Al Nuovo Museo Nazionale di Monaco
Giovanni Cardone
Fino al 29 Settembre 2024 si potrà ammirare la mostra al Nuovo Museo Nazionale di Monaco – Villa Sauber – Principato di Monaco la mostra dedicata a Pier Paolo Pasolini – Pasolini in Chiaroscuro a cura di Guillaume de Sardes. Pasolini l’ultimo intellettuale europeo e di fama mondiale dopo Mezzo secolo dalla sua morte, la sua influenza si esercita ancora nei diversi campi da lui occupati: viene letto, citato, commentato, adattato, ispira i creatori di oggi. Sebbene amasse definirsi soprattutto uno “scrittore”, fu attraverso i suoi film che raggiunse il grande pubblico. Anche il cinema, che ha costituito la cassa di risonanza delle sue idee politiche, occupa un posto centrale nella sua opera. È a questo aspetto, visto attraverso il prisma dell’influenza dell’arte classica e contemporanea sull’estetica dei suoi film, che “Pasolini in Chiaroscuro” è particolarmente interessato. Estratti da Accattone , Théorème , Salò , ecc. vengono così accostati a dipinti di Pontormo, Pieter Claesz, Giorgio Morandi, Fernand Léger o Francis Bacon. Dopo aver presentato il modo in cui Pasolini si affidò ai pittori del passato per comporre le inquadrature dei suoi film, la seconda parte della mostra lo scrittore-regista si ispirò hai suoi successori. Sono una trentina gli artisti internazionali che gli hanno reso omaggio, molti dei quali hanno lavorato sul materiale stesso dei suoi film. In una mia ricerca storiografica e scientifica vorrei evidenziare la figura di Pasolini apro il saggio dicendo : Pier Paolo Pasolini uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo il suo pensiero ancora attuale nel ricordare questo grande Poeta, volevo evidenziare la complessa e articolata vicenda artistica e intellettuale di Pier Paolo Pasolini, l’ossessione per l’esprimere e l’esprimersi si pone come forza trainante della sua magmatica produzione, che spazia dalla poesia dialettale alla narrativa, dalla scrittura critica e giornalistica alle sceneggiature teatrali e cinematografiche, dalla pittura alla canzone, dagli interventi radiofonici e televisivi alla grande avventura del cinema. Per lo scrittore, infatti, il linguaggio rappresenta al contempo un elemento di estrema privatezza, che gli consente di instaurare un contatto immediato con le proprie diverse dimensioni di appartenenza, e un veicolo, eminentemente sociale, in grado di superare l’autoreferenzialità per farsi strumento d’azione nel mondo e sul mondo. La ricerca linguistica pasoliniana si inscrive allora in una più ampia concezione dell’esperienza artistica come forma di azione, inscindibile quindi dalla figura dell’autore, che in quanto tale entra a far parte, con ogni suo gesto, parola, presa di posizione, manifestazione pubblica, della totalità della propria opera. La sperimentazione linguistica incarna quindi una condizione necessaria di esistenza, in quanto riflette e al contempo garantisce il suo grado di partecipazione alla realtà circostante: allora, il suo furore comunicativo, al contempo gioioso e tormentato, non può evidentemente essere soddisfatto solo dal patrimonio espressivo del linguaggio verbale, nel quale egli scorge anzi il pericolo dell’impoverimento semantico, ovvero di un graduale scollamento dalla realtà delle cose, che egli rifugge volgendosi a una molteplicità di codici linguistici differenti, nell’ansiosa ricerca di strumenti comunicativi il più possibile autentici e trasparenti. Per tutta la sua vita, Pasolini vive in effetti una sorta di «sofferenza del linguaggio» dovuta alla reciproca estraneità dei differenti codici, i cui confini gli appaiono come barriere rispetto “alla cattura di una presunta realtà immanente» al di fuori di essi: è per questo che egli «non si è mai lasciato andare veramente e sino alle estreme conseguenze alla specificità dei vari linguaggi via via adottati e poi accantonati, per poi essere recuperati, mescidati, contaminati con altri”. In effetti, la pulsione del poeta verso l’universo linguistico incarna l’urgenza esistenziale del doversi esprimere per sopravvivere, il che richiama alla mente la concezione wittgensteiniana del linguaggio come «parte di un’attività, o di una forma di vita» e davvero, per Pasolini, i differenti linguaggi costituiscono altrettante forme di rapportarsi agli altri e al mondo, oltre che di entrare in connessione profonda con i diversi aspetti della propria identità. Il dialetto rappresenta in questo senso sicuramente uno strumento d’elezione, capace di suscitare nel poeta echi profondissimi, riconducendolo al Friuli della sua prima giovinezza e quindi a un’età in cui gioia, purezza, tormento e desiderio erano in lui ancora vivissimi e indistinti: nella visione pasoliniana, il dialetto coincide infatti con l’intero paesaggio naturale e umano delle campagne friulane, configurandosi come lingua dei desideri, della memoria e, soprattutto, come lingua per la poesia, una lingua «che più non si sa» e in cui egli invece scorge la straordinaria capacità di restituire alla Parola il suo potere primigenio, quello di ‘agganciare il mondo’ e contenerlo in sé. Così, non solo egli sceglie di conferire dignità letteraria al dialetto materno di Casarsa, privo di tradizione scritta, utilizzandolo per la sua prima raccolta poetica nel 1942, ma indaga e impiega il romanesco per i suoi romanzi degli anni Cinquanta, dedica numerosi articoli e saggi critici alla riflessione sul ruolo e l’importanza del dialetto fino all’ultimo intervento, a pochi giorni dalla morte, dedicato appunto al ‘volgar’eloquio’, e si impegna con passione e acribia filologica nella riscoperta sia delle opere, misconosciute, dei poeti dialettali novecenteschi, che dei canti popolari tradizionali. La lingua italiana, d’altro canto, agisce sullo scrittore come un irresistibile fulcro di riflessioni tanto stimolanti quanto problematiche, che vanno dalle considerazioni in merito alla consunzione della lingua letteraria, esprimibile dato anche le vicende storiche succedute, fino alla celebre denuncia nel saggio Nuove questioni linguistiche del 1964 della drammatica assenza di una lingua nazionale in Italia, cui fanno seguito il proclama dell’imminente avvento di una neo-lingua tecnologica e antiespressiva e i vari tentativi, teorici e narrativi, di individuare e sperimentare nuovi ambiti e nuovi usi dell’italiano, per giungere infine agli angosciati appelli degli ultimi anni in merito alla progressiva trasformazione della lingua italiana in uno strumento asservito al Potere borghese, e pertanto degradato, vacuo e menzognero. Parallelamente agli articolati sviluppi della riflessione pasoliniana sulle condizioni e le sorti della lingua italiana, lo scrittore non manca di sperimentarne le differenti varietà: non solo l’italiano colto e letterario, dunque, ma anche differenti linguaggi settoriali, come l’italiano scientifico dei suoi scritti critici, il linguaggio giudiziario si veda il volume Cronaca giudiziaria, persecuzione e morte: «in un paese orribilmente sporco e quello politico-ideologico da intellettuale impegnato, l’italiano giornalistico e quello delle sceneggiature teatrali e cinematografiche, oltre ai registri più bassi dell’italiano informale-trascurato e gergale, cui Pasolini, a partire dagli anni Cinquanta, si interessa particolarmente. Quest’ampia gamma di usi del linguaggio verbale non sembra però soddisfare la frenesia espressiva di Pasolini, che lavora con molti altri materiali diversi, da quelli grafico-pittorici ama disegnare e dipingere alla musica scrive versi che poi diverranno canzoni grazie a maestri quali Ennio Morricone o Piero Piccioni, e saranno interpretati da personaggi del calibro di Domenico Modugno e Sergio Endrigo, fino a quel grande «amalgama di linguaggi eterogenei» che dà vita e sostanza all’universo cinematografico. Il cinema rappresenta in effetti per Pasolini un’esperienza teorica e sperimentale particolarmente significativa, in grado di attrarre a lungo il suo interesse semiologico, dando origine a un’importante serie di riflessioni ispirate alla sua visione del cinema come «lingua scritta della Realtà» , o lingua scritta dell’azione, moderna proiezione del «primo e principale dei linguaggi umani», ovvero “l’azione stessa: in quanto rapporto di reciproca rappresentazione con gli altri e con la realtà fisica” . Egli scorge infatti nella realtà «che è sempre azione» la fisionomia di un vero e proprio linguaggio, in cui gli oggetti sono segni di se stessi, non certo scritti-parlati, ma “iconico-viventi, che rimandano a se stessi» di questo Linguaggio della Realtà, allora, le lingue verbali ‘scritto-parlate’ non sarebbero che un’integrazione, o meglio, delle «traduzioni per evocazione», mentre il cinema ne costituirebbe «il momento “scritto” , in quanto sarebbe in grado di riprodurre meccanicamente tale lingua, dotandola al contempo di una funzione estetico/espressiva. Secondo il regista, allora, «oltre a essere la lingua scritta di questo pragma, il cinema «è forse anche la sua salvezza, appunto perché lo esprime e lo esprime dal suo stesso interno: producendosi da esso e riproducendolo» di qui, la scelta del cinema come strumento d’elezione per una rappresentazione autentica all’immediatezza dell’esistere, che solo attraverso questo linguaggio è possibile, finalmente, trasformare in arte. Così, attraverso questo peculiare strumento comunicativo, l’esperienza artistica non è svincolata dal contatto con il reale, e può anzi realizzare l’eterna utopia pasoliniana di una forma espressiva che sia anche, e soprattutto, un mezzo di intervento nella vita sociale. Ecco quindi che nel cinema si sublima l’ideale pasoliniano dell’espressione come forma di vita, cioè presenza attiva nella realtà; Pasolini sa bene che il cinema non è solo un mezzo di riproduzione del reale, ma è anche, e soprattutto, un mezzo di espressione della propria soggettività più volte parla del ‘cinema di poesia’, inteso come possibilità di svincolarsi dalle tradizionali norme cinematografiche per attingere ai sotterranei aspetti onirici, barbari, irregolari, aggressivi, visionari, arricchendo quindi la lingua del cinema delle caratteristiche «irregolari» proprie di uno stile personale, ma ciò che scorge in questo strumento è soprattutto la possibilità di interagire direttamente con la realtà, ‘inseguendone la sacralità’ e rappresentandola in forma mitica, come manifestazione di energia vitale. Nell’ottica pasoliniana, infatti, è proprio grazie all’accumulo e al reciproco scambio tra linguaggi eterogenei come appunto avviene nel cinema che si può sperare in una rappresentazione sufficientemente complessa, vitale e dinamica della realtà, perché solo «la complessiva interazione tra linguaggi diversi, come nella realtà, garantisce la massima continuità fra la realtà e le sue rappresentazioni.» Questa volontà di «dizione totale della realtà» si realizza in Pasolini come “interscambio, contaminazione e fusione dei generi e dei linguaggi tradizionalmente e rigidamente separati” egli, infatti, non si limita a portare avanti una serrata ed appassionata sperimentazione multimediale, ma oltrepassa ogni confine fra linguaggi e materiali, trasgredisce le loro normali condizioni di utilizzo, le norme e i limiti, e già col giustapporli in tal numero li trasforma, li violenta. Allora, la sua smania comunicativa onnivora e insaziabile, connotata dalla giustapposizione di stili, generi e finalità espressive, dilata all’infinito gli universi del discorso, oppure esonda fino ad attribuire alla parola artistica finalità pratiche, come in una straordinaria performance di cui i testi costituiscono in fondo solo un residuo; così, l’arte di Pasolini finisce per identificarsi con la «disperata vitalità» della sua intera vicenda biografica, in un cortocircuito che ben esemplifica la sua acuta consapevolezza del «senso profondamente vitale e culturale delle scelte linguistiche». La bruciante volontà di esserci, di comunicare, che «fa del linguaggio il centro vitale e propulsore della sua sperimentazione multimediale» , di ogni sua opera artistica, dei suoi saggi critici e degli interventi giornalistici, è infatti la stessa che anima le sue scelte private, umane e civili: riprendendo una bel pensiero di Tullio De Mauro che, a proposito di Pasolini, cita Rilke e la sua formula ‘Gesang ist Dasein’ , nel caso dello scrittore-poeta-regista, si può certamente affermare che, per lui, esprimersi è esistere, nel duplice senso di una vita vissuta sempre sulla scena, fino a diventare parte integrante della propria arte, e di una voce che, con il suo canto, ma anche con le orazioni, i lamenti, le battaglie, coincide con la ragione stessa del proprio esistere. Mentre nell’ottobre del 1973, con il titolo Da Cimabue a Morandi, Mondadori pubblica nella collana i Meridiani un’antologia degli scritti di Roberto Longhi, curata da Gianfranco Contini. Pier Paolo Pasolini ne redige un’appassionata recensione, certo del fatto che «in una nazione civile questo dovrebbe essere l’avvenimento culturale dell’anno» . Pochi mesi prima, in aprile, Pasolini iniziava le riprese de Il fiore delle mille e una notte, l’ultimo film della “trilogia della vita” dopo il Decameron e I racconti di Canterbury. Se il Trecento italiano di Boccaccio e quello inglese di Chaucer si sono fatti metonimia di un’umanità incolta e primigenia, capace di vivere la vita e i suoi istinti con naturalezza non perversa, tra i paesaggi dell’Iran e dello Yemen, dell’Eritrea e dell’Afghanistan, del Corno d’Africa e dell’India, il regista, insieme con la polvere, filma il silenzio e i sogni dell’Oriente, attingendo al tempo di un mito non più tragico, come in Edipo Re e Medea, ma intriso della serenità che appartiene al Sud del mondo. Di contro all’Occidente borghese, come in un rito apotropaico, Pasolini guarda alla purezza che sconfigge la morte. Sul frangente letterario, da tempo sta lavorando ad un nuovo libro, destinato a rimanere incompiuto e pubblicato postumo. Difficile in quanto cagionato dall’insulsaggine della contemporaneità e dall’orrore politico che la governa, Petrolio è un romanzo dalla struttura complessa, magmatica, al quale il suo autore lavora nello studio della Torre di Chia. L’antico caravanserraglio con torre di avvistamento acquistato nel 1970 grazie alla relativa agiatezza raggiunta in un decennio di attività cinematografica ininterrotta, è stato riadattato ad abitazione nella quale trovare prezioso rifugio. Un rifugio per scrivere ma anche per riprendere a disegnare e dipingere. Nello studio della Torre di Chia, tra il 1974 e il 1975, Pasolini disegna e dipinge i ritratti di Roberto Longhi, in età matura e di profilo; questi ritratti diventeranno la copertina del cofanetto che contiene la prestigiosa edizione de ‘I Meridiani’ dedicata a Longhi. Roberto Longhi è colui al quale Pasolini, nella dedica che apre la sceneggiatura di Mamma Roma, si dichiara debitore per la propria «fulgurazione figurativa» . Teatro della folgorazione è Bologna, dove Pier Paolo è nato il 5 marzo 1922 e dove con la famiglia è tornato a vivere nel 1937, dopo i numerosi spostamenti al seguito del padre Carlo Alberto, ufficiale in fanteria. Nel capoluogo emiliano scopre la passione per il gioco del calcio e, tra le bancarelle dei libri usati sotto il Portico della Morte, quella per la lettura . Nel 1939 si iscrive all’Università; nelle aule di Via Zamboni, nell’anno accademico 1941-42, il carismatico Roberto Longhi tiene il memorabile corso su I fatti di Masolino e Masaccio. Il docente inscena il dramma solenne della Cappella Brancacci, proiettando diapositive che schiudono universi estetici: un esemplare del mondo masoliniano “si oppone” ad un esemplare del mondo masaccesco, il manto di una Vergine al manto di un’altra Vergine, il primo piano di un Santo o di un astante al primo piano di un altro Santo o di un altro astante, il frammento di una “forma” al frammento di un’altra “forma” . Frammenti che ricostruiscono la più accattivante tra le possibili storie dell’arte fiorentina del primo Quattrocento. Pasolini coltiva il progetto di diventare pittore e storico dell’arte: nel 1940 visita la Biennale di Venezia nel 1941, con uno scritto che riceve molte approvazioni, vince i ‘Prelittoriali di Critica Stilistica’ nel 1942, grazie alla mediazione dell’amico Francesco Arcangeli ottiene da Longhi, che nutre alcuni dubbi in merito alle sue attitudini, l’assegnazione di una tesi di laurea sulla pittura italiana contemporanea. Dopo un assiduo lavoro, condotto con il supporto delle monografie più recenti, PPP perde gli appunti per la tesi durante una rocambolesca fuga dal reparto militare di Livorno, dove è stato chiamato alle armi e poi fatto prigioniero dai tedeschi. Abbandona così l’idea di laurearsi con Longhi e opta per una ricerca sulla poesia pascoliana. Della «fulgurazione figurativa» rimangono però inalterati, allora e negli anni a venire, tutto il fascino e l’importanza, in un sostrato culturale oramai inamovibile. Pasolini ricorderà qual è, secondo la sua opinione, la più significativa tra le “invenzioni” pittoriche che Longhi attribuisce a Caravaggio: l’abitudine di dipingere osservando gli uomini e le cose attraverso uno specchio. È per l’utilizzo di uno specchio, quale diaframma tra il pittore e il mondo, che nei quadri di Caravaggio vivono e muoiono uomini e cose che sono assolutamente, come mai prima di allora, brani di realtà, e al contempo il “riflesso” della weltanschauung dell’artista. Sul principio degli anni Quaranta, mentre sulla vocazione innata si innestava la folgorazione longhiana, le prime esperienze grafiche e pittoriche erano nate contemporaneamente e consentaneamente ai primi lavori letterari. Parte integrante e non marginale nella definizione di una poetica multiforme e straordinariamente complessa, le prime opere figurative di Pasolini, come le Poesie a Casarsa scritte in friulano, si connotano per la declinazione linguistica tesa a riscattare il particolare della vita all’universalità della cultura: «Malgrado la presenza cosmopolita di Longhi, la mia nous nemmeno pregata, allora, tanta era l’adorazione, la mia pittura è dialettale: un dialetto come “lingua per la poesia”. Squisito, misterioso: materiale da tabernacoli. Sento ancora, quando dipingo, la religione delle cose» . A Casarsa, in uno stanzone un po’ alla bohème sopra l’antica fabbrica di grappa del nonno, nell’estate del 1941 Pasolini compone versi e comincia a raccontare nei disegni attimi carpiti all’esistenza; raffigura sé stesso con la tavolozza in mano, in Il pittore al cavalletto e Paolo che dipinge. Dopo essersi trasferito stabilmente in Friuli – alla fine del 1942, per sfuggire ai bombardamenti su Bologna, insieme a Susanna, sua madre, e Guido, suo fratello minore – Pier Paolo riconsegna per immagini i volumi robusti dei casolari agricoli e la luce forte che inonda le strade, gli alberi, i campi che Nico Naldini descriverà così: «Quindici paesaggi che rappresentano casolari o libere vedute campestri, dipinti a olio secondo le ricette della pittura impressionista che il pittore Federico De Rocco, ha messo a punto per lui». Fuori da ogni retorica, raffigura l’emozione di amicizie e di giovani amori consumati sulle rive del Tagliamento. Disegna con gesti rapidi, urgenti che alludono ai segni vibranti di Filippo De Pisis. Adopera materiali come la tela di sacco, con accentuata sensibilità per la ruvidezza della materia, e il pensiero rivolto a Masaccio o ai “valori plastici” di Carrà. Dà il colore con i polpastrelli o spremendolo direttamente dal tubetto, senza rinunciare, anche per l’ascendente di Giorgio Morandi, a meditare la composizione Morandi, forse anche in virtù della lunga e profonda amicizia che lega l’artista a Roberto Longhi, è tra gli “idoli” giovanili di Pasolini. I disegni e i dipinti friulani, come le Poesie a Casarsa, originano un idioma capace di manifestare i «sentimenti più alti, i segreti del cuore» . Un idioma che talvolta si manifesta anche nella forma del componimento letterario, come nel caso dell’Autoritratto col fiore in bocca e del Narciso . Ne deriva un’indagine appassionata e un’appropriazione critica di codici estetici e stili di figurazione. Pasolini ritiene che l’arte del XX secolo ha spodestato la bellezza per conoscere la verità; e la verità si è rivelata scomoda, mettendo a nudo la fragilità della condizione umana. Sa che un’ossessiva ricerca dell’identità si è consumata tra il dolore soggettivo e la tragedia dello straniamento dell’uomo dal mondo. Rifiuta, però, il ripiegamento solipsistico, e rifiuta soprattutto la rinuncia da parte dell’artista a farsi interprete del cambiamento. Accusando direttamente l’opera di Picasso di tenersi lontana dalla verità del popolo, Pasolini si schiera apertamente contro la pittura astratta, colpevole di una troppo esclusiva espressione dell’interiorità, che non si fa cura della responsabilità sociale . La polemica, evidentemente, non investe la modernità tout court, ma quanto ne costituisce lo stereotipo, il pensiero univoco cui manca il coraggio della diversità. Non potrebbero altrimenti comprendersi le vere e proprie incursioni nella modernità dell’arte italiana ed europea, che determinano il carattere dei disegni e dei dipinti pasoliniani più riusciti. Due sono i fondamentali autoritratti pasoliniani, dipinti a olio su faesite, rispettivamente nel 1946 e nel 1947: Autoritratto con la vecchia sciarpa e Autoritratto col fiore in bocca. Presentati a Udine nella “Mostra triveneta del ritratto” del 1947, risalgono a quel momento nel quale l’interesse per la storia dell’arte, prima di confluire in maniera privilegiata nella produzione cinematografica, si traduce nella realizzazione di un numero significativo di disegni e dipinti, che Pasolini talvolta sceglie di pubblicare e di esporre, confrontandosi con altri artisti, anche di notevole rilievo. Autoritratto con la vecchia sciarpa partecipa di una deformazione di formula modiglianesca, poco appariscente, ma assoluta come una dolente stortura. Se Modigliani si è sistematicamente rispecchiato nel volto degli altri, dipingendo gli altri proprio come se dipingesse sé stesso, gli autoritratti pasoliniani, con i ritratti di Roberto Longhi e i ritratti di Maria Callas, sono parte di un unico desiderio di comunicare e approfondire la conoscenza della natura umana. Autoritratto con la vecchia sciarpa s’inserisce in una struttura priva di riferimenti spaziali definiti: la tridimensionalità è rifiutata a favore di campiture piatte, all’interno delle quali il viso dell’artista è sbalzato come in una vetrata gotica. L’elemento di connessione tra la figura e lo sfondo è rappresentato dalla vecchia sciarpa, i quadrettoni della quale sembrano richiamare anch’essi le forme di tarsie medievali, ma filtrate attraverso la contrapposizione tra l’audacia secessionista di Klimt e la conturbante disperazione di Schiele. Sui colori smorzati e calibrati, Pasolini interviene con un bianco latteo a segnare parte dei contorni e lo sguardo; ancora il bianco interseca il viola, a connotare il particolare del fiore in bocca. L’Autoritratto col fiore in bocca è sinestesia di colori e profumi, rimpianto di giovinezza, memoria di notti che si avvicendano. Il quadro si fa metafora di un’ambivalenza. In primo piano l’autoritratto che fa riferimento alla realtà, alla realtà pittoricamente deformata: il viso è risolto in un monocromo verde terroso, interrotto soltanto da dense pennellate dello stesso bianco che in Autoritratto con vecchia sciarpa sottolinea i lineamenti, in questo caso sembra volerli confondere. Dietro l’autoritratto che si staglia su un fondo anch’esso completamente bianco e aniconico, esaltato dal rosso e dal blu della camicia, in una pregevole armonia di geometria un accorgimento meta-artistico mette in relazione l’effigie del pittore con una seconda immagine, incastrata dentro all’immagine principale. L’accorgimento è reso particolarmente evidente dalla continuità della linea che ha funzioni di cornice per entrambe le rappresentazioni. Nel meta-quadro rivive quel ragazzo appoggiato al piccolo gelso, che faceva brillare l’aria con una primuletta. Strettamente connesso agli autoritratti è Narciso, realizzato a tempera e pastello su carta e datato al 1947. Fin da ragazzo Pasolini sogna di abbracciare un bellissimo altro sé stesso , l’allegoria di Narciso ricorre sovente nei componimenti poetici e, infine, un passo del racconto breve Spirituals, risalente agli anni intorno al 1950, sorprende per la particolare affinità con quanto raffigurato nel dipinto. Come il Ninì del racconto, il Narciso del dipinto ha le membra robuste e possenti dei contadini; indossa una camicia a grosse righe colorate e si specchia sbigottito, timoroso di riconoscersi nel tremolio dell’acqua confusa dal rosa dei sassolini. Evocazioni caravaggesche riemergono nella struttura compositiva dell’opera, tutta centrata sulla figura del protagonista senza concessioni a descrizioni paesaggistiche. Le spigolosità del corpo accovacciato e la matrice espressionista di un uso fortemente incisivo della linea proiettano, però, anche questo dipinto nell’ambito delle ricerche estetiche del XX secolo. In particolare è del tutto moderna e pasoliniana la natura paradossalmente “antigraziosa”, quasi rude, della figura; come l’impossibilità per i contorni, che pure sono forti e spessi, di definire precise superfici per i colori. Il blu profondo e saturo dello sfondo è la dominante cromatica di tutto il quadro, compensata soltanto dagli sprazzi baluginanti del bianco e del giallo. Per rappresentare l’acqua Pasolini interrompe la stesura a tempera e utilizza il pastello azzurro, tracciando segni abbastanza radi, che lasciano intravedere il cartone del supporto. Altri dipinti coevi a Narciso, riconducibili a una storia dell’arte contemporanea non ufficiale e anticonformista, sono Donna col fiore azzurro e Giovane che si lava. Opera del 1947, realizzata a tempera con l’inserzione della tecnica a gessetto, la Donna col fiore azzurro richiama il tema dei bordelli, ampiamente presente nella pittura europea dell’Ottocento e del Novecento. Ostile a ogni contegno censore, Pasolini osserva senza infingimenti l’ostentazione sessuale, priva di un’attrattiva autenticamente erotica e quasi grottesca. La prostituta dipinta da Pasolini ha il volto coperto da una veletta nera che nasconde le fattezze ma lascia trapelare occhi sbarrati e labbra turgide di sofferenza. La bellezza oltraggiata dalla corruzione sociale si fa denuncia delle ingiustizie e solidarietà con i diseredati. A differenza di Rouault, che predilige l’acquerello e la gouache, e più vicino alla maniera di Maccari, Pasolini quasi imbratta la carta con il colore e lascia in evidenza la materia del fondo. Appena sfiorato da memorie espressioniste, il Giovane che si lava è anch’esso un dipinto del 1947, totalmente a tempera. Il contesto rimanda all’«immenso amore» di Pasolini per Bonnard, ai «suoi pomeriggi pieni di silenzio e di sole del Mediterraneo» . La luce rifrange il rosa delle pareti, scivola sulle tavole dell’impiantito scuro, si posa piano sulla sedia, permea il viola cangiante del secchio e della bacinella, avvolge con naturalezza il corpo plastico del giovane, colto in movimento, intento ad un gesto semplice e quotidiano. Per il ricordo di Bonnard, Pasolini risolve il quadro in un problema di luci, che consentono la fusione tra l’uomo e l’ambiente. Ma la semplicità e la quotidianità si fanno, appena oltre l’esteriorità, misteriose e problematiche: sulla parete di fondo, al limite dello spazio della rappresentazione, Pasolini dipinge, come in Autoritratto col fiore in bocca, un quadro nel quadro, un meta-quadro che potrebbe anche essere uno specchio, traboccante inquietudine e ambiguità, capace di gettare un velo di profondo turbamento sull’apparente armonia del reale. I ritratti di Roberto Longhi sembrano nascere dal desiderio di interpretare «le meravigliose capacità istrioniche» del maestro , anche attraverso l’utilizzo di tecniche differenti e differente ductus disegnativo. Il disegno datato al 1974 rimanda puntualmente, anche se con modi sincopati, alla fisionomia di Longhi come appare nella fotografia assunta a modello. Pasolini traccia dapprima con la matita un segno quanto più possibile continuo, a definire il profilo austero e insieme ironico dello storico dell’arte: indica la fronte alta vestita da singolare cappello, l’occhio mobile, il naso importante, il sorriso colto e sagace, le dita della mano piegate in un atteggiamento di riflessione. Sulla linea esterna del profilo, alla matita si sovrappone un duplice tratto di carboncino, il primo, più interno, sottile e marcato, il secondo largo e sfumato: il cappello, la fronte, il naso, la mano sono chiusi da un unico andamento sinuoso, come dentro a un bozzolo cloisonné. In due disegni del 1975 le linee, affidate a gessetti colorati con la dominante del viola, si mostrano meno vincolate alla descrizione e determinano campi di vuoto che accolgono la luce. Riscattati da ogni finalità illustrativa risultano i due ritratti dello stesso anno dipinti ad acquerello che si compendiano in poche annotazioni fluide, rispettivamente nei toni del blu e del giallo. Datato al 1975 è anche un altro disegno, particolarmente significante: senza preliminari tracce di matita, Pasolini compone con il carboncino un meditato equilibrio di analisi fisionomica e concentrata espressione; segni quasi xilografici, ma duttili e funzionali, rendono esplicita quella «maschera misteriosa» che la cultura ha impresso sul viso di Longhi. A prescindere dalle peculiarità stilistiche che singolarmente li contraddistinguono, tutti i ritratti si presentano, specularmente rovesciati rispetto al modello fotografico. Sono, appunto, immagini allo specchio. Caravaggesche, nei termini di una specifica accezione pasoliniana. Nei ritratti di Roberto Longhi, Pasolini come Caravaggio fingendo la presenza di un diaframma che modifichi le possibilità di visione, indaga le caratteristiche fisiche e psicologiche del soggetto, sottolineando i tratti che ne indicano la forte personalità. Se guardare qualcuno allo specchio significa andare oltre le semplici fattezze fino all’interiorità, non mancano peraltro, oltre a quello caravaggesco, esempi illustri nella storia dell’arte: dal celebre Autoritratto allo specchio convesso di Parmigianino fino alle enigmatiche elaborazioni moderne di Diego Velázquez. Immaginando di guardare Longhi attraverso uno specchio, Pasolini ne restituisce la statura intellettuale e la grandezza umana. Un ritratto allo specchio comporta un procedere pittorico simile all’auto-rappresentazione dell’artista; in tal senso è necessariamente complementare ad un autoritratto. Portato di infiniti attraversamenti culturali, costantemente e originalmente ricomposti, le opere figurative, come ogni opera di Pasolini, nascono sotto il segno della contaminazione nella commistione di stili, tecniche e materiali eterodossi, contribuiscono a spiegare il manierismo pasoliniano. E poiché il manierismo è rivisitazione della tradizione in antitesi alla crisi del presente, problematico punto di confine tra rigore e arbitrio, «esibizione delle contraddizioni e delle antinomie in tutta la loro ineludibile asprezza, gusto della dissonanza, del rischio, dell’eccesso» , certezza dei limiti umani e aspirazione drammatizzata alla verità del sacro, indubbiamente manieristi si rivelano i ritratti di Maria Callas, a partire dall’autorevole lettura proposta da Giuseppe Zigaina: «I ritratti di Maria Callas, quelli esposti e pubblicati, sono undici. In totale sono quattordici: due di questi sono stati regalati alla Callas da Pasolini stesso in occasione della première di Medea all’Opéra di Parigi; il quattordicesimo, invece, un piccolo profilo della cantante, è stato donato dal poeta al signor Citossi di San Giorgio di Nogaro in ringraziamento per alcuni lavori da lui eseguiti nel “casone” dell’isola del Safon, nella laguna di Grado» . Immagini quante altre mai ricche di seduzione e implicazioni simboliche: nelle prime sei, realizzate durante le riprese di Medea, nel 1969, il viso della cantante, colto di profilo o mezzo profilo, occupa interamente lo spazio del foglio; nelle altre cinque, del 1970, più profili si ripetono in sequenza su uno stesso foglio. La Callas immortalata da Pasolini ha la preziosità e la ieraticità di un’icona o di un idolo miceneo». I profili si susseguono come fossero modulo, colonne di una peristasi che custodisce la sacralità del naos, note di un canto la cui eco proviene da tempi remoti, quando il mito sapeva proferire il mistero della vita, della morte e dell’amore. La ieraticità è incrinata però dal dolore che quei profili non riescono a celare, la regalità della dea è minacciata dalla nervosa, straordinaria bellezza della donna. Il sublime ineffabile si contamina con la finitezza eloquente. L’ideale punto di incontro delle esperienze di Pier Paolo Pasolini è il suo debutto cinematografico. A dispetto di una narrazione, in parte desiderata dallo stesso autore, che lo ritiene un neofita assoluto, Accattone e Mamma Roma presentano un percorso preparatorio complesso che fa della contaminazione e ibridazione di strumenti il suo aspetto peculiare e fondante. Se il ‘primo’ Pasolini non può definirsi un regista maturo, egli è comunque un autore già esperto e non è un caso che la sua prassi lavorativa susciti particolare interesse – un interesse avvalorato dal suo essere, utilizzando un neologismo, transmediale. Siamo in un momento fondamentale nella carriera dell’autore: l’inizio dell’esperienza cinematografica si accompagna con una rielaborazione del disegno e il progressivo abbandono del romanzo tradizionale e della raccolta di poesie organizzata. Il vuoto creato dall’impossibilità di concepire il libro come oggetto compiuto in sé, concluso e definitivo sembra essere colmato non dallo spostamento verso un’altra forma di opera, ma bensì attraverso il ricordo a un metodo di lavoro.
Questa prassi esibisce un desiderio di presa sull’alterità del reale che le meravigliose «ipocrisie» della tecnica cinematografica forse soddisfano maggiormente. Il cinema offre a Pasolini la possibilità di sperimentare e realizzare ciò che Henry Jenkins riuscirà a delineare parzialmente solo, e definendolo «narrazione transmediale», ovvero un «prodotto, storia, contenuto, servizio capace di viaggiare tra più piattaforme distributive e di incarnarsi su media differenti secondo le regole della convergenza. Il suo significato è dunque simile a quello di crossmediale, ma con una sfumatura diversa si sottolinea infatti la capacità del prodotto, storia, contenuto, servizio di aggiungere brandelli di senso e narrazione a ogni sua incarnazione sulle diverse piattaforme» . I fogli di lavoro pasoliniani realizzati per Accattone e Mamma Roma sono poco più di 150. I fogli per Accattone sono, in realtà, dei ‘mezzi fogli’: un A4 piegato a metà, con un formato che potremmo paragonare a un A5. I fogli di Mamma Roma sono, invece, degli A4 tradizionali. La maggior parte è conservata in due fondi a Parigi, presso la Bibliothèque du film; questo istituto, in passato indipendente, oggi è confluito nel più grande e privato archivio della Cinémathèque française – è, perciò e anche a causa di altre complicanze molto complesso riuscire a visionare una copia dei suddetti . Un’altra parte dei fogli di lavoro di Mamma Roma è invece stata fotocopiata in formato A4 ed è preservata presso il Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna. Sorvolando sulla storia editoriale di questi fogli, la cui ampiezza ed eterogeneità richiederebbe un’analisi a sé stante, concentriamoci sul loro contenuto. Sia i fogli di lavoro per Accattone che quelli per Mamma Roma rispondono a un medesimo principio organizzativo e a un identico metodo di stesura. Le inquadrature nascono per lo più dai disegni, a patto però di intenderli come interpretazione tecnica e visiva della sceneggiatura. I fogli di lavoro ribadiscono come i disegni non siano appunti presi occasionalmente, ma che siano schizzi realizzati in funzione del set e alle esigenze del set corrispondenti. I fogli di Accattone potrebbero deludere chi vi cerchi le tracce del Pasolini disegnatore. Le figure intere sono ridotte a semplice manichini, con un cerchio che ne indichi la testa e pochi tratti di penna a delineare il corpo. I primi piani, che ricoprono un ruolo fondamentale sia nel fumetto che nel girato de La Terra vista dalla Luna e in Che cosa sono le nuvole?, sono appena abbozzati e presentano solo pochi, peculiari segni volti a render riconoscibile il personaggio; con l’eccezione di due schizzi dedicati a Stella e ad Amore, le prove di ritratto sono assenti. Sarebbe quindi impossibile avvicinarsi agli schizzi di Accattone senza contestualizzarli in un panorama più ampio o, per meglio dire, in una descrizione più complessa. Questa è ampiamente confermata nella testimonianza offerta da Tonino Delli Colli a Antonio Bertini, l’aiuto-regista ricorda come «Pasolini aveva idee molto chiare per Accattone conosceva tutti i posti, aveva tutte le inquadrature in mente, anzi, faceva dei disegni. Per ogni inquadratura, c’era un disegno. Pasolini era capace di cominciare la sequenza dall’ultima inquadratura. Non era come tanti altri registi che se non vanno in fila non sanno cosa fare. Aveva tutti gli schizzi delle inquadrature che doveva fare». Ricordiamo come Pasolini, quando mette mano alla sceneggiatura del suo primo lungometraggio, abbi già trascorso dieci anni nella capitale. L’autore vive a Roma dal 1950: l’area di Piazza Costaguti e le borgate di Primavalle, Quarticciolo, Tiburtino e Pietralta gli sono già familiari; ha già cominciato da qualche anno a ridursi «a un magnetofono», registrando i dialoghi dei ragazzi e costruire Ragazzi di vita. Poco prima delle riprese di Accattone aveva, inoltre, pubblicato l’inchiesta sulla periferia romana Viaggio per Roma e dintorni. Infine vi sono anche numerose fotografie dei sopralluoghi effettuati poco prima delle riprese, conservate presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux. A ciò è necessario aggiungere i materiali che compongono la pubblicazione del «copione» di Accattone, edita nell’agosto 1961 da Rizzoli. Quest’edizione mira a dare una visione estensiva e, appunto, transmediale di ciò che vi è intorno all’opera cinematografica. Questa ricchezza di materiali “altri” è un’ulteriore conferma del sospetto che, se privati dell’apparato che li precede e degli scritti che li accompagnano, quali i nomi dei personaggi nell’inquadratura, gli schizzi di Accattone poco o nulla avrebbero potuto significare per noi e poco sarebbero serviti al regista. Piuttosto la loro funzione è essere una verifica istantanea dell’immagine in movimento prevista, ricordare al regista immediatamente il tipo di inquadratura da girare, insomma funzionare come dei veri storyboard per controllare, verificare ed esaltare i nessi narrativi più elaborati. Un’ultima annotazione. Sin da questi disegni, Pasolini presenta un’abitudine che poi riscontreremo sia in Mamma Roma che ne La Terra vista dalla Luna: l’uso di arricchire o cassare gli schizzi adoperando inchiostri diversi da quelli per stendere la tavola, sia negli interventi sul disegno che su quelli delle sezioni scritte. I fogli di Mamma Roma costituiscono un unicum nell’opera pasoliniana. L’appendice dedicato alle Illustrazioni del volume contenente la prima sceneggiatura del film, edito da Rizzoli nel luglio del 1962, si apre con una foto di scena che reca l’eloquente didascalia «Pasolini al lavoro: attraverso i disegni nascono le inquadrature. Alcuni disegni sono riprodotti nelle tavole seguenti»; seguono sei «disegni», gli unici estratti dai fogli di lavoro pubblicati in vita da Pasolini. La pubblicazione sembrerebbe volta ad assecondare le tendenze editoriali del periodo, più che a offrire un quadro d’insieme del lavoro di realizzazione del lungometraggio. L’apparato iconografico è reso maggiormente apprezzabile per la presenza dei numerosi scatti sul set realizzati dal fotografo Angelo Novi. D’altronde è un’affermazione dell’aiuto regista Carlo di Carlo a confermarci nuovamente il metodo di lavoro dell’autore bolognese. Di Carlo ricorda, infatti, come «problemi tecnici . Pasolini non li ha mai avuti. Risolveva le inquadrature progettandole. Per Mamma Roma esistono disegni di ogni inquadratura (io stesso ne ho alcuni). Schematizzando le sequenze per avere la verifica visiva e tecnica (annotava obiettivi e movimenti) delle soluzioni narrative» . Una descrizione che è pienamente confermata dal settantottesimo foglio di lavoro inserito nella cartella dedicata a Mamma Roma, che schematizza sei inquadrature della scena del furto della radiolina. Questo è il foglio di lavoro che è ritratto nello scatto di Angelo Novi che apre le Illustrazioni: il regista si appoggia al bordo inferiore di un letto di fattura identica a quelli della scena, chino sul copione e sul bloc-notes. Attorno a lui, Lamberto Maggiorani e altre comparse, mentre davanti vediamo Ettore Garofolo, con indosso i vestiti di scena. Un confronto tra la sceneggiatura, il foglio e il girato ci svela come quanto schematizzato tra copione e foglio di lavoro finale trovi riscontro nel lungometraggio. Il foglio diviene, così, la prima interpretazione tecnica e visiva dello script, configurandosi come un canovaccio per spuntare le inquadrature mentre vengono realizzate una funzione fondamentale, se si considera la tendenza pasoliniana a scegliere spesso luoghi molto distanti tra loro per realizzare un semplice campo e controcampo. Infine il mancato “ripasso” a penna di alcune illustrazioni, le cui scene delineate sono effettivamente assenti nel film, lascia presupporre una prima operazione di montaggio e rifinitura dell’opera. Perduto il copione di Mamma Roma, i fogli di lavoro sono gli unici testimoni del modo in cui Pasolini lavorava la sceneggiatura di partenza in vista della ripresa. Presentando uno statuto intermedio, che pur accoglie le idee nate sul set, questi dipendono dalla sceneggiatura e non anticipano nessuna delle scelte effettuate in sala di montaggio, sia a livello narrativo che tecnico. Per questo motivo le maggiori discontinuità tra sceneggiatura ante-lavorazione e film montato trovano ampia documentazione in queste pagine. Pasolini, d’altronde, con il lavoro per Mamma Roma svela di aver ripreso le sue qualità di «pittore abbondante» e di volerle usare per realizzare disegni gradevoli, la cui accuratezza deriva da esigenze di precisione e funzionalità. In conclusione, appare evidente come la traduzione filmica delle sceneggiature e dei fogli di lavoro di Accattone e Mamma Roma non sia l’esito di un «processo meccanico». Le inquadrature e i nessi narrativi, pur rappresentando l’ideale scheletro del film, subiscono un rimaneggiamento immediato durante le riprese che è fissato nei fogli di lavoro. Quanto stabilito nei fogli è poi ulteriormente rivisto in sede di montaggio, spesso un momento di reinvenzione per Pasolini – a volte anche in negativo, a causa di autocensure preventive o di ottemperanza ai tempi imposti dall’industria cinematografica del periodo, come nel caso del taglio della scena dell’omosessuale alla fontanella o del tagliato di circa metà pellicola di Mamma Roma. I fogli di lavoro sono dei documenti stratificati, redatti da Pasolini autonomamente e però aperti a ripensamenti e consigli dei collaboratori, ad invenzioni estemporanee e a varianti macroscopiche. In generale si ha la sensazione che l’autore non finisca mai, nel corso della prassi realizzativa, di intervenire sull’opera di partenza. Le sceneggiature, letterarie nelle descrizioni e nelle note di recitazione esattamente come quelle de La Terra vista dalla Luna e di Che cosa sono le nuvole?, trovano un ideale trampolino di lancio verso le immagini. Pasolini ci mostra, d’altronde, un suo aspetto che conosciamo bene: quello del disegnatore, dello scrittore, dell’amante dell’arte che si piega per intero alle esigenze cinematografiche per trarre da loro una conoscenza e adoperarle per lo scopo che si prefige: fare un film come se lo avesse messo per intero su carta, ma trasformando la scrittura per il cinema in scrittura del cinema, l’antica passione per il disegno in un gesto funzionale a chiarire per sé e per altri l’immagine che si vuole produrre nel film. Un focus speciale della mostra è dedicato all’ambiente creativo bolognese de «Il Setaccio», mensile della GIL, Gioventù Italiana del Littorio, di Bologna (novembre 1942 e il maggio 1943), in particolare sui disegni di Pasolini e Fabio Mauri, realizzati per questa rivista. A riprova della determinazione di un’amicizia, che è anche scambio continuo di idee, e della crescente passione di Pasolini per la storia dell’arte. Un forte interesse, nato sempre a Bologna intorno alla figura cardine di Roberto Longhi, al quale lo scrittore chiede la tesi di laurea incentrata sulla pittura italiana del Novecento, da Carlo Carrà a Giorgio Morandi e Filippo de Pisis, artisti da lui stesso molto amati. Dagli anni Cinquanta l’arrivo a Roma, la scrittura e il cinema diventano per Pasolini i tempi di un sempre più fervido crogiolo di esperienze artistiche e creative che in parte, ma solo in parte, lo allontaneranno dalla pittura come pratica ma non come progress concettuale e interesse tecnico. Così come risulta da molti suoi scritti poco conosciuti dedicati proprio alla pratica pittorica. L’interesse per la materia, il confronto con il contemporaneo e la specifica del ritratto diventano in questi anni per Pasolini i tratti identificativi della sua realtà pittorica in continuo progress e molto spesso dedicata ai suoi “amici del cuore”. Dai ritratti di Ninetto Davoli, Maria Callas, Laura Betti, Andrea Zanzotto, alla serie di disegni dedicati a Longhi. Tutte opere, dei decenni Cinquanta-Settanta, che bene sottolineano il valore semantico della riproduzione del corpo umano da parte di Pasolini, portata avanti sempre con grande coerenza stilistica e ancora di estrazione longhiana. Opere che rivelano anche la continuità della pratica pittorica di Pasolini e la caparbietà tecnica con cui si confronta da protagonista con questa produzione. All’artista del resto interessa sempre più la «composizione» – coi suoi contorni – che la materia», in linea quindi con quella fase pittorica dell’arte italiana che proprio fra gli anni Sessanta e Settanta si va sempre più definendo anche per l’impegno civile di cui veniva saturata. Lungo il pescoso della mostra troveremo le opere dei seguenti artisti : Adel Abdessemed, Giulia Andreani, Francis Bacon, Giacomo Balla, Tom Burr, Lodovico Cardi, Adam Chodzko, Pieter Claesz, Clara Cornu, Walter Dahn, Regina Demina, Marlene Dumas, Richard Dumas, Cerith Wyn Evans, Federico Fellini, Jesse A. Fernández, Abel Ferrara, Laurent Fiévet, Alain Fleisher, Claire Fontaine, Giovanni Fontana, Jenny Holzer, William Kentridge, Astrid Klein, Fernand Léger, Stéphane Mandelbaum, Martial, Fabio Mauri, Charles de Meaux, Giorgio Morandi, Dino Pedrali, Ernest Pignon- Ernest, Pontormo, Man Ray, Giuseppe Stampone, Jean-Luc Verna, Francesco Vezzoli, John Waters . La mostra è accompagnata da una pubblicazione Paolini in Chiaroscuro edito dalle edizioni Flammarion.
Nuovo Museo Nazionale di Monaco – Villa Sauber Principato di Monaco
Pasolini in Chiaroscuro
dal 29 Marzo 2024 al 29 Settembre 2024
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Giovedì dalle ore 11.00 alle ore 18.00