Giovanni Cardone
Fino al 13 Luglio 2025 si potrà ammirare a Palazzo della Meridiana- Genova la mostra dedicata ai Macchiaioli – ‘Gli Eredi dei Macchiaioli. Da Silvestro Lega a Plinio Nomellini’ a cura di Simona Bartolena con la collaborazione di Armando Fettolini. L’esposizione è stata dall’Associazione Amici di Palazzo della Meridiana APS, dato che si celebra l’anno dedicato all’Ottocento da parte di città di Genova. In una mia ricerca storiografica e scientifica sui Macchiaioli apro il mio saggio dicendo: Posso con certezza affermare che la vicenda del Caffè Michelangelo si svolge in un periodo assai complesso della storia italiana: la politica piuttosto libertaria del granduca Leopoldo di Toscana rese Firenze il luogo ideale per dibattiti politici, oltre che culturali, che altrove sarebbero stati censurati da governi ben più autoritari. Nel capoluogo toscano giunsero intellettuali da ogni dove: vi risiedevano, ad esempio, Nicolò Tommaseo, Paolo Imbriani e Giuseppe La Masa. Anche gli artisti arrivavano da altre zone della penisola: l’ancora giovanissimo Vincenzo Cabianca arrivava a Firenze nel 1854 da Verona, Vito D’Ancona era di Pesaro, Silvestro Lega veniva da Modigliana, in provincia di Forlì, Giuseppe Abbati da Napoli, mentre Saverio Altamura era originario di Foggia. La macchia, che consisteva nell’accentuazione del chiaroscuro per stabilire il valore strutturale della luce-colore contro l’alleggerimento della tecnica a velature, ovvero il colore veniva steso in modo più deciso organizzando il dipinto in zone omogenee di colore non attenuate dalle velature del chiaroscuro tonale che ammorbidisce la forma e crea maggior rispondenza dell’oggetto dipinto rispetto all’idea di quello reale, non era affatto un fenomeno toscano: essa nasceva, al contrario, da un dinamico e fertile scambio culturale tra artisti provenienti da aree assai diverse di un paese ancora politicamente, geograficamente e culturalmente frazionato. Come affermato da Silvestra Bietoletti all’interno del volume Arte Italiana, I macchiaioli verso la modernità, la sensibile diminuzione degli acquisti pubblici e privati e la conseguente perdita di potere e di credibilità del sistema delle Accademie avevano sollecitato iniziative parallele quali la fondazione della Società Promotrice di Belle Arti, secondo una modalità già sperimentata altrove a Torino, ad esempio, mentre un!altra conseguenza della decadenza delle Accademie fu il fiorire della pratica dell’insegnamento privato, fenomeno che aveva già da tempo preso piede in Francia. La Società Promotrice fiorentina, sorta nel 1845 sul modello di quella torinese, dette nuovo impulso al paesaggio, alla veduta e alla scena di vita contemporanea, generi pittorici graditi al gusto collezionistico borghese cui ora si intendeva rivolgersi. Occorreva quindi prima di tutto svincolarsi dal problema del rinnovamento dei generi, e il primo passo fu quello che portò dal quadro di storia antica al quadro di storia contemporanea, cui si accinsero in molti. Si trattava di opere destinate a pubbliche esposizioni: il concorso indetto da Bettino Ricasoli nel settembre del 1859 per l’esecuzione di quattro grandi dipinti raffiguranti le battaglie di Curtatone, Palestro, Magenta e San Martino; e la Prima Esposizione Nazionale italiana di Firenze del 1861, in questo caso gli artisti si erano a loro modo preparati per non deludere i loro detrattori. Tra questi Odoardo Borrani con Il 26 aprile 1859 in Firenze: il titolo avrebbe fatto pensare alla solennizzazione di un qualche momento eroico dell’insurrezione toscana, invece la celebrazione non è legata a un episodio popolare bensì è interiorizzata ed emblematizzata nella compostezza di una signora fiorentina che nel chiuso di una stanza cuce il tricolore. Attorno a questo dipinto, che fu acquistato dal principe di Carignano, si raccoglieva la setta dei «nuovi” con opere che davano quanto meno un’idea di quel che di più avanzato si stava configurando a Firenze in fatto di pittura. Sin da questo momento Borrani dette la misura della propria grandezza, sia con il dipinto citato sia con La raccolta del grano sull’Appennino. Come asserito da Francesca Petrucci Cabianca dava una convincente interpretazione della macchia, applicata ad un soggetto in costume antico, nei novellieri toscani del XIV secolo (1860), opera acquistata dal re, mentre ne Le monachine del 1861 raggiungeva straordinarie risultanze di luce e di fusione dei toni. Signorini vendette a Isabella Falconer il quadro militare La cacciata degli austriaci dalla borgata di Solferino, ma il suo Pascoli a Castiglioncello del 1861 suscitò le più vive critiche e incomprensioni. Fattori e Lega esponevano dipinti militari, D’Ancona riceveva un riconoscimento per il dipinto Dante Alighieri che s!incontra con Beatrice, Abbati si segnalava per due interni della chiesa di San Miniato al monte, che gli facevano ottenere la medaglia , Un’immagine vivissima di cosa dovesse essere il Caffè Michelangelo ci è stata tramandata dagli scritti di Telemaco Signorini, “l’alfiere, anzi in qualche modo il capitano”, del gruppo. In un articolo apparso sui numeri dal 25 maggio al 29 luglio del 1867 del “Gazzettino delle arti del disegno”, ad esempio, ne descrive l’importanza con tono appassionati: “E perché chiaro apparisca al lettore lo sviluppo delle idee che allo svolgersi dei fatti presero vigore da noi, crediamo indispensabile fare la storia retrospettiva del primo nucleo formatosi in Firenze, e raccontare imparzialmente le cause prime che produssero la nascita, la vita e la morte del Caffè Michelangelo. Conosciuta così la genesi del pensiero artistico moderno, intenderemo meglio come nessuna innovazione se vi è innovazione possibile si produca per mezzo di una volontà sovrana o per un eccentrico capriccio individuale, ma come invece la forza logica delle cose porti prima una minorità poi un numero maggiore di individui ad ostare allo spirito di conservazione che cercò, cerca e cercherà sempre di fare ostacolo alla progrediente attività della libertà del pensiero. Dopo la rivoluzione del 1848 l’insegnamento accademico si scisse e tolte poche individualità che presero a studiare e produrre sotto a particolari professori e maestri, un numero non indifferente di giovani si emancipò affatto da qualunque insegnamento accademico, e preso a solo maestro la natura, tal quale si mostra coi suoi così detti difetti, colle sue così dette inutilità, trivialità, ed anche indecenze, nuda insomma e libera da qualunque influenza di scuola, iniziarono fra noi quella che per il volgere di 15 anni fu combattuta e che oggi si impone e si imporrà ogni di più per la storia dei fatti che le daranno ragione. Se però le prime orme furono franche furono anche necessariamente assolute ed improntate di quell’esagerato esclusivismo che caratterizza sempre il primo moto di qualunque rivoluzione, poiché così come ben avverte Rousseau, l’albero che fu piegato fino a terra si slancia dapprima così rapidamente da toccare quasi la terra dal lato opposto, e presa poi in conseguenza di varie evoluzioni la linea verticale, giusto mezzo fra i due eccessi, si alza su se stesso e cresce rigoglioso di potenza e di vita. Ed in forza di ciò non potendo quei giovani dare all’indomani i frutti della loro emancipazione sentirono la necessità di vedersi, di conoscersi, riunirsi e nel 1850 circa, poco dopo la restaurazione del passato governo, dato ad un Caffè di via Larga, ora Cavour, il nome di Caffè Michelangelo ed in una stanza appartata appositamente scelta e dipinta tutta da loro, preso piede attirarono a sé quasi tutti gli elementi artistici che erano allora in Firenze. Né si creda che queste prime loro riunioni fossero un pretesto a discussioni di arte. Le burle di tutti i generi erano all’ordine del giorno, gli stornelli popolari delle campagne toscane cantati con mirabile armonia trattenevano la folla che sotto la finestra del Caffè inondava la strada e frammezzo alle nubi del fumo dei sigari e le gambe levate sulle tavole, vedevi taluno che schizzava da una parte un gruppo d’amici impegnati in una seria questione, ed un altro che, preso da mani di robustezza, alzava con un braccio solo diversi marmi dei tavolini legati insieme, e chi fatti dei cartoni di fogli inumiditigli in cima gli lanciava al soffitto ove rimanevano attaccati e in mezzo a tutto questo, la terribile ironia fiorentina, la finezza Macchiavellica che, facendo anch’essa parte della commedia, si riserbava pure il diritto di osservarla e di fischiarla quasi sempre ed eccitava le risa . A questa scuola bisognava imparare la tolleranza, passando per una trafila tale di prove che gli affigliati di qualunque società segreta non conobbero mai le uguali. Disposti a simpatizzare per ciò che era giovane e franco guai a chi avesse voluto portare fra noi la propria supremazia; egli era certo di averci pochi ponci da prendere. A questo punto erano le cose ai primi esordi del Caffè Michelangelo quando le prime emigrazioni dalla Lombardia e dal Veneto portavano fra noi nuovi amici che dovevano anch’essi influire e cambiare il carattere di questa prima riunione di artisti.” Lungi dall’essere l’ambiente provinciale che talvolta si è voluto descrivere, il Caffè Michelangelo si rivelava dunque un locale dal respiro internazionale, alle cui serate parteciparono artisti provenienti da tutta Europa. Signorini ricorda anche, in epoche diverse, la presenza di Gustave Moureau, di James Tissot, di John Ruskin, personalità molto importanti della scena artistica e intellettuale del tempo, che sanciscono una volta di più il ruolo di Firenze come capitale della cultura. L’assiduità presso il Caffè Michelangelo da parte degli artisti si intensificò a partire dal 1855 l’anno dell’Esposizione universale di Parigi e continuò per poco più di dieci anni con fervore ricettivo e innovatore; il caffè è passato alla storia come cenacolo dei macchiaioli, ma i componenti di questo movimento, il più antico di quelli che sarebbero sorti fra l!Otto e il Novecento, ricevendo o dandosi ognuno una definizione e taluno poi affidando una o più descrizioni di sé a «manifesti” scritti e diffusi a stampa non ebbero un nome sotto cui riunirsi e riconoscersi fino al 1862. Il 3 novembre di quell’anno, in un articolo della «Gazzetta del Popolo” a firma di un non altrimenti identificato Luigi, Telemaco Signorini e i suoi sodali venivano etichettati non benevolmente con l!epiteto di «macchiaioli”: pittori che avevano ucciso il disegno per dare spazio esclusivo all’effetto”. Come sottolineato da Silvestra Bietoletti, fino a quel momento, in mancanza di una designazione che ne perimetrasse la poetica e lo stile, il gruppo originario, vale a dire, oltre a Signorini, Vincenzo Cabianca, Silvestro Lega, Giuseppe Abbati e Raffaello Sernesi, sostenuti da Diego Martelli quale critico e teorico, si era distinto per via di insofferenze e scopi comuni; condivisi peraltro, insofferenze e scopi, da artisti non toscani, che il clima politico moderato del Granducato lorenese in aggiunta alle bellezze del luogo attirava a Firenze. Univoco era l!oggetto della loro avversione: l’Accademia di Belle Arti, intesa come istituto formazione per futuri artisti e, altresì, come organismo ufficiale continuatore dell’antica Accademia del Disegno, deputato a impartire regole, a esprimere indirizzi, eventualmente a imporre veti in ogni campo delle arti . In seguito, Diego Martelli avrebbe portato agli estremi, storicizzandolo, il moto di ripulsa verso l!insegnamento accademico che aveva dato vigore ai giovani ribelli: “Nella situazione attuale dello Stato in cui l’economia è una suprema necessità ci sembra che sarebbe cosa ottima il sopprimere quante Accademie di Belle Arti esistono in Italia, conservando il valore di questi immensi stabili, nel capitale occorrente alla sistemazione degli impiegati ivi addetti e risparmiando poi in tutta la spesa necessaria al mantenimento di istituzioni secondo noi più dannose che utili all’incremento dell’Arte” . In che modo si sarebbe poi provveduto alla formazione dei giovani artisti Martelli non lo specifica. Penso che la figura di Martelli sia stata fondamentale per perseguire il rinnovamento dell’arte e specialmente della pittura, che avrebbe investito contemporaneamente il duplice ambito dell’iconografia e dello stile, ovvero del contenuto e della forma. Per entrambi gli aspetti, percepiti nei canoni accademici come inadeguati a esprimere in termini artistici sentimenti e fatti della contemporaneità, i futuri macchiaioli intrapresero percorsi di rinnovamento in audace coincidenza d’impegno, vale a dire sperimentando insieme nuovi stili e nuovi soggetti, ovvero rivolgendosi a temi inusitati che di per sé non solo richiedevano, ma in una certa misura implicavano la messa a punto di codici originali e addirittura rivoluzionari della pittura. Gli appartati interni borghesi, i paesaggi suburbani e rurali, le figure dei protagonisti di episodi feriali, umili o eroici, mal si accordavano al medesimo impianto grafico, alla stessa gamma cromatica, all’identica stesura chiaroscurale della pittura di storia o della ritrattistica aulica. I racconti e la verifica di quanto veniva accadendo in Francia con la pittura di paesaggio a Barbizon, ma anche a Napoli e a Staggia, e degli esperimenti ottico-pittorici il tongris francese, lo specchio nero, furono decisivi per corroborare la validità degli esperimenti intrapresi e indirizzarli. Nel definire i nuovi oggetti della loro creazione pittorica, esponenti di spicco e primi storiografi del movimento, tra i quali un intellettuale acuto come Signorini, un critico militante come Martelli, un testimone della prim’ora come Cecioni, si avvalsero di una quantità di termini, non necessariamente omogenei né appartenenti alla sfera estetica, ma piuttosto filosofica o etica: la natura, il vero, il vero palpitante, l’ingenuità, l’onesto, il giusto. Solo più avanti si sarebbe parlato di verismo e di realismo, ammettendo col suffisso un processo avvenuto di codificazione, come parallelamente accadeva in letteratura. Si tratta di concetti generali e in qualche modo generici, efficaci soprattutto in funzione antitetica agli ideali accademici, percepiti come lontani e anzi opposti alla natura e al vero. Non si menzionava il bello, così tenacemente perseguito dall’arte accademica, nella convinzione che ogni pur vile o deforme soggetto potesse dar luogo a una bella creazione artistica. A partire dai tardi anni cinquanta, mentre si continuano a dipingere ed esporre tra il generale consenso quadri di soggetto storico consentanei a un assestato romanticismo, il repertorio dei macchiaioli è ormai definito: vi s’incontrano scene militari dell’epopea risorgimentale, angoli appartati e silenti di città e borghi, intime stanze private, frange di verde ai margini delle nuove periferie, paesaggi rurali nella cui vastità va in scena la fatica del lavoro umano e animale, solitarie marine sotto lunghi cieli orizzontali . Seguirono come si è anticipato mesi di ricerche febbrili e di discussioni animate incentrate sull’arte come convenzione formale e sul procedimento analogico di origine positiva quale eccellente strumento d’indagine della realtà naturale, cui parteciparono gli artisti più coinvolti nel rinnovamento del linguaggio pittorico e che sfociarono nelle sperimentazioni all’aria aperta compiute con l’ausilio dello specchio nero per ottenere la semplificazione dei toni cromatici, in Valdarno, a Montemurlo e a La Spezia, da Signorini, Banti, Borrani, Cabianca fra il 1858 e il 1860. Sull’esempio di Silvestro Lega, il primo a sentire il fascino della campagna suburbana, i pittori macchiaioli si ritirarono a lavorare a Piagentina, nella periferia di Firenze. Là, a ridosso delle mura fuori porta alla Croce, «la strada chiusa fra muri si divideva in due: una portava a un bel viale di platani che andava dritto al ponte sospeso sull’Africo, aveva sul suo argine una villetta dove, colla famiglia Baetelli, abitava Silvestro Lega,” scriveva Signorini riandando con la memoria a quelle «deliziose giornate” trascorse dipingendo sulle rive alberate dell!Arno o «lungo le arginature” del suo affluente Affrico, «in una continua rispondenza d!ideali artistici con Abbati, Borrani, Lega, Sernesi, i francesi Gustave Langlade e Albert Madier, e quindi Cecioni, tornato in Toscana una volta concluso il pensionato artistico napoletano. A Piagentina essi applicarono il severo procedimento dell’analisi positiva a soggetti amati, dunque emotivamente coinvolgenti, ottenendone espressioni intessute di sentimento ma sorrette dalla qualità della forma. Erano interni abitati da donne intente a lavori domestici e a passatempi immutati negli anni, angoli quieti di giardino, di distese erbose, di boschetti di pioppi. Nel 1865 i pittori antiaccademici e innovatori avevano acquisito la forma di un movimento, anche se fluttuante tra alleanze, scismi, abbandoni per partenze e morti, da potersi riconoscere, con polemico orgoglio, nell’epiteto di cui erano stati fregiati, “macchiaioli”. Pittori di macchia inclini all’effetto della luce tramite chiazze e campiture di colori accostati e giustapposti, più che alla costruzione spaziale e volumetrica ottenuta attraverso l’uso tradizionale del disegno. Più che il disegno come strumento mentale generatore di ordine compositivo, fu il contorno a dissolversi, quello che costruiva e rilegava con artificio convenzionale figure e forme. Inesistente in natura, fu divorato dal colore, riassorbito in pennellate larghe o sottili, così da lasciare che alla costruzione di scene e figure provvedesse appunto, la macchia. Molto più avanti, negli anni Ottanta, Adriano Cecioni affrontò la definizione dello stile dei macchiaioli con una dovizia un po’ affannata di specifiche tecniche: “Furono i primi che si diedero, fra noi, agli studi nuovi, e che cominciarono a cercare e studiare la vera ragione degli effetti, a forza di prove o bozzetti appena macchiati con le tinte locali dei diversi colori o toni che avevano parte in un dato effetto, ed ora tentando un effetto di sole, ora di riflesso o di pioggia, elaboravano il modo di ottenere una giusta e propria divisione fra la luce e l’ombra, senza far luogo a transazioni di sorte alcuna” . La macchia non fu altro che un modo troppo reciso del chiaro scuro, ed effetto della necessità in che si trovarono gli artisti d’allora di emanciparsi dal difetto capitale della vecchia scuola, la quale, ad un’eccessiva trasparenza nei corpi, sacrificava la solidità e il rilievo dei suoi dipinti così Telemaco Signorini definiva la caratteristica principale del nuovo stile della pittura toscana di cui era stato uno dei primi e più convinti sperimentatori. Il pittore, dunque, sottolineava l’intento provocatorio che, sulla metà del secolo, aveva guidato un esiguo numero di amici a elaborare un linguaggio formale rivoluzionario rispetto a quello della precedente generazione: una pittura rinnovata nei soggetti e nello stile, come nuovo appariva l’orizzonte culturale degli anni dopo il 1848, la data decisiva per mostrare l’insofferenza borghese non soltanto verso l’assetto politico degli Stati europei, tanto da cancellare il concetto di Restaurazione, ma anche nei confronti del conservatorismo culturale da questa sostenuto. Come asserito da Laura Lombardi, la crescente insoddisfazione per la limitatezza dell’orizzonte artistico ufficiale aveva portato, come si è anticipato a inizio capitolo, all’apertura, nel 1845, della Società Promotrice di Belle Arti, sull’esempio di quella operante con successo a Torino dal 1842: fu subito evidente che la nuova istituzione intendeva promuovere l’arte al di fuori delle usanze granducali, rivolgendosi a un mercato borghese che chiedeva quadri di dimensioni adatte agli appartamenti cittadini, con ameni soggetti di paesaggi, vedute, scene di vita contemporanea, diversi dai monumentali temi storici o religiosi privilegiati dalla tradizionale committenza nobiliare ed ecclesiastica. Le esposizioni della Promotrice acquistarono dunque un carattere alternativo e concorrenziale a quelle dell’Accademia, promossero una produzione più moderna e commerciale e, anche per le numerose presenze di artisti stranieri che vi prendevano parte, contribuirono notevolmente all’aggiornamento generale della pittura. Con questi maestri e in questi anni di confronto polemico tra il romanticismo al tramonto e l’avanzante realismo si formarono la maggior parte dei protagonisti del futuro gruppo dei macchiaioli: dall’Accademia di Belle Arti di Siena veniva Cristiano Banti che nel 1848 completò il percorso di studi con la vittoria al concorso triennale della scuola di pittura diretta da Francesco Nenci; alla scuola di pittura di Bezzuoli si formarono Giovanni Fattori, Vito D’Ancona e Silvestro Lega, che però studiò anche privatamente con Luigi Mussini e con Antonio Ciseri, nel cui studio si educò pure Raffaello Sernesi; Adriano Cecioni era invece iscritto dal 1848 al corso di scultura presso la scuola di Aristodemo Costoli, e dopo aver vinto il pensionato si trattenne a Roma fino al 1857; Odoardo Borrani, dopo aver svolto un apprendistato presso il restauratore Gaetano Bianchi, nel 1853 passò alla scuola di Pollastrini, entrato allora docente in Accademia come maestro di disegno e, con i suoi consigli, giunse a vincere il concorso triennale del 1858. Persino Telemaco Signorini, tra i più accesi oppositori dell’insegnamento accademico, frequentò le lezioni di nudo in piazza San Marco, mentre dal padre Giovanni apprese le regole del vedutismo; infine ebbero una formazione da paesisti, presso Carlo Markò, Serafino e Felice De Tivoli, Lorenzo Gelati ed Emilio Donnini . La presenza di questo eterogeneo gruppo di giovani diversi arricchì, dunque, l’ambiente fiorentino e favorì la diffusione delle tendenze più moderne della cultura; le discussioni artistiche uscirono dal ristretto mondo accademico per circolare liberamente nelle sale dei caffè, fra cui il famoso Michelangelo di Via Larga: qui, ricorda Cecioni, “si parlava di tutto, di arte, di politica, di musica, di poesia, di religione, di astronomia, di medicina, di filosofia” e, come è noto, proprio all’interno delle sue sale si svolsero gli animati scambi verbali sulla situazione dell’arte che avrebbero portato all’introduzione della “macchia”:“gli artisti moderni, cioè i realisti si scatenarono contro le teorie del convenzionalismo accademico per non poter più sopportare che si basasse l’arte principalmente sulla scelta del soggetto, sull’abbellimento della forma, sullo stile della composizione, sul modo di collocare il protagonista, sui partiti delle pieghe, sul modo di colorire le carni, sul modo di far gestire le figure, le quali dovevano essere sempre, per regola estetica, di tre braccia ognuna”, commenta Cecioni a proposito di quegli anni . Come sottolineato da Carlo Sisi, l’interesse per la pittura di paesaggio dal vero fu certamente incoraggiato dalle mostre della Promotrice: dai titoli dei dipinti presentati alle Promotrici si intende come, per dipingere paesaggi ameni, l’intera Toscana fosse considerata stimolante meta di studio, dalla provincia di Pisa al Valdarno, a Seravezza, alla Maremma. Tuttavia, dal 1853 il luogo privilegiato delle loro sedute all’aperto sembrò divenire Staggia nel senese. Forti dell’esperienza di Staggia e desiderosi di vedere da vicino i moderni paesaggisti francesi, conosciuti fino ad allora attraverso descrizioni e critiche letterarie, Serafino De Tivoli e Saverio Altamura partirono alla volta di Parigi, che da maggio a novembre del 1855 fu sede dell’Esposizione universale dei prodotti dell’agricoltura, dell’industria e delle belle arti, dove scoprirono e approfondirono il concetto di tongris . Ad accrescere l’interesse per l’arte moderna francese da parte dei fiorentini contribuì, nello stesso 1856, l’apertura al pubblico della collezione del principe Anatolio Demidoff, trasferita di recente da Parigi nella sua villa di San Donato in Polverosa. La quantità di fatti e di presenze stimolanti che si manifestarono nel 1856 ha fatto spesso eleggere questa data come l’anno di nascita del nuovo corso della pittura toscana, facilitato dalla contemporanea decadenza dell’Accademia granducale: il governo di Leopoldo II, assillato da ben più gravi problemi politici, sembrava disinteressarsi dell’istituzione. Le esposizioni annuali si presentavano di anno in anno più ridotte nell’entità e qualità delle opere, e vi venivano apprezzati soprattutto i paesaggi dal vero degli artisti della “scuola di Staggia”, estranea all’istituzione, che contemporaneamente esponevano con successo alla Promotrice .Per approfondire le caratteristiche storiche delle scuole settentrionali, il tonalismo cromatico, l’interesse per il paesaggio e per le scene di genere dei veneti, egli emiliani e dei lombardi, nel 1856 Telemaco Signorini e Vito D’Ancona intrapresero un viaggio di studio che, attraverso Bologna, li condusse a Venezia, inducendo il solo Signorini, sulla via del ritorno, a fermarsi a Milano, in Piemonte e a Genova. Come si può evincere consultando il volume I macchiaioli, capolavori dell’Italia che risorge a cura di Giuliano Matteucci e Fernando Mazzocca, da quel viaggio il pittore riportò dipinti vigorosi con vedute di Venezia tanto contrastate in definizioni di masse luminose e in ombra, ottenute con stesure piatte, che il suo Ponte della Pazienza del 1856 circa fu rifiutato alla Promotrice fiorentina “per eccessiva violenza di chiaroscuro” : il rinnovamento della scena di genere interessò da allora Signorini, che nel 1858, durante il soggiorno in terra ligure con Cabianca, approfondì le ricerche sulla tematica con l’esecuzione del bozzetto per il Merciaio di La Spezia, un’opera dai colori vivaci e dalla violenta illuminazione solare che, con gli studi per Il quartiere degli israeliti a Venezia, rappresentano i primi esempi conosciuti della macchia applicata a scene quotidiane di vita contemporanea. Con l’avvio a ricerche più sperimentali sul linguaggio e ormai svincolate dal problema del rinnovamento dei vari generi pittorici, volgeva al termine la prima stagione della macchia, quella della guerra alla tradizione figurativa. Molti dei frequentatori del Michelangelo, fra cui Borrani, Martelli e Signorini, partirono per il fronte a combattere da volontari nella seconda guerra d’Indipendenza; il 27 aprile Leopoldo II abbandonò Firenze per un esilio senza ritorno e nel maggio le truppe di Girolamo Napoleone giunsero a Firenze suscitando grandi entusiasmi popolari. Nei mesi seguenti i loro accampamenti alle Cascine, animati da vivaci divise colorate, furono la meta preferita delle passeggiate dei fiorentini e il soggetto prediletto dei disegni di Fattori. Questi, giunto a Firenze subito dopo la guerra, fu di grande importanza per l’ambiente del Michelangelo per la sua fede sincera nella pittura dal vero, che lo guidava a realizzare paesaggi e scene di vita lavorativa ricchi di sottili notazioni cromatiche e altrettanto privi di ogni eccesso chiaroscurale, esempi, dunque, che mostravano valide alternative “realiste” alle applicazioni estreme della macchia proposte da Signorini. Nello stesso tempo il Concorso Ricasoli, bandito nel settembre, offrì per soggetto anche temi di battaglie risorgimentali: le giornate di Curtatone, di Palestro, di Magenta e di San Martino. La citata vittoria di Fattori con Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta mostrò l’affermazione del nuovo linguaggio, insieme analitico e sintetico, nel trattare un episodio di storia moderna; in pochi anni, dalle aule dell’Accademia alle sale del Caffè Michelangelo, si era compiuta la rivoluzione pittorica e affermata la libertà individuale e critica che nella macchia riconobbe la sua prima, sintetica sigla .“Cinque uomini attaccati ad una fune colla quale tirano una barca carica di mercanzie che risale la corrente dell’Arno, ecco ciò che si dice tirar l’alzaia di Telemaco Signorini di Firenze. La spiaggia è nuda, senz’alberi e senz’ombra i cinque alzaioli sudano, anelano, gemono e non parlano; le braccia loro pendono a terra, come pure la testa di volge a manca e guarda, ma non vede intorno a sé altro che il vuoto Queste poche figure sono condotte con molta robustezza di colore e si staccano bene in cupo sul fondo chiaro” .Così Luigi Delâtre commentava il grande quadro di Signorini presentato nell’autunno 1864 alla prima mostra della nuova Società Promotrice in seno alla Fratellanza Artigiana, nata in alternativa a quella istituita nel 1845, con l’intenzione di assicurare indipendenza di espressione agli artisti, in sintonia con le loro idee di progresso e libertà. Attendendosi alle aspirazioni della nuova associazione il recensore aveva cercato di soffermarsi sui caratteri pittorici dell’Alzaia, ma davanti alla forza evocativa di quel dipinto, che dà risalto alle sagome degli uomini chine nello sforzo, non aveva potuto astenersi da un’interpretazione morale del soggetto. I motivi che avevano portato alla fondazione della Nuova Società Promotrice erano condivisi dalla gran parte dei pittori impegnati nel rinnovamento dei linguaggi figurativi, definiti “progressisti” da Signorini; a quella prima mostra del 1864, oltre all’Alzaia (1864) e a opere di Odoardo Borrani che presentò Il disseppellimento di Jacopo Pazzi (1864), di Silvestro Lega che espose L’elemosina (1864), di Raffaello Sernesi presente con Pastura in montagna (1864 circa) si poterono anche vedere due dipinti di Antonio Fontanesi, un Tramonto (1860 circa) e un Abbeveratoio. Non fu quella la prima volta che a Firenze si poterono conoscere opere dell’artista; già nel settembre 1861 egli aveva partecipato all’Esposizione nazionale italiana con “un vero riassunto della sua carriera, il frutto di tutte le sue nuove meditazioni e convinzioni”, fra cui Dopo la pioggia, straordinario esito dei “sogni di progresso” a detta di Marco Calderini, del pittore volti a ottenere effetti d’aria e di luce sempre più delicati. Nonostante il fervore culturale, anche innovativo, che animava la vita del tempo, l’arte dei macchiaioli, nome dispregiativo apparso per la prima volta sulla Gazzetta del Popolo il 3 novembre 1862, non riuscì mai a trovare sostegno nella cultura ufficiale se si esclude il concorso bandito nel 1859 dal Ricasoli per celebrare le vittorie di quell’anno. Nelle “Promotrici”, importanti rassegne d’arte, era ancora privilegiata la pittura accademica. I macchiaioli rifuggirono sempre da ogni azione bassa e vile per giungere al successo. Possiamo dire che nel 1863 Odoardo Borrani aveva inviato alla Promotrice di Torino Le cucitrici di camicie rosse del 1863, un dipinto intonato alle stesse assonanze di spirito e di pensiero che animano le scene d’intimità domestica di Lega. Eseguito all’indomani della campagna di Sicilia, il quadro esprime con tono riposto, la disillusione dei macchiaioli di profonda fede democratica dinanzi alla sconfitta delle idee mazziniane. Fattori si distaccò definitivamente dal retaggio romantico del maestro Bezzuoli e, nei bozzetti presentati al Concorso Ricasoli del 1859, mostrò una fattura rapida e macchiata, mantenuta nella redazione finale del Campo italiano dopo la battaglia di Magenta (1861-1862), che segnò l’inizio del nuovo corso del quadro di storia contemporanea, di cui Fattori sarebbe stato uno dei massimi interpreti. L’Esposizione italiana allestita a Firenze nel settembre del 1861 fu per i macchiaioli l’occasione per presentare le loro opere a un pubblico più vasto di quello che abitualmente frequentava le mostre della Società Promotrice, motivò che esortò alcuni di loro a elaborare dipinti adeguati a quell’importante manifestazione senza per questo discostarsi dalle loro idee sull’altre. Giuseppe Abbati esposte più raffigurazioni dell’Interno della chiesa di San Miniato al Monte nel 1861, la più grande delle quali rappresenta la fuga delle colonne marmoree della navata sinistra verso il presbiterio; al soggetto egli si applicò spesso nei miei primi del soggiorno fiorentino attratto dal carattere austero di quell’edificio antico che gli consentiva di esercitarsi nello studio dei “bianchi”, come avrebbe rammentato Diego Martelli, cui egli si applicò con passione nel tentativo di risolvere i valori luministici connessi alla scala cromatica del bianco e del nero. Un soggetto, dunque, meditato per le opportunità di ricerca che offriva, così come lo è Scena medievale del 1861 di Vincenzo Cabianca, risolta tramite la sintesi tra i valori della forma e quelli del colore, e pervasa di una nota nostalgica per una cultura e una bellezza assediate dalla modernità. Odoardo Borrani presentò il 26 aprile 1859 in Firenze, un tema di storia moderna ispirato alla “pacifica rivoluzione toscana”, come messo in risalto da una delle guide all’esposizione, ed esemplificativo della particolare intonazione di pacata compostezza, quando non di dimessa accettazione degli eventi, con cui i macchiaioli affrontarono il tema patriottico , La sostanziale condizione di refusés vissuta dai giovani del Caffè Michelangelo nei confronti dell’arte ufficiale aveva determinato la loro esclusione dal museo, se si eccettuano le acquisizione sabaude dei quadri di soggetto militare di Lega, di Fattori e di Signorini, e quindi l’emigrazione delle loro opere più innovative in collezioni private destinate appunto ad assumere la cruciale funzione di “musei domestici” garanti, anche al di là delle variegate intenzioni dei collezionisti, dalla memoria, ma soprattutto della sopravvivenza di testimonianze figurative che, nel loro insieme, ci restituiscono oggi un panorama organico del movimento macchiaiolo e delle sue molteplici filiazioni naturalistiche. La conclusione dell’avventura della rivista di Diego Martelli coincide del resto con il venire meno dello sforzo corale che i Macchiaioli hanno vissuto a Castiglioncello e a Piagentina: il diversificarsi delle singole vicende umane e anche lo squarcio sulla scena europea aperto proprio dal “Gazzettino” inducono molti di questi artisti ad intraprendere viaggi all’estero; anche Martelli con i suoi soggiorni parigini del 1869, del 1870 e poi del 1878 si condurrà molto presto su questa strada internazionale. Come asserito da Silvio Balloni, nel 1856 Telemaco Signorini si reca a Venezia in compagnia di Vito D’Ancona e di Federico Maldarelli. Il viaggio nella Serenissima significa molto per Signorini, che a quei tempi è poco più che ventenne. La sua pittura muta radicalmente, prendendo una direzione inedita. Dagli appunti veneziani egli trae numerosi dipinti, alcuni realizzati in loco altri al suo rientro a Firenze, avvenuto alla fine del 1856, dopo un passaggio a Milano, Torino e Genova con Maldarelli e Plinio Nomellini che nasce a Livorno, inevitabile fu l’influenza di Giovanni Fattori, caposcuola della Macchia, che fu poi suo maestro a Firenze nel 1885, e lo si osserva molto bene in opere quali Cavallo sul mare (1887), che lascia percepire il silenzio della spiaggia deserta, mentre il quadrupede in primo piano è mutuato appunto da Fattori, con i garretti ben tesi mentre attende pazientemente il padrone poco distante. Larghe pennellate orizzontali disegnano il cielo e il mare che si confondono all’orizzonte, mentre la spiaggia appena inerbita, con i suoi toni ocra screziati di verde, costituisce per contrasto cromatico la parte inferiore del dipinto. A Firenze, Nomellini ebbe modo di frequentare anche Filadelfo Simi (1849-1923), un pittore che aveva trascorso alcuni anni a Parigi fra il 1874 e il 1879, e dove aveva studiato la corrente naturalista francese, che si stava sviluppando fra arte e letteratura. La sua esperienza fu utile anche a Nomellini, il quale assorbì quella vena bozzettistica adattandola alle corde fiorentine; Incontro al mercato (1887), ne è uno degli esempi più felici; un bozzetto dai tenui colori, che ricorda una pagina di Collodi o di Yorick. L’approccio scherzoso del giovanotto, la ragazza che abbozza un sorriso e spicca sulla scena con il suo abito rosa e il grembiule bianco; una sorta di teatro nel teatro, all’interno della grande scenografia del mercato cittadino. Sulla medesima china, la Ciociara (1888), dove però il volto della ragazza è raffigurato con maggior perizia, avvicinandosi alla scuola verista, che ebbe in Filippo Palizzi, Adriano Cecioni, Giacomo Favretto, gli esponenti più autorevoli. Ma Nomellini fu un pittore molto dinamico, mai pago dei traguardi raggiunti e attento alle novità che si potevano presentare sulla scena. Fra il 1890 e il 1891, la sua carriera conobbe una nuova fase creativa: prese avvio il periodo divisionista, ispirandosi al francese Camille Pissarro, il quale aveva introdotte alcune novità nell’Impressionismo, ovvero una fittissima tramatura di piccoli tocchi di pennello che, di fatto, sezionavano l’immagine in minute unità di colore. Un’adesione che suscitò in Toscana numerose polemiche contro Nomellini, al punto che con disprezzo non dissimulato, venne appellato “l’Impressionista”, quasi lo si volesse accusare di “tradimento” della Macchia. Polemiche che poco disturbarono l’artista, già trasferitosi in Liguria, dove con Kienerk e Torchi dette vita alla cosiddetta Scuola di Albaro; in questi anni lo stile di Nomellini acquista in suggestione ciò che perde in realismo, si fa idilliaco e “rarefatto”, la tavolozza lascia gli ocra scuri raccolti in Toscana e si abbandona alla luminosità marina del golfo di Genova, luminosità che, come un prisma, la frammentazione del pennello sembra aumentare.





Dal 1908 ai primi anni della Grande Guerra, Nomellini si stabilì permanentemente in Versilia, per quella che fu una stagione a metà fra il Simbolismo e l’approccio al tardo Impressionismo di Auguste Renoir. Se Le due anfore possiede quell’angosciosa aura scura che ricorda la pascoliana “tenevra azzurra”, su note più gaie si muove I covoni, scena della mietitura caratterizzata da una tavolozza solare, così come La sorgente, vicina per colori e atmosfera all’ultimo Renoir. Attraverso queste pitture, Nomellini ci restituisce una Versilia più agreste e meno balneare, una terra selvaggia e silenziosa, lontana dalle suggestioni mondane che cominciavano ad affermarsi. In Versilia, la tavolozza del pittore si arricchisce di una nuova solarità, lo sguardo si sofferma sulla bellezza di una natura aspra e arsa, caratterizzata da pinete e leccete. La Grande Guerra si lascia alle spalle un’Europa in macerie, profondamente cambiata nell’assetto politico e sociale. Le nuove correnti artistiche non sono indagate da Nomellini, così come non si era avvicinato alle Avanguardie; per ragioni anagrafiche e di mentalità, sono troppo lontane per lui che si è formato con Fattori e Simi, ed è ancora legato a una società prevalentemente agricola, lontana dalle convulsioni dell’era industriale. Forse anche sperando in un ritorno all’ordine dopo il caos dei primi anni Venti, aderì al Fascismo (nonostante Gran Maestro della Loggia massonica intitolata all’anarchico Felice Orsini), e la sua ultima stagione pittorica lo vede ancora oscillare fra il Simbolismo e il tardo Impressionismo. Scomparve nel 1943, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, dopo aver raggiunto considerevole fama grazie alle partecipazioni alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma, invitatovi dallo stesso regime fascista, del quale aveva realizzate numerose tele celebrative. Fu la sua stagione meno interessante, ma, oggettivamente, Nomellini non poteva dare di più; il suo mondo era ormai tramontato, e non ebbe la voglia di inserirsi nel nuovo. L’Italia non aveva conosciuto in epoca romantica l’importante sviluppo della pittura di paesaggio che aveva interessato invece Francia, Inghilterra e Germania; il genere paesaggistico veniva, anzi, spesso considerato come “un mezzo per ingannare le ore di ozio” come viene affermato dallo stesso Signorini. Anche Cecioni insiste sul medesimo punto: la pittura di paesaggio è “individuale” perché ciascuno ritrae il vero “qual è e ciascuno alla sua maniera” . Cresce la convinzione che, come sottolinea Ferdinando Mazzocca in arte “la parola finito” non esista e non debba esistere. In opposizione al modello accademico, che vede nella perfezione dell’opera l’essenza della sua bellezza, i macchiaioli propongono dipinti che agli occhi di critica e pubblico paiono studi preparatori: una sorte affine a quella che attenderà Monet e compagni un ventennio dopo, aperte le porte alla celeberrima esposizione di Boulevard des Capucines . Ma la macchia non si esprime solo all’aperto. Un artista come Abbati, ad esempio, la esercita con esiti straordinari anche nelle scene di interno. Nel suo saggio Pittura italiana dell’Ottocento, pubblicato nel 1926, Emilio Cecchi sintetizzava la rivoluzione attuata dalla “macchia” in una sintassi formale la cui modernità aveva delle radici antiche. Un’identità formale così forte delegittimava ogni possibile confronto con l’Impressionismo dato che “I francesi, che ricercavano nuove vibrazioni nel tessuto cromatico dei veneti e, principalmente del spagnuoli. E i toscani che tendevano alla geometria coloristica dell’Angelico e di Domenico Veneziano. Già alla morte di Fattori fu rilevata da Ojetti l’analogia di certi scorci paesistici con quelli di Piero indi il rapporto, assai più stringente, con l’Angelico e Ghiglia. Richiami dei quali può anche essere stato abusato, ma che vigono in piena accezione formale: a parte ogni altra parentela tra la schiettezza di quegli antichi e di chi, sopra il neoclassicismo (astratto come un nuovo gotico), ricongiungendosi alla semplicità quattrocentesca, riaffermò la inesausta felicità della natura paesana”. Questo primitivismo lirico di Fattori diventava un motivo diffuso inserito in una trama di affinità non solo formale, ma anche esistenziale, nel confronto con Giotto instaurato da Mario Bacchelli, recensendo ne “La Rona” la retrospettiva organizzata nel 1921 alla prima biennale romana: “Anima così viva e sensibile, dinnanzi alla luce del sole, agli uomini, al mondo, alle campagne, a ogni essere vivente, a ogni cosa formata, che ogni suo quadro è un documento di vita e avvince di palpitante interesse qualunque uomo lo guardi e l’intenda. Han detto che soltanto i pittori possono comprenderlo: io dico che anche i pittori, davanti a’ suoi quadri, si dimenticano di esser tali, per ritrovare il gusto e l’amore delle cose create. Come davanti a Giotto. Intendiamoci: Giotto sta dove sta, e non tiriamolo in mezzo: ma voglio dire che si può trovare, in questi due lontanissimi Toscani, lo stesso amore alla terra e la stessa specie di espressiva manifestazione di tale amore, che ne allarga l’importanza della pittura a quella di un documento vitale”. Per quanto riguarda Lega, la cui rivalutazione novecentesca fu merito di Tinti soprattutto con la mostra del 1926 realizzata a Modigliana in occasione del primo centenario della nascita, non emerse nessun prezioso disegno a confermare un rapporto con gli antichi maestri sul quale il critico basava la sua interpretazione della rivoluzione macchiaiola. Il percorso espositivo si apre con la sezione che racconta lo sviluppo della pittura “del vero dal vero”, partendo dall’esperienza dei pittori della Scuola di Barbizon, quali Camille Corot, Charles-François Daubigny, Constant Troyon, Théodore Rousseau e prosegue con i lavori di artisti italiani, quali Giuseppe e Filippo Palizzi, o di Serafino De Tivoli il quale, grazie alle conoscenze acquisite durante un viaggio a Parigi, porterà ai colleghi del Caffè Michelangelo a Firenze novità e conferme importanti. È proprio attorno ai tavoli del locale fiorentino che, nella seconda metà degli anni cinquanta dell’Ottocento, si riuniva un gruppo di giovani autori accomunati dallo spirito di ribellione verso il sistema accademico e dalla volontà di dipingere il senso del vero. Il paesaggio, le scene di genere e la storia sono i tre principali ambiti entro cui si sviluppò la pittura di macchia. Nel primo caso, si troveranno dipinti, realizzati in anni diversi, che hanno come soggetto le campagne fiorentine, le coste di Castiglioncello e dintorni, le località tra Toscana e Liguria e che documentano la particolare relazione con la fotografia che si proponeva come una nuova tecnica con cui confrontarsi. Nella seconda metà dell’Ottocento, Firenze è una delle capitali culturali più attive in Europa e diventa ben presto – prima grazie alle politiche moderate del Granduca e poi per il suo ruolo nevralgico nelle vicende unitarie – punto di riferimento per molti intellettuali provenienti da tutta Italia. Intorno ai tavoli di un caffè cittadino, il Michelangelo, si riunisce un gruppo di giovani artisti accomunati dallo spirito di ribellione verso il sistema accademico e dalla volontà di dipingere il senso del vero. Il nome “macchiaioli”, usato per la prima volta in senso dispregiativo dalla critica, viene successivamente adottato dal gruppo stesso in quanto incarna perfettamente la filosofia delle loro opere. Un’attenzione particolare sarà data in mostra al rapporto con la Scuola di Barbizon, come riferimento fondamentale nella nascita della pittura di paesaggio en plein air. Oltre a capolavori firmati dai principali esponenti del movimento macchiaiolo, quindi, verranno esposte alcune opere realizzate da artisti quali Corot, Daubigny, Troyon, Rousseau, ma anche degli italiani Giuseppe e Filippo Palizzi, per esplorare il tema del paesaggio e della scena all’aria aperta prima della nascita dell’impressionismo. Il racconto proseguirà poi nell’esplorazione delle straordinarie novità proposte dai macchiaioli nella scena artistica italiana del tempo, con opere firmate da artisti quali Telemaco Signorini, Giovanni Fattori, Giuseppe Abbati, Silvestro Lega, Vincenzo Cabianca, Raffaello Sernesi. Sullo sfondo di un’Italia impegnata nelle fasi finali del Risorgimento, la mostra analizza la rivoluzione macchiaiola nei suoi più diversi aspetti, dalle sue origini nella seconda metà degli anni cinquanta, agli anni settanta, quando la ricerca pittorica del gruppo, ormai perduta l’asprezza delle prime prove, acquisisce uno stile più disteso, aperto alla più pacata tendenza naturalista che andava diffondendosi in Europa. I Macchiaioli furono un fenomeno di dimensione europea, non qualcosa di provinciale come spesso la critica ha presentato, ma piuttosto parte fondamentale di una nuova tendenza europea alla lettura del paesaggio dal vero e del realismo. Il percorso della mostra si snoda nelle cinque sale espositive al primo piano nobile del Palazzo della Meridiana, la dimora cinquecentesca che fu dei Grimaldi uno dei 42 Palazzi dei Rolli Patrimonio UNESCO dal 2006.
L’esposizione inizia con alcuni esempi di pittura di Macchia, in particolar modo dei tre maestri che hanno maggiormente contribuito al passaggio generazionale dalla prima fase del movimento a quella dei suoi “eredi”: Giovanni Fattori, Silvestro Lega e Telemaco Signorini.
La seconda sezione della mostra è dedicata a questi artisti molto vicini all’esempio dei maestri: da Francesco e Luigi Gioli, ai tre Tommasi, fino a Ruggero Panerai.
La terza sezione è dedicata a Livorno, nuovo centro culturale, la cui scena artistica arriva quasi a superare quella fiorentina quanto a vitalità e dinamicità.
La quarta sezione racconta una realtà particolare, che collega la ricerca pittorica a quella musicale: il circolo di Torre del Lago di Giacomo Puccini. Il compositore, infatti, riunì intorno a sé un nutrito gruppo di artisti, detto poi Club la Bohème. Negli ambienti colti del Club la Bohème la ricerca di questi artisti raccoglie suggestioni che si aprono al Divisionismo, al Simbolismo e al gusto dell’Art Nouveau. Tra gli artisti apprezzati dal musicista e protagonisti di questa sezione emerge il nome di Plinio Nomellini, che offre anche un importante intreccio con la sede della mostra, Genova, città fondamentale nella formazione dell’artista. Un focus particolare sarà dato al rapporto tra la pittura postmacchiaiola e i paesaggi liguri. Terra amatissima da Telemaco Signorini, che dedicò alcuni dei suoi capolavori a Riomaggiore e alla Cinque Terre (in mostra saranno esposti anche dei suoi straordinari ritratti della gente di Riomaggiore), la Liguria fu frequentata anche da altri artisti del gruppo, anche di queste nuove generazioni, da Lloyd ad Adolfo Tommasi a Giorgio Kienerk. Il nome che maggiormente testimonia questo rapporto con l’area ligure è quello di Plinio Nomellini, “il più indisciplinato di tutti gli indisciplinati” (come lo definì Lorenzo Viani), la cui ricerca mostra con estrema chiarezza il passaggio graduale ma inesorabile da una pittura “del vero”, ancora figlia della lezione macchiaiola a un linguaggio improntato sulla tecnica divisionista e sulle atmosfere del Simbolismo.
Palazzo della Meridiana- Genova
Gli Eredi dei Macchiaioli. Da Silvestro Lega a Plinio Nomellini
dal 28 Marzo 2025 al 13 Luglio 2025
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Martedì Chiuso
Foto dell’Allestimento della mostra Gli Eredi dei Macchiaioli. Da Silvestro Lega a Plinio Nomellini dal 28 Marzo 2025 al 13 Luglio 2025 courtesy Palazzo della Meridiana- Genova