Si parla spesso dell’importanza dell’agricoltura, sia in campo ambientale sia dal punto di vista strategico per il raggiungimento della tanto invocata autonomia alimentare, che in effetti dovrebbe essere un caposaldo dell’autonomia anche politica di un Paese. In realtà siamo molto lontani da questi obiettivi e anche lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile, magari incentivando il ritorno alla terra da parte dei giovani, è divenuta davvero un’impresa. Soprattutto se non si discende da famiglie di agricoltori o non si parte con ingenti capitali. A dirlo sono alcuni semplici conti che si possono dedurre dall’ultimo Rapporto Ismea 2024 sull’agroalimentare italiano, presentato il 21 novembre e che ci aiuta a capire le distorsioni di un mercato ormai divenuto davvero perverso. Uno degli indicatori chiave è il tasso di approvvigionamento generale del settore agroalimentare italiano, inteso come rapporto tra il valore della produzione interna e quello dei consumi, che nel complesso si è attestato, nel 2023, vicino al 100% (99,2%). Ovvero tutto quello che, prodotto in Italia, arriva sul mercato viene in pratica consumato, ma non è detto che molti prodotti coltivati arrivino al consumatore finale (per esempio nel caso degli agrumi in molti casi in contadino sceglie di non raccoglierli, poi vedremo perché). Inoltre per molti altri il fabbisogno nazionale non è soddisfatto dalla produzione interna e quindi si deve sopperire con l’importazione. In questi casi i primi dieci prodotti importati sono, in ordine: caffè, olio extravergine d’oliva (ebbene sì!), mais, bovini vivi, prosciutti e spalle di suini, frumento tenero e duro, fave di soia, olio di palma e panelli di estrazione dell’olio di soia. Il grado di autosufficienza dell’Italia per questi prodotti varia dallo 0% nel caso del caffè e dell’olio di palma a oltre il 60% nel caso dei prosciutti, ma sono mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, i prodotti che, secondo l’analisi di ISMEA, presentano le maggiori criticità in termini di approvvigionamento. Per esempio, per i frumenti l’industria pastaria dipende per il 44% dalle forniture provenienti da Canada, Russia, Grecia e Turchia e quella dei prodotti da forno che per il 64% del suo fabbisogno ricorre al prodotto di origine ungherese, francese, austriaco, ucraino e romeno. Contraddittorio e per certi aspetti assurdo è poi il caso dell’olio extravergine di oliva, di cui l’Italia è il secondo maggiore esportatore mondiale e il primo consumatore. Eppure quanto prodotto non ci basta, o meglio conviene venderne una quota importante all’estero e importare quanto ci serve (ovvero quasi il 50% del nostro fabbisogno) da altri Paesi del bacino Mediterraneo, in primis dalla Spagna. Ma perché queste aberrazioni commerciali? Perché il valore monetario di quanto prodotto sul campo è ormai ridotto ai minimi termini per l’agricoltore. È la cosiddetta «catena del valore», da cui emerge (sempre dal report Ismea) che su 100 euro spesi dal consumatore per prodotti agricoli freschi, meno di 20 vanno agli agricoltori ai quali, detratti costi, tasse, salari, ammortamenti e spese varie, rimane un margine operativo netto di 7 euro, contro i 19 euro del macrosettore del commercio e del trasporto. Ovvero ci guadagna molto di più (quasi tre volte) chi vende e chi trasporta rispetto a chi produce. Per i prodotti trasformati, che implicano ulteriori fasi come le lavorazioni industriali e gli imballaggi, il margine al povero agricoltore si riduce a 1,5 euro (sui 100 di partenza!), contro i 2,2 euro dell’industria e i 13,1 euro di commercio e trasporto. Capite dunque perché, alla fine, se non coltivate Brunello di Montalcino o Zafferano, oppure non avete qualche centinaio di ettari in produzione (ma in Italia la maggior parte delle aziende agricole sono ancora familiari, con una superficie media di 11,1 ettari-ISTAT 2022) farete una fatica infernale a far quadrare i conti. Ed ecco perché al povero contadino siciliano o calabrese a volte conviene non raccoglierle neppure, le sue belle arance!
Armando Gariboldi