigrantMother (1936) – una delle fotografie più celebri del secolo scorso – e protagonista indiscussa della fotografia documentaria del Novecento. La mostra si compone di oltre 130 scatti che raccontano dieci anni di lavoro fondamentali nel percorso di questa straordinaria autrice. Il percorso espositivo si concentra sugli anni Trenta e Quaranta, periodo nel quale documenta gli eventi epocali che hanno modificato l’assetto economico e sociale degli Stati Uniti. All’inizio degli anni Trenta, la visione di una folla che aspetta per ottenere un po’ di cibo e del lavoro, convince Dorothea Lange a uscire dal suo studio per dedicarsi interamente alla documentazione dell’attualità: così la fotografa abbandona il mestiere di ritrattista per diventare la narratrice delle conseguenze della crisi economica successiva al crollo di Wall Street. Nel 1935 parte per un lungo viaggio con l’economista Paul S. Taylor, che sposerà alcuni anni dopo, per raccontare le drammatiche condizioni di vita in cui versano i lavoratori del settore agricolo delle aree centrali del Paese, colpito dal 1931 al 1939 circa da una dura siccità. Il fenomeno delle Dust Bowl, ripetute tempeste di sabbia, rende impossibile la vita di migliaia di famiglie costringendole a migrare, come racconta anche John Steinbeck nel romanzo Furore del 1939, seguito nel 1940 dal film di John Ford ispirato anche dalle fotografie di Lange. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Dorothea Lange apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che gli anni Trenta sono stati segnati dal crollo della Borsa di Wall Street del 1929 e dalle successive ripercussioni sull’economia degli Stati Uniti e del mondo intero, una crisi economica tanto imprevista quanto catastrofica, destinata a cambiare le sorti del Novecento. Nei mesi immediatamente precedenti il crack borsistico, influenti economisti come Irving Fisher, o l’allora presidente della Federal Reserve, C. E. Mitchell, continuavano a rassicurare i propri concittadini, sottovalutando alcuni segnali dell’imminente disastro, già chiaramente visibili, e, fatto ancor più grave, rimasero della medesima opinione perfino dopo il giovedì nero. Molti analisti dell’epoca continuarono a negare la gravità della recessione nei mesi successivi, predicendo “una ripresa degli affari nella prossima primavera” o addirittura dichiarando che “L’attività manifatturiera è ora decisamente in via di ripresa” (comunicati dell’Harvard Economic Society citati in “The great crash: 1929” ed. 1954 – trad.it Amerigo Guadagnini – ed. Comunità Milano 1962-Etas Kompass 1966 ed. BUR Milano 2003). Gli anni critici di quella che venne definita la Grande Depressione dall’allora Presidente, Herbert Clark Hoover, culminarono tra il 1932 e il 1933, quando il sistema economico entrò in recessione, le attività produttive, commerciali e finanziarie subirono un brusco arresto, il reddito globale diminuì fino a toccare il fondo, portando ad una contrazione della domanda e ad una impennata della disoccupazione. Gli Stati Uniti necessitavano il ritorno al potere di una figura di cui ci si potesse fidare per ritrovare un equilibrio. Nel 1933 venne eletto Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, il quale dedicò il suo primo discorso a risollevare il morale di un popolo, che si sentiva abbandonato dalle istituzioni, vittima incolpevole di un evento drammatico, che non aveva contribuito a produrre, ma consapevole di essere responsabile del proprio destino, pur vivendo nel terrore di ciò che il futuro avrebbe portato. Roosevelt era determinato a comunicare con tutta la popolazione, a creare un contatto più immediato con le persone e a ripristinare il morale del Paese. Il New Deal, programma per il rilancio economico del 1933, non trovò una vera soluzione ai problemi centrali della Depressione, ma riuscì a creare un senso di fiducia nella popolazione. La Grande Depressione venne vista come un momento di svolta nella storia americana, perché non solo provocò importanti conseguenze sull’assetto economico e politico del paese, ma influì anche sulla vita sociale e culturale. Per la prima volta, l’attenzione si spostò su quella parte della popolazione fino ad allora rimasta invisibile, rimasta nell’ombra, quelli che il presidente Roosevelt definì “forgotten man”: i contadini, i mezzadri, le minoranze etniche, gli immigrati, i veterani. Quella parte di popolazione che viveva in condizioni precarie, con poco cibo, condizioni igieniche e di salute scarse e che lavorava la terra per sopravvivere. Di tutte le vittime della Depressione, i veterani che avevano combattuto una guerra che non era la loro, e offerto il proprio servizio per la patria, lontani da casa, rischiando la propria vita per la nazione, furono probabilmente i più abusati. Ma se il loro governo e i business leader di quegli anni tentarono di nascondere gli spiacevoli fatti degli anni della Depressione, ignorandoli, o sottostimandoli, gli artisti e il resto della popolazione non lo fecero. I “forgotten man” diventarono un simbolo culturale dell’ingiustizia della Depressione. Fino a quel momento, nei centri del potere nessuno aveva preso in considerazione la povera gente, nessuno si era preoccupato di guardare al di fuori dei propri confini per accorgersi della povertà e delle condizioni di vita in cui molta gente era costretta a vivere, o addirittura sopravvivere. Furono gli artisti degli anni Trenta – scrittori, fotografi, cineasti – a rivolgere per primi l’attenzione alla loro patria, a spostarsi in strada per vedere in prima persona come la gente comune stava affrontando quei momenti difficili, – “they went where it was all happening” e ad intraprendere un percorso di riflessione per una nuova consapevolezza collettiva, per restituire una visione e una comprensione delle menti e dei cuori della Grande Depressione e un senso di solidarietà. Negli anni Trenta si verificò un importante cambiamento nella sensibilità degli artisti, che portò loro ad affrontare le storie in maniera da renderle più verosimili, concentrandosi su soggetti comuni e mondi che potessero essere immediatamente riconoscibili da gran parte del pubblico, a favore quindi di un maggiore realismo. L’arte stava diventando un veicolo per registrare gli accadimenti in modo permanente e concreto, in quanto “art has the power to move people, to survive its time, even to provide genuine witness” . La crisi economica diede il via al desiderio e alla volontà di molti artisti – che raramente si erano identificati in maniera così intensa con persone comuni e con i loro bisogni – di documentare e rappresentare la vita della gente, esplorando e addentrandosi negli angoli più remoti della società, perché “it can only be through personal identification with real people’s problems in a convincingly realized time and place” . I media degli anni Trenta – riviste fotografiche, radio, film documentari e di finzione – contribuirono a sostenere una classe sociale in un sistema che si stava rapidamente disgregando e a creare un ambiente di condivisione di esperienze comuni, con l’auspicio di aiutare la popolazione ad affrontare e superare tempi difficili. La cultura espressiva degli anni Trenta – attraverso libri, film, murales, fotografie, reportage, programmi radiofonici, danza e musica popolare – oltre a restituire scorci sulla vita degli anni della Depressione, ebbe un ruolo fondamentale nell’unire le persone e alleviare la loro condizione, portando i fatti in primo piano nella coscienza pubblica negli anni Trenta. “Notebook or camera in hand, the documentary observer of social calamity or human wretchedness”, taccuino e immagini furono usati dagli artisti come strumenti di protesta sociale, per rappresentare e testimoniare la verità: la miseria umana, la povertà e l’ineguaglianza, i fallimenti delle promesse del governo e dell’American Dream. Gli artisti raramente riescono a cambiare il mondo, ma possono cambiare i sentimenti sul mondo, la comprensione di esso, il modo di viverci. Il cinema, la fotografia, la letteratura, la musica si presero l’incarico di testimoniare il sentimento dell’epoca, il dramma delle persone e la loro forza d’animo. Le arti alterarono e influenzarono la società, garantendo al pubblico, da un lato la possibilità di provare piacere e trovare nell’arte una forma di fuga; dall’altro la possibilità di vedersi riconosciuti e rappresentati. La Grande Depressione non mise a dura prova solo l’assetto economico e politico del Paese, ma attaccò anche i pilastri, i miti e le credenze su cui si fondava il sistema americano: naufragò l’idea che gli Stati Uniti fossero la terra delle pari opportunità, dei sogni, delle speranze e della libertà, il luogo in cui, con il duro lavoro, tutti avrebbero potuto raggiungere i propri obiettivi e avere successo. Con la crisi economica, inevitabilmente, tutti questi valori, ideali e promesse, vennero a mancare provocando un diffuso senso di insicurezza e paura per il futuro, e di sfiducia nella possibilità di cambiamento. L’umiliazione e la perdita di autostima, di fiducia in sé stessi e la paura di fallire, diventarono i nuovi sentimenti della popolazione americana degli anni Trenta. Caroline Bird, facendo riferimento a quegli anni, parlò di “fear of falling”, paura costante di perdere il proprio posto, di cadere nella povertà a causa della crisi. La crisi impattò su tutta la nazione: anche coloro che appartenevano alle classi più agiate della società, si trovarono in grande difficoltà. Chi aveva un lavoro era terrorizzato all’idea di perderlo, vedeva svanire i propri risparmi, si trovava costretto a cambiare le proprie abitudini, rinunciare ai propri agi, trasferirsi fuori dalle città, fino a dover chiedere aiuto, provando vergogna, perché non più in grado di provvedere a sé stesso. La Grande Depressione non fu solo una crisi economica, ma incise profondamente sull’aspetto psicologico della popolazione che si sentì abbandonata e incapace di agire di fronte alle difficoltà, che si auto colpevolizzò per aver fallito. Gli anni Venti, caratterizzati da una diffusa ricchezza e da quello che viene definito l’“American Dream”, erano giunti al termine. Gli Stati Uniti, un Paese ottimista dove tutti i sogni diventano realtà, impreparato di fronte a una crisi di questa portata e indifferente alla miseria umana, si trovò ad affrontare tempi bui, in cui “Fear was the great leveler of the Great Depression” – T.H. Watkins. Tutti questi elementi si possono ritrovare in maniera più o meno esplicita all’interno della filmografia che caratterizzò il decennio. Durante il periodo della Grande Depressione, anche le principali case di produzione americane si ritrovarono a dover fronteggiare la crisi economica, riuscendo comunque nell’impresa di realizzare film di successo, grandi classici che segnarono l’epoca e videro il consolidamento del sistema hollywoodiano classico e dei film sonori. I film prodotti e usciti tra gli anni Trenta e Quaranta furono realizzati in risposta ai bisogni e alle preoccupazioni della popolazione e diventarono il simbolo di come il popolo americano si era adattato alla Depressione. Alcuni film più impegnati ritraevano un mondo sconvolto, in cui regnava la paura, lo sconforto e la sofferenza della popolazione, che si ritrovava improvvisamente senza lavoro o una casa, costretta a vivere in condizioni precarie e di scarsa igiene. Si trattava di film di protesta e di critica al sistema sociale e politico americano, che affrontavano più o meno direttamente le problematiche portate dalla crisi, e film che riflettevano le condizioni della Grande Depressione, come Wild Boys of the Road (1933) diretto da William A. Wellman o The Grapes of Wrath (1940) diretto da John Ford, in cui si possono ritrovare i temi della catastrofe sociale e disintegrazione familiare. Un altro genere che si diffuse a cavallo degli anni Trenta e Quaranta, come metafora della vita americana del periodo della Grande Depressione, fu quello dei film gangster. Si trattava di film che avevano come tema principale quello della violenza di strada, spesso causata proprio dalle povere condizioni di vita della gente, costretta a ricorrere a misure estreme pur di guadagnarsi qualche spicciolo o una fetta di pane per nutrirsi o per nutrire la propria famiglia. La maggior parte dei film che apparteneva a questo filone trattava temi di ascesa temporanea e di una conseguente caduta della figura del gangster. La sua “carriera”, “belies the supposed optimism of American popular culture”. Dopo aver ottenuto importanti successi ed essere giunto in cima al mondo, il gangster – disposto anche a sacrificare la propria umanità –, muore, rivelando la precarietà e la breve durata che il suo impatto può aver avuto sulla società. Un personaggio normalmente temuto, un fuorilegge, che non è riuscito a trovare un posto nel mondo civile, ma che potrebbe celare un animo sensibile, desideroso di essere compreso, accettato, aiutato e amato. È il protagonista imperfetto, ma allo stesso tempo determinato e audace, con cui il pubblico degli anni Trenta riesce ad immedesimarsi e identificarsi, dimenticando temporaneamente i propri guai. La figura del criminale e di conseguenza quella del gangster nei film, viene vista come il prodotto di una società che lo ha generato. Una società sull’orlo della decadenza, che non è in grado di trovare delle soluzioni e in cui i problemi sociali, spesso possono trasformarsi in problemi psicologici: perdita di fiducia, senso di colpa, rabbia. Il crimine e la violenza di questi film sono giustificati dall’idea che “crime is a social problem, a product of poverty and slums”. 19 Altri film prodotti in quegli anni, invece, avevano come obiettivo principale quello di fornire una forma di fuga dal mondo reale e dalle preoccupazioni quotidiane, per contrastare il malessere sociale ed economico. Questi film venivano definiti “escapist”, proprio perché fornivano un modo per evadere dalla realtà e dalle sofferenze, un modo per distrarsi attraverso l’intrattenimento e dimenticare ciò che stava realmente accadendo, fantasticare su mondi fittizi, immedesimarsi e vivere nella vita di altri. Un esempio eclatante di questa tendenza è la scena finale del film diretto da Preston Sturges nel 1941, Sullivan’s Travels, in cui i prigionieri di un carcere trovano un sollievo momentaneo guardando cartoni di Mickey Mouse. Il pubblico della Grande Depressione aveva bisogno di fuggire dalla vita reale, anche se brevemente, e di tornare a vivere in maniera spensierata. Durante gli anni bui che hanno caratterizzato la Grande Depressione si è verificata questa tendenza a combinare il reale con la pura finzione. Gli artisti volevano aiutare la gente comune ad affrontare la quotidianità, garantendo forme di puro intrattenimento, e allo stesso tempo a dare un senso alle loro vite, osservando il mondo attraverso i loro occhi e restituendo una forma artistica che potesse rendere loro giustizia. Le condizioni portate dalla Grande Depressione si possono ritrovare non solo nella scelta dei soggetti da rappresentare, ma anche dall’influenza che il cinema documentario e la fotografia degli anni Trenta hanno avuto in termini estetici e stilistici sulla direzione della fotografia dei film prodotti in quegli anni. Le fotografie realizzate negli anni Trenta hanno influenzato in maniera più o meno diretta la cinematografia di finzione di Hollywood. Con il New Deal – avviato dal Presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt –, vennero introdotti una serie di importanti provvedimenti e insediate diverse agenzie federali, tra cui la Resettlement Administration (RA), creata nel 1935, con a capo Rexford G. Tugwell, un professore di economia alla Columbia University. L’agenzia si occupava di reinsediamento rurale, di costruzione di campi di soccorso per i lavoratori e i mezzadri migrati in California, noti come “Okies” o “Arkies” e dava particolare attenzione alle condizioni di estrema povertà in cui versavano il settore agricolo e rurale. Tra il 1931 e il 1939, gli Stati Uniti vennero colpiti da una serie di tempeste di sabbia, passate alla storia con il nome di Dust Bowl, causate da decenni di tecniche agricole inappropriate e scarsa conservazione del suolo, che provocarono una migrazione di massa dei contadini dagli Stati centrali e del sud degli Stati Uniti (Kansas, Oklahoma, Missouri, Iowa, Nebraska, South Dakota), all’Ovest, verso la California. In questo scenario, si collocò l’esperienza della Farm Security Administration (FSA), che fu creata nel 1937 per sostituire la Resettlement Administration e per combattere la povertà rurale e migliorare lo stile di vita degli agricoltori americani durante la Grande Depressione negli Stati Uniti. La FSA fu una delle agenzie più progressiste e controverse del New Deal e sostenne l’intervento economico del governo per migliorare le condizioni di vita nell’America rurale, attraverso il reinsediamento degli agricoltori poveri su terreni più produttivi, la creazione di campi residenziali, e l’investimento di somme di denaro per migliorare le strutture agricole e le tecniche di conservazione del suolo. Tra il 1935 e il 1944, la FSA diede avvio ad un ambizioso e influente progetto di fotografia documentaria, come testimonianza visiva degli interventi intrapresi dal governo a favore delle vittime della Grande Depressione negli Stati Uniti. Ad istituire e a dirigere il progetto fotografico del governo, fu Roy Emerson Stryker, economista e funzionario governativo statunitense, che già nel 1935 era a capo della Information Division (ID) della Resettlement Administration. L’obiettivo di Stryker era presentare e diffondere un’immagine dell’America fino ad allora trascurata e documentare la povertà rurale e gli sforzi del governo per alleviarla, ed era convinto che lo strumento ideale per svolgere questa funzione fosse la macchina fotografica, in grado di catturare porzioni di vita e di registrare la storia americana, producendo una reazione da parte della società. Gli undici fotografi assunti da Stryker per viaggiare attraverso gli Stati Uniti e documentare le difficili condizioni di vita dei contadini nelle aree rurali più povere degli Stati Uniti, includevano Dorothea Lange, Arthur Rothstein, Walker Evans, Ben Shahn, John Vachon, Marion Post Wolcott, Russell Lee, Jack Delano, John Collier, Carl Mydans e Theodor Jung. Questo gruppo di talentuosi fotografi contribuì a creare un’importante testimonianza e a diffondere una coscienza di gruppo, rendendo protagonista dei propri scatti i lavoratori migranti, i poveri contadini, i “forgotten man”, in modo tale che fossero loro a raccontare in prima persona – attraverso gli sguardi, i gesti e le espressioni –, la loro storia di vita quotidiana. Erano i volti di gente comune che, nonostante tutto, non aveva mai perso la propria dignità e la forza di andare avanti, mantenendo vivo un barlume di speranza. Il Sud degli Stati Uniti era già da tempo segnato dalla povertà, ancora prima che la Grande Depressione colpisse le strutture stabili del Paese e prima che i disastri naturali si abbattessero sulle Grandi Pianure, contribuendo solo a peggiorare la situazione. I fotografi della FSA fotografarono e documentarono le pessime condizioni di vita e di lavoro delle famiglie contadine costrette ad abbandonare le proprie terre a causa delle conseguenze portate dal Dust Bowl, dalla siccità e dalla crisi economica, e a migrare verso l’Ovest – in particolare verso la California, centro dell’American Dream –, in cerca di nuovi inizi. La fotografia FSA fu particolarmente influente grazie al suo punto di vista realista. L’obiettivo del progetto era testimoniare senza filtri ciò che stava realmente accadendo in gran parte del Paese, informare, ma anche coinvolgere in prima persona chi ignorava le condizioni di vita della povera gente che abitava le campagne americane. Il progetto prevedeva che i fotografi acquisissero una certa familiarità con gli argomenti e i soggetti da ritrarre, stabilendo dei contatti personali e intimi con i protagonisti dei loro scatti. I fotografi volevano, attraverso le proprie immagini, suscitare una reazione da parte del pubblico e creare delle testimonianze visive che fossero in grado di tramandare un messaggio di solidarietà ai contemporanei dell’epoca, e che potessero funzionare anche come riferimento per le generazioni future. Non si limitarono a registrare la vita come testimoni di una condizione, ma diventarono al contempo partecipi della vita dei soggetti ritratti. Beaumont Newhall affermò che l’importanza delle fotografie documentarie risiede nel loro potere “not to inform us, but to move us”. Si tratta di fotografie dal forte impatto emotivo, fotografie che hanno testimoniato e documentato la sofferenza umana e la povertà, ma anche gli usi e i costumi dell’uomo comune, la sua quotidianità, cogliendo e registrando la realtà dell’America degli anni Trenta. I fotografi che presero parte al progetto indetto dalla Farm Security Administration reinventarono la fotografia documentaria, realizzando delle vere e proprie opere d’arte. Si tratta di fotografie struggenti in cui persiste la sensazione di disperazione, paura e incertezza per il futuro; icone di un’epoca, che hanno contribuito a creare un immaginario sociale del tempo. Ritratti familiari, di gente comune, le cui espressioni raccontano storie di sofferenza e di paura e parlano più delle parole, ma che nonostante tutto mantengono un senso di dignità e di umanità. Le immagini di oggetti, di ambienti e stanze disadorne, di strade deserte rappresentano il momento dell’abbandono della terra, sono i segni lasciati dalla gente comune. Dal 1935 al 1943, i fotografi che presero parte al progetto fotografico avviato dalla Farm Security Administration, produssero quasi ottantamila fotografie, realizzando uno dei progetti di fotografia sociale e documentaria più significativi della storia. Il lavoro svolto dai fotografi per la FSA si sviluppò all’interno del più ampio contesto documentario che includeva anche i film sponsorizzati dal governo del regista Pare Lorentz, The Plow That Broke the Plains (1936) e The River (1937), e i testi illustrati di Erskine Caldwell e Margaret Bourke-White, You Have Seen Their Faces, e Let Us Now Praise Famous Men di Walker Evans e James Agee. Tutti questi progetti testimoniarono la realtà della vita americana, diventando i principali responsabili della creazione dell’immagine della Grande Depressione negli Stati Uniti. Anche Hollywood, pur se in maniera meno diretta ed esplicita, contribuì a creare opere dal forte impatto visivo e che possono essere viste come testimonianze di un’epoca. Uno degli esempi più eclatanti fu il film diretto da John Ford, tratto dal romanzo di John Steinbeck del 1939, The Grapes of Wrath. Dorothea Lange fu una delle maggiori esponenti del movimento fotografico sociodocumentaristico nato in seno alla Farm Security Administration. Pioniera della fotografia sociale, iniziò la propria carriera fotografica dedicandosi al ritratto, spinta dal desiderio di immortalare le persone e raccontare le loro storie. A metà degli anni Trenta, Lange partì per la California assieme a Paul Schuster Taylor, docente di economia all’Università di Berkley e suo secondo marito, per documentare le difficoltà e la miseria dei poveri e dei contadini, costretti ad abbandonare le proprie terre e a migrare verso Ovest a causa della siccità e della crisi economica, alla ricerca di condizioni di vita più dignitose. Nel 1939 pubblicarono il libro An American Exodus: A Record of Human Erosion, opera che unì le fotografie dei volti dei poveri contadini e degli ambienti in cui vivevano, alle testimonianze dirette della gente comune. Dorothea Lange partecipò al dramma in prima persona, realizzando fotografie dal forte impatto visivo, che divennero icone di un’epoca. Le sue immagini invitano l’osservatore a riflettere sulle paure, le preoccupazioni e la sofferenza dei migranti, costretti ad abbandonare le proprie case in cerca di fortuna e speranza e lo inducono a provare empatia nei loro confronti. Lange e Taylor cercarono di descrivere le condizioni in cui versavano le classi sociali più deboli, per catturare testimonianze degli effetti provocati dalla Grande Depressione, in modo da suscitare una reazione da parte del Paese e del Governo. Il loro obiettivo fu quello di creare un libro che rivelasse ai centri del potere e all’opinione pubblica la dimensione umana della crisi e delle sue ripercussioni su una larga parte del popolo americano, sfruttando le citazioni dirette dei migranti stessi, raccolte sul campo: le didascalie che accompagnavano le fotografie riportavano le conversazioni, i pensieri e le parole pronunciate dai soggetti ritratti, le vere vittime della crisi. Le immagini e i testi vennero riportati fedelmente, senza alcun tipo di manipolazione da parte degli autori, come prove e testimonianza delle difficoltà della vita negli anni Trenta. Le persone – i migranti in fuga, le vittime dello sfruttamento e i poveri contadini sfrattati – fotografate da Lange, sorprendono lo spettatore perché raramente vengono rappresentate come persone senza speranza, in condizioni pietose. Trattò il popolo americano con rispetto e grande umanità: non sfruttò le loro povere condizioni per i propri scopi personali, ma cercò un dialogo, un contatto intimo e si immedesimò in coloro che ritraeva, conquistando la loro fiducia e incoraggiandoli ad essere sé stessi, senza mai coglierli alla sprovvista. Dorothea Lange praticò la fotografia documentaria non certo per spettacolarizzare la miseria o speculare sui drammi sociali, bensì per rendere un ritratto fedele della condizione umana e trasmettere un messaggio significativo ed emotivo. L’analisi del suo lavoro permette di cogliere la profondità dell’autrice, sensibile e partecipe delle sofferenze altrui: il dolore e le dure esperienze di vita sono visibili negli occhi, sono incisi nelle rughe e sui volti di coloro che Lange scelse di ritrarre. Una delle fotografie più iconiche e più pubblicate all’interno del progetto FSA fu Migrant Mother (1936), ritratto di una lavoratrice della California con i suoi figli, costretta a spostarsi di paese in paese, simbolo della sofferenza e della lotta per la sopravvivenza affrontata dalla gente comune durante la Grande Depressione. Lange incontrò la giovane donna in un accampamento di raccoglitori di piselli. La donna, appena trentaduenne, raccontò alla Lange come nutriva i figli per sopravvivere. Il viso della donna, già segnato dalle avversità della vita, la fronte solcata dai segni del tempo, lo sguardo profondo e angosciato, pensieroso e distante, racchiude anche un senso di forza, resistenza e dignità. Si intuisce la preoccupazione, ma anche la speranza di una madre di poter garantire una vita migliore ai propri figli, che fiduciosi cercano protezione appoggiandosi a lei, nascondendosi timidamente davanti all’obiettivo. Dorothea documentò la povertà attraverso immagini visivamente eccezionali. Nel 1933 visitò una mensa dei poveri allestita da una vedova, nota con il soprannome di “White Angel”. La fotografia che immortala l’istante più significativo ritrae un gruppo di uomini, colti di spalle, in attesa del loro turno per un pezzo di pane. Tra la folla, spicca la figura di un uomo rivolto in direzione della macchina fotografica: le mani intrecciate quasi in segno di preghiera, la testa incassata nelle spalle, l’espressione rassegnata sul volto, che esprime un dolore opprimente, difficile da alleviare. La collaborazione di scrittori e fotografi contribuì, negli anni Trenta, a definire il fotogiornalismo, un nuovo tipo di giornalismo, focalizzato sulla diffusione di testi illustrati, che vide nelle riviste Life e Fortune – fondata nel 1930 da Henry Luce, editore del Time –, i suoi maggiori esponenti. Nel 1936, Life – rivista settimanale nota per la qualità della sua fotografia –, venne acquistata da Henry Luce, editore del Time, diventando la prima rivista americana interamente fotografica. Secondo Henry Luce, la rivista avrebbe dovuto garantire al popolo americano. Egli sosteneva che le immagini potevano raccontare una storia invece di limitarsi ad illustrare il testo. Nel 1936, Fortune, una delle riviste più liberali e attente ai temi sociali degli anni Trenta, incaricò James Agee – romanziere, giornalista, poeta, sceneggiatore e critico cinematografico americano –, di scrivere un articolo sulle condizioni di vita dei contadini americani del centrosud degli Stati Uniti, colpiti dalle tempeste di sabbia e dalla crisi economica, con l’obiettivo di ottenere “a photographic and verbal record of the daily living of an ‘average’ or ‘representative’ family of white tenant farmers.





” 40 Walker Evans, fotografo statunitense diventato celebre per aver fotografato i volti e i luoghi della Grande Depressione, fu ingaggiato da Agee per la missione nel sud rurale degli Stati Uniti. Agee ed Evans trascorsero diverse settimane in Alabama, vivendo tra i contadini e i mezzadri, raccogliendo testimonianze di una profonda e diffusa povertà. Il testo, nato come articolo per la rivista Fortune – che si rifiutò di pubblicarlo sulle proprie pagine –, fu poi ampliato, trasformato in un libro e pubblicato dalla casa editrice Houghton Mifflin Harcourt nel 1941, con il titolo Let Us Now Praise Famous Men. Il testo illustrato fu inizialmente disprezzato, frainteso e, soprattutto, ignorato, per la crudezza con cui erano stati descritti e rappresentati i fatti, ma oggi è considerata un’opera rappresentativa del genere documentario degli anni Trenta. Let Us Now Praise Famous Men, attraverso la fotografia suggestiva e realistica di Evans e i testi potenti di Agee, mise in dubbio i valori del periodo e i suoi ideali, denunciando non solo la condizione umana del Paese, ma anche quella strutturale del governo federale e delle istituzioni americane. I protagonisti del testo furono tre famiglie dell’Alabama, la cui povertà e sofferenza fu trasformata in un simbolo della vita di tutti gli uomini, diventando l’emblema della Grande Depressione. L’obiettivo era, attraverso le immagini e i testi, scioccare la nazione, rendere esplicita ed evidente la povertà, che fino ad allora era stata trascurata, in modo tale da guidare lo spettatore a un senso di consapevolezza della situazione che esisteva già da decenni nel Paese. Evans fotografò i volti della gente comune, le case, gli ambienti e i paesaggi in cui essi abitavano, trattandoli in maniera veritiera ed evitando l’uso di artifici. Evans desiderava rappresentare la quotidianità, assicurandosi che i suoi soggetti non fossero presi alla sprovvista o nei momenti in cui potevano risultare più vulnerabili, ma anzi che fossero pienamente consapevoli della presenza di una macchina fotografica. Evans vedeva negli scatti “spontanei” un’intrusione dello spazio privato e una mancanza di rispetto nei confronti di coloro che venivano ritratti. Fotografò le persone quando si sentivano più se stesse, permettendo loro di mettersi in posa per lo scatto, per riprodurre la loro realtà nella maniera più veritiera possibile. Per Evans, la fotografia doveva essere una pura testimonianza della realtà, una vera confessione, nulla doveva essere manipolato, alterato o aggiunto sulla scena per rendere l’immagine esteticamente più bella o accattivante. Egli fotografava i suoi soggetti frontalmente, posizionando la macchina fotografica all’altezza degli occhi per stabilire un senso di parità tra il soggetto rappresentato e lo spettatore, in piena luce piatta. I suoi soggetti esprimevano tristezza, sofferenza e paura, ma celavano anche una bellezza particolare. Attraverso i propri scatti, Evans celebrò la gente comune, esaltando la loro forza d’animo e il loro coraggio e rendendo la loro vita dignitosa. Fu in grado di raggiungere una certa intimità con i propri soggetti, tanto da riuscire a identificarsi con loro e permettere anche a spettatori esterni di comprendere i loro sentimenti, rispettarli, invece di compatirli. Evans trasformò i propri scatti in opere d’arte, richiamando l’attenzione su questa bellezza “non convenzionale”, con l’idea che il mondo potesse essere migliorato e che tutti fossero degni di essere visti e presi in considerazione. Grazia alla sua fotografia fu possibile vedere con uno sguardo diverso ciò che realmente stava accadendo nelle Grandi Pianure americane, e comprendere come potesse sentirsi la gente comune negli anni Trenta. Forte sostenitore della rappresentazione della realtà per come appare, Evans criticò il testo antecedente, You Have Seen Their Faces, pubblicato nel 1937 da Erskine Caldwell e Margaret Bourke-White, accusandolo di essere uno strumento di propaganda. Entrambi i libri trattano delle tragiche condizioni di vita e di lavoro dei contadini americani delle Grandi Pianure, devastate dalla siccità e dalla crisi, con la differenza che il lavoro di Caldwell e Bourke-White, fu contestato perché presentò una realtà edulcorata, ben lontana dalla realtà tragica rappresentata da Evans e Agee. Margaret Bourke-White fu una fotografa statunitense e la prima donna fotografa che lavorò per il settimanale Life. Si specializzò nella fotografia d’architettura, di design e industriale, attribuendo loro un certo rilievo artistico, per poi dedicarsi alla fotografia documentaria di stampo sociale, profondamente colpita dalla miseria umana che vedeva attorno a sé. Nel 1936, Bourke-White partì assieme allo scrittore – e futuro marito – Erskine Caldwell, allora all’apice della sua fama come romanziere, verso il Sud degli Stati Uniti per documentare le difficili condizioni di vita dei mezzadri. Bourke-White ricercò nei volti e nei gesti dei soggetti che rappresentava, le emozioni che lei stessa intendeva esprimere, manipolando la realtà dei fatti e sfruttando le inquadrature e le angolazioni dal basso per infondere maggiore drammaticità all’immagine. L’obiettivo era ottenere delle fotografie particolarmente toccanti, a discapito della dignità di coloro che venivano fotografati, indifesi di fronte alla macchina fotografica e ignari della sua presenza. Bourke-White, a differenza di Evans, predilesse l’effetto “sorpresa”: se da un lato studiava gli ambienti e la messa in scena, fino a curare i minimi dettagli, dall’altro tendeva a fotografare i propri soggetti senza preavviso per ottenere l’effetto sperato, indifferente del disagio che avrebbe potuto provocare in loro. Anche le didascalie riportate sotto le immagini non descrivono i sentimenti reali degli individui ritratti, ma esprimono i sentimenti che Bourke-White e Caldwell pensavano provassero i loro soggetti. Sono frutto dell’immaginazione dei due autori e servono a manipolare le emozioni dello spettatore perché sia costretto a provare pena per loro, a compatirli ed empatizzare con loro. Se da un lato Bourke-White optò per una rappresentazione esplicita della miseria rurale, realizzando immagini sconvolgenti e ricche di dettagli grotteschi, presentando i soggetti come vittime passive, disumanizzate, ridotte a oggetti, i volti incisi dalla fame, dalla stanchezza e dalla sofferenza; dall’altro, volle anche raffigurare momenti di vita quotidiana, di normalità, persino di felicità e spensieratezza. Nei testi e nelle fotografie vennero introdotti elementi di finzione senza però dichiarare apertamente che si trattasse di un’opera fittizia. Bisogna sottolineare come questo atteggiamento non sia prerogativa della sola Margaret Bourke-White, ma si può trovare anche in altri autori e opere degli anni Trenta: molte immagini realizzate in quegli anni possono essere considerate parzialmente efficaci e non del tutto veritiere. La scelta dell’inquadratura, della luce, del soggetto a volte pregiudica il risultato, la manipolazione della scena può violare gli ideali alla base del documentario, rendendo poco credibili le immagini e le espressioni preoccupate, gli sguardi tristi e disperati dei soggetti raffigurati. Nonostante ciò, l’obiettivo comune ai due testi – Let Us Now Praise Famous Man e You Have Seen Their Faces – fu, attraverso le immagini e i testi – reali, verosimili o addirittura fittizi –, testimoniare la sofferenza e la povertà dei contadini americani, per stimolare una risposta da parte della società fino ad allora rimasta indifferente e per lasciare un segno evidente come affermò Edward Steichen, fotografo lussemburghese naturalizzato statunitense. Certamente Dorothea Lange descrive quei momenti in modo unico questo lo si evince dal lavoro documentario della fotografa fa parte del programma governativo di documentazione Farm Security Administration, nato con lo scopo di promuovere le politiche del New Deal, e permette a Lange di sperimentare e di raccontare al suo Paese e al mondo i luoghi e i volti di una tragedia della povertà. Dalle piantagioni di piselli della California a quelle di cotone degli Stati del Sud, dove la segregazione razziale porta a forme di sfruttamento ancor più degradanti, Lange realizza migliaia di scatti, raccogliendo storie e racconti riportati nelle dettagliate didascalie che le accompagnano. È in questo contesto che realizza MigrantMother, il ritratto iconico di una giovane madre disperata che vive con i sette figli in un accampamento di tende e auto dismesse. Questo lavoro termina con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, che per gli Stati Uniti comincia nel 1941, con il bombardamento giapponese di Pearl Harbor; proprio alla popolazione americana di origine giapponese è dedicato il secondo grande ciclo di immagini esposto in mostra: dopo la dichiarazione di guerra, infatti, il governo americano decide di internare in campi di prigionia la comunità nativa giapponesenegli Stati Uniti, assumendo vari fotografi per documentare l’accaduto. Anche in questo caso Lange lavora su incarico del governo, nonostante lei e il marito abbiano espresso pubblicamente il proprio dissenso. I suoi scatti documentano l’assurdità di una legge razziale e discriminatoria e di come questa abbia stravolto la vita di migliaia di persone ben inserite nella società, costringendole ad abbandonare le proprie case e le proprie attività. Lange, eccelsa ritrattista, riesce ancora una volta a raccontare il vissuto emotivo delle persone che incontra, sottolineando come le scelte politiche e le condizioni ambientali si ripercuotano sulla vita dei singoli. Crisi climatica, migrazioni, discriminazioni: a quasi un secolo dalla realizzazione di queste immagini, i temi trattati da Dorothea Lange sono di assoluta attualità e forniscono spunti di riflessione e occasioni di dibattito sul presente, oltre a evidenziare una tappa imprescindibile della storia della fotografia del Novecento.
Biografia di Dorothea Lange
Nata Hoboken si avvicina alla fotografia nel 1915, imparandone la tecnica grazie ai corsi di Clarence H. White alla Columbia University. Nel 1919 apre il proprio studio di ritrattistica a San Francisco, attività che abbandona negli anni Trenta per dedicarsi a una ricerca di impronta sociale e a documentare gli effetti della Grande Depressione. Fra il 1931 e il 1933 compie diversi viaggi nello Utah, in Nevada e in Arizona. Nel 1935 si unisce alla Farm Security Administration (FSA). All’interno di questo progetto epocale realizza alcuni dei suoi scatti più famosi, nonostante alcuni contrasti con RoyStryker (a capo della divisione di informazione della FSA) in merito alle proprie scelte stilistiche. Nel 1941 ottiene un Guggenheim Fellowship (un importante riconoscimento concesso ogni anno, dal 1925, dalla statunitense John Simon Guggenheim Memorial Foundation a chi ha dimostrato capacità eccezionali nella produzione culturale o eccezionali capacità creative nelle arti.). All’inizio degli anni Cinquanta si unisce alla redazione di Life e si dedica all’insegnamento presso l’Art Institute di San Francisco.
Muore nel 1965, a pochi mesi dall’importante mostra che stava preparando al Museum of Modern Art di New York. Fra le esposizioni più recenti si ricordano “Politics of Seeing” al Jeu de Paume di Parigi nel 2018 e Words & Pictures al MoMA nel 2020.
Palazzo della Penna – Centro per le arti contemporanee di Perugia
Dorothea Lange
dal 14 Dicembre 2024 al 23 Marzo 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Lunedì Chiuso
Foto Allestimento Mostra di Dorothea Lange Palazzo Penna – Centro per le arti contemporanee di Perugia courtesy CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia di Torino