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A Roma una mostra dedicata:  Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo

Gazzettino Italiano Patagónico by Gazzettino Italiano Patagónico
19 de mayo de 2025
in Arte, Giovanni Cardone 
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A Roma una mostra dedicata:  Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo
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Giovanni Cardone

Fino al 14 Settembre 2025 si potrà ammirare alla Galleria d’Arte Moderna di Roma la mostra dedicata a Carlo Levi in occasione del cinquantenario dalla scomparsa – ‘Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo’ a cura di Daniela Fonti e Antonella Lavorgna (Fondazione Carlo Levi) e Antonella Martina (Archivio Piero Martina) mentre la sezione dedicata alla Collezione Angelina De Lipsis Spallone  curata da Giovanna Caterina De Feo. L’esposizione  è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con Fondazione Carlo Levi, Archivio Piero Martina e la Collezione Angelina De Lipsis Spallone, ed organizzata da Zètema Progetto Cultura. L’esposizione si inserisce all’interno della programmazione, avviata nel 2024, con cui la Sovrintendenza Capitolina celebra il centenario dell’istituzione della Galleria d’Arte Moderna (1925-2025). Alla base del progetto espositivo c’è la collaborazione tra la Fondazione Carlo Levi di Roma e l’Archivio Piero Martina di Torino che ha permesso di ricostruire oltre tre decenni di sodalizio fra i due artisti, basato sulle esperienze di vita condivise in ambito artistico politico e sociale (la battaglia per un’arte europea, la dissidenza nei confronti del fascismo, l’approdo a Roma nel periodo della ricostruzione post-bellica). Oltre sessanta opere provenienti dalla Fondazione Carlo Levi e dall’Archivio Piero Martina, oltre che da importanti istituzioni culturali e collezioni pubbliche e private, che, nonostante gli esiti espressivi in certe stagioni molto diversi tra loro,risultano accomunate da un identico sguardo di umana partecipazione e dal desiderio di indagare senza retorica la realtà del nostro Paese. Centrale nel progetto espositivo è anche il legame di Levi con Roma, città dove visse stabilmente dal 1945 fino alla morte, e che rappresentò una fonte d’ispirazione continua, oltre che luogo d’impegno civile da ritrarre come il simbolo di un’Italia in trasformazione; una città dove volle attrarre, per una breve stagione, anche l’amico Martina. A completare il percorso espositivo è la storia di un’altra amicizia, quella tra Linuccia Saba, figlia di Umberto Saba e compagna di Carlo Levi,e Angelina De Lipsis Spallone, nota collezionista romana che, dalla morte del pittore, ha arricchito la propria collezione privata (oltre 300 quadri) con l’acquisizione di diciannove dipinti inediti di Levi, oggi finalmente visibili nella speciale sezione di chiusura della mostra romana. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Carlo Levi apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che Carlo Levi  pittore e poi letterato, attraversa la cultura del Novecento italiano attirando su di sé un ampio e alterno interesse di critica e di pubblico. Dopo la notorietà e la fama ottenute con la pubblicazione della sua prima opera in prosa, Cristo si è fermato a Eboli (1945), che lo consacra nell’olimpo degli scrittori del Novecento italiano, viene assai presto dimenticato dalla critica militante, soprattutto a causa della sua ostinata (fino a un certo punto) contrarietà al comunismo e a qualsiasi ideologia imbrigliasse nelle trame schematiche e rigide di una religione la fluidità e l’asistematicità della vita. La sua particolare attenzione verso il mondo degli umili e del cosiddetto «mondo popolare subalterno», per usare una definizione dell’antropologo Ernesto De Martino, e la sua propensione alla libertà, da cui sgorga il saggio filosofico Paura della libertà (1946), gli costano le simpatie degli intellettuali marxisti che, all’indomani della pubblicazione di una delle opere più importanti sul dopo-guerra italiano e sull’estinzione del Partito d’Azione, L’Orologio (1950), lo additano come uno scrittore di un’unica opera, versato per lo più a un decadentismo nostalgico e a una mitizzazione irrealistica del mondo popolare. Il giudizio della critica di allora e una certa tendenza alla ripetizione dei temi della sua prima fase artistica pregiudicano un più attento vaglio delle sue opere da parte degli studiosi, tant’è che la rivalutazione delle sue opere, in sede scientifica, avviene solo a partire dalla fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Prima di passare a una breve rassegna bibliografica e alla sua contestuale relazione con il presente lavoro, è necessario sottolineare come l’impostazione generale della tesi segua un’idea precisa, condivisibile o meno, dell’intera produzione letteraria di Levi. Chi scrive, infatti, è persuaso del fatto che il miglior Levi si esaurisca nella tornata di anni che va dalle prime esperienze carcerarie (1934-1935) alla pubblicazione de L’Orologio, con la significativa eccezione del postumo Quaderno a cancelli (1979), scritto nel 1973 nel pieno di una crisi esistenziale frutto di un duplice distacco di retina. Non si vuole con ciò in alcun modo sostenere che le opere successive siano meno apprezzabili sotto il profilo estetico-letterario, ma che in esse non compaiano, rispetto alle opere precedenti, segnali di profonda innovazione, di mutamento di segno o di radicale svecchiamento. Tutto Levi è racchiuso in quegli anni e, infatti, le opere successive possono essere considerate dei corollari di quanto in precedenza teorizzato e/o raccontato, con la significativa variante che narrano la storia, le tradizioni e i cambiamenti politici dei paesi che allora Levi via via visitava. Ne è conferma l’ultima sua opera che costituisce un bilancio della sua vita, imbevuto di un pervasivo senso di morte e di limite. In essa riecheggiano – seppur con alcune e importanti modifiche – i grandi temi della sua migliore produzione artistica che è racchiusa nell’arco cronologico già tracciato. Sembra essere così lo stesso autore a legittimare la prospettiva qui adottata, attraverso la quale si intende dimostrare come l’opera di Levi costituisca una delle esperienze più significative del Novecento italiano. È del 1973 la prima importante monografia dedicata all’opera di Levi che porta la firma di Giovanni Falaschi. In Carlo Levi, pubblicato per La Nuova Italia, il critico propone una sistematica indagine sull’opera dell’autore torinese a partire dalla sua formazione gobettiana, di cui tuttavia riporta brevi e schematiche notizie. Il pregio di Falaschi e la continuità del suo lavoro rispetto alla presente tesi risiede nell’aver intravisto nelle prime tre opere leviane l’intento, pur collocato sullo sfondo buio della seconda guerra mondiale, di riscoprire nelle tenebre della paura e del sacro la scintilla di un risveglio, di una rinascita, di un possibile riscatto dell’umano nell’umano, da cui è dipesa l’etichetta di un pensiero intimamente umanistico. Questo è valido non solo per il saggio di Paura della libertà, in cui l’inferno della guerra è rischiarato dalle luci di una vichiana consapevolezza della forza rigenerante delle origini, ma anche per il Cristo e L’Orologio. Infatti, nel primo si assiste alla rinascita del protagonista nell’episodio del Pantano, mentre nel secondo nel momento in cui entra in contatto con la folla urbana di Napoli che ricorda la discesa biblica di Giona nella balena. A Falaschi, Gigliola De Donato, forse la più importante studiosa dell’opera dell’intellettuale torinese, rimprovera nella sua prima monografia leviana, datata 1974, l’incapacità di unificare, sotto il profilo dell’analisi, il livello saggistico e letterario. Per quanto le due componenti siano strettamente intrecciate nel tessuto delle opere di Levi, a tal punto che la critica si è trovata in imbarazzo nel momento di dover definire con precisione la categoria narrativa di riferimento delle sue opere, è altresì corretto, dal punto di vista metodologico, distinguere – come si è cercato di fare in questo lavoro – la parte letteraria da quella politico saggistica. Questo ha permesso di porre sullo sfondo l’annosa questione meridionale e le vicende storiche legate alla fine del Partito d’Azione, che gli interpreti leviani hanno già infinitamente discusso e finemente analizzato, per porre invece in primo piano gli aspetti più originali e meno noti ma che tuttavia parlano ancora oggi a noi lettori post-moderni. Ci si riferisce, in particolare, ma non solo, agli aspetti psicanalitici del pensiero di Levi su cui la critica non si è a sufficienza spesa. Si deve sicuramente al Saggio su Carlo Levi di Gigliola De Donato, pubblicato per De Donato Editore, il più audace e criticamente fondato tentativo di dimostrare come il pensiero di Levi riprenda nelle proprie analisi numerosi elementi psicanalitici, in particolare dalla psicanalisi junghiana. Ne Il problema psichico dell’uomo moderno (1928), Jung affronta la crisi della società europea in seguito alla prima guerra mondiale e sottolinea come la catastrofe della guerra abbia portato all’evidenza dei più la pericolosità di una cieca fiducia nel progresso e nella ragione. Ciò avrebbe ingenerato negli uomini una spinta verso l’interiorità e, quindi, verso la dimensione irrazionale dell’individuo. Sulla dicotomia tra irrazionale e razionale, Levi costruisce il proprio pensiero dimostrando come il recupero della parte irrazionale e originaria dell’essere costituisca l’unico antidoto a favore di una piena e sana individualizzazione dell’uomo, individualizzazione che peraltro discende sempre dalle letture junghiane. Anche grazie alla conoscenza delle principali opere mitteleuropee dell’epoca, identificate per la prima volta dalla De Donato e poi riportate, senza ulteriori apporti, dalla critica successiva, l’autore torinese si colloca con il saggio Paura della libertà tra i maggiori interpreti italiani di quella che, a ragione, verrà definita la più tragica catastrofe della storia dell’umanità. Il saggio della De Donato ha, dunque, il merito di aver identificato alcune delle più importanti fonti filosofico-psicanalitiche del pensiero leviano e di aver messo in luce – come si vedrà – gli assi portanti della poetica di Levi, che ancora oggi vengono ritenuti acquisizioni certe dalla critica più recente. La figura della studiosa è un gigante della bibliografia leviana e a lei va sicuramente riconosciuto il merito di essere stata l’artefice dell’inizio di una più attenta rivalutazione, in sede critica, del pensiero e delle opere di Levi. Il titolo del quarto capitolo del presente lavoro, L’ultimo Levi, che richiama l’ultimo capitolo del saggio in questione, è un omaggio alla studiosa che ha permesso a chi scrive di approfondire i rapporti che intercorrono tra le opere di Levi e la psicanalisi junghiana. E ha fornito, inoltre, un solido punto di partenza da cui rivalutare l’intera opera dell’autore torinese. I saggi di Falaschi, della De Donato e il seppur marginale lavoro di Miccinesi (Invito alla lettura di Carlo Levi, 1973), cui peraltro questa tesi poco deve, sembravano aver ampiamente soddisfatto la sete di riscoperta dell’opera di Levi che verrà, di lì a poco, a mancare. Nonostante la sua morte abbia suscitato numerosi ed entusiastici articoli di giornale, frutto anche del recupero storico letterario di cui è stata fautrice soprattutto la De Donato, le opere di Levi e la postuma pubblicazione di Quaderno a cancelli non riscuotono particolare entusiasmo dalla critica, con l’eccezione di alcuni lavori poco significativi e comunque tutti editi entro la fine degli anni Settanta. Sotto un silenzio assordante (non si registra alcuna monografia) le opere di Levi attraversano gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, fino a una– seppur parziale – riabilitazione del romanzo L’Orologio nel canone letterario del Novecento italiano. Sempre grazie alla De Donato, curatrice del volume L’orologio di Carlo Levi e la crisi della Repubblica (Laicata, 1997), frutto di un importante convegno leviano, si riattiva l’interesse della critica verso il romanzo più politico dell’autore torinese, anche se la questione politica, e in particolare la nota distinzione tra Contadini e Luigini, resta il focus predominante della miscellanea. Lo stesso vale per il prezioso contributo di Leonardo Sacco, L’orologio della Repubblica: Carlo Levi e il caso Italia (Basilicata, 1999), che si può a tutt’oggi considerare, insieme ai lavori di David Ward, la più attenta disamina dei rapporti tra Levi e la politica italiana a cavallo della nascita della Repubblica. Questi importanti contributi sono stati, nel corso della presente tesi, attentamente vagliati e utilizzati in merito soprattutto agli aspetti legati agli eventi storici e biografici più che in relazione a vere e proprie analisi critico-letterario, peraltro assai ristrette. Una certa rilevanza ha, infine, la seconda monografia di Gigliola De Donato, intitolata Le parole del reale. Ricerche sulla prosa di Carlo Levi (Dedalo, 1998), in cui l’autrice ripercorre le tappe più significative dell’esperienza intellettuale leviana, dando ampio spazio a una solida analisi filologica del manoscritto del Cristo, custodito presso il Centro manoscritto dell’Università di Austin in Texas. All’alba degli anni 2000 si assiste a un netto incremento degli studi scientifici relativi all’opera di Carlo Levi, soprattutto in virtù del lavoro e dell’impegno della De Donato, che con il sostegno di interpreti di discipline differenti (vista l’interdisciplinarietà dei lavori leviani) dà alle stampe per Donzelli Editore un’impressionante mole di scritti editi e inediti, conservati presso i fondi archivistici dedicati all’autore torinese. Le nuove acquisizione, frutto della vendita di numerosi documenti da parte dell’erede, Raffaella Acetoso, hanno permesso alla critica di indagare l’opera di Levi alla luce di un materiale, fino ad allora, quasi completamente sconosciuto. La rivoluzione attuata dalle pubblicazioni della Donzelli Editore si è ripercossa sulla critica successiva che ha avuto così modo di ricostruire nella sua quasi totale interezza il percorso intellettuale di Levi. Gli ultimi sedici anni di lavoro scientifico hanno visto come protagonista una nuova generazione di critici che ha saputo ricollocare l’opera di Levi in virtù di innovativi approcci metodologici. Ci si riferisce, in particolare, alle monografie di Michel Aourimi, di Chiara Bauzulli, di Sergio d’Amaro, di Giovanna Faleschini Lerner, di Rosalba Galvagno, di Silvana Ghiazza, di Maria Antonietta Grignani, di Donato Sperduto, di Dario Stazzone, di David Ward e di Vanna Zaccaro, con i quali la presente tesi entra in profonda discussione critica, talvolta dissentendo, talaltra seguendo i percorsi già tracciati. Su tutte, oltre all’ottima biografia leviana firmata da De Donato e D’Amaro (Baldini Castoldi Dalai, 2001), giova ricordare Carlo Levi’s Visual Poetics di Faleschini Lerner (Palgrave, 2012) e Il romanzo unitario dell’infinita molteplicità di Dario Stazzone (Papiro, 2012), in cui i due critici mostrano la forte componente visiva della scrittura di Levi: la Faleschini, introducendo il concetto di scrittura visuale, sostanziata da un uso sapiente dell’ekphrasis che la studiosa con attenzione rintraccia a più riprese nei lavori di Levi; Stazzone, invece, recuperando il testo centrale nella poetica leviana de I ritratti, in cui l’intellettuale torinese sottolinea la presenza di un’istanza arcaico- materna all’interno della propria opera. A essi va aggiunta l’importante monografia Carlo Levi, Narciso e la costruzione della realtà (Olschki, 2004) di Rosalba Galvagno, peraltro curatrice di uno dei volumi editi da Donzelli Editore. Oltre a una attenta disamina dei luoghi in cui compare la figura di Narciso, nucleo germinale del sistema mitopoietico dell’intellettuale torinese, la Galvagno si addentra in un (forse a tratti troppo ardito) percorso psicanalitico di taglio lacaniano attraverso il quale ricostruisce la genesi e i motivi di fondo dell’intera produzione intellettuale di Levi, tralasciando talora gli aspetti invece eminentemente junghiani che si incontrano ripetutamente nella sua opera. Infine, un debito sostanziale è stato contratto nei confronti di David Ward, autore di Carlo Levi. Gli italiani e la paura della libertà (La Nuova Italia, 2002), in cui lo storico americano si concentra sugli aspetti politico-sociali dell’intero percorso, che sarebbe stato impossibile (dato la prospettiva del presente lavoro) ricostruire nella loro interezza. Sebbene lo stato dell’arte appena delineato evidenzi come l’ultima produzione critica abbia colmato alcuni vuoti e così permesso una nuova interpretazione delle opere di Levi (soprattutto in virtù di una rinnovata interdisciplinarietà), permangono molte zone di ombra che il presente lavoro si è prefissato di indagare. Per quanto la critica si sia spesa intorno alla prima opera di Levi il saggio teorico di Paura della libertà, spesso si è riportato, senza ulteriori approfondimenti, quanto già elaborato dalla De Donato nelle sue opere critiche. Il primo capitolo di questo lavoro, pur riconoscendo alla studiosa un ruolo primario, si muove con una certa sistematicità e un’ampia documentazione teorica verso una rivalutazione critica del concetto di sacro e di religioso. Infatti, attraverso un approccio antropologico e psicanalitico (in particolare junghiano) verranno sciolte numerose ellissi concettuali, interne al saggio e dovute soprattutto all’intemperie culturale dell’epoca. Non potendo parlare esplicitamente del nazifascismo, l’autore compie una riflessione generale sul rapporto intercorrente tra l’individuo, il sacro e il potere. Le analisi mostreranno una profonda consonanza delle riflessioni di Levi con il principio di «individuazione» di Jung e con quanto andava postulando, negli anni Trenta, la scuola del Collegio di Sociologia di Parigi. Si tratterà, dunque, di intessere un dialogo tra l’opera dell’intellettuale torinese con le punte più avanzate del pensiero europeo in ambito socio-antropologico, cui sarà necessario aggiungere la profonda conoscenza, da parte dell’autore, della principale opera filosofica di Giambattista Vico. Infatti, Paura della libertà contrae nei confronti dei Principi della Scienza nuova un debito altissimo: non solo l’autore supera la temporalità di stampo idealista grazie alla teoria dei corsi e ricorsi storici di Vico, ma mostra le dinamiche interne all’individuo e alla società, atte alla formazione delle idolatrie religiose e dei totalitarismi, in virtù di numerose osservazioni vichiane, che qui per la prima volta (dopo il nutrito saggio del critico Andrea Battistini) si cerca di sistematizzare. Da Vico, Levi desume una lezione fondamentale che è stata ampiamente rivalutata, in sede critica, grazie alle acute riflessioni del filosofo Roberto Esposito. Egli intravede all’interno del pensiero italiano e in particolare in Vico la «potenza delle origini», cioè una forza immanente allo sviluppo storico che all’improvviso sconquassa le vecchie strutture politico-culturali e apporta al divenire un nuovo motivo d’essere. Al pensiero di Esposito, questo lavoro è doppiamente debitore: non solo per le sue riflessioni sull’opera di Vico, ma anche per le numerose analisi svolte sull’ambiente surrealista francese (su tutti Georges Bataille e Roger Caillois). Le opere di quest’ultimi, infatti, tutte edite negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della seconda guerra mondiale, esemplificano (insieme con le riflessioni di Jung) la bipartizione leviana dell’individuo: all’uomo che permane nello stato d’afasia dell’insetto, l’intellettuale torinese oppone l’individuo privo di passioni, che ha abdicato alla propria natura relazionale e comunitaria a favore di una parcellizzazione atomistica rivolta all’utile e al benessere individuale. Identificando, dunque, le cause della malattia europea della crisi in una forma di narcisismo esasperato, Levi riscopre sulle orme dei sociologi francesi la necessità di ricreare un «sacro attivo» all’interno di una comunità, non più unita dall’interesse capitalistico, ma dalla comune natura ancestrale. La teoria di Levi disvela, così, il proprio carattere relazionale, principio costitutivo e motore di tutte le opere successive, e rivela al contempo come la libertà (pur sempre legata, nel suo fondo, alle teorizzazioni dell’amico e maestro Piero Gobetti) sia possibile raggiungerla solo attraverso il recupero della componente sacra e ancestrale di ciascun uomo. Nel polo dialettico dell’«avvenimento», l’atto creatore viene così inteso come la strada di rifondazione della storia. La poiesis, per Levi, non è più il frutto dell’opera di un genio romantico, ma il precipitato umano e collettivo di un incontro, dell’incontro cioè del sé con l’alterità. Infatti, l’ultima parte del primo capitolo è interamente dedicata al modo in cui l’intellettuale torinese intende il momento estetico. Esso non è più interpretato secondo la poetica decadente, ma è pervaso da un senso di responsabilità etica, perché l’arte è l’unico veicolo (accessibile a tutti gli individui) di liberazione dalle forme religiose e idolatriche dello stato nazi-fascista. Nell’atto estetico, dunque, sopravvive quella forza sorgiva e originaria che permette di intendere l’arte come un fenomeno rivoluzionario di portata non solo estetica ma soprattutto etico-politica. Sin dai primi passi nel campo dell’arte, allorquando si unisce ai Sei di Torino sotto la guida e gli insegnamenti del critico Lionello Venturi, Levi è retrivo a qualsiasi tipo di collaborazione con il regime: anche le sue scelte in campo estetico riflettono una forma di contrapposizione con le politiche culturali allora vigenti. In particolare, egli si dedica a lungo alla forma pittorica del ritratto che, secondo l’estetica fascista, rappresentava un genere minore. Non a caso, chiuso nelle prigioni del regime, l’intellettuale torinese abbozza una teoria, chiamata I ritratti e completata solo nella seconda metà degli anni Sessanta, in cui a fondamento di ciascun atto creativo è collocata la relazione tra il se stesso e l’alterità raffigurata. Sulla base di queste convinzioni estetiche, Levi incontra la Lucania e descrive il mondo contadino da una precisa angolazione mitizzante che investe l’arida terra del paese di Gagliano, rendendolo il luogo, par excellence, di rifondazione della storia. Nella mente dell’autore, la Lucania intoccata dal Cristianesimo preserva nella propria natura originaria e materna una verginità culturale, capace di restituire, come un germoglio sotto la superficie della terra, nuove energie alla civiltà occidentale, chiusa in un alienante e marcescente narcisismo solipsistico. I valori della comunità dei contadini lucani si oppongono, infatti, per la loro attenzione all’alterità alla cultura fascista di quegli anni. Secondo un’ottica antropologica e attraverso l’ausilio della filosofia di Walter Benjamin, il secondo capitolo si prefigge di dimostrare, innanzitutto, come la Lucania sia in realtà frutto di una proiezione mitopoietica dello stesso autore; e, in secondo luogo, come la figura del narratore, che interagisce nei confronti dell’alterità lucana attraverso la pittura e la medicina, sia costruita sul modello dei cantori dell’epica antica che oralmente riportavano, da paesi lontani, le storie di un mondo sconosciuto. Non disgiunto da una certa carica di messianesimo, il protagonista e narratore (don Carlo) raccoglie sul suolo lucano numerosi racconti della tradizione e si investe del ruolo di mediatore (non lontano, hanno rilevato più critici, dai tentativi degli antropologi) tra il mondo inesplorato della Lucania e l’Italia post-fascista. Il ruolo del Cristo nella società odierna lo si può intendere solo se privato dell’annosa questione meridionale che ha precluso una corretta interpretazione del romanzo in chiave nazionale ed europea. Il centro più fertile del Cristo, oggi, non è la descrizione sorpassata della Lucania o della pervasività della malaria, ma un modo di intendere la cultura e l’arte che supera i confini provincialistici della questione meridionale e si inserisce nell’alveo di una lunga tradizione culturale di opposizione alla società capitalistica e atomistica dell’uomo moderno. Questa componente rivoluzionaria si travasa nelle pagine dell’Orologio che rappresenta il canto del cigno dei valori della Resistenza italiana. In essa, infatti, Levi scorge un grande movimento popolare capace di attivare le energie migliori della popolazione italiana, al fine di contrastare un mondo fatto di idoli e adorazioni religiose. Il secondo romanzo di Levi non solo si occupa della sconfitta del governo di Ferruccio Parri a favore della Democrazia cristiana e della restaurazione delle istituzioni politiche prefasciste, voluta in particolar modo dal Partito liberale, al cui capo vi è Benedetto Croce, ma è anche un inno nei confronti della libertà che sprigiona dalla forza del popolo. Popolo che viene ritratto con grande abilità sia nelle strade della capitale che per il budello napoletano. Più che all’aspetto politico, questa tesi si è rivolta alle profonde implicazioni psicanalitiche che riguardano il testo. Il sogno iniziale e, in generale, la parte introduttiva dell’opera sono stati stranamente tralasciati dalla critica più recente. In realtà, nelle prime pagine del romanzo e nel sogno del protagonista, preludio alla rottura dell’orologio intorno al quale ruota l’intera vicenda, si disvela una delle principali chiavi interpretative dell’opera. Grazie alla psicanalisi di Jung, alle opere di Bergson e del filosofo Alain, la presente tesi cerca di fornire una sistematica interpretazione della parte più oscura del romanzo. I risultati, in parte in linea con la tradizione critica più recente, evidenziano come il sogno iniziale del protagonista costituisca il centro sia della critica alla politica post-bellica che della volontà dell’autore di allontanarsi dall’agone politico per dedicarsi interamente all’arte. L’Orologio, da questa precisa angolazione, diviene così l’opera del disincanto e del rammarico per l’incapacità da parte della politica italiana di fare tesoro dell’esperienza fascista. E mostra, altresì, l’esperienza biografica dello stesso Levi che dinnanzi alla caduta dei valori della Resistenza si ritira in un lungo periodo di astensione dalla politica. A chiudere la triade dei capolavori della prima fase dell’opera leviana è il postumo Quaderno a cancelli. Nell’opera, nata dalla cecità provvisoria dell’autore, Levi recupera la dimensione del sogno e della memoria, ripercorrendo le tappe più significative della propria esistenza. Descrivendosi come un guerriero birmano ferito sulla contro-scarpa di un fossato, il protagonista desidera ricostituire l’unità perduta con la madre per mezzo di un cammino che trasforma l’eroe iniziale in un combattente vietcong immerso nelle acque amniotiche del ventre materno. L’ultima opera leviana si spinge, dunque, come non mai dentro le radici di quella forza primigenia identificata con il sacro, riscoperta in Lucania e poi identificata con il polo della madre. Nella madre e per la madre si chiude così il lungo cammino artistico di Levi che, alle soglie della morte, si spegne in quel tutto indifferenziato da cui aveva tratto origine la sua opera; in quel caos primordiale in cui egli aveva intravisto l’unica forma potenziale di rigenerazione della storia e dei rapporti individuali. La prima difficoltà che si riscontra nell’affrontare un discorso su Carlo Levi è cercare di ricomporre in maniera unitaria il suo percorso esistenziale e letterario. Nella presentazione della raccolta dei discorsi parlamentari di Carlo Levi , l’allora Presidente del Senato Marcello Pera citava Ferruccio Parri, che aveva a suo tempo rilevato la difficoltà di ridurre ad unità biografica il complesso percorso esistenziale di Levi, e osservava che l’elemento unificante di esperienze così varie nella pittura, nella letteratura, nel giornalismo, nella critica militante e nell’impegno politico andava ricercato nella passione che lo animava. In questo percorso umano così eclettico  che ha certo molte radici, dall’aspirazione a una sapienza universale che appartiene alla tradizione della cultura ebraica, con la quale Levi si confrontò sempre pur senza ostentazione, fino a una singolarissima personalità che univa una salda fiducia nei propri mezzi espressivi e perfino nella propria superiorità intellettuale a una «rara empatia con uomini, donne, bambini e perfino animali» egli stesso, peraltro, si considerò sempre in primo luogo un pittore, vedendo nell’arte figurativa la sua “professione” e nelle sue altre esperienze, anche creative, essenzialmente una manifestazione in un certo senso terenziana della propria partecipazione a ogni aspetto dell’esistenza umana. L’incontro con Gobetti costituisce uno snodo fondamentale nel percorso di formazione del giovane Levi non solo dal punto di vista politico, ma anche sotto il profilo artistico, dal momento che Gobetti lo presentò a Felice Casorati , che Piero stesso aveva promosso a «futuro maestro di un’intera generazione di pittori a campione del classicismo, contro impressionismo e decadentismo». Di venti anni maggiore di Levi, Casorati era già un pittore piuttosto noto (aveva già esposto alle biennali veneziane del 1909 e del 1910, e successivamente si era avvicinato alla lezione della Secessione viennese, che aveva contribuito a far conoscere in Italia attraverso la rivista Via Lattea pubblicata a Verona nel 1914) quando si era trasferito a Torino con la famiglia dopo la guerra. «[…] Il suo arrivo», come scrisse Levi alla morte di Casorati nel 1963 «era stato […] come la caduta di un masso in uno stagno, e aveva modificato d’un tratto […] la vita culturale della città». Levi diventò dunque allievo della scuola di pittura di Casorati, che gli fu maestro di quella rigorosa costruttività e saldezza formale che sarà il segno intorno al quale evolverà l’esperienza artistica di Levi il quale, pur affrancandosi ben presto dal ruolo di allievo, mantenne sempre vivo un rapporto di salda amicizia col maestro, nonostante la differenza di età e l’improvviso allontanamento di Casorati da qualsiasi coinvolgimento in attività politiche, dopo lo shock dell’arresto da lui subito nel 1923 a causa della collaborazione con la casa editrice di Gobetti. Alla metà degli anni ’20 il giovane Levi sembra incerto fra la carriera artistica e quella scientifica. Laureatosi a pieni voti nel 1924, diventa assistente del professor Micheli presso la cattedra di clinica medica, pubblicando studi sperimentali di internistica di notevole pregio, e nell’ambito del perfezionamento dei suoi studi medici si reca a Parigi per il primo di vari soggiorni che ebbero un ruolo essenziale nella sua maturazione artistica, e nell’aprire una finestra europea a quello che cominciava ad essere un pittore con un proprio ruolo nello scenario artistico italiano. In quello stesso anno infatti debutta alla biennale di Venezia esponendo tre dipinti: Arcadia, Il fratello e la sorella, La madre e Lelle bambina. In questo periodo Levi consolida il proprio impegno politico-culturale, collaborando alla Rivoluzione liberale fino alla sua chiusura nel 1925, e ancora alla rivista culturale di Gobetti, Il Baretti, fino alla chiusura nel 1928. Nel 1927 Levi decide di dedicarsi interamente alla pittura, abbandonando la carriera medica, e si reca a Parigi dove, anche grazie ai contatti col mondo artistico francese della sua fidanzata di allora, la lettone Vitia Gourevitch, comincia a guadagnare una crescente notorietà. Tra il 1928 e il 1932 alterna i soggiorni parigini a quelli torinesi durante i quali partecipa alla vita artistica italiana e soprattutto a quella del cosiddetto “Gruppo dei Sei” (oltre a Levi, Jessie Boswell, l’unica donna, Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio e Enrico Paulucci), impegnati nella ricerca di un linguaggio moderno che mantenesse un rapporto dialettico con la pittura italiana dell’800, in una polemica col futurismo che aveva una chiara connotazione politica; come scrisse Levi nell’introduzione al catalogo della mostra torinese sui Sei del 1965: l’origine vera del Gruppo era nella ricerca di un linguaggio pittorico di libertà, a noi adatta e vissuta, reale; in opposizione contro i falsi miti novecenteschi, gli arcaismi, i populismi totalitari, le mistificazioni moderne della retorica e dell’accademia e dell’attivismo e vitalismo futurista.In realtà la ricerca artistica di Levi è speculare a un crescente impegno antifascista, con l’adesione al movimento clandestino “Giustizia e libertà” di Carlo Rosselli, fin dalla sua costituzione nel 1929, adesione cui egli da’ contenuto collaborando alla rivista edita in Francia, fornendo la sua opera di disegnatore, coordinando le attività del gruppo torinese che – dopo i processi del 1930-31 che avevano decapitato i gruppi milanese e romano con le condanne di Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Francesco Fancello, Nello Traquandi e altri – era diventato la principale realtà italiana del Movimento. È interessante notare che l’estraneità dei giovani borghesi di GL agli ambienti considerati dall’OVRA come i più tipici dell’attività antifascista torinese (la classe operaia, i vecchi militanti del Partito comunista e dei Partiti aventiniani) contribuì per lungo tempo alla completa ignoranza da parte della polizia circa l’identità degli aderenti. Sotto questo aspetto Levi – giunto all’età adulta sotto il Regime, laureato, di famiglia benestante, artista di crescente fama anche a livello internazionale, che espone a Parigi e Londra e fa anche le sue prime prove nel cinema come scenografo e sceneggiatore – rappresenta un esempio tipico di un ambiente che, al di là di frequentazioni e passioni giovanili, si riteneva naturalmente “normalizzato”, e capace tutt’al più di un dissenso meramente culturale e “privato”. Questa situazione si modifica bruscamente nel febbraio del 1934, quando la polizia di frontiera arresta a Ponte Tresa, mentre tentano di introdurre in Italia stampa clandestina, due giovani militanti torinesi di GL, Sion Segre Amar e Mario Levi; quest’ultimo, che riesce a sfuggire alla cattura e a riattraversare il confine, è fratello, oltre che della futura scrittrice Natalia Ginzburg, anche di Paola, moglie di Adriano Olivetti e notoriamente amante di Carlo Levi (dal quale avrà nel 1937 una bambina, Anna). La polizia arresta quindi, insieme ad altre persone dello stesso ambiente, anche Levi, che viene imprigionato nelle Carceri Nuove di Torino; il prudente e disinvolto artista però, che è riuscito a nascondere in luogo sicuro qualsiasi materiale compromettente, non cede ai pressanti interrogatori, sostenendo che le sue relazioni con gli arrestati hanno carattere meramente amicale e culturale. Carlo rimane in carcere per quasi due mesi, dal 13 marzo al 9 maggio ʼ34, e questo periodo di detenzione sembra proiettarlo in una dimensione di tempo e spazio sospesi, sintomo di un attonito smarrimento dello scrittore che si traduce in una continua ricerca delle proprie certezze e dei propri rapporti con la realtà, come si deduce dalla corrispondenza epistolare di quei mesi. In una lettera del 6 aprile alla madre Annetta scrive: Anche il cielo attraverso le grate, è molto indeterminato: non è proprio un vero cielo, ma piuttosto un buco luminoso, nel quale non si distingue bene il nuvolo dal sereno, gli aeroplani dagli uccelli; e i rumori che vengono dal di fuori, quelli di una fabbrica vicina, o dei tram, la notte, o le voci delle guardie, non hanno neppur essi una dimensione e un carattere preciso . Seppur con un provvedimento di ammonizione il 9 maggio viene quindi rilasciato, ma l’OVRA continua a indagare sul movimento infiltrandolo con un suo informatore, il popolare scrittore Pitigrilli, al secolo Dino Segre, cugino di Sion Segre Amar; l’infiltrato indirizza di nuovo l’attenzione degli inquirenti su Levi, che viene arrestato nel maggio 1935. Egli però – per motivi che testimoniano la superiore chiaroveggenza dell’artista rispetto ai meri attivisti politici – ha sempre diffidato di Pitigrilli, ed ha avuto cura di non aprirsi in alcun modo con lui. Una volta di più, dopo due mesi di interrogatori prima alle Carceri Nuove, e poi a Roma, a Regina Coeli, non emergono elementi che giustifichino il deferimento al tribunale speciale (che condanna invece a pesanti pene detentive Segre Amar, Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Michele Giua e il pur “pentito” Massimo Mila); tuttavia Levi è proposto per la misura di prevenzione come sospetto antifascista, e ad agosto viene inviato al confino a Grassano, in provincia di Matera. Dopo appena un mese però la Questura raccomanda il suo trasferimento in una località più isolata, apparendo difficile tenere sotto controllo l’esuberante pittore, che in poche settimane ha ricevuto la visita di Paola Olivetti e ha avuto modo di mettersi in contatto con Vitia Gourevitch, da tempo sposata in Lettonia (tutta la complessa vita sentimentale di Levi è caratterizzata da relazioni che non sfoceranno mai in una vita famigliare – quali quella ventennale con Linuccia, figlia del poeta Umberto Saba e moglie del pittore Lionello Giorni, o quella con Luisa Orioli e che non si interromperanno mai veramente nemmeno dopo la fine dell’intimità, trasformandosi in profondi rapporti affettivi e intellettuali); Levi viene perciò inviato ad Aliano. Il confino, come è noto, rappresenta una vera svolta nella vita dell’artista. L’empatico e generoso Levi scopre nella vita contadina lucana un mondo alternativo a quello della modernità e della razionalità da cui proviene, nel quale sa penetrare con curiosità e rispetto (un esito tutt’altro che scontato se si pensa, ad esempio, al drammatico senso di estraneità con cui Cesare Pavese visse il confino a Brancaleone) ne nasce un’esperienza centrale nel suo percorso umano sotto ogni profilo: filosofico, perché trasforma e completa il peculiare umanesimo che costituisce la sua chiave di lettura dell’esistenza; politico, perché precisa e definisce la sua visione della democrazia, derivata dall’insegnamento di Gaetano Salvemin , incentrata sull’autonomia delle comunità elementari; artistico, perché questa esperienza, mentre darà inizio, con Cristo si è fermato a Eboli, alla sua carriera di scrittore, indirizzerà il suo percorso pittorico degli anni successivi. Liberato a seguito del condono concesso a numerosi confinati in occasione della proclamazione dell’Impero, rientra a Torino, dove riprende la sua attività artistica cimentandosi non solo nella pittura (nel biennio successivo al suo rilascio presenta numerose “personali” a Milano, Roma e Genova, e suoi dipinti sono esposti nel dicembre del 1937 all’Anthology of Contemporary italian painting di New York) ma anche nella poesia e nella scenografia cinematografica. Per quanto sia costretto a muoversi con estrema prudenza, il confino non ha certo spento la sua passione politica: nell’estate del 1937 dipinge un Autoritratto con camicia insanguinata che sembra alludere all’assassinio dei fratelli Rosselli, avvenuto il 10 giugno di quell’anno, e a partire dall’anno successivo riesce a far arrivare clandestinamente in Francia articoli pubblicati su Giustizia e Libertà. Dal settembre 1938 però la posizione di Levi si complica a causa dell’avvio della politica razziale, che impedisce di fatto agli artisti ebrei di esporre o pubblicare col proprio nome. Nel giugno 1939 si trasferisce a Parigi, e di qui a La Baule in Normandia, dove scrive il saggio Paura della Libertà. Dopo l’invasione tedesca della Francia, Levi ritiene prudente abbandonare la “Zona occupata” e si trasferisce a Marsiglia.

Anche se nemmeno la Francia può essere considerata un posto sicuro; così Levi riesce a ottenere un visto americano, ma all’ultimo momento decide di non partire per gli USA, e nel 1941 rientra in Italia, stabilendosi prima a Milano, dove entra in contatto con Ugo La Malfa partecipando alla fondazione del Partito d’Azione, quindi a Firenze, dove si guadagna da vivere essenzialmente come ritrattista. Sospettato di attività antifascista, viene arrestato nell’aprile del 1943 e rinchiuso al carcere delle Murate, da dove è liberato con la caduta di Mussolini. Dopo l’8 settembre entra in clandestinità; nonostante i pericoli, i disagi e l’impegno nella Resistenza non interrompe l’attività creativa, terminando fra l’altro la stesura del Cristo. Dopo la liberazione di Firenze, entra per il PdA nel CLN della Toscana, assumendo la direzione de «La nazione del popolo», organo del CLN regionale. Nel giugno del 1945 si trasferisce a Roma per assumere la direzione de «L’Italia libera», organo del Partito d’Azione. Si apre così un anno di esperienze quanto mai intense. In questo periodo, mentre Einaudi pubblica Cristo si è fermato a Eboli con un immediato e travolgente successo anche all’estero, e soprattutto negli USA, si consuma rapidamente l’esperienza del PdA, entrato in crisi dopo la caduta del Governo Parri (episodio centrale dell’Orologio) e la crescente inconciliabilità delle diverse culture che lo avevano animato. Levi però muove agli azionisti una critica di segno diverso, accusandoli di un’insufficiente attenzione verso le questioni meridionale e contadina, dalla cui comprensione, a suo avviso, dipende la possibilità di realizzare in Italia una vera rivoluzione democratica. Aderisce così ad Alleanza Repubblicana, un gruppo fondato dagli azionisti meridionalisti Dorso, Rossi Doria e Fiore, con cui si candida all’Assemblea costituente. AR però non raggiunge il quorum e non elegge deputati . Intanto lo straordinario successo del Cristo si è fermato a Eboli conferisce a Levi una posizione centrale in quel rinnovamento della vita culturale nazionale che si manifesta nel dopoguerra e che, grazie in primo luogo al cinema, assume ben presto una dimensione internazionale. All’immagine di Levi fuori dell’Italia contribuisce in maniera determinante il viaggio che compie insieme a Parri nel 1947 negli USA, organizzato da una associazione culturale italoamericana per far conoscere al pubblico americano le condizioni e i bisogni della nuova Italia repubblicana. Il viaggio diventa una straordinaria occasione di promozione culturale, grazie soprattutto all’abile opera di Max Ascoli che introduce Levi nell’ambiente intellettuale d’oltreoceano, procurandogli una collaborazione con Life che, seguita da quella con La Stampa e altri giornali italiani, darà vita a una delle più caratteristiche attività di Levi negli anni ’50, quella di moderno “GrandTourist”, narratore e interprete di un mondo che, tra guerra fredda, decolonizzazione e nuovi media, comincia a rivelare al lettore medio italiano un volto assai diverso da quello consolidato dalla tradizionale letteratura di viaggio ed esotista. Nel contesto di questa attività – che darà vita ad acutissimi reportage, alcuni dei quali si trasformeranno in opere di maggior respiro, come La doppia notte dei tigli sulla Germania divisa e Il futuro ha un cuore antico sulla società sovietica – si distinguono i viaggi nell’Italia del Sud, dai quali nascono opere come Le parole sono pietre e Tutto il miele è finito, e nei quali il punto di vista dell’osservatore diventa anche quello di un soggetto attivo. Levi infatti in questi anni è ormai una figura chiave del meridionalismo militante, animatore del movimento di opinione pubblica contro la persecuzione amministrativa e giudiziaria di Danilo Dolci in Sicilia,mentore di tutta una nuova generazione di intellettuali meridionalisti specialmente lucani, si pensi soprattutto a Rocco Scotellaro al quale Levi rimase legato da una profonda amicizia. Proprio con il giovane poeta – che, come Dolci, vedrà Levi schierato al suo fianco durante le tormentose vicende giudiziarie con le quali si tenterà di contrastare il suo impegno riformatore – farà nel dicembre del 1952 un viaggio in Calabria dal quale nasceranno alcuni dei suoi quadri più famosi come La porta del Sud, Melissa, Antonio e il porco, Il piccolo assegnatario, Nonna e nipote.Il quindicennio postbellico è infatti, più in generale, quello in cui vengono dipinte la maggior parte delle opere di “realismo sociale”, che in Levi tende però sempre ad essere sfumato dal senso del magico, e di soggetto “contadino” della pittura leviana, che culmineranno prima nel Lamento per Rocco Scotellaro, dipinto dopo la morte del poeta (1953), e infine nel grande telero realizzato per il padiglione della Basilicata all’expo di Torino per il centenario dell’Unità nazionale. Sarebbe un errore tuttavia dimenticare che la ricerca artistica di Levi anche in questa fase si confronta con numerose modalità espressive: la serie dei quadri di soggetto mitologico (Demetra e Persefone, Teseo e Arianna, Narciso), il pluridecennale esercizio, in litografia e in scultura, col tema degli amanti, che culmina nella famosa personale alla Galleria “Il Pincio” di Roma nel 1955, e soprattutto la ritrattistica, che è stata una presenza costante nell’opera di Levi e che in questi anni vede posare per lui, fra tantissimi altri, Italo Calvino per ben dieci ritratti, Anna Magnani, Ernesto Rossi, Giuseppe Di Vittorio, Giorgio Amendola, Ilja Ehrenburg, Frank Lloyd Wright, David Siqueiros, Pablo Neruda. Proprio il poeta cileno – accanto ai ricordi di tanti modelli che hanno parlato delle curiose sedute di posa di Levi, che non richiede l’immobilità al modello e per tutto il tempo chiacchiera e scherza con lui – ha lasciato una testimonianza che allude al fascino un po’ misterioso che la personalità del pittore ha sempre esercitato su chi lo ha conosciuto: Mentre mi ritraeva nell’antico studio, il crepuscolo romano discendeva lentamente, i colori si attenuavano come se il tempo impaziente rapidamente si consumasse […] Sprofondai nell’oscurità, ma egli continuava a dipingermi. Il silenzio finì per divorarmi, però egli seguitava forse a dipingere il mio scheletro. Perché i casi erano due: o le mie ossa erano fosforescenti, o Carlo Levi era un gufo, aveva gli occhi scrutatori dell’uccello della notte. L’impegno meridionalista di Levi – che nella sua visione politica rappresenta una chiave di lettura di un rinnovamento democratico dell’intera società italiana – cerca in questi anni con difficoltà di trovare una sponda politica. Dopo il trionfo della coalizione centrista la posizione di Levi si precisa nel senso della sua contrapposizione a una maggioranza politica che egli considera espressione di un blocco sociale conservatore e culturalmente miope (risale alla pubblicazione dell’Orologio la sua nota metafora sulla magna divisio della società italiana in “contadini” – i ceti produttivi e gli intellettuali – e, dal nome del podestà di Aliano, i “Luigini”, un blocco sociale che riunisce ceti parassitari collocati a livelli diversi della piramide socioeconomica) . Nel corso degli anni cinquanta dunque Levi si avvicina sempre di più alla sinistra di opposizione e comincia a guardare al Partito comunista che fin dal 1953, nella prospettiva di porsi come perno di una coalizione alternativa a quelle incentrate sulla DC, offre “ospitalità” nelle proprie liste a personaggi di vari orientamenti politico-culturali che di tali alleanze dovrebbero essere i catalizzatori, determinando la nascita dei Gruppi parlamentari della Sinistra Indipendente. Nel 1963 Levi è dunque eletto al Senato nel collegio di Civitavecchia. Levi resta in Senato per due legislature, come componente della Commissione Istruzione pubblica e belle arti. Il suo ruolo, a differenza di altri artisti e in generale di esponenti della cosiddetta “società civile” eletti in Parlamento, non sarà mai quello di un mero “tecnico”, che prende la parola esclusivamente su questioni che attengono alla propria specifica esperienza di vita. Senza mai dimenticare la sua dimensione di artista e la prospettiva particolare che essa conferisce alla sua analisi della realtà, il senatore Levi è un parlamentare e un politico a tutto tondo, del quale restano ad esempio memorabili interventi nei dibattiti sulla fiducia ai Governi di quegli anni – da quello sul primo Governo Moro nel quale, alla critica per quello che gli sembra il difetto genetico di un governo che nasce su basi politiche insufficienti a consentire un vero rinnovamento dei rapporti sociali, si unisce l’interesse per il programma politico e l’affetto per tanti componenti della compagine che hanno condiviso momenti importanti della sua vita, a quelli, sempre più sfiduciati verso le successive riedizioni di un centro-sinistra che lui vede ridursi da «forma» a «formula»  ovvero nelle sue analisi di questioni come la difesa della libertà di coscienza e di espressione, la tutela del paesaggio, le relazioni internazionali, i nuovi movimenti giovanili e molte altre. Provato da problemi di salute Levi, che nel 1968 era stato rieletto nel collegio di Velletri, non si ripresenta alle elezioni del 1972. Negli ultimi anni, nonostante le condizioni sempre più precarie, ivi compresi un periodo di cecità che fa da sfondo alla sua ultima opera letteraria, il Quaderno a cancelli, continuerà a lavorare, realizzando in particolare nel 1974 insieme a Cagli e a Guttuso, autori delle prime due, l’ultima opera (La Liberazione) del gruppo celebrativo del trentennale delle Fosse ardeatine.

IL PERCORSO ESPOSITIVO

Carlo Levi è un pittore già affermato quando, negli anni Trenta, il giovane Piero Martina si affaccia sulla scena artistica torinese. Il legame tra i due si approfondisce in occasione della prima mostra di Martina alla Galleria Genova nel 1938, presentata dallo stesso Levi che lo sostiene e incoraggia nella ricerca di un linguaggio espressivo autonomo. Nella prima sezione dal titolo La formazione, l’ambiente intellettuale torinese, sono poste a raffronto le opere rappresentative di questo periodo,incentrato sulla cultura figurativa del gruppo dei “Sei di Torino” che Levi aveva contribuito a fondare. Se le opere di quest’ultimo sono caratterizzate- dopo un avvio di figurazione dai volumi netti sotto la luce (quasi “realismo magico”) – dall’approdo ad una pennellata morbida e avvolgente di natura più sensuale (Le officine del gas, 1926; Lelle seduta con cappellino, 1933), la pittura di Martina si rivela come uno schermo vagamente colorato e iridescente che nasconde le cose invece di rivelarle (Interno dello studio con cappello, 1937, Figura con maschera, 1938, Ritratto di donna con cappello, 1937).

La seconda sezione Da Torino a Roma: suggestioni, aperture e nuove ricerche accompagna il visitatore nel passaggio dal periodo torinese, in cui il fascino discreto della loro città si rivela nei ritratti di familiari e amici, nelle nature morte e negli scorci cittadini realizzati dai due artisti(Tramonto con la Mole, del 1942, di Piero Martina), al periodo immediatamente successivo caratterizzato dalla tragica incombenza della guerra e dai continui spostamenti dei due. Tra il 1934 e il 1938 Carlo Levi conosce diversi arresti e il confino in Lucania, la persecuzione della polizia fascista e le leggi razziali che lo costringono a una vita di continuo nomadismo tra l’Italia e la Francia. Ma non si interrompono le occasioni di incontro e confronto con l’amico,con il quale condivide il comune senso di perdita a seguito del bombardamento delle loro case a Torino, nel 1942. In questo stesso anno realizzano l’uno il Ritratto dell’altro. Dalle atmosfere lievi e intimiste dei primi lavori, nei primi anni Quaranta Piero Martina si avvicina ai linguaggi contemporanei più antiaccademici (la Scuola Romana, ad esempio) e passa a un uso del colore più fermo e studiato (Ragazza al clavicembalo, 1940; Rose e conchiglie, 1942). Levi, invece, a partire dal suo confino lucano si lascia catturare dai temi del sociale rappresentando la miseria dei contadini del sud Italia, abbandona le trasparenze del periodo precedente per concentrarsi su strutture più robuste, dense e “ondose”, che definiscono uno spazio percepito come mobile e trascorrente(Autoritratto con fornello, 1935 Tetti di Roma, 1951). Dopo una breve parentesi fiorentina nel 1943 e l’esperienza alla Biennale del 1948, alla quale entrambi partecipano, arriva un punto di svolta agli inizi degli anni Cinquanta quando Martina, quarantenne, si stabilisce a Roma dove Levi risiedeva già dal 1945. Insieme frequentano i vivaci circoli artistici della Capitale, centro nevralgico di un movimento di riconquista delle libertà espressive sacrificate durante il ventennio e di energie convergenti da tutta Europa, nelle arti come nella letteratura, nel cinema e nella fotografia. È La stagione dell’impegno civile – titolo della terza sezione della mostra – che coincide con un momento di acuto confronto sociale nel paese e con una fase di profonda consapevolezza nei due artisti, del ruolo degli intellettuali nei confronti dei contadini e della classe operaia. Sono di questa fase, infatti, le opere più sperimentali di Martina legate ai temi del lavoro operaio (La Tessitrice n.2, 1952, La manifattura tabacchi, 1956),e la pittura scabra di Levi in cui ritrae le difficili condizioni delle classi subalterne e contadine del Sud (Il Ragazzo Aleandro, 1952, Fratelli, 1953, Contadine rivoluzionarie, 1951). Il lungo decennio della “ricostruzione” lascia il posto, negli anni Sessanta e oltre, a una ricerca più personale da parte dei due artisti, lontano dal dibattito contemporaneo. La quarta sezione, Il nudo e il paesaggio, temi coinvolgenti, accoglie alcuni lavori delle loro ultime stagioni pittoriche,dominate da un orizzonte tematico simile in cui prevale un rinnovato interesse per la natura, un vagheggiato Eden popolato da nudi e silhouette, antiche divinità e inattese apparizioni. Anche questa volta, però, la resa pittorica è quasi all’estremo opposto: figure in primo piano, assottigliate e indecifrabili, caratterizzano i dipinti di Martina, la cui pittura – sia che si concentri sulla rappresentazione di paesaggi che su quella di nudi corporei – sembra ritrarsi dal fondo per apparire come un connubio indissolubile tra luce e colore (come in Paesaggio meridionale, 1949 e Alberi e Nudi nella vigna verde, 1961). Al contrario Levi sperimenta una materia densa e afosa, rappresentazione di un mondo vegetale drammatico e onirico. I nudi e i paesaggi dai colori levigati degli anni giovanili, lasciano ora il campo a opere complesse come Donne furentidel1934oAlberi del 1964. Conclude il percorso espositivo la sezione Le opere di Carlo Levi nella Collezione di Angelina De Lipsis Spallone. Medico e amante dell’arte, Angelina De Lipsis Spallone (1926-2020) è stata una collezionista dallo sguardo attento alla migliore arte nazionale e internazionale del suo tempo. Fa parte di questa collezione un importante corpus di diciannove dipinti inediti di Carlo Levi, esposti ora per la prima volta,acquisiti grazie all’amicizia con Linuccia Saba, figlia di Umberto e compagna di Levi negli anni romani. La raccolta di opere leviane racconta quasi per intero il percorso dell’artista: dagli esordi, con la Natura morta del 1926, il Piccolonudo di poco successivo o il giovanile Autoritratto in rosa del 1928, agli anni Trenta, segnati dall’esperienza dei “Sei di Torino” (La Donna sul divano, il Ritratto sulla sedia a sdraio (Francesca) e la Donna col cagnolino) e dall’influenza espressionistica su alcuni suoi lavori (La Raccoglitrice di Conchiglie, il Nudo di Palazzo Altieri e una Natura Morta). Di questo periodo è anche Il Nudo di donna che reca sul verso Donna con il cappellino, un intenso ritratto di Paola Olivetti. A seguire, si passa alla svolta neorealista degli anni Cinquanta con il Ciclo della Lucania rappresentato dal dipinto La Madre, per poi concludere la sezione con le ultime stagioni pittoriche degli anni Sessanta e Settanta rappresentate dagli alberi e dalle vedute del Ciclo di Alassio (La Vigna, Il Paesaggio di Alassio con falò, L’erpice e gli Attrezzi) e dai quadri della serie degli Amanti, un tema elaborato dall’artista già negli anni Trenta e diventato molto ricorrente nell’ultimo ventennio del suo percorso, con i profili di un uomo e di una donna che si fondono, unendosi in un unico abbraccio.

Galleria d’Arte Moderna di Roma

Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo

dall’11 Aprile 2025 al 14 Settembre 2025

dal Martedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.00

Lunedì Chiuso

Foto allestimento della mostra  Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo dall’11 Aprile 2025 al 14 Settembre 2025 Ph. Monkeys Video Lab

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