Giovanni Cardone
Fino al 1 Marzo 2025 si potrà ammirare presso EARTH Foundation Verona una mostra dedicata a Fortunato Depero – Sete di Futurismo, fame d’America a cura di Federico Zanoner e Luca Bochicchio. Il progetto espositivo, realizzato in collaborazione con il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto e con l’Università di Verona – Dipartimento Culture e Civiltà, è concepito appositamente per gli spazi della Stazione Frigorifera Specializzata di Verona. L’esposizione realizzata con un’accurata indagine nell’opera del celebre pittore, scultore e designer Fortunato Depero . Il progetto, che annovera un’ampia selezione tratta dal patrimonio futurista conservato al Mart di Rovereto, traccia l’arco evolutivo della ricerca artistica di Depero dagli anni Dieci agli anni Cinquanta, ponendo particolare attenzione ai temi legati alla tavola, al cibo e ai luoghi della sua consumazione. Il percorso espositivo restituisce un racconto cronologico che prende avvio a partire dal 1914, quando Fortunato Depero incontra il movimento futurista a Roma. La “sete di Futurismo” accompagna l’artista fino a Rovereto, dove nel 1919 fonda la Casa d’Arte Futurista Depero realizzando un’incubatrice d’arte totale che dalla pittura si estende fino alle arti applicate e decorative. Ne sono testimonianza in mostra l’allestimento del Cabaret del Diavolo a Roma del 1922 e la decorazione del Bar Bristol a Merano del 1924. Negli anni Venti, con l’emersione dell’arte pubblicitaria, Fortunato Depero inaugura una felice collaborazione con diverse aziende, tra cui con Campari, dove l’artista mette in campo l’ironica fantasia creatrice che lo rende celebre e che contribuisce al successo internazionale dell’iconico aperitivo. Nel 1928 Fortunato Depero approda a New York, rispondendo alla “fame di America” che da anni lo assilla. Immerso nell’atmosfera della Grande Mela, caratterizzata dai fast-food, dal proibizionismo e dai banchetti nei grattacieli, l’artista si dedica a decorazioni di ambienti e ristoranti, intavolando strategie per promuoversi e intercettare commissioni e affari. Il rientro in Italia dell’artista nel 1930 porta a un affondo dedicato al tema del cibo, osservato sia attraverso le originali ricette illustrate ispirate alla cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa, sia con un ritorno a motivi più tradizionali, quali le scene di osteria ispirate dal contesto trentino. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Fortunato Depero apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è noto come il contesto urbano dei Paesi occidentali mi riferisco a città come Parigi, Londra e New York muti rapidamente aspetto a causa dell’industrializzazione che porta con sé l’inclusione, nel panorama cittadino, di insegne pubblicitarie, di impianti di illuminazione elettrica, di manifesti, di volantini e di nuovi mezzi di locomozione. Nel suo L’esthétique de la rue, Gustave Kahn avvia una comparazione tra la strada morta di Pompei, quella immutabile dei Paesi islamici e «la rue che marche» , che si muove, che vive, che cambia nel corso dei secoli e che rispecchia la modernità. Gli artisti reagiscono a tale trasformazione anche a causa della sovrabbondanza di percezioni visive che li colpiscono al solo muoversi per strada. Basti pensare all’itinerario descritto da Aldo Palazzeschi ne La passeggiata, in cui elenca negozi, locali, insegne, avvisi, locandine e tutto ciò che, nel corso di una camminata per le vie di Roma, vede e sente più o meno distrattamente da everyman joyciano. Antonio Sant’Elia, dal canto suo, si interroga sulle rinnovate esigenze della città del futuro, così come molti urbanisti dei primi del Novecento Eugene Henard e Harvey Wiley Corbett, pensano a una rete di interconnessioni strutturali che costituiscono il tessuto della nuova metropoli pensano a una rete di «interconnessioni strutturali che costituiscono il tessuto della nuova metropoli».
Questa, per l’architetto comasco, deve essere stratificata, illuminata da luce elettrica e costruita con nuovi materiali, come il vetro e il cemento. Il Futurismo sceglie, dunque, «il campo della società metropolitana» sia come oggetto di studio sia come mezzo per diffondersi capillarmente, passando per l’utilizzo di metodi pubblicitari appartenenti all’industria. Fortunato Depero, negli anni Trenta, dipinge tele come Mercato di Down Town del 1932 e Innaffiatori per le strade di New York del 1934 che esaltano la grande metropoli statunitense, vista come un esorbitante agglomerato di grattacieli, di automobili, di pannelli pubblicitari, di strutture metalliche, di vetrate e di insegne a neon. L’iperbolica New York agglutina tutte le novità industriali in una mistura complessa ma coerente che abbacina il poeta futurista, il quale crede al contempo «nei prodotti multiformi della natura e nelle sapienti realizzazioni costruttive dell’ingegno umano» . Depero, d’altronde, nasce nel 1892 a Fondo, un piccolo paesino tutt’altro che industrializzato della Val di Non. Entra in contatto con il panorama artistico e culturale in città come Rovereto presso la cui Scuola Reale conduce i suoi studi e Torino, dove conosce artisti del calibro di Fausto Melotti, Tullio Garbari, Alfredo Degasperi, Gelsomino Scanagatta e Carlo Belli. Tra il 1910 e il 1913, vive una stagione pittorica oscillante tra il gusto simbolista basti pensare a Teschio (1910) e a Paolo e Francesca (1910), quello tardo-impressionista e, soprattutto, quello grottesco. Per quanto concerne la scultura, invece, è di stampo floreal-secessionista, di probabile derivazione scanagattiana. L’artista si avvicina al Futurismo tra il 1911 e il 1912, quando scopre i componimenti di Libero Altomare e di Aldo Palazzeschi, che catalizzano la sua attenzione verso gli stilemi del movimento nato da pochi anni. In Spezzature, infatti, leggiamo: «ora è principio di epoca rinnovatrice radicata, di visioni macchinarie, di concerti e sinfonie elettriche, danze e fughe vertiginose di sottomarini e siluri , turbinar di velivoli sopra città fumanti». La tensione talvolta eroica, talaltra struggente caratterizzante questo periodo di transizione, sfocia nel desiderio di uscire dalla provincia per recarsi a Roma e visitare la mostra di Boccioni presso la Galleria Futurista di Sprovieri. Già nel 1914, riformato dal servizio militare mentre il primo conflitto mondiale imperversa nella Mitteleuropa, si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con artisti del calibro di Cangiullo, Balla, Prampolini e Sironi. Per circa un anno, Depero si dedica a un’interessante serie di disegnisilografici che lo «situa tra i grafici più interessanti ed espressivi in questo momento in Italia». Questi disegni, realizzati con la tecnica della china, testimoniano un’elaborazione laboratoriale che anticipa le opere pubblicitarie e grafiche degli anni successivi. Guardando globalmente la quarantennale attività artistica di Depero, dovremo tenere sempre presente alcune coordinate per tracciare la geografia della sua arte che, a suo dire, «si fonda sul disegno definito, sulla stilizzazione in libertà, sulla colorazione accesa e unitaria, sulla plastica inventiva e sulla fantasia senza limiti». Il disegno, quindi, rappresenta la piattaforma di partenza per tutta la sua variegata produzione artistica. Diciamo fin d’ora che quest’ultima si può dividere in tre macrofiloni: quello sonoro, che va dalle declamazioni presso la Galleria Sprovieri in qualità di “Scetavaiasse” all’“onomalingua”, passando per il teatro; quello grafico-pittorico che si sviluppa prevalentemente nei settori pubblicitario ed editoriale e, infine, quello ambientale, nel senso di arte totale che si manifesta nella costruzione di edifici, nell’abbigliamento, nei giocattoli e nell’arredo di interni. La sua progettazione creativa, a ben vedere, «fonda la sua regola operativa sulla invenzione strutturale delle forme e dell’ambiente, principio assoluto del suo pensiero plastico inteso come ricostruzione del reale nell’estetico, del razionale nel ludico, dell’immaginativo nel tecnico e nell’artificiale». Riguardo a questa terza declinazione della sua produzione, Depero presenta il suo principio di arte pervasiva in un manifesto datato 1914 e rimasto allo stadio di manoscritto: Complessità plastica. Gioco libero futurista. L’Essere vivente artificiale. Si configura larvatamente l’identità tra arte e vita, promuovendo l’innalzamento della prima a motore attivo della seconda, a nucleo fondante che, per assolvere a questo ruolo, deve radicarsi nella realtà quotidiana. L’artista, inoltre, torna a ricoprire le vesti del genio non specializzato, cioè «critico + architetto + pittore + scultore + musico + matematico + meccanico + fisico + chimico + conferenziere + soldato + pazzo». Abbiamo accennato ai contatti con Giacomo Balla ma, proprio dal 1914, i due iniziano a sperimentare e a condividere il loro universo creativo, tanto da giungere alla costruzione dei cosiddetti “complessi plastici motorumoristi” che rappresentano la «prima tangibile prova delle possibilità che l’arte ha di agire dentro le sembianze multiformi della vita». Si tratta di oggetti dinamici polimaterici, animati da congegni meccanici, idraulici o pirotecnici, che coinvolgono ogni sfera sensoriale sia dell’artista che del fruitore, abbracciando una finalità ludico-ricreativa. Bartorelli rileva che «il “complesso plastico” teorizzato nel manifesto è, senza dubbio, l’embrione, ancora indifferenziato, delle successive, molteplici realizzazioni del futurismo nelle arti applicate» che si integrano perché aventi il medesimo codice genetico. Il manifesto inedito di Depero, dunque, raccoglie programmaticamente le basi teoriche che guidano la coeva produzione artistica di entrambi. Da un ampliamento della sua teoria, deriva il citato e ben noto manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, un volantino rivoluzionario di sole quattro pagine, firmato da Balla e Depero, uscito a Milano l’11 marzo 1915: la sua importanza risiede nella teorizzazione di un’arte ibrida che «postula il diffondersi dell’intervento creativo in tutti i campi possibili, dall’arte alle arti applicate, all’ambiente, alla decorazione, quindi all’arte al servizio dell’industria, ovvero alla pubblicità». L’operazione estetica investe, dunque, un repertorio potenzialmente infinito di oggetti, di supporti, di contesti e di luoghi, modificando la relazione artista-opera-fruitore che si fa collaborativa. Il manifesto, inoltre, apre le porte all’astrazione che Boccioni ha solo teorizzato e mai applicato del tutto, restando entro il recinto della referenzialità. I giochi, le scenografie, i complessi plastici, così come i dipinti, le sculture o gli arredi fungono da dispositivi non rappresentativi ma cosmici in cui gli artisti canalizzano le loro emozioni che, a ben vedere, vengono plasticamente sintetizzate. Le opere così create, in ultima analisi, instaurano un fitto ordito di corrispondenze tra la sfera sonora, quella visiva, quella tattile e quella psicologica. Ricostruzione futurista dell’universo trova la sua prima applicazione nel 1916: Depero organizza un’importante personale futurista inaugurata da Marinetti e Balla in cui appare evidente il carattere poliedrico della sua arte, che si sostanzia nell’utilizzo di plurimi mezzi espressivi e nell’impiego di altrettanti materiali. Riguardo a quest’ultimi, occorre precisare che Depero non intende esaltare i mezzi o gli strumenti come tali, quanto piuttosto «conseguire mediante questi, oltre che la liberazione della sensibilità plastica, anche l’attivazione dell’eterno costruttore che è in noi». Durante questo evento, l’artista espone anche l’“onomalingua”, ovverosia una «verbalizzazione astratta delle forze naturali» e degli oggetti che, quindi, vengono evocati. Si tratta di un linguaggio universale in cui suono, forma, colore e impaginazione sono strettamente interconnessi. In molte delle opere in mostra, infine, fanno la loro comparsa i numeri in compenetrazioni dinamiche tema rielaborato dallo stesso Balla nell’olio su tela Numeri innamorati del 1923 che saranno importanti per alcuni poeti concretisti. La personale deperiana del 1916, in definitiva, «sviluppa il tema delle equivalenze segno-suono-emozione per la parte poetica, e quello delle equivalenze colore e/o volume-suono-emozione per la parte pittorico-plastica», come rileva lucidamente Passamani. Trascorsa la Grande guerra, partecipa all’Esposizione nazionale futurista alla Galleria centrale d’arte di Palazzo Cova a Milano, in cui si presenta tra i protagonisti del movimento. Nella primavera del 1919, Depero torna a Rovereto e in quel clima di ricostruzione, fonda la sua Casa d’arte futurista, con la quale intende una volta perfezionata la tecnica produrre arazzi in gran quantità, unitamente a cartelli pubblicitari, mobili e suppellettili varie . Infatti, lo spirito di Ricostruzione futurista dell’universo, con il suo caleidoscopico ventaglio di proposte, non poteva certo rimanere ingabbiato nell’ambito di gallerie o musei, o esercitarsi in sterili sperimentazioni tanto eclatanti, quanto effimere. Come rileva giustamente Passamani, la Casa d’Arte in qualche modo «rappresenta per Depero un luogo di esperienze intorno ai materiali specie legno e stoffa, un permanente stimolo alla soluzione di problemi formali, di comunicazione, nei settori più vari», offrendosi al contempo come officina e come piattaforma teorica. L’arte futurista, quindi, esce dai luoghi istituzionali e ne coinvolge altri, grazie all’utilizzo di diversi materiali e supporti: nella fattispecie, Depero si occupa dell’arredo di interni, di ampi portali, di pittura musiva, di scenografie, di costumi, di giocattoli, di pannelli pubblicitari e della decorazione dei suoi famosi arazzi. Questi ultimi, definiti “quadri cuciti” o “quadri in stoffa”, si evolvono negli anni, partendo da un collage di stoffe su una base di cartone, per poi divenire una composizione cucita a tarsia a tela grezza, usata normalmente per le lenzuola. In un articolo del 1921, Margherita Sarfatti scrive: non si limitano ad evocarci innanzi una forma, ma aggruppamenti e composizioni di scene, pur sempre tenute, però, dentro il ritmo di una composizione e una deformazione dai fini nettamente decorativi. Nessuna intenzione di imitare o riprodurre la realtà: ma, come appunto è e deve essere il proprio dell’arte decorativa, una «traduzione» e «trasposizione» delle cose reali. L’azzurro, il rosa, il rosso corallo sostituiscono audacemente i colori del mondo della esteriore realtà, e ci introducono così di colpo entro una suggestione di mondo fiabesco. I primi arazzi sperimentali risalgono al soggiorno caprese del 1917, presso l’amico Gilbert Clavel, salvo poi perfezionare la tecnica in seguito. L’universo teatrale è il referente dei manufatti tessili di Depero e, a questo proposito, Scudiero afferma che «è grazie alle ideazioni teatrali se gli arazzi da una parte, ed i dipinti dall’altra, ricevono quell’impulso imaginifico ed iconografico che ne determina il grande salto di qualità sia in termini inventivi che prettamente visuali». Con queste opere estremamente originali nel panorama tessile contemporaneo, giunge prima alla Biennale di Arti Decorative di Monza nel 1923, poi all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes tenutasi a Parigi nel 1925 e, con essa, la fama internazionale. Affinando l’esecuzione nel corso degli anni, Depero inventa l’arazzo-mosaico, costituendo «il più tipico esempio di quell’incontro tra “arte” e “mestiere”» che lui ricerca costantemente nella sua sperimentazione artistica, elaborando certi principi del movimento britannico Art and Crafts. Il suo laboratorio, guidato da Rosetta, prevede la collaborazione tra l’artista, la moglie e un gruppo di operaie specializzate, andando a instaurare un clima che ricorda quello delle antiche botteghe medievali e rinascimentali. Come vedremo anche per il campo pubblicitario, nel rapporto tra cartello e quadro, Depero eleva «la decorazione stessa a valenza d’intensità pittorica», per cui l’arazzo diventa un “quadro in stoffa”, ovverosia un’opera d’arte fruibile in qualsivoglia ambiente interno, pubblico o privato. Il dipinto e l’arazzo, in ogni caso, restano due entità separate ma permeabili, così come ci spiega Gerardo Dottori: Il fatto che molti quadri di Depero sono stati tradotti da lui in quei magnifici e famosi arazzi imitati in tutto il mondo, fanno dire che tutti i suoi quadri son degli splendidi arazzi. Non è vero. Anche se il soggetto, la composizione, il colore del quadro sono gli stessi che nell’arazzo, c’è tra l’uno e l’altro quella differenza, grande o piccola che sia, per cui ognuno vive nel proprio campo di arte pura o applicata. E qui sta forse il “miracolo” del “mago di Rovereto”. Egli sa manovrare in modo da non invadere l’altro campo pur operando sul confine massimo di entrambi . L’attività della Casa d’Arte, detta “Casa del Mago”, è senz’altro volutamente artigianale, così come la Depero Futuristic Art House di New York, avvertendo probabilmente l’influsso del Bauhaus che incita gli artisti a un ritorno alla manualità. La scuola fondata a Weimar da Walter Gropius per poi essere trasferita a Dessau e a Berlino si fonda, infatti, sulla fusione tra l’architettura, l’artigianato e la progettazione industriale. Abbiamo già citato le Case d’Arte di Bragaglia e Balla, ma quella di Depero si mostra come un vero e proprio tempio dell’arte applicata, un coacervo di sperimentazioni ibride in cui prendono vita, quasi a solidificarsi, i principi esposti in Ricostruzione futurista dell’universo. Quella deperiana è ben diversa anche dalla Casa d’Arte Italiana creata nel 1918 da Prampolini e il critico Mario Recchi, in via San Nicola da Tolentino a Roma: gli arredi sono pochi e di fattura artigianale, al contrario dei dipinti e delle sculture, e ciò dà luogo a un ambiente disorganico e sproporzionato che ha, però, il merito di promuovere incontri e lavori collettivi. Ciò che accomuna le Case d’Arte futuriste è, paradossalmente, il coinvolgimento quasi esclusivo di una classe sociale, la borghesia, che dopo la Prima guerra mondiale riesce a rafforzare il suo status all’interno della società. Al di là della riuscita più o meno relativa di queste Case d’Arte, ad avere un peso specifico di notevole rilevanza è la differente visione delle coordinate spaziali in cui si colloca l’opera. Daniela Fonti, a tal proposito, mette in luce una base teorica interessante di «ricostruzione dello spazio, uno spazio non più neutro ma operativo, che è riflesso della progettazione e luogo di esposizione, dell’evento e dell’incontro intellettuale». Oltre alla Casa d’Arte di Rovereto, Depero si dedica alla trasformazione di spazi interni operazione anticipata da Balla per casa Löwenstein a Düsseldorf, basti pensare al Cabaret del Diavolo a Roma, al Teatro Sociale di Trento, alla decorazione del ristorante Zucca di New York, all’aula del Consiglio Provinciale di Trento: in questi luoghi, il poeta ricerca la corrispondenza tra arte e ambiente, credendo fermamente nella loro compenetrazione che avviene tramite un linguaggio comune. Per tutti gli anni Venti e fino al 1936-1937, Depero porta quindi avanti la sua attività laboratoriale parallelamente alla pittura, alla scenografia, alla poesia e all’arte pubblicitaria, salvo poi dedicarsi prevalentemente alla tarsia con il Buxus. La sua costante ricerca, in definitiva, «gli ha permesso di provare certe formulazioni più utopiche del suo fervido cosmologismo estetico, precedendo molte soluzioni e proposte» delle Neoavanguardie. Queste raccoglieranno, soprattutto, i principi di Ricostruzione futurista dell’universo, l’ibridazione tra varie forme d’arte, il superamento del concetto di libro e la sua arte postale. Per la Poesia Concreta, nella fattispecie, gli aspetti salienti sui quali ci soffermeremo sono l’adozione di materiali eterogenei e l’arte pubblicitaria. Tornando all’inizio del nostro discorso, quindi, Depero, una volta trasferitosi a Roma, metropoli multiforme che funge da centro propulsivo del movimento, opera nel contesto urbano, disegnando i Padiglioni plastici già tra il 1915 e il 1916. Per lui, d’altronde, «l’architettura è l’elemento primo di qualunque espressione artistica» perché, essenzialmente, può contenere tutte le altre. Progetta, quindi, un chiosco pubblicitario nel 1924, le cui forme richiamano le montagne alpestri; due plastici in legno per padiglioni e realizza, nello stesso decennio, il Padiglione tipografico Bestetti Tumminelli Treves, in occasione della Terza mostra internazionale di arti decorative di Monza del 1927: «considerato in se stesso, questo padiglione risulta fortemente individualizzato dalla propria destinazione e dalla particolare natura di costruzione a lettere e parole, che rimandano al senso figurativo della pagina futurista». La grafica e il paroliberismo stanno, dunque, alla base dell’arte ambientale deperiana che si sostanzia, per quanto concerne gli spazi esterni, nell’architettura pubblicitaria. Parleremo più approfonditamente del celebre libro Depero futurista in altra sede, ma basti qui dire che il lettering è fondamentale per tutta la sua produzione pubblicitaria: le lettere hanno una funzione architettonica, per cui la parola viene assunta nel suo valore iconico e sonoro. Dopo i primi sporadici cartelloni degli anni Dieci , dal 1920 Depero si occupa massicciamente di progetti promozionali e realizza, nel 1921, una serie di manifesti per l’editore Umberto Notari: la tecnica adottata è quella del collage di carte colorate, mutuata dalla produzione di arazzi, caratterizzata dalla cucitura di ritagli di stoffa. Nello stesso anno crea il Manifesto pubblicitario Casa d’Arte Depero che raffigura un complesso plastico di due pappagalli, che deriva dalle precedenti tarsie. Come rileva Gabriella Belli, Depero attua un vero e proprio «travaso di motivi iconografici dalla pittura al teatro, all’arte pubblicitaria», dando luogo ad affiches di incredibile originalità. La sua fama nel settore aumenta tanto da essere premiato nella sezione “cartelli-arte della strada” alla citata Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi nel 1925. La capitale francese, d’altronde, colpisce profondamente la sensibilità di Depero con le sue costruzioni in ferro, le insegne di grandi dimensioni, i cartelloni nei boulevards e, soprattutto, la capillare illuminazione stradale. L’esperienza parigina, dunque, stimola la vena creativa dell’artista trentino che arriva a collaborare anche grazie all’intercessione di Fedele Azari – tra le svariate ditte, con Richard Ginori, San Pellegrino, Rimmel, Verzocchi e, soprattutto, Campari. I contatti con quest’ultima cominciano già nel 1924, quando inizia a ideare celebri cartelloni in cui le figure stilizzate e meccanizzate si stagliano su un fondo spesso monocromo, dando luogo a composizioni semplici, ironiche e di grande impatto visivo. Oltre ai personaggi che derivano dalle marionette del Teatro Plastico, Depero antropomorfizza il prodotto stesso o crea scene astratte, ottenute talvolta da un’originale composizione decorativa. Le figure analizzate in forme geometriche sono comparabili a quelle scultoree di Oleksandr Archipenko, che è ben noto in Italia a partire dal 1914, quando espone alcune sue opere alla Iª Esposizione internazionale futurista a Roma, e in seguito ad alcuni articoli su «Valori Plastici». Nel corso degli anni, la collaborazione prevede anche locandine, vassoi, distributori automatici, un mosaico in vetro, un padiglione pubblicitario e il Numero Unico Futurista Campari, realizzato con Giovanni Gerbino . Depero, infatti, scrive: «l’arte della pubblicità è un’arte decisamente colorata, obbligata alla sintesi arte fascinatrice che audacemente si piazzò sui muri, sulle facciate dei palazzi, nelle vetrine, nei treni, sui pavimenti delle strade, dappertutto; si tentò perfino di proiettarla sulle nubi» . È così che, nelle strade cittadine, si diffondono manifesti, cartoline e volantini pubblicitari anche di auto-rèclame – che vanno ben oltre il mero fine commerciale e conferiscono all’arte, invece, la possibilità di circolare nel tessuto urbano «con l’obiettivo di un’avanguardia di massa» . È necessario specificare, d’altro canto, che Depero differenzia sempre il campo pittorico da quello grafico, pur dedicandosi e all’uno e all’altro con la stessa dedizione . Non abbatte i confini tra una disciplina e l’altra, bensì vede l’arte come una potente forza invadente ogni attività umana. Attua una distinzione, quindi, tra il quadro pubblicitario e il cartello, spingendo l’afflato artistico fino a locandine, manifesti e pannelli atti a vendere un prodotto. Il quadro pubblicitario questa la didascalia, per esempio, di Squisito al Selz si differenzia dal cartello per la sinteticità, per l’impatto visivo, per le forme dinamiche e per i colori che danno luogo a contrasti simultanei: il pannello pubblicitario futurista, quindi, è assurto a quadro, elevandosi rispetto al comune cartello. Il prodotto viene esaltato dalla potenza cromatica, dalla composizione dinamica che spesso rimanda all’ambito teatrale e dalla fantasia formale. Le promozioni grafiche nei quotidiani, invece, vengono realizzate a china, stabilendo un netto contrasto tra bianco e nero, lasciando il passo alla bicromia tra rosso e nero durante la sua prima permanenza a New York. A partire dalla seconda metà degli anni Venti, inoltre, Depero inizia a corredare le immagini con veri e propri slogans, quasi sempre umoristici, che caratterizzano in prevalenza le campagne promozionali di Campari . Abbiamo già dato cenno dell’importanza del suo primo soggiorno a New York , databile tra il novembre del 1928 e l’ottobre del 1930, durante il quale «i racconti nelle sue tele si rifugiano in uno schematismo intransigente e tendono ad una pura equivalenza di solidi geometrici». Il subbuglio del periodo provoca anche un cambiamento di stile nell’arte pubblicitaria: riscontrando numerose resistenze tra i possibili committenti americani, Depero si avvicina al gusto déco, come possiamo vedere nelle illustrazioni per «Vogue», per «Vanity Fair», per «Sparks» e nelle pubblicità per l’American Lead Penci. L’apporto di Depero al settore pubblicitario, quindi, è notevole, considerando che, per i primi due decenni del ventesimo secolo, l’affiche segue ancora i modelli di Jules Chéret, di Charles Rennie Mackintosh e, più in generale, dell’Art Nouveau. Accostando i manifesti di Marcello Dudovich, di Nino Nanni, di Mario Pozzati o di Sepo a quelli dell’artista trentino, si avverte immediatamente lo scarto. Un possibile punto di riferimento potrebbe essere, invece, Vilmos Huszár, pittore astrattista ungherese che si stabilisce in Olanda nel 1905, dove aderisce al De Stijl fin dalla sua fondazione. Negli anni Venti – contemporaneamente a Depero, quindi crea ampie composizioni pubblicitarie parietali, fondendo elementi architettonici, grafici e pittorici. Depero porta in Italia, in ultima analisi, una ventata di novità e di sperimentazione formale che travolge numerosi esponenti del movimento e stride la sua assenza all’Esposizione del cartello internazionale e del cartello italiano rifiutato, tenutasi presso la Galleria Il Milione di Milano nel 1933. Nell’introduzione abbiamo accennato, infatti, al suo valore come punto di riferimento per molti degli artisti del Secondo Futurismo. Lucio Venna, per esempio, inizia a frequentarlo a Roma nel 1918 e, dal 1922, abbandona la pittura in favore della grafica pubblicitaria. In quindici anni di lavoro nel settore «disegna oltre cento manifesti e moltissime locandine; pieghevoli, copertine per riviste, calendari e numerosi marchi aziendali» .
Tra le tecniche da lui predilette annoveriamo il collage e, dall’analisi dei suoi manifesti, si evince una ricerca per la sintesi geometrica di matrice boccioniana, già teorizzata nel manifesto Fondamento lineare geometrico del 1917. Dopo una prima fase anfibia, durante la quale Venna si accosta maggiormente alla produzione di Cappiello, in particolare per il fondale nero e le composizioni più pittoriche che grafiche, dalla seconda metà degli anni Venti l’influsso deperiano è immediatamente percepibile: gli arditi accostamenti cromatici, la stilizzazione delle figure, l’uso di slogans immediati ed efficaci, il ricorso all’antropomorfizzazione degli oggetti, rendono le pubblicità per Invicta, per Bertelli e per Ferragamo interessanti e innovative. Anche per Venna, d’altronde, la base da cui partire per l’elaborazione dei suoi manifesti è quella delle tavole parolibere, per cui le scritte partecipano alla composizione dell’image-text. Oltre a Lucio Venna, possiamo senz’altro citare Nicolay Diulgheroff tra i cartellonisti più attivi del periodo: nel 1928 espone i suoi cosiddetti “cartelli lanciatori” nel Padiglione futurista torinese vincendo il Gran Premio per Arte Decorativa e Cartello lanciatore, seguiti dalle committenze della S.T.I.G.E di Torino e dell’Impresa Tucci nel 1929. Ponendolo sulla scia di Balla e Depero, Fillìa schematizza l’attività di Diulgheroff in questi termini: «mentre molti di noi concepiamo il futurismo in profondità, altri futuristi non distinguono i valori puri e decorativi dell’arte ed operano liberamente con un’intensità meno cerebrale ma più colorata, più calda e più umana. Diulgheroff, in quest’ultima tendenza, è piazzato come pittore, decoratore, cartellonista ed architetto», attraversando tutte (o quasi) le arti plastiche. In queste parole si avverte la volontà di incasellare l’attività di Diulgheroff sul ramo di Ricostruzione futurista dell’universo, per poi allontanarlo dalla freddezza del Cubofuturismo che potremmo definire «cerebrale» e accostarlo all’«intensità più colorata» di Balla e Depero. Esattamente come quest’ultimo, si dedica all’arredamento d’interni, uno fra tutti quello del locale torinese Santopalato, e costruisce Casa Mazzotti a Savona. Riguardo alla produzione in ambito pubblicitario di Diulgheroff, è interessante introdurre il citato “cartello lanciatore”, ovverosia un tabellone laminato che mostra la réclame su entrambe le facce. Superando, quindi, la fragilità della carta, utilizzata normalmente per manifesti e locandine, Diulgheroff adotta un nuovo supporto che, ovviamente, trova collocazione per strada. In questo modo «il passante è obbligato a imprimersi nella memoria quelle indicazioni rappresentate». Questo modo di concepire l’arte pubblicitaria è ampiamente condiviso da Depero , perché cerca di intercettare chiunque e non una fascia ristretta della popolazione. Un’arte che, d’altronde, per poter essere pop, non necessita di interpretazione ma di assimilazione talvolta anche inconscia del connubio indistinto tra forma, colore, carattere tipografico e prodotto pubblicizzato. Come si legge in un manoscritto conservato al Mart, Depero afferma che «ogni creazione pubblicitaria DEVE, DEVE, DEVE, essere originale, inventata, rara, audace, cazzottatrice, sorprendente. Deve agganciare, fulminare magari il passante distratto o frettoloso, deve essere improvviso e imprevisto». Questo principio viene abbracciato anche da Cassandre, uno dei massimi esponenti del cartellonismo francese, attivo principalmente tra gli anni Venti e gli anni Trenta. Le figure diventano sintetiche, il lettering acquista importanza, si ricerca il contrasto cromatico per colpire il fruitore. L’arte si fa, dunque, fast, anticipando di qualche decennio l’esplosione dei fast food anglosassoni: il principio è il medesimo perché, a ben vedere, la routine frenetica non lascia che un breve lasso di tempo per leggere un cartello così come per nutrirsi. Leggere un libro, andare in un museo per osservare un dipinto o una scultura, ascoltare della musica sono attività ormai eccedenti e, dunque, impensabili. L’arte deve abbreviarsi, rimpicciolirsi, diventare monodose, perfino portatile, per rincorrere il fruitore affannato. In un articolo del 1936, Depero afferma che «l’uomo di pensiero e il milite dell’arte devono assolutamente camminare con la vita che affianca e vibra attorno», non può né restare indietro né chiudersi in una torre eburnea. Con il passare degli anni, infatti, le locandine deperiane diventano sempre più essenziali e iconiche, grazie all’aiuto di scritte e simboli perlopiù frecce che completano il taglio compositivo.
Nel manifesto Il futurismo e l’arte pubblicitaria del 1931, Depero «giunge a individuare nel messaggio pubblicitario lo scopo di tutta l’arte, fin dall’antichità» , prefigurandosi come una sorta di arte totale, che verrà teorizzata compiutamente da Adriano Spatola alla fine degli anni Sessanta. Sulla scorta di Depero ma anche di Balla e Prampolini – molti futuristi si trovano, infatti, a esplorare più settori artistici, anche “minori”, per cui li vediamo adoperarsi nella ceramica, nel design, nella grafica e, per esempio, nella collaborazione con architetti razionalisti per l’allestimento di vetrine e di padiglioni basti pensare alla Mostra della Moda del 1933, a cui partecipa Fillìa – dando luogo a una sinergia tra linguaggi artistici differenti, con lo scopo di raggiungere la massa. Il passo tra “l’arte della strada” di Depero e i Testi-poemi murali di Carlo Belloli è breve. Già nella citata mostra romana del 1916, Depero espone poesie murali e questo dimostra il suo precoce interesse per un’arte anfibia di tipo parietale, anche se, a quest’altezza cronologica, si trova ancora all’interno di un edificio. La maturazione avviene in spazi esterni, sulla strada, nelle piazze, dove ambienti differenti si compenetrano visivamente e i fruitori si spostano. La pittura e la poesia, quindi, escono rispettivamente dalla tela e dal libro per fondersi in opere murali che devono essere guardate e lette in un breve arco temporale. Queste ben si differenziano occorre precisarlo dagli affreschi e dai mosaici di De Chirico o di Carrà che, in seguito alla Triennale di Milano del 1933, prolificano sugli edifici del regime. Il polimaterismo, assolutamente centrale per l’artista trentino , tanto che in una lettera del 1960, Carlo Belloli gli riconosce «il contributo teorico e pratico al pionierismo nell’uso di nuovi materiali nelle arti plastiche» non viene preso in considerazione da pittori del calibro di Amerigo Canegrati, Gianfilippo Usellini e dai citati espositori. In particolare, dopo il suo controverso primo soggiorno americano, avvenuto tra il novembre del 1928 e l’ottobre del 1930, Depero avverte la necessità di raggiungere una sintesi tra i materiali sonori, plastici e visivi tramite nuovi mezzi espressivi. Il collage pubblicitario o, più in generale, la tecnica del montaggio, talvolta figurativo talaltra grafico, gli permette di sollecitare più sfere sensoriali. Negli anni Trenta gli viene chiesto svariate volte di adeguarsi ai cambiamenti della grafica pubblicitaria, utilizzando tinte sfumate e materiale fotografico, ma Depero rimane fedele, nella maggior parte dei casi, al suo stile personale, conservando la tecnica del collage e, soprattutto, l’esplosione cromatica dei suoi lavori pubblicitari. La potenza dei colori a tinte piatte caratterizzante tutta la produzione deperiana – è riscontrabile anche nei quadri di Johannes Itten, artista che insegna al Bauhaus dal 1919 al 1923, per poi continuare la sua attività didattica tra Berlino, Krefeld e Zurigo. «Colorista finissimo, pur fondando la sua pittura su rigorose basi teoriche, riscatta nelle raffinate modulazioni e variazioni cromatiche la geometria elementare delle sue composizioni, del resto calibratissime», ma il pittore svizzero è noto, in particolare, per aver creato il Farbkreis, ovverosia il cerchio cromatico, che sta alla base del suo Kunst der Farbe . In questo volume, Itten parla principalmente dei contrasti di polarità che si ottengono, per esempio, tramite giustapposizione di colori puri o complementari. Molti dei fenomeni descritti da Itten nel volume del 1961, vengono palesati molti anni prima proprio da Fortunato Depero, che si dimostra un maestro del colore. È altamente probabile che Diulgheroff abbia svolto il ruolo di trait d’union tra Depero e Itten, avendo stretto un legame di amicizia e di collaborazione con quest’ultimo nel 1923 . Il suo uso insistito del collage, inoltre, costituisce un importante modello, in Italia, per i poeti visivi e per Adriano Spatola. Il Monogramma FD, per esempio, vede la compenetrazione delle due lettere in questione che appaiono come due corpi tridimensionali. I differenti colori di ogni faccia amplificano il senso di profondità e, nonostante manchino le sovrapposizioni che caratterizzeranno i collages della Poesia Visiva, la solidificazione della lettera, vista come un’entità nello spazio, sarà un dato basilare per le esperienze successive. Un altro esempio piuttosto importante è L’Aperitivo Campari. Progetto per vassoio , creato nella seconda metà degli anni Venti, in cui il collage è composto per giustapposizione di strisce rosse e nere che formano la scritta. Per non parlare del ben noto Uomo-matita, un collage molto articolato in cui i ritagli geometrici danno luogo a forti opposizioni cromatiche. La pubblicità intitolata Se la pioggia fosse di Bitter Campari , realizzata tra il 1926 e il 1927, con inchiostro di china e collage è un’importante anticipazione degli “zeroglifici” di Spatola: il termine «bitter», infatti, scritto a stampatello sul lato destro del foglietto, è costruito sulla bicromia dei caratteri, tra i quali la «i» e la «t» si frangono rispettivamente in striscioline e in pezzi. Ottiene il medesimo risultato in numerose stampe tipografiche – come nelle locandine per la ditta dolciaria Unica – e in bozzetti di varia natura, come quello per la locandina del sapone Banfi del 1927 o della De Marinis & Lorie del 1929 Il bozzetto per la pubblicità Komarek del 1933, realizzato con inchiostro di china su carta, è un caso particolare: nonostante che i caratteri siano interi e graficamente normali, Depero applica la bicromia per il quadrante in alto a sinistra, che coinvolge il fondo, il termine «società», l’iniziale di «italiana» e le prime quattro lettere di «Komarek» che vengono come tagliate a metà dal colore. Qui il poeta manipola il lettering per stabilire un gioco semantico con il fruitore: la contrapposizione tra il bianco e il nero corrisponde all’effetto di luce-ombra ottenuto dalla semichiusura dell’avvolgibile, ovverosia del prodotto pubblicizzato. È rimarchevole, d’altronde, l’effetto optical degli avvolgibili, ricavato da un contrasto turbativo delle liste e dalla linea curva del vano finestra. Le rifrazioni e le illusioni ottiche caratterizzano, nello stesso periodo, molte opere di Josef Albers e di Wassily Kandinsky, ma più che di un gioco di influenze reciproche si può parlare di sperimentazioni contemporanee. L’intera campagna per la Komarek, fino al pannello ad olio su compensato esposto nella Sala Rovereto della Galleria Museo Depero nel 1959, è anticipatrice di risultati grafici e ottici che ritroveremo nell’Op Art degli anni Sessanta, nelle “verbotetture” di Arrigo Lora-Totino e negli “zeroglifici” di Adriano Spatola. Riguardo a questi ultimi, si veda anche il ciclo di arazzi dedicato ai numeri. Le opposizioni cromatiche, i ribaltamenti e le sovrapposizioni saranno, infatti, elementi-cardine degli “zeroglifici” spatoliani. Sul finire degli anni Trenta e negli anni Quaranta, Depero riceve in prevalenza commissioni locali trentine e dall’Ente Provinciale per il Turismo, fino al fallimento del secondo viaggio in America, nel 1948, che apre un periodo di forte crisi per l’artista trentino. Alla fine del 1950 pubblica il manifesto sulla pittura nucleare che, però, non ha nulla a che vedere con il milanese Movimento di Arte Nucleare di Enrico Baj e Sergio Dangelo La sua eccezionale parabola termina nonostante qualche altro lavoro sporadico nel 1951 con la LXXXIXª Mostra Personale in cui raccoglie numerose opere realizzate dal 1915, ma possiamo affermare che la sua ombra si allunga fino agli ultimi decenni del secolo. In un articolo del 23 ottobre 1923, apparso su «L’Impero», il quotidiano romano di Mario Carli ed Emilio Settimelli, Fortunato Depero scrive: Ho visitato in questi giorni lo studio del nostro caro e compianto Boccioni a Milano. Dopo alcuni minuti di angoscia dolorosa mi sentii preso dalle colorazioni potenti dei quadri e dal meraviglioso dinamismo dei complessi plastici. Nulla di morto intorno a me. Tutto parlava eloquentemente, eccitava lo spirito, imponeva un ottimismo trionfale, un ottimismo fatto di immortalità. Il nucleo degli artisti migliori che rappresentano l’epoca nostra sono i futuristi, i cubisti e gli impressionisti vari. Impressionisti, simultaneisti di luce e di frammenti pittorici, cubisti indagatori di volumi e profondità ignote; scompaginatori ostinati di corpi, futuristi indiavolati dinamici di sensazioni e valutazioni di stati d’animo, adoratori del moderno e del nuovo, sono i soli artisti d’oggi. Parecchi giovani di talento che vissero i fenomeni artistici più avanzati, che compresero le necessità avanguardiste e futuriste, momentaneamente si scoraggiarono sgomentati. Ad un tratto si pensò di finirla con le sovrapposizioni, con le compenetrazioni, con la simultaneità ed i dinamismi, stati d’animo, astrazioni. Ho passato molte ore nello studio di Boccioni ai Bastioni di Porta Romana in Milano. Visitatelo! Troverete un grande, tormentatissimo creatore geniale. Ha studiato, sfaldato, costruito le luci, i riflessi, i violenti contrasti, le forze impercettibili. Ha costruito i drammi delle sue estasi plasticamente, le torri babiloniche delle sue aspirazioni, ha tracciato programmi d’arte che i posteri hanno per anni ed anni da svolgere . Con “l’immortalità” di Boccioni, Depero evidenzia, certo, la portata della sua pittura, che ha conseguenze sull’arte successiva alla sua morte, ma delinea, al contempo, il perimetro di una crisi. Una crisi che ha già in sé i semi dell’aeropittura, la declinazione pittorica che si impone con successo sul finire degli anni Venti e nel decennio successivo. I protagonisti della pittura del primo periodo futurista, come abbiamo accennato nell’introduzione, sono Carlo Carrà , Gino Severini, Giacomo Balla e, appunto, Umberto Boccioni. Quest’ultimo e Carrà risultano come firmatari con Russolo, Bonzagni e Romani del Manifesto dei Pittori Futuristi, letto l’8 marzo 1910 al Politeama Chiarella di Torino. In questo primo programma pittorico si legge che «è vitale soltanto quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda»; questo concetto coinvolge ogni settore artistico futurista per molti anni. Abbiamo già parlato di arte ambientale per quanto concerne Depero, ma si potrebbe far riferimento, per esempio, anche agli affreschi di Fillìa nella Galleria degli arredamenti della Triennale di Milano, per i quali l’artista «affronta con mano salda l’espressione pittorica di oggetti in relazione all’ambiente spaziale», per non parlare degli interventi di Dottori per la casa romana di Mario Carli. Il principio esposto nel manifesto del 1910, quindi, conosce uno sviluppo decennale che, se si pensa a Fluxus o all’Arte Povera, coinvolge anche le Neoavanguardie. Nel successivo La pittura futurista. Manifesto tecnico, che stavolta vede tra i firmatari Balla e Severini, si afferma l’importanza del movimento: «il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale». Per quanto riguarda Boccioni, «il più forte campione dell’arte d’avanguardia italiana», fin dalle prime tele emerge una «carica quasi espressionistica» ottenuta attraverso una tavolozza basata sulla combinazione di colori primari e sull’opposizione binaria. La «violenza espressiva del colore» si manifesta con il «dislocamento dinamico delle figure», che entrano ed escono dal quadro, riproponendosi in momenti e posizioni differenti. Severini, invece, che attenua i contrasti, intende il colore «non come elemento sensoriale e perciò avulso dalla forma, ma piuttosto come mezzo provvisto di autentiche capacità evocative». In questi anni di sbandamento, si fa strada l’arte meccanica che viene teorizzata da Enrico Prampolini, Ivo Pannaggi e Vinicio Paladini in un manifesto del 1922. Rielaborando la “modernolatria” lanciata da Boccioni nel 1914, i complessi plastici di Balla e Depero, l’esaltazione della macchina come «massimo emblema poetico» e il dinamismo plastico, i tre artisti sviluppano una pittura che ricerca la sintesi tra «la concezione spirituale dell’oggetto e l’ideale plastico che il pittore si propone». Pannaggi e Paladini, in particolare, collaborano come scenografi e scenoarchitetti presso il Circolo delle Cronache d’Attualità – poi Teatro degli Indipendenti – di Bragaglia a Roma; questa esperienza permette loro di traslare nella pittura i motivi meccanici già ampiamente presenti nel teatro sperimentale futurista – basti pensare, ancora una volta, ai Balli Plastici di Depero e Clavel. Mario Verdone ricostruisce in modo accurato le vicende legate al manifesto, segnalando come la prima stesura sia a doppia firma Pannaggi-Paladini , salvo poi trasformarsi in un trittico Prampolini-Pannaggi-Paladini per intercessione di Marinetti, il quale definisce il suo protetto il «dio della meccanica» . Prampolini, inoltre, pubblica L’estetica della macchina e l’introspezione meccanica nell’arte su «De Stijl», in cui afferma «la necessità di considerare la macchina e gli elementi meccanici, quali nuovi simboli d’ispirazione estetica». Il discorso si inquadra perfettamente a completamento da una analisi proposta da Depero e dallo stesso Marinetti. L’arte meccanica – cui aderiscono anche pittori come Antonio Fornari e Federico Scirocco, quindi, in qualche modo fallisce perché nella maggior parte dei quadri, in ultima analisi, manca proprio il contraltare spirituale ed emotivo, dando luogo a composizioni fredde e architettoniche, che risentono dell’influsso del Costruttivismo e del Neoplasticismo. La «torrida sensualità coloristica e volumetrica» dei dipinti prampoliniani non basta a innovare la sensibilità pittorica del periodo, tanto che l’artista modenese si trova costretto a difendere l’arte meccanica da alcune speculazioni, da parte di Dottori, il quale individua nella mera riproduzione della macchina lo scopo di tale tendenza. I futuristi accedono a fatica alla Biennale di Venezia del 1926. Depero, dal canto suo, firma il manifesto senza contribuirvi in prima persona, dato che si trova a New York dal 1928 ma, come rileva Passamani, non dà il suo apporto all’Aeropittura neanche in seguito: «sia la spiritualità extraterrestre e cosmica come le prospettive aeree o quelle terrestri trasfigurate risultavano infatti inconciliabili con la “solidificazione dell’Impressionismo” e con l’oggettualità ponderabile da lui perseguite». Certo è che adotta la prospettiva multipla per realizzare quadri caratterizzati dal dinamismo plastico, ma la sua pittura resta ancorata al disegno, alle sagome e all’uso del colore a tinte piatte. Ad aver inciso notevolmente sull’aeropittura è, invece, Enrico Prampolini che, in un articolo del 1931, dichiara di averne posto le basi con i manifesti dell’Atmosferastruttura e dell’Estetica della macchina oltre che con la sua architettura spazialecromatica. I suoi scritti teorici e la sua sperimentazione spaziale, afferma, «hanno aperto le vie verso la conquista integrale dei valori della vita aerea». Avendo superato e sul piano ideologico e su quello tecnico la fase dell’arte meccanica, il linguaggio pittorico di Prampolini si amplifica «in senso simbolico, fino a metabolizzare un immaginario visionario e suggestivo» che si apre a una ricerca di tipo ontologico e cosmologico. Lo scopo della sua aeropittura è quello di «trasportare l’idea dell’universale spirituale nell’universale plastico» in modo tale che «la linea, la forma, la costruzione divengono una nuova realtà psichica». Le immagini oniriche e perturbanti prampoliniane, di matrice surrealista, si muovono «sul piano di un’intuizione psichica completamente liberata dalla componente sensoriale», portando a galla frammenti simbolici e psicanalitici. Lo stesso Prampolini, in un articolo del 1925, afferma già che la tendenza spirituale è «l’orientamento più importante, l’espressione più pura che potrà portare la creazione al di là del “marasma materialista”» , preannunciando, quindi, il proprio indirizzo di ricerca successivo. Nonostante Gustavo Barela lo citi come precursore, con Boccioni, della pittura atmosferica in cui «il colore assurge ad importanza capitale, non essendo possibile parlare di forma o di stato d’animo», dal punto di vista metodologico, in realtà, Prampolini cerca un «equilibrio tra forma e colore» , passando per la «solidificazione dell’impressionismo». Resta il fatto che, come afferma energicamente Fillìa, molte delle tele aeropittoriche sono «di puro soggetto atmosferico» , come Spiritualità extra-terrestre di Prampolini, appunto, e Divinizzazione dello spazio1 di Oriani. Guglielmo Sansoni, alias Tato, realizza La Madonna dell’Aria nel 1927 che segna il passaggio dalla fotografia aerea settore mai abbandonato del tutto all’aeropittura, abbracciando una «tendenza di carattere documentario», molto apprezzata dal regime. Lontano dall’astrattismo e dalla trascendenza che caratterizzano l’esperienza aeropittorica di altri protagonisti, Tato si focalizza sulle sensazioni e sulle prospettive date dal volo, come in Coppa Schneider e Sensazione di volo. L’artista trova «nel volo il proprio statuto epistemologico» grazie al sostanziale abbandono della staticità e degli oggetti terreni. Fondendo umorismo ed esplosione creativa, «la pittura di Tato dice veramente qualche cosa di nuovo e, quello che più conta, lo dice allegramente». Infine posso affermare che durante il soggiorno statunitense l’immagine della metropoli entrò a far parte del mondo fantastico dell’artista. Nella città, giungla artificiale osservata non più con l’occhio entusiasta dei futuristi, ma secondo l’ossessiva deformazione prospettica espressionista, l’immagine dell’uomo, costretto a una vita quasi primitiva per le leggi feroci che impone, è modellata su quella di legnosi idoli arcaici, tutte queste opere di questo periodo sono esposte nel Museo Depero a Rovereto. Tra il 1941 e il 1942 il Depero fu impegnato, nell’ambito dei lavori per l’E42, nell’esecuzione di un mosaico raffigurante Le professioni e le arti sulla parete esterna del palazzo delle Scienze. Dopo un secondo soggiorno negli Stati Uniti (1948-49), durante il quale abbandonò definitivamente ogni entusiasmo per la scena urbana, preferendole il paesaggio delle campagne e la cultura dei cowboys e dei pellirosse, il Depero tornò a Rovereto. Qui dedicò gli ultimi anni della sua vita a pubblicizzare la propria immagine con mostre e con la fondazione del Museo Depero. Nel 1956 portò a termine la decorazione della sala consiliare del palazzo della Provincia di Trento. Il percorso di mostra si conclude negli anni Cinquanta attraverso altre esperienze pubblicitarie, tra le quali spiccano l’intensa collaborazione con le Cantine Cavazzani e con Braibanti, azienda produttrice di macchinari per la lavorazione della pasta. Completa il percorso espositivo un corpus di documenti tratti dall’archivio storico dell’artista, che vedono manoscritti, corrispondenze e materiale a stampa affiancare le opere in mostra e accompagnare il visitatore in un itinerario completo attraverso la vicenda artistica e umana di uno dei protagonisti del panorama artistico italiano della prima metà del Novecento.
EARTH Foundation
Fortunato Depero . Sete di Futurismo, fame d’America
dal 25 Settembre 2024 al 1 Marzo 2025
dal Mercoledì alla Domenica dalle ore 11.00 alle ore 19.00
Lunedì e Martedì Chiuso
Installation view: “Fortunato Depero. Fame di Futurismo, sete d’America”, a cura di Luca Bochicchio e Federico Zanoner, EARTH Foundation 2024 – Foto: Nicolò Lucchi