Giovanni Cardone
Fino al 29 Settembre 2024 si potrà ammirare alle Gallerie d’Italia – Milano la mostra dedicata a Felice Carena a cura di Luca Massimo Barbero, Virginia Baradel, Luigi Cavallo ed Elena Pontiggia. A 145 anni dalla nascita, questa mostra vuole ricostruire la parabola artistica del grande pittore torinese, ma fiorentino e veneziano d’adozione considerato fino agli anni Quaranta uno dei grandi maestri del Novecento europeo che ebbe una straordinaria produzione grazie alla sua ricerca pittorica, luminista e poetica. In mostra oltre cento opere, oggi conservate in collezioni pubbliche e private delle città in cui il pittore visse e lavorò (Torino, Roma, Firenze e infine Venezia), e anche importanti e sorprendenti inediti. L’esposizione illustra la carriera e i successi di Carena che attraversa la prima metà del XX secolo con sperimentazioni sempre nuove, che spaziano dal simbolismo all’espressionismo, in una continua ricerca di dialogo con la tradizione classica e rinascimentale. Già in gioventù egli guardava non solo al luminismo nordico ma anche ai preraffaelliti e al simbolismo. In mostra saranno presenti le opere della piena plasticità degli anni Dieci, le composizioni molto più astratte e volumetriche degli anni Venti – come Gli Apostoli e La Pergola -fino ad arrivare all’opera del 1933 L’estate (L’amaca), che è da considerarsi uno dei suoi maggiori capolavori, per arrivare ai dipinti sacri del Dopoguerra italiano. In un mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Felice Carena apro il mio saggio dicendo : Nasce a Torino il 13 agosto 1880, vivente a Firenze, ove insegna pittura all’Accademia di belle arti. Alunno di Giacomo Grosso all’Albertina di Tonno, a vent’anni esordì con l’Annunciazione. Vinto nel 1906 il pensionato di Roma, due anni dopo eseguiva i Viandanti , ove rivelava una decisa ispirazione agli spiriti e alle forme di E. Carrière, mentre lo interessavano, per il colorismo, il Böcklin, l’Anglada, il Klimt. Queste diverse esperienze nella ricerca di una personalità, apparvero nella mostra individuale della XI biennale veneziana del 1912, ove il ritratto della baronessa Ferrero segnava un punto d’arrivo, mentre specialmente negli studî di nudo, nei bambini, nelle nature morte, al severo chiaroscuro del Carrière si sostituiva un cromatismo sensuale e musicale, tutto sfumature e richiami, che diventava quasi scopo a sé stesso. Rappresentano questo momento dell’arte del Carena anche la Madre , La Madonna e l’autoritratto. Ma Felice Carena non si arrestò sulla china del colore per il colore; si rinnovò sui post-impressionisti, e specialmente nel Medico di campagna e in alcune nature morte apparvero la predilezione per le sagome nette e squadrate, la fattura disadorna e quasi brutale. Dopo la guerra, nei Contadini al sole , nei Contadini, nel Porcaro, fu evidente la voluta ricerca di una linea compositiva e d’un equilibrio di masse; finché nel 1922, a Venezia, la Quiete (prima redazione, nella galleria Ricci Oddi di Piacenza) costituiva a un tempo un epilogo delle passate esperienze e l’inizio di una nuova maniera, rivelatasi appieno nella mostra individuale della XV biennale veneziana del 1926 in un magnifico complesso di opere. In alcune di esse (Gesù deposto, Pellegrini d’Emmaus, Gli apostoli della Galleria d’arte moderna di Firenze) l’artista aveva ripreso umanamente i massimi temi della pittura antica; in altre (seconda redazione di Quiete, della collezione Gualino, Susanna, della Galleria nazionale di Roma, e specialmente Serenità, della raccolta Bastianelli) aveva raggiunto la conquista della realtà, trasfigurata in un vasto ritmo di bellezza, e con un ritorno al colore, lungi però da ogni pericoloso edonismo.
Ma Carena non si accontentò del successo; da una composizione curata, non senza classiche reminiscenze, dalla fattura tendente al piacevole, passò all’immediatezza della visione e dell’esecuzione, specialmente nella Scuola, che ottenne nel 1929 il primo premio Carnegie e fu acquistata per la Galleria d’arte moderna di Pittsburg. Oltre le citate, altre opere sue si conservano nelle rammentate gallerie e in quelle di Venezia, di Genova e di Palermo. Intorno al 1940 la sua pittura presenta momenti più drammatici, si macera in luci contrastanti, tocca a volte accenti espressionistici (Comizio, 1945; Laocoonte, 1954; Esodo, 1963; La famiglia, 1964). Lo stimolano la vicinanza delle opere del Tintoretto, ma anche i nuovi fermenti della cultura visiva contemporanea e le vicende dolenti della vita propria e altrui. Sono frequenti i soggetti sacri: Pio X, per la chiesa di S. Rocco; Pietà, per i Carmini a Venezia; una grande Pietà (datata 1938-39) donata a Paolo VI dalla Fondazione Cini. Ma anche i volti dei familiari (le figlie, autoritratti) sono segnati da contrasti luministici, come le nature morte con fiori, conchiglie, teschi. Nel 1949 è presidente dell’Unione cattolica degli artisti italiani; nel 1954 riceve la medaglia d’oro al merito della cultura; nel 1956 è membro del Consiglio superiore delle Antichità e Belle Arti e presidente della quarta sezione del Consiglio stesso. Nel 1963 riceve la medaglia d’oro per l’arte sacra dalla Accademia dei Virtuosi del Pantheon. Ampie antologie delle sue opere apparvero ancora alla Biennale veneziana del 1956, alla galleria del Girasole di Udine nel 1966 fino al 1973. Felice Carena fece parte del secessionismo romano che nacque nel 1913 è finì nel 1916 pur nella loro breve durata, dal 1913 al 1916, le quattro esposizioni internazionali della Secessione romana si offrivano come un perfetto punto di osservazione perché, nello spazio lasciato dalla grande esposizione internazionale del 1911, svolsero il ruolo di catalizzatore delle tendenze in atto. Furono emblematiche non soltanto in quanto rassegne programmaticamente indirizzate verso l’arte del momento, giovane e affermata, italiana ed europea, ma anche perché nascevano come mostre alternative alle esposizioni ufficiali di Venezia e di Roma, per loro stessa natura ingabbiate nei meccanismi di selezione decisi dai commissari nazionali e perciò tendenzialmente conservatrici. Considerate con uno sguardo contemporaneo, infatti, colpisce in primo luogo il fatto che le esposizioni secessioniste, pur godendo di cospicui finanziamenti pubblici e privati, furono tra le ultime mostre interamente ideate e gestite con grande libertà dagli artisti stessi che formavano il consiglio direttivo, i quali decidevano la linea da seguire, sceglievano gli artisti e i gruppi da invitare con bilanciata attenzione alle personalità già affermate e ai giovani, non necessariamente esordienti, contattavano le gallerie straniere più attive nel sostegno all’arte contemporanea e progettavano l’allestimento utilizzando criteri museografici innovativi. Già subito dopo la guerra infatti, le più importanti esposizioni periodiche (Biennali romane, sindacali, Quadriennali, premi) saranno di organizzazione governativa, utilizzate come strumenti di propaganda e di controllo sulle arti figurative. In un’epoca in cui il sistema dell’arte era ancora embrionale, in cui poche erano le gallerie private che riuscivano a creare un mercato indipendente dalla committenza pubblica, in cui era inesistente la figura del critico ‘curatore’ che determinava le scelte con la propria personalità e visione. Dal dicembre del 1913 era inoltre attiva a Roma la Galleria Permanente Futurista fondata da Giuseppe Sprovieri, che aveva inaugurato con una mostra di sculture di Umberto Boccioni, oggetto di uno studio di Roberto Longhi, che coglieva prontamente la carica rivoluzionaria del dinamismo plastico, riconoscendo in questo l’elemento di superiorità del futurismo sul cubismo. È ben noto che i secessionisti romani avevano fin dall’inizio l’intenzione di coinvolgere i futuristi, reduci dal tour espositivo a Parigi e in altre città europee, cercando però altrettanto presto di limitarne la presenza a uno spazio e a una visibilità piuttosto circoscritta. Chiamato dal gruppo promotore a far parte del consiglio direttivo delle esposizioni secessioniste nel gennaio del 1912, Giacomo Balla era l’artista che saldava in sé entrambe le tendenze: quella modernista, divisionista e progressista e quella avanguardistica dei futuristi. Dopo la rottura delle trattative fra Marinetti e i secessionisti, Balla, ormai vicino ad abbandonare definitivamente il suo passato divisionista per diventare FuturBalla, si dimise da quel consiglio direttivo della Secessione, che seguì quindi un altro percorso. La dialettica secessionismo/futurismo, evidente nella contiguità spaziale e temporale delle due manifestazioni parallele, nasceva tuttavia da un terreno comune, sia pure con una molteplicità e ambivalenza di significati. Rinnovamento, giovanilismo, internazionalismo, dissenso più o meno manifesto, necessità di sprovincializzazione della cultura italiana, erano esigenze sentite secondo diverse accezioni: da una parte il tardivo richiamo al secessionismo europeo e al suo ideale modernista, progressista, in qualche modo erede della positività ottocentesca, nell’ottica di un ideale estetico diffuso in ogni aspetto della vita quotidiana; dall’altro l’ideologia rivoluzionaria del futurismo, interamente proiettato verso la contemporaneità, verso la radicale trasformazione del linguaggio artistico. L’analisi è stata condotta a partire dalla Mostra dei Rifiutati organizzata da Boccioni e Gino Severini nel 1905 nel Ridotto del Teatro Costanzi, primo timido gesto di contestazione verso il sistema selettivo delle esposizioni, per chiudersi con l’adesione degli artisti alla guerra e la fine dell’esperimento. Secessione e Avanguardia non si poneva come una riedizione di quelle esposizioni ormai storiche. Non era possibile e non sarebbe stata nemmeno utile una ricostruzione fedele di quegli eventi, data la quantità delle opere esposte, la complessità delle presenze artistiche tra protagonisti della storia dell’arte e personalità meno note, e forse dimenticate, di cui non si poteva non tener conto adeguatamente, perché rappresentavano il tessuto culturale di quegli anni. Su tutto si è scelto di mantenere dunque un punto di vista attuale, attento all’inevitabile cambiamento di prospettive, per cui artisti considerati di grande successo in quel contesto non sono altrettanto significativi per noi che leggiamo quegli eventi un secolo dopo, e viceversa personalità che hanno segnato momenti imprescindibili per gli sviluppi dell’arte contemporanea all’epoca erano poco notati e spesso non compresi. Sotto questo aspetto, un rapidissimo excursus attraverso i cataloghi è utile per una visione complessiva, che tenga conto delle presenze e, in controluce, delle assenze: per esempio, quelle di Medardo Rosso e di Adolfo Wildt. Alla prima esposizione del 1913 è preponderante la presenza di artisti romani o comunque attivi a Roma nel primo decennio del ʼ900, prevalentemente tardo divisionisti, tra i quali gli organizzatori stessi della rassegna: Camillo Innocenti, Arturo Noci, Vittorio Grassi, Enrico Lionne, Ferruccio Ferrazzi, i più giovani Armando Spadini e Felice Carena, gli scultori Giovanni Prini, Giovanni Nicolini, Nicola D’Antino, Amleto Cataldi. L’unica sala individuale dedicata a un artista italiano è riservata al divisionista toscano Plinio Nomellini, membro della giuria di ammissione. Con il probabile tramite di Pieretto Bianco (coinvolto fin dall’inizio nella giuria di ammissione), la mediazione di Nino Barbantini e del critico Gino Damerini, espongono a Roma come Gruppo Veneto artisti provenienti dalle mostre di Ca’ Pesaro, indice della volontà di una più stretta collaborazione fra le due manifestazioni che si sentono affini. Il gruppo si era formato alla fine del 1912 intorno a Vittore Zanetti Zilla e a Damerini, con la presidenza di Felice Casorati che espone un dipinto di gusto secessionista, Il sogno del melograno (1913). Oltre a Casorati e a Zanetti Zilla, partecipano Guido Cadorin, Guido Marussig, Teodoro Wolf-Ferrari, Vittorio Zecchin, Umberto Moggioli, Guido Balsamo Stella, Aldo Voltolin, Adolfo Mattielli. L’evento che suscitava le maggiori aspettative era legato alla Sala degli Impressionisti francesi organizzata dalla Galerie Bernheim-Jeune, che portava a Roma cinquanta opere eterogenee per stile e data di impressionisti, post-impressionisti, sintetisti, mai visti prima in Italia con quella consistenza. Félix Fénéon, critico e teorico del neo-impressionismo, direttore artistico della Bernheim-Jeune dal 1909, aveva scelto opere di Renoir, Pissarro, Maximilien Luce, Sisley, Monet, Manet, Berthe Morisot, Signac, Van Rysselberghe, Roussel, Maurice Denis, Bonnard, Vallotton, Émile Bernard, Vuillard, Carrière, Van Dongen e Matisse. La sala degli ‘impressionisti’ attirò molto pubblico, ma deluse i critici che si aspettavano una rassegna dell’arte francese più attuale e trovavano mal rappresentati proprio i maestri dell’impressionismo, mettendo in risalto l’assenza di Van Gogh, Gauguin, Seurat, Cézanne, Picasso e Braque che avrebbero aiutato a capire importanti nodi delle tendenze contemporanee e d’altronde, viste nel 1913, anche le opere dei maestri impressionisti avevano perso buona parte del loro interesse. I tempi erano maturi per una liquidazione dell’impressionismo che del resto in Italia non aveva trovato molto spazio. Altri quali Diego Angeli o Enrico Prampolini consideravano comunque positivamente l’opportunità di vedere in Italia per la prima volta opere post-impressioniste che non si erano mai viste alle Biennali veneziane, constatando allo stesso tempo l’arretratezza culturale del pubblico italiano non preparato, come quello francese, al salto dall’impressionismo a Matisse e, men che meno, dall’impressionismo al futurismo o al cubismo perché in sintesi, come scrisse Mario Lago, «noi abbiamo saltato a piè pari una lunga evoluzione» del 1914. Il critico Arnaldo Cantù, in un testo intitolato Dall’impressionismo del co‑ lore all’impressionismo della linea tenta, in maniera piuttosto ardita, di stabilire una linea di continuità tra impressionismo e futurismo, fra impressione visiva e dinamismo delle forme, teoria avanzata negli stessi termini anche da Longhi nel suo studio su Boccioni. Analoghe riflessioni sul superamento della ‘frammentarietà’ impressionista verso il sintetismo di una forma plastica più architettonicamente strutturata e definita, non priva di accenti arcaicizzanti, coinvolgono anche la scultura contemporanea e i suoi sviluppi negli anni Venti-Trenta del Novecento, nel confronto compiuto da Antonio Maraini fra le opere di Troubetzkoy, Rodin, Bourdelle, Minne e Mestrovic. Il 1914 è l’anno cruciale per le esposizioni romane, da cui emergono e si intrecciano forze nuove che avrebbero forse potuto meglio collegare l’Italia a una dimensione europea. L’anno, che si era aperto con la mostra delle sculture di Boccioni da Sprovieri, nella stessa galleria vede nel febbraio-marzo l’Esposizione di pittura futurista di Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Sironi, Soffici. Alla II Secessione entra nel consiglio direttivo, al posto di Balla, Roberto Melli, che espone cinque sculture in cui si può rilevare attenzione nei confronti della scultura di Medardo Rosso e di Boccioni. Tra i bolognesi è presente, inosservato, uno Studio di paesaggio precocemente cézanniano di Giorgio Morandi poi noto come Paesaggio con la neve a Bologna, 1913. Nella sala di «alcuni veneti» ci sono Ubaldo Oppi, Gino Rossi, Luigi Scopinich, Arturo Martini con tre opere, mentre Napoleone Martinuzzi espone da solo nelle sale internazionali. Fra gli stranieri, il gruppo austriaco si presentava con un solo dipinto di Gustav Klimt, con Carl Moll, con alcuni disegni dell’ancora sconosciuto Egon Schiele, le sculture di Franz Barwig e altri artisti meno noti. Per la sala francese, la galleria Bernheim-Jeune aveva in programma di portare a Roma parte della collezione di Leo Stein, che includeva opere di Picasso e di Matisse, ma il progetto non ebbe seguito, nonostante il collezionista si fosse trasferito nuovamente in Italia, a Settignano, dall’aprile del 1914 la sala era dunque concentrata solamente su Matisse (con 30 opere tra dipinti e incisioni) e su Cézanne (con 13 acquarelli e disegni) ma, nonostante l’indubbia novità e l’elevata qualità delle opere, fu apprezzata da pochi; pubblico e critici erano sconcertati sia dalla irrazionalità prospettica e dall’acceso cromatismo di Matisse sia dagli acquerelli di un Cézanne che non si aspettavano nella raffinatezza, quasi giapponese, dei bianchi che sono dei ‘pieni’ e non dei ‘vuoti’. Solo dopo la guerra, nel corso degli anni Venti, entrambi gli artisti lasciarono un’impronta più profonda nell’arte italiana: Matisse nella bidimensionalità decorativa, Cézanne come ‘classico’ secondo la linea interpretativa che va da Maurice Denis ad Ardengo Soffici. I russi del Mir Iskusstva esponevano per la prima volta in Italia dopo le importanti manifestazioni di Parigi e la loro presenza giungeva a sancire un interesse crescente verso l’arte russa contemporanea da parte degli artisti italiani, da Boccioni (si ricorda qui il viaggio in Russia nell’inverno 1906) a Balla, che nel 1917 collaborò alle scenografie per Feu d’artifice dei Ballets Russes di Sergej Diaghilev. Fondato nel 1898 a Pietroburgo da Diaghilev, Bakst e Benois nel progetto totale di sintesi delle arti, nel primo decennio del novecento Mir Iskusstva divenne il laboratorio di sperimentazione delle avanguardie raggiste e suprematiste. Alla II Secessione la sala russa presentava trentasei opere di esponenti di varie tendenze, prevalentemente di area simbolista e di ispirazione al folklore tradizionale. Ad aprile, quasi contemporaneamente, anche Sprovieri inaugurava l’Esposizione Libera In‑ ternazionale Futurista dove era presente un gruppo di futuristi russi, frutto dei contatti stabiliti da Filippo Tommaso Marinetti durante il suo viaggio in Russia tra gennaio e febbraio 1914; tra questi: Aleksander Archipenko, Aleksandra Exter, Rosanoff, Koulbine. Tra gli italiani, oltre a Cangiullo, Ottone Rosai, Gino Prampolini, Fortunato Depero, partecipano anche artisti presenti alla II Secessione: Morandi, Gino Rossi e Arturo Martini, che espone la scultura Risveglio (o Ragazza che si lava la coca) (1913), rifiutata dai secessionisti perché ritenuta oscena. Con l’entrata in guerra dell’Italia e l’esaurirsi dei finanziamenti, le due ultime edizioni della Secessione presentano un panorama limitato, anche per motivi politici, agli artisti stranieri appartenenti a nazioni alleate o già residenti a Roma. La grafica, che nelle edizioni precedenti aveva presentato la litografia inglese del Senefelder Club e la xilografia italiana de L’Eroica, nell’edizione del 1915 allestita per la prima volta da un architetto, Marcello Piacentini, offriva nelle sale del «bianco e nero» una selezione di opere provenienti dalla galleria Emil Richter di Dresda, che sosteneva le mostre di Die Brücke. A Roma, probabilmente in accordo con il comitato organizzativo della Secessione, la galleria Richter esponeva un buon gruppo di espressionisti tedeschi: Käthe Kollwitz, Max Pechstein, Hans Meid, Ernst Ludwig Kirchner, Max Liebermann, Willy Geiger, Edwin Scharff, Otto Lange, più francesi del consueto ambiente post-impressionista (Vuillard, Renoir, Gauguin, Cézanne, Signac, Degas, Laurencin, Toulouse-Lautrec, Derain, Denis), più gli spagnoli Ignacio Zuloaga e Pablo Picasso, che espone per la prima volta in Italia una natura morta, Calice e bottiglia del 1913‑14. Le presenze italiane sono in tono minore, apparentemente rinchiuse in un mondo intimista: accanto agli scultori Ercole Drei, Attilio Selva, Arturo Dazzi, i giovani emergenti Pasquarosa (cioè Pasquarosa Marcelli Bertoletti, considerata una autentica rivelazione), Leonetta Cecchi Pieraccini, Armando Spadini, Felice Carena sono esaltati da critici nazionalisti quali Ugo Ojetti e Maraini come rappresentanti del nuovo corso di ritorno a una linea più specificamente italiana. Nella sala individuale, Casorati espone opere di accento metafisico e primitivista . Opere interventiste di Balla sono alla Galleria Angelelli in via del Corso nella mostra Fu Balla e Fu Futurista nel 1915 e da Sprovieri si tiene una mostra di Depero nel 1916. Questa veloce sintesi costituisce la trama di un panorama artistico molto articolato, che non poteva essere restituito nella sua interezza, come una rassegna di storia dell’arte che allineasse opere e artisti così diversi. Nella rievocazione di quegli eventi espositivi però si intendeva offrire l’immagine di un laboratorio creativo in rapidissima evoluzione, il quale, seppure confuso e limitato, offriva un’effettiva e irripetibile opportunità di collegamento con quanto succedeva in Europa in grado di suscitare tra gli intellettuali un confronto sulla direzione intrapresa da parte dell’arte italiana. Con la consapevolezza che la mostra di una mostra è un’altra mostra, Se‑ cessione e Avanguardia, pur nella consistenza di quasi duecento opere, non poteva essere un rifacimento, ma una rilettura che tenesse conto del mutato orientamento critico verso l’arte italiana dell’inizio del secolo scorso. Il nucleo portante della mostra alla Galleria Nazionale era costituito dunque dalle esposizioni dal 1913 al 1916, secessioniste e futuriste, ma la ricerca prendeva in considerazione tutto il decennio precedente perché è in quel tempo che maturano le condizioni politiche e ideologiche che spingono verso un ruolo più avanzato l’Italia, ormai industrializzata, nel contesto europeo. La fase iniziale di preparazione è consistita nello spoglio dei cataloghi ufficiali e delle riviste coeve per l’individuazione delle opere esposte; operazione questa basata su verifiche incrociate, non sempre possibile per la genericità dei titoli o perché molte opere sono note, nella successiva bibliografia, con altri titoli; per l’assenza totale di dati tecnici essenziali come tecniche e misure nei cataloghi; per la scarsità di riproduzioni fotografiche che avrebbero tolto ogni dubbio. Grazie all’immagine pubblicata su Vita d’Arte ad esempio è stato evidente che il dipinto di Spadini alla I Secessione, Figurine del 1913, era proprio Bambini con ventaglio della Galleria Nazionale. A questo proposito però è tuttora arduo stabilire quale Nymphéas di Monet avesse partecipato alla esposizione del 1913, senza l’appoggio di una riproduzione o un dato descrittivo pur minimo, anche perché non è stato rinvenuto nessun riscontro nemmeno nel catalogo ragionato dell’artista a cura di Daniel Wildenstein, ma è singolare anche constatare come nessun catalogo, né quotidiano o rivista abbia riprodotto tale dipinto che appartiene a un artista e a una serie considerata oggi alle origini dell’astrattismo e di tanta parte dell’arte più contemporanea. Questo lavoro propedeutico è stato in gran parte agevolato dalla precedente mostra Secessione romana 1913‑1916 curata nel 1987 da Rossana Bossaglia, Mario Quesada e Pasqualina Spadini a Roma, in Palazzo Venezia, che per la prima volta aveva fatto luce sulle esposizioni secessioniste romane attraverso lo spoglio di cataloghi, periodici, documenti d’archivio pubblici e privati, lettere. Alla Secessione romana del 1913 Pierre Bonnard partecipava con due dipinti, Salle à manger del 1906 e Lampe verte del 1899, uniti dal tema dell’interno di una sala da pranzo, affrontato dal pittore in una nutrita serie di opere dal periodo nabis e oltre. Entrambe le opere state individuate con qualche probabilità tra i dipinti di Bonnard appartenenti alla galleria Bernheim-Jeune fra il 1911 e il 1912 con titoli diversi, ma alla Galleria Nazionale è stato esposto Le Déjeuner (La salle à manger, 1899), di proprietà della Fondazione Collezione E.G. Bührle di Zurigo in quanto disponibile al prestito. Lo stesso discorso vale anche per Scène d’intérieur (1900, Parigi, Musée d’Orsay) di Félix Vallotton, scelta sia per la scena d’interno sia per l’assonanza dei toni coloristici freddi grigio-verdi con le atmosfere nordiche alla Hammershöj, come a suo tempo notato dalla critica nel dipinto esposto a Roma. La ricca collezione della Galleria Nazionale aveva già molte opere che si prestavano come validissime sostituzioni o che, se esposte già nell’ordinamento permanente, costituivano dei rimandi interni utili allo spettatore ad esempio l’Antigrazioso (1912‑13) di Boccioni. Allo stesso modo è capitato con Il sogno del melograno di Casorati (1912), esposto alla I Secessione, che sarebbe stato necessario avere in mostra, ma era già impegnato per un’altra esposizione in Italia. La sostituzione è stata possibile allora con Le vecchie (1910), molto bello e poco visto, già di proprietà della Galleria Nazionale, dipinto che affronta il tema molto mitteleuropeo e molto klimtiano delle età della donna. Così pure il piccolo bronzo di Ercole Drei La ser‑ pe (1914), presentato alla II Secessione, non era reperibile e perciò è stato sostituito con la sua versione in gesso di maggiori dimensioni, Eva e il ser‑ pente (1915, Galleria Nazionale d’Arte Moderna). Nel caso di Giovanni Boldini, l’anziano maestro da tempo affermatosi a Parigi, la ricerca ha potuto stabilire che a Roma era stato esposto il Ritratto della Marchesa Casati con levriere (1908) in collezione privata inglese ed è stato perciò sostituito con il Ritratto della Marchesa Casati con le penne di pavone (1911‑13), di poco posteriore, ma già nelle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Anche nel caso degli artisti russi, era estremamente difficile stabilire l’individuazione e la collocazione attuale dei dipinti presentati alla Secessione e pertanto si sono utilizzate opere già nelle collezioni della Galleria Nazionale, acquistate nel 1911 all’Esposizione Internazionale di Roma, tra cui un’opera di Igor Emmanuilovič Grabar, artista e critico di primo piano per la diffusione dell’impressionismo e di altri movimenti occidentali in Russia all’inizio del XX secolo. Durante il periodo di preparazione della mostra sono stati necessari alcuni interventi di restauro che hanno avuto il pregio di recuperare alla visione del pubblico opere altrimenti non visibili perché di proprietà privata o perché conservate nei depositi del museo. Tra le opere della collezione della Galleria Nazionale si è potuto restaurare e presentare per la prima volta al pubblico il fregio decorativo in quindici grandi pannelli di Edoardo Gioia L’Italia vittoriosa con la Forza e con l’Intelligenza (1911) e il bellissimo gesso dalle linee elegantemente stilizzate di Duilio Cambellotti La fon‑ te della palude (1907). A questi, si sono aggiunti restauri di opere del tutto inedite di proprietà privata, quali alcuni disegni di grande formato di Giacomo Balla. Il restauro è stato quindi anche l’occasione di una ricerca che ha portato all’identificazione di quelle opere: tre studi sono relativi a progetti del 1914 per sculture della serie dei ‘complessi plastici’, ora non più esistenti, Linea di velocità + vortice, Vortice + forma + volume, Linea di ve‑ locità + forma rumore, mentre due disegni appartengono alla serie Movimento di bandiera (1919), probabilmente finalizzati a essere tradotti in elementi di arredo o di arte applicata. Le ampie, ariose sale espositive della Galleria Nazionale hanno permesso di utilizzare un percorso articolato intorno ad alcuni fulcri tematici e visivi che consentivano al visitatore di cogliere agevolmente e visivamente affinità, divergenze, connessioni fra artisti apparentemente diversi e lontani; ma, per quanto costituita per sale, la mostra sottolineava nel suo complesso la stretta contiguità e compresenza degli artisti negli anni in questione. Una lunga fascia con motivi decorativi rielaborati da particolari di opere di Duilio Cambellotti, Josef Hoffmann e Balla correva in alto lungo il perimetro delle pareti, unico e lontano richiamo alle sale del Palazzo delle Esposizioni decorate dagli artisti stessi della Secessione romana seguendo modelli viennesi. Infine posso affermare che Felice Carena mantiene la sua peculiare individualità rispetto agli altri autori italiani dell’epoca. Nascono, infatti, i lavori “tardi” dal tono drammatico quanto splendente, e le opere di forte impatto religioso, come la Deposizione del 1939, proveniente dai Musei Vaticani, che rinnovano il percorso moderno dell’arte cristiana. Nel Dopoguerra scelse un meditato isolamento nella città di Venezia dove strinse un rapporto intimo e profondo con alcuni suoi mecenati come Gilberto Errera e Vittorio Cini. Dopo aver lasciato l’Accademia di Belle Arti di Firenze nel 1945, Carena approfondisce i temi della natura morta e i temi sacri, come si vede nell’importante serie di disegni provenienti dalla Fondazione Giorgio Cini, e lo straordinario e drammatico Adamo ed Eva dai toni terrei ed espressionisti, entrambi eccezionalmente in mostra presso le Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo a Milano. L’autore ottenne grandi successi e riscontri sin dagli esordi della sua carriera artistica e fu presente alle più importanti mostre di arte italiana e a molte Biennali di Venezia. La mostra alle Gallerie d’Italia di Milano segue idealmente l’ultima antologica complessiva dedicata all’artista realizzata a Venezia nel 2010. Attraverso sei sezioni espositive, ognuna dedicata a un periodo specifico della vita dell’artista – Tra Torino e Roma; Il periodo romano; Tra Roma e Firenze; Teatro; Il ritratto e la natura morta; Dipinti e Disegni Sacri – questa mostra restituisce il denominatore comune di tutti i lavori di Carena: la spasmodica ricerca di una luce interna agli oggetti. Una luce che non accarezza i corpi, ma si sprigiona da essi, diventando essa stessa “forma”. Un’esposizione inserita nel solco della particolare attenzione di Intesa Sanpaolo verso la riscoperta di significative figure di artisti che attendono una più ampia valorizzazione nel panorama della storia dell’arte italiana. Il catalogo della mostra è realizzato da Edizioni Gallerie d’Italia e daSkira edizioni con testi dei curatori ed una analitica biografia di Lorella Giudici.
FELICE CARENA. BIOGRAFIA
Felice Carena si forma presso l’Accademia Albertina di Torino, allievo di Giacomo Grosso. I suoi primi interessi sono rivolti a lavori di ambito secessionista e simbolista, mentre dopo il viaggio a Parigi durante gli anni dell’Accademia resta affascinato dalle opere di Courbet. Dopo aver vinto il Pensionato artisticonazionale nel 1906 con il dipinto La Rivolta, si trasferisce a Roma e nel 1910 ha una sala personale alla mostra degli Amatori e Cultori. Nel 1912 espone alla Biennale di Venezia, mentre nel 1913 fa parte della commissione ordinatrice della I Secessione romana ed è attratto dalla pittura di Cézanne e Matisse. Le sue qualità creative ed espressive intanto sono largamente apprezzate dalla critica. Dopo aver combattuto nella Grande Guerra, dove è nominato ufficiale di artiglieria, si trasferisce ad Anticoli Corrado,ambiente fervido di incontri e significativo per le sue scelte tematiche e formali. Tra il 1922 e il 1924 organizza a Roma insieme allo scultore Attilio Selva una scuola d’arte presso gli Orti Sallustiani. Le lezioni sono frequentate, tra gli altri, da Emanuele Cavalli, Giuseppe Capogrossi e Fausto Pirandello. Nel 1924 è chiamato a insegnare per chiara fama all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Carena non si era mai discostato dalla sua solida cultura figurativa, evoluta dai modelli simbolisti e dalla sua stima per Cézanne e Gauguin. Non ebbe dunque la necessità di invertire il suo corso stilistico, ma proseguì dando solidità e ricchezza di riferimenti classici alle sue composizioni, in cui via via affiora una componente espressionista, densa anche di una dimensione spirituale e religiosa. Dal 1924 al 1944 Carena restò a Firenze ricoprendo il ruolo di presidente dell’Accademia che con lui ebbe il massimo del prestigio internazionale. Dopo la guerra il mutamento politico e sociale lo condusse a una nuova residenza, Venezia, in cui si completò, nel raccoglimento del suo studio e nella frequentazione dei modelli classici cinque-secenteschi,la sua aspirazione alla resa in luce della materia. Felice Carena scompare a Venezia nel 1966.
Galleria d’Italia – Milano
Felice Carena
dal 17 Maggio 2024 al 29 Settembre 2024
dal Martedì alla Domenica dalle ore 9.30 alle ore 19.30
Giovedì dalle ore 9.30 alle ore 22.30
Lunedì Chiuso