Giovanni Cardone
Fino al 21 Luglio 2025 si potrà ammirare alla Fortezza Firmafede di Sarzana- La Spezia la mostra dedicata a Giorgio De Chirico – ‘Giorgio de Chirico. La Metafisica della creazione’ a cura di Lorenzo Canova. Prodotta e organizzata dall’Associazione Metamorfosi, in collaborazione con il Comune di Sarzana e la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, l’esposizione presenta una selezione di cinquanta importanti opere, tra quadri, opere su carta e sculture provenienti dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico di Roma, che rappresentano in modo efficace la ricerca di uno dei maggiori pittori del Ventesimo secolo, che ha influenzato e continua a ispirare artisti delle giovani generazioni in tutto il mondo. La mostra ripercorre gli ultimi dieci anni di vita di de Chirico e il suo legame con la complessa e versatile fase creativa della Neometafisica. Pittura, disegno, scultura e grafica, le opere in esposizione raccontano un periodo di intensa creatività dell’artista, in cui i suoi lavori non sono semplici ripetizioni del passato, ma rappresentano una nuova e brillante fase di ideazioni e rivelazioni. De Chirico reinterpreta il proprio periodo giovanile metafisico mescolandolo con le suggestioni dei lavori degli anni Venti e Trenta. Posso dire come è stato ampiamente riconosciuto dalla critica attuale, tutti questi lavori possono essere considerati metafisici, in quanto sostenuti dal costante interesse per la Metafisica di de Chirico, in particolare per i due concetti nietzschiani dell’eterno ritorno e del dualismo apollineo-dionisiaco. Considerato una delle figure principali dell’arte del primo Novecento, de Chirico ha influenzato in modo profondo non solo il surrealismo, ma anche una serie di movimenti di ampio respiro, tra cui il realismo magico, la Neue Sachlichkeit(nuova oggettività), la pop art, la transavanguardia e alcuni aspetti del postmodernismo. A ciò ha contribuito in maniera determinante la costante volontà di sperimentazione dell’artista, che nei suoi settant’anni di carriera (1908-1978 circa) non ha mai smesso di elaborare stili, tecniche, soggetti e colori diversi, in modo non dissimile dal coetaneo e amico Picasso. La natura apparentemente paradossale dell’opera di de Chirico è, per l’appunto, ciò che la rende ancor oggi – a oltre un secolo di distanza dalla scoperta della Metafisica nel 1910 – così fresca e attuale per gli artisti e il pubblico moderno. Promossi per la prima volta nel 1913 da Apollinaire e Picasso (i due grandi mediatori tra modernismo e tradizione), i primi dipinti di de Chirico intonano un “canto nuovo” che affascina e, in parte, galvanizza l’avanguardia parigina degli anni Dieci, seguita dai surrealisti negli anni Venti. “Elaborando un sistema pittorico di precisione matematica che distorce la realtà (attraverso l’uso illogico della prospettiva e della luce, unito all’accostamento irrazionale di oggetti comuni e fantastici in ambienti alterati e insoliti), l’artista produce scene di enigmatico isolamento o inquietante costrizione”, sottolinea Victoria Noel-Johnson, che della mostra è la curatrice. “Pervasa da un angoscioso presagio, l’atmosfera (o Stimmung, secondo il filosofo tedesco dell’Ottocento Nietzsche) della sua pittura mira a suscitare un senso di sorpresa, scoperta e rivelazione”. Da più di un secolo Giorgio de Chirico affascina, sconvolge e inquieta artisti, estimatori ed appassionati dell’arte del Novecento. La sua produzione artistica è una summa dell’arte del secolo scorso, oltre che un’anticipazione profetica delle dinamiche espressive del nuovo millennio. A partire dal 1908, quando iniziò a dipingere sulla scia dell’entusiasmo generato dalla visione delle opere romantico-simboliste di Arnold Böcklin e Max Klinger, de Chirico non ha mai smesso di stupire. L’esaltazione e poi la lite con i surrealisti, l’aspra polemica in occasione della Biennale veneziana del 1948, passando per l’abbraccio di una visione stilistica classica e poi barocca, fino alla Neometafisica con la ripresa gioiosa dei temi degli anni Dieci, Venti e Trenta. Le evoluzioni, i ritorni e i colpi di scena offerti al grande pubblico da de Chirico si sono susseguiti senza alcuna sosta, facendo di lui uno degli artisti italiani più influenti degli ultimi cento anni. Tra i primi moderni a sbarcare negli Stati Uniti negli anni Trenta, de Chirico seppe accendere un riflettore sull’arte italiana della prima parte del Novecento, assai trascurata a livello internazionale in quel momento storico. Con la Neometafisica, de Chirico ripropose una citazione permanente dei suoi temi e dei suoi oggetti improbabili e misteriosi. Il continuo rimescolamento degli elementi e l’entusiasmo nella creazione di sempre nuove associazioni sembra un’anticipazione del meccanismo citazionistico del postmodernismo. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Giorgio De Chirico apro il mio saggio dicendo : Il grande recupero culturale sviluppatosi in Italia nel 1945, immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha costituito un esempio per l’Europa e ha certamente conferito al paese un ruolo di guida in molti campi, dall’architettura, al design, al cinema, ma il fenomeno tipicamente italiano che più di tutti ha dato forza al recupero culturale italiano è stato il Futurismo, un movimento che nella varietà delle forme in cui si è presentato non avrebbe potuto sorgere in alcun’altra parte del mondo. Con la sua vitalità e il suo dinamismo, che ne sono le caratteristiche principali, una freschezza ben difficili da incontrare, ha influenzato tutta la cultura del suo tempo, dominando la scena culturale per molti anni. Eppure accanto al Futurismo si è sviluppato anche un altro movimento che apparentemente si fonda su una ideologia del tutto opposta e comunque contrastante quella della pittura metafisica. Poche mostre sono riuscite a mettere in evidenza esplicitamente questa doppia natura del pensiero estetico italiano degli inizi del Novecento. Nei primi dipinti di Giorgio De Chirico, a partire dal 1911, si riscontrava infatti con l’esuberante vitalità del primo Futurismo, più o meno coevo. Il filo nascosto tra l’Ulisse del 1922 al Ritorno di Ulisse del 1968, il ritorno al figurativo, che con la mano protesa verso l’orizzonte allude a un viaggio da intraprendere o forse appena concluso. L’eterno ritorno, il pensiero più abissale di Nietzsche, suggerisce e disvela all’artista metafisico un profondo segreto che Zarathustra accoglierà e tenderà in auto-trascendenza, in ebbrezza dionisiaca. Dal divenire eracliteo, infatti, l’artista coglie l’essere, dal χρόνος, che divora se stesso e gli enti, l’uomo metafisico cattura l’αἰών, dall’oscurità -che sembra precedere ogni inizio e precipitare ogni fine- egli può scorgere il numen dell’eterno. Inizio e fine sono punti di un medesimo circolo, senza discontinuità, tanto che la periodizzazione della pittura di de Chirico da questo riceve una diversa prospettiva in una «strana rassomiglianza»che ha del perturbante ovvero di unheimlich in senso freudiano non si tratterebbe più di distinguere la prima pittura metafisica del 1910-1918 dalle copie dei maestri antichi o del passato del 1919-1924, le opere neobarocche eseguite dal 1938 ai primi anni Sessanta dalla pittura neometafisica del 1968-1978. Questa rassomiglianza straniante genera singolari accostamenti tra gli enti all’interno di un dipinto e tra più opere appartenenti a periodi differenti: è il senso dello spaesamento, ma anche del disvelamento che vuole cogliere il demone, il divino, l’occhio interiore insito in ogni cosa εποπτεία, l’epopteia dionisiaca che spesso de Chirico rappresenta simbolicamente come geroglifico sulla fronte dei suoi manichini. L’Ulisse del preambolo esorta a passare alla prossima stanza, quella degli Esterni metafisici; i dipinti qui esposti non appartengono al primo periodo, tuttavia riecheggiano motivi e stilemi ricorrenti come archetipi: è possibile contemplare una piazza d’Italia, Souvenir d’Italie del 1924-1925, passando attraverso Le muse inquietanti fine anni Cinquanta sino all’Offerta al sole del 1968 e a rivisitazioni più tarde risalenti agli anni Settanta. Forse l’Offerta al sole genera il desiderio di ritrovare un’analogia, un correlativo rispetto all’apollineo e al dionisiaco, infatti quanto di essi è possibile scorgere nella pittura del grande Maestro, a dispetto delle letture di Nietzsche da parte dell’artista non possiamo fare a meno di sottolineare nella sua pittura una prevalenza dell’apollineo nella preferenza per le geometrie, per i contorni, per la prospettiva seppure nelle linee di rottura e di infrazione; tuttavia nell’Offerta al solesi riesce finalmente a scorgere la dualità sole-luna nel cromatismo di rosso, giallo e nero, ripreso dai fili bicolori di Ariannache legano gli astri ai correlativi terrestri. Altro tema ricorrente lungo il cerchio del tempo, che abbraccia senza discontinuità passato, presente e futuro, è quello del figliuol prodigo, parabola di erranza e di redenzione, che de Chirico ha raffigurato in tutto l’arco della sua carriera, dal 1919 al 1975 proprio una delle ultime versioni, quella del 1975. In questa tela il padre appare come una statua in pietra vivente, così come gli edifici in prospettiva che incorniciano la scena e che simboleggiano la tradizione, egli è colto nell’atto di abbracciare e accogliere il figlio, ritratto come uno dei caratteristici manichini animati simboli di modernità. Ai critici contemporanei, come Roberto Longhi, tali accostamenti dovevano generare un effetto straniante e irritante, eppure voluto dallo stesso pittore e, tuttavia, non allo stesso modo dei surrealisti, quindi secondo la cifra del sogno e dell’irrazionalità. Il senso dell’accostare enti apparentemente estranei quali statue ed edifici classici, manichini, attrezzi per il disegno, giochi e dolci è nel segno del disvelamento metafisico, nel tentativo di dipanare la trama del sogno e di conferire visione e prospettiva alla presenza degli enti nel tempo. La modernità non deve pretendere di essere originale, piuttosto è originaria, infatti non può fare a meno di cogliere e riprendere il passato e le forme della classicità, rimanendovi prospetticamente fedele. L’essere originali riprendono i temi già affrontati nel periodo ferrarese dell’artista, durante il primo conflitto mondiale, e ripresi nel periodo neometafisico. In Interno metafisico con officina e Interno metafisico con paesaggio romantico de Chirico colloca dipinti raffiguranti esterni all’interno delle tele e induce l’osservatore a dubitare delle proprie percezioni; in entrambe le opere si crede di veder rappresentata una finestra aperta, mentre la vera finestra che inquadra lateralmente un paesaggio urbano sembra un dipinto, secondo una suggestione concettuale simile alle litografie di Escher. Il tema del sole riappare anche negli Interni, esplorato alla luce dell’indistinguibilità tra esterno e interno; con Il sole sul cavalletto del 1973 sono raffigurati due soli e due lune collegati da cavi lungo i quali la corrente di energia è intermittente cosicché uno dei corpi celesti appare illuminato mentre l’altro è spento, il tutto all’interno di una scenografia che rende l’accostamento ancora più enigmatico e spiazzante. Se in questi interni con finestre e ritratti è possibile individuare riferimenti alla classicità con teste di Esculapio e di Mercurio in un continuum spazio-temporale, i rimandi alla medesima appaiono ancora più misteriosi ed emergenti nei titoli dei dipinti della parte successiva del percorso “Protagonisti metafisici”. Ettore e Andromaca, Oreste e Pilade, il trovatore, le maschere, quali figure solitarie o in coppia, appaiono con teste ellissoidali, prive di lineamenti ma con un simbolo centrale che allude alla visione interiore, contemplativa; una versione in interno del Figliuol prodigo, risalente al 1974, coglie tiepidamente l’abbraccio tra un manichino-padre, seduto in poltrona in abiti borghesi, e un figlio-statua di marmo con dettagli che intersecano passato e presente. Canzone meridionale e Gli archeologhisono tele degli anni Trenta, qui i manichini delle origini si evolvono in sembianze più umane, quasi ad accennare una remota distinzione maschile – femminile nelle vesti e nella corporatura; seduti vicini o abbracciati come per darsi conforto lungo il viaggio, trasmettono più emozioni rispetto agli omologhi solitari e distaccati degli anni Dieci, presentano forme sproporzionate e il loro ventre è riempito di frammenti di paesaggio, di statue classiche, di colonne e libri, segno dei passaggi della storia e della civiltà. La riproposizione di temi già affrontati nel primo periodo spiega perché de Chirico non si sia mai realmente distaccato dalla visione metafisica, piuttosto la fedeltà ribadita nei confronti del classicismo e delle tecniche pittoriche dei maestri del passato gli consente di esplorare nuovi orizzonti rimanendo fedele a se stesso e alla propria unicità creativa. Non dobbiamo dimenticare le sue incursioni nella letteratura con due romanzi che trattano del viaggio dei suoi protagonisti, Hebdomeros (1929) e Signor Dudron (1945), così come più significativo nel testimoniare il suo «ritorno al mestiere», è nella teoria e nella prassi Il piccolo trattato di tecnica pittorica. Pubblicato nel 1928, è il primo libro di Giorgio de Chirico e insieme l’apice della sua riflessione sulla questione della tecnica, iniziata sulla rivista «Valori Plastici»con il saggio Il ritorno al mestiere del 1919. Il testo di de Chirico è una delle principali fonti per la storia delle tecniche artistiche nel Novecento, concepito come un ricettario in cui l’autore illustra con tono colloquiale i procedimenti esecutivi e i materiali che ha usato testimoniando il confronto incessante con la tradizione. È proprio nel confronto con la tradizione che possiamo percorrere le ultime stanze dedicate alla Natura metafisica e ai ritratti. De Chirico si era già confrontato col genere della natura morta9 a partire dagli anni Dieci con I pesci sacri, esposto ora nella mostra genovese in una versione degli anni Trenta; qui si coglie ancora il genio dell’artista che vuole indurre l’osservatore al consueto effetto di depaysement: le due aringhe affumicate sembrano appese a una cornice oppure poggiare su un basamento secondo una tecnica già vista negli Interni. L’artista spiega nel saggio del 1919 Sull’arte metafisicache ogni cosa ha due aspetti, uno corrente che gli uomini innocenti vedono in generale, l’altro spettrale e metafisico che possono vedere solo rari individui in momenti di chiaroveggenza e astrazione;a questo aspetto se ne aggiungerebbero altri, tutti differenti dal primo ma in stretta relazione con il secondo. Sarebbe solo la catena dei ricordi ad indurci a collocare le percezioni secondo un ordine spaziale e logico rassicurante, se per ipotesi questo filo si spezzasse gli interni di una stanza ci apparirebbero decisamente meno rassicuranti e chissà con quali sentimenti di stupore e terrore accoglieremmo questa visione. Al proposito mi viene in mente un racconto di Borges dal titolo There are more things, contenuto nel Libro di sabbia; qui un visitatore si trova a confronto con gli interni di una casa che aveva imparato a conoscere in precedenza, ora abitata da un oscuro personaggio che vi aveva apportato incomprensibili e oscure modifiche. Il protagonista, morbosamente curioso di verificare l’accaduto, si introduce nella dimora e accende le luci: nessuna delle forme insensate da lui percepite in quella luce corrisponde a una forma umana o a un uso concepibile; atterrito, egli arriva alla conclusione che se vedessimo realmente l’universo lo capiremmo. Triangoli, squadre, archi, portici, torri sono i segni di questo nuovo alfabeto metafisico, il perturbante è rappresentato dal loro inserimento analogico nello spazio, probabilmente con richiami esoterici e simbolici a un inconscio più archetipico che personale. Ad animare queste visioni della natura sono suggestioni neobarocche che de Chirico esplora tra la fine degli anni Trenta e i Sessanta, influenzato dai paesaggi di Rubens e dai cavalli di Delacroix. Preziose sono le testimonianze offerte dalle tele degli anni Trenta: il tema classico e platonico della coppia di cavalli, uno bianco l’altro nero, è presente sia in un dipinto ad olio su tela del 1929 (Le cheval d’Agamnenon) sia in Cavalli in riva al mare (olio su tela, 1935 circa). Pur riconoscendone l’importanza, De Chirico non amava Platone, «generalissimo del pompierismo filosofico». Come Nietzsche de Chirico prediligeva Eraclito, che invocava il δαίμων; è inevitabile, tuttavia, ravvisare segrete corrispondenze tra la sua pittura metafisica, volta a rivelare l’essenza non manifestamente visibile degli oggetti, e il mito platonico della caverna, così come nel privilegiare la parousìa,la presenza dell’Idea nelle cose. È sempre attraverso Nietzsche che Giorgio de Chirico avverte la realtà quale sistema di segni: «accostandosi al mondo in una prospettiva psicologica e non logica, il filosofo svelò all’artista l’esistenza di un linguaggio nascosto del mondo, che offriva la possibilità di nuove costruzioni». Il tema dei cavalli e delle figure mitologiche, che ricordano il legame mai reciso con la Grecia e la Tessaglia dell’infanzia, torna in opere degli anni Sessanta, accentuato dalle sperimentazioni neobarocche dell’artista e con un più vigoroso tratto del pennello sulla tela sia ad olio sia nella tecnica dell’acquerello (Il carro del sole, 1970, ). La metafisica incontra la tradizione, sono l’esplorazione attraverso copie originali o in dettaglio, da Raffaello e da Perugino della ritrattistica dei secoli d’oro svolta già a partire dagli anni Venti da parte del Pictor Optimus sia per padroneggiare i segreti dell’arte pittorica del XV e del XVI secolo sia per reagire alle difficili condizioni del mercato dell’arte in seguito alla crisi del 1929. A partire da questa data egli iniziò a dipingere una serie di nudi femminili dalle tonalità pastello à la Renoirfigure di bagnanti solitarie, di divinità addormentate nel bosco o distese di schiena che presentano familiarità nella ripresa della posa anche con il neoclassicismo de La grande odalisca di Ingres. Richiami e suggestioni a parte, de Chirico sembra sempre seguire un filo nascosto, quello lasciato e mai reciso da un’Arianna abbandonata nel sonno, figura centrale nelle piazze rappresentate dall’artista dagli anni Dieci sino alla fine; ecco il riflesso dell’Arianna di Nietzsche in Ecce homo e nei Ditirambi di Dioniso, ma possiamo estendere la ricostruzione iconografica di questo mito all’orizzonte culturale e figurativo dell’ambiente greco di fine Ottocento e di primo Novecento in cui ebbe luogo la formazione del giovane artista, il quale affrontò i primi studi accademici proprio ad Atene, in una capitale di sovrani mitteleuropei, e poi a Monaco di Baviera. L’Arianna dormiente viene colta in una sospensione temporale tra un tempo di nostalgia-passato e di attesa-futuro, nel quale le passioni dell’anima appaiono quietate dalla consapevolezza angosciosa dell’abbandono e dal presentimento vago di un futuro indefinito che solo la rappresentazione figurativa riesce a domare. Finché Arianna ama Teseo, finché ne è la madre, sorella o sposa ovvero lo specchio femminile dell’uomo, ella non ha modo di esprimersi se non accettando passivamente l’abbandono o reagendo con la potenza vendicatrice di unna Medea, mentre reazione e risentimento continuano ad animare le sue passioni tristi. Solo dopo l’abbandono di Teseo, Arianna può raccogliere in sé la potenza femminile sopita, dire dionisiacamente sì alla vita e al divenire, in modo benefico e affermativo: «il raggio di una stella splenda nel vostro amore! La vostra speranza dica: “Possa io partorire L’Oltreuomo”». De Chirico sembra cogliere con queste figure femminili proprio il momento della sospensione temporale prima della successiva trasfigurazione del femminile nel ‘Sì’. Concludono la serie dei ritratti due tele del 1947-1948, Autoritratto in costume del Seicento e Autoritratto con corazza, dove al gusto scenografico e neobarocco per i costumi teatrali che il Maestro noleggiava dall’Opera di Roma egli unisce la sovrapposizione della propria testa su quella del modello (Filippo IV) già raffigurato nell’opera di un grande maestro del Seicento come Velázquez, attraverso l’eterno ritorno del passato nel presente. Il fatto che Giorgio De Chirico e Carlo Carrà siano comparsi sulla scena dell’arte negli anni stessi, in cui si sviluppa il Futurismo, appare in sintonia con la natura misteriosa ed elusiva dei loro primi lavori. Essi rappresentano l’altro aspetto di ciò che significa essere giovani di fronte al mondo, fornendoci così una visione completa dell’arte di quel periodo. Se incerti possono apparire i legami tra Futurismo e Cubismo, è invece palese l’influenza della pittura di De Chirico su un altro movimento, quello surrealista, che avrebbe dominato la cultura europea per almeno due decenni, sottolineando, tra l’altro gli scambi sempre stretti tra Parigi e l’Italia. Tanto più che Filippo Tommaso Marinetti aveva pubblicato il manifesto di Fondazione del Futurismo proprio a Parigi e lo stesso De Chirico vivrà a lungo nella capitale francese come molti artisti italiani. Nel clima di generale ritorno all’ordine europeo Giorgio de Chirico si era posto come teorico di un peculiare “ritorno al mestiere”, sviluppando a partire dal 1919 una coerente riflessione teorica mediante una sistematica serie di scritti, culminanti nel Piccolo trattato di tecnica pittorica del 1928, manualetto appositamente redatto alla maniera degli “antichi”. Avendo già avuto modo di analizzare presupposti, dinamiche e risvolti di tale percorso (1919-1928) , con il presente contributo si intende focalizzare l’excursus compiuto dall’artista successivamente alla pubblicazione del Piccolo trattato, fino all’inizio del secondo dopoguerra (1930-1945). Un periodo che vede de Chirico alle prese con nuovi mutamenti stilistici e iconografici, perseverando però in una complessa ricerca teorico-pratica intorno alla materia pittorica, alla tecnica, al “mestiere” e alla “tradizione”. Vedremo anche come tale passione abbia influenzato diversi artisti, grazie all’attività pubblicistica da lui condotta su alcune riviste italiane ma soprattutto tramite la lettura del suo Trattato sulle tecniche pittoriche. Un interesse che risulta talora condiviso attraverso lo scambio di idee e precetti, spesso veicolato dai contatti epistolari. Alla fine degli anni Venti, in un clima di crisi internazionale segnato dal crollo della Borsa negli Stati Uniti, Giorgio de Chirico cambiava nuovamente stile e tornava nelle “sale del museo”, stavolta quello impressionista, movimento da lui tanto disprezzato in passato. Dal 1925 l’artista era tornato a risiedere a Parigi, dopo la lunga parentesi italiana caratterizzata dall’adesione al Ritorno all’ordine. Questo secondo periodo parigino lo aveva visto produrre opere con nuove iconografie dal carattere paradossalmente metafisico, se pensiamo che nel 1926 aveva rotto i propri rapporti con il gruppo surrealista anche a causa del “ritorno al mestiere” di cui si era fatto teorico negli anni precedenti. Sul finire del decennio l’artista attua l’ennesimo mutamento stilistico. Le nuove opere parigine, improntate al naturalismo di Renoir, sia nudi che nature morte, furono presentate per la prima volta nella personale tenuta a Milano nel 1931 alla Galleria Milano. Insofferente del clima parigino, caratterizzato da una forte crisi del mercato dell’arte, all’inizio degli anni Trenta il pittore ricominciava infatti a frequentare l’Italia, pur mantenendo la residenza ancora a Parigi. Nei quadri dechirichiani intorno al 1930, contestualmente all’iconografia e allo stile, mutava anche la resa pittorica: l’olio, caratterizzante tutti i dipinti del secondo periodo parigino, si faceva ora più pastoso sulla tela, per avvicinarsi alla tecnica di Renoir, soprattutto quello delle Grandi bagnanti. Nelle nature morte di questi anni, che più tardi ribattezzerà Vite silenti , la tavolozza si schiarisce al pari dei grandi nudi alla Renoir. Il colore costruisce ariose composizioni attraverso radi tocchi che identificano i frutti; il ductus della pennellata diventa rapido e vibrante, negando la solidità degli oggetti per esaltarne la leggerezza. Sono caratteristiche che si evidenziano, per esempio, nel dipinto Bagnante coricata realizzato da de Chirico nel 1932, da lei stessa donato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1989 e che probabilmente la raffigura. Bisogna osservare come le tecniche esecutive dei dipinti di questi anni trovino rispondenza nella terza parte del Piccolo trattato di tecnica pittorica, quella dedicata alla pittura a olio. I precetti di questa sezione, piuttosto che riflettere i procedimenti esecutivi del suo primo periodo metafisico, dove pure adoperava la tecnica a olio, si legano alla pittura di quest’ultimo periodo parigino, caratterizzata dal ritorno all’uso del legante oleoso, dopo aver praticato per alcuni anni esclusivamente la pittura a tempera. La tecnica più rapida che impiega adesso, per alcuni aspetti vicina a quella “impressionista”, trova il proprio referente in quegli ultimi passi del Trattato, in particolare dove suggerisce l’uso dell’olio di papavero, sgrassato con essenza di trementina, per asciugare più velocemente. È noto che gli impressionisti preferivano l’olio di papavero al più comune olio di lino, per soddisfare la loro esigenza di chiarezza e luminosità, connessa alla pittura “en plein air”. Inoltre, la ricerca di un effetto opaco, al posto della brillantezza tipica della pittura verniciata di stampo accademico, li faceva optare per una pittura magra, ottenuta mediante l’uso di diluenti volatili nel legante oleoso, come per esempio l’essenza di trementina metodo appunto suggerito da de Chirico, oltreché applicando sul supporto delle preparazioni piuttosto assorbenti. I paragrafi conclusivi del testo dechirichiano riguardanti, tra le varie cose, l’uso del bianco, la velatura, la “sfregatura”, trovano dunque applicazione pratica nei quadri “alla Renoir”. Va anche evidenziato come, piuttosto che a un generico Impressionismo, il richiamo stilistico di de Chirico vada alla produzione del Renoir degli anni Ottanta e Novanta, ovvero quella successiva al viaggio in Italia dell’artista. Durante quel viaggio Renoir ebbe modo di riflettere sulla pittura “classica” e interiorizzarne la lezione, come mostrano le Grandi bagnanti realizzate in quegli anni. Le consonanze col Renoir di quel periodo sono probabilmente motivate anche dalla comune riflessione sulla tecnica, se si considera che il pittore francese aveva letto proprio nel 1883 il Libro dell’arte di Cennino Cennini, di cui scrisse poi la prefazione alla seconda edizione francese del 1911. La prefazione al libro di Cennini è riconoscibile come uno dei primi testi novecenteschi in cui si sottolinea l’importanza del “mestiere”, facendo di Renoir in età matura un paladino della tradizione e un precursore del Ritorno all’ordine. Nel testo di Renoir, che peraltro era nato artigiano, la pratica di bottega acquisisce un’aura di spiritualità, portando con rigore e disciplina gli allievi a una conoscenza profonda del “mestiere”, per imparare a fabbricare da sé i pennelli, i colori e a preparare i supporti con una sapiente stratificazione di gesso e colla. Renoir critica la modernità, che con l’industrializzazione ha comportato anche la standardizzazione dei materiali artistici, per esempio con la fabbricazione dei colori in tubetti, di cui peraltro proprio gli impressionisti erano stati i primi grandi consumatori. Le stesse critiche rivolte ai contemporanei per la decadenza del mestiere le ritroviamo, in maniera singolare, nei testi dechirichiani a partire dal 1919, fino al Piccolo trattato di tecnica pittorica e oltre. Giorgio de Chirico continuerà infatti a insistere per tutta la vita sulla decadenza del mestiere e della tecnica negli artisti moderni, criticando con sarcasmo buona parte della produzione coeva e guadagnandosi, com’è noto, l’ostilità di molti critici e artisti. Bisogna infine ricordare che de Chirico aveva dedicato uno scritto a Renoir già nel 1920 dove, tra le altre cose, ne celebrava la maestria tecnica. L’esigenza di una pittura dalla tecnica più “compendiaria”, chiara e luminosa, caratterizzata da soggetti che richiamano vagamente la tradizione impressionista, oppure dal tema classico della natura morta, probabilmente trova spiegazione anche nella crisi di mercato e quindi nella maggiore vendibilità delle opere. Tali motivi spinsero de Chirico a tornare a frequentare il panorama artistico italiano. Dopo le mostre milanesi, un’occasione molto importante è costituita dalla XVIII Biennale di Venezia, che si teneva da aprile a novembre del 1932, dove la sua presenza è calata all’interno del gruppo degli Italiens de Paris. In aprile si reca anche a Firenze dove l’amico antiquario Luigi Bellini lo invita a svolgere una personale presso lo spazio espositivo per l’arte contemporanea che aveva aperto nella prestigiosa sede di Palazzo Ferroni, al lungarno Soderini, diretto dal poeta Roberto Papi. Bellini costituirà d’ora in poi una figura di riferimento nella sua vita, ospitandolo a Firenze dal momento in cui decide di tornare a lavorare in Italia. Dopo aver trascorso alcuni mesi a Milano, de Chirico e Isabella si trasferiscono presso i Bellini tra la fine del 1932 e l’inizio del 1933; qui, pur non disponendo di uno studio, continua a dedicarsi assiduamente alla pittura. Nel frattempo si sposta per partecipare a mostre in altre città italiane, tra cui è importante quella tenuta alla Galleria Il Faro di Torino, dal 18 febbraio al 2 marzo del 1933, poiché in tale occasione conosce Romano Gazzera, che all’epoca praticava la pittura per diletto, deciderà alcuni anni dopo di lasciare la sua professione per dedicarsi all’arte in modo esclusivo grazie anche all’incoraggiamento di de Chirico, prestando molta attenzione alla questione della tecnica. L’argomento sarà infatti al centro del loro rapporto, intessuto di consigli riguardo ai procedimenti esecutivi e alle ricette per la realizzazione dei leganti pittorici o della preparazione per la tela, soprattutto attraverso il mezzo epistolare. Si tratta di interessanti testimonianze sulla ricerca di de Chirico intorno al “mestiere” e delle sue evoluzioni dopo il Piccolo trattato di tecnica pittorica. L’evento artistico principale che lo vede coinvolto sulla scena italiana nel 1933 è però indubbiamente la V Triennale di Milano, che ha come sottotitolo: Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna. La mostra, che apre il 10 maggio 1933 nel nuovo Palazzo dell’Arte, appositamente costruito su progetto di Giovanni Muzio nel parco di Milano, ha il suo fulcro nella nuova proposta di congiunzione tra decorazione e architettura moderna, concretizzata nell’esperimento della pittura murale. A sostenere l’iniziativa era stato Mario Sironi, componente del direttorio della manifestazione assieme a Gio Ponti e Carlo Alberto Felice. Una trentina di artisti furono perciò invitati a realizzare dipinti murali provvisori su temi allegorici che si inserivano nell’ampia prospettiva della retorica fascista: la V Triennale vedeva infatti la totale adesione di Mussolini. Gli artisti venivano, dunque, chiamati ad affrontare un impegno collettivo e sociale intorno a cui si sarebbe acceso il momento forse più vivace del dibattito sulla rinascita della pittura murale in Italia e sulle sue tecniche. Giorgio de Chirico fu invitato a realizzare un grande dipinto murale nel Salone delle Cerimonie, insieme a Campigli, Funi, Severini e lo stesso Sironi. L’opera, intitolata Cultura italiana , dipinta su quindici metri quadrati di superficie nel fondo del salone, di fronte alla solenne parete sironiana, è documentata dalle riproduzioni apparse sulle riviste dell’epoca. Essa appare come un grande palcoscenico che ospita un montaggio di elementi iconografici tipici della sua produzione più recente: il cavallostatua, frammenti di templi greci, un calco di testa ellenistica, il pittore al cavalletto. Sullo sfondo vi sono i simboli delle città di Firenze, Bologna e Roma, mentre la scena si popola di poeti, letterati, pittori, scultori e musici, che nei dettagli rimandano ai costumi che stava allora preparando per I Puritani di Vincenzo Bellini, su commissione del Maggio Musicale Fiorentino. Il pittore ricorda così l’impresa: In quel tempo eseguii, pure a Milano, al Palazzo della Triennale, una grande pittura murale; la eseguii in pochissimo tempo ed in circostanze oltremodo difficili; la eseguii con la tecnica della tempera all’uovo e quella pittura mi costò, solo di uova, la somma di centocinquanta lire. Quella mia pittura suscitò grandi livori; non fu riprodotta sui giornali e nemmeno sulle cartoline illustrate . Dopo la chiusura dell’esposizione furono distrutte tutte le pitture di quella sala, probabilmente perché non ardirono, ché sarebbe stato troppo scandaloso, distruggere solo la mia. In realtà tutte le opere furono distrutte perché già previste come effimere. In ogni caso, la prima grande prova di Sironi si risolse dal punto di vista pratico in un insuccesso, poiché tutte le opere presentarono presto delle alterazioni. Tra i limiti c’erano stati la ristrettezza dei tempi di esecuzione e la mancanza di una preparazione specifica sulla pittura murale da parte degli artisti, compreso de Chirico. Così la tecnica del “buon fresco” era stata rimpiazzata da procedimenti più veloci, quale ad esempio la pittura al silicato usata persino da Sironi e da Carrà. Il primo a denunciare queste condizioni dei dipinti fu Gabriele Mucchi, uno dei pittori coinvolti nell’iniziativa, in un intervento su «Quadrante» del mese di ottobre, sottolineando anche come nessuna delle pitture fosse veramente definibile “affresco”. Il cantiere sperimentale della V Triennale vide inoltre operare i fratelli de Chirico a stretto contatto: Alberto Savinio fu infatti incaricato di realizzare un dipinto murale dal titolo Africa italiana, nella Sala della Mostra degli ambienti moderni, di cui non si conosce però l’iconografia, non essendo mai stato riprodotto sulle riviste dell’epoca. Possiamo facilmente supporre che l’opera saviniana fosse eseguita a tempera, così come quella del fratello, anche perché Savinio si era volto all’uso di questa tecnica nella pittura su tela all’incirca dopo il 1930. Le opere presentate nelle mostre personali da lui tenute in Italia tra il dicembre 1932 e il marzo 1933 sono tutte realizzate a tempera, come tiene a segnalare il critico de «Il Popolo d’Italia» in una delle recensioni apparse in tale periodo. Si tratta probabilmente di una tempera grassa, che risente dell’influenza delle elaborazioni teoriche del fratello, che l’aveva consacrata nel Piccolo trattato di tecnica pittorica del 1928. In questo senso può risultare interessante il dipinto del 1932 intitolato Creta, conservato presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nella cui relazione di restauro la tecnica è descritta come olio e tempera su tela. Anche Corrado Cagli aveva optato per la tempera nella realizzazione del dipinto murale assegnatogli presso la V Triennale di Milano, intitolato Preparativi alla guerra, molto probabilmente aiutato nell’esecuzione dal giovane Afro. L’utilizzo della tempera all’uovo, non senza influenze da parte di de Chirico e Savinio, è peraltro testimoniato da Gabriele Mucchi.
D’altronde, nelle sue imprese murali precedenti l’artista si era cimentato quasi sempre con la tecnica a tempera, mentre quella dell’affresco propugnata da Sironi risultava carica di significati e valori che Cagli non condivideva, come si evince dall’aperta polemica costruita nel suo articolo Muri ai pittori. Con questo testo, pubblicato nel maggio 1933, Cagli dava avvio all’infuocato dibattito sulla rinascita della pittura murale. L’altro momento nodale di questo dibattito sarà la pubblicazione del Manifesto della pittura murale, firmato da Sironi, Campigli, Carrà e Funi, su «La Colonna» del dicembre 1933, che sancisce il progetto sironiano di sintesi delle arti, modellato sugli esempi antichi e lanciato con la V Triennale. Nell’ambito del muralismo degli anni Trenta il caso del giovane Afro è a sua volta interessante ai fini della nostra riflessione. Dai restauri effettuati sulle sue opere murali realizzate a Udine, sua città di origine, dalla Soprintendenza del Friuli Venezia Giulia, si registra una predilezione per l’impiego della tempera grassa, comprensibile solo se inserita nel dibattito tecnico-formale di quegli anni e alla luce del sodalizio con Corrado Cagli. Per quel che sappiamo, Afro non usò mai la tecnica dell’affresco e ciò avvenne probabilmente per l’influenza di Cagli, che lo portò ad avvicinarsi alla sua poetica del primordio, lontano dall’uso ideologico dell’affresco che fu proprio degli artisti di Novecento, in testa a tutti Sironi. D’altronde, già la critica contemporanea sembrava aver notato la predilezione di Afro per la tempera grassa, come si evince da una recensione di Luigi Aversano alla sua mostra personale del 1937 presso la Galleria La Cometa di Roma. Sulla scorta di tali considerazioni, sembra quindi possibile accogliere la tesi di Teresa Perusini, secondo la quale l’artista friulano in quegli anni avrebbe utilizzato la tempera grassa tanto nella pittura da cavalletto che in quella murale, ipotizzando una derivazione dei suoi metodi esecutivi dalla lettura del Piccolo trattato di tecnica pittorica di Giorgio de Chirico. In ogni caso, la questione della tecnica acquisì un’importanza fondamentale per la rinascita della pittura murale negli anni Trenta, come dimostra anche la polemica che si sviluppò riguardo al cattivo stato delle opere della V Triennale. La scelta della tecnica da utilizzare era cruciale quanto il problema del rapporto arte-architettura e quello del contenuto da esprimere. Tali questioni si radicano nel più vasto fenomeno del Ritorno all’ordine, che si era originato nel decennio precedente. Una sorta di ponte ideale sembra infatti collegare la riflessione sul “mestiere” dei primi anni Venti, promossa in prima istanza da de Chirico al tempo di «Valori Plastici», con le ricerche dei primi anni Trenta. Ora però quella cultura, densa di principi costruttivi e di richiami alla tradizione, acquisisce sfumature ideologiche, finalizzando il recupero delle antiche tecniche che avevano fatto la storia della “grande arte italiana”, alla realizzazione di un più generico “italianismo artistico”. In questo contesto, legato alla riflessione sulla funzione sociale dell’arte e all’ideologia nazionalista, in cui si colloca innanzitutto la riscoperta sironiana dell’affresco, si inquadrano anche le ricerche di Severini sul mosaico e quelle di Ferrazzi sull’encausto, queste ultime con minori implicazioni retoriche. In particolare la tecnica dell’encausto aveva assunto una certa importanza dopo le scoperte fatte con la ripresa degli scavi a Ercolano e Pompei e la pubblicazione del saggio di Amedeo Maiuri sulla Villa dei Misteri nel 1931. La bellezza di queste pitture e le condizioni conservative quasi perfette impressionarono molti artisti, spingendoli a sbizzarrirsi in una serie di tentativi, più o meno scientificamente corretti, di ritrovare la tecnica originale, alcuni con l’illusione che si trattasse della leggendaria tecnica dell’encausto. Tra gli artisti suggestionati dai dipinti pompeiani troviamo anche Alberto Savinio. Nei suoi articoli sulla terza pagina de «La Stampa» tra il 1933 e il 1934 egli affronta il problema della tecnica pittorica in termini ideologici, contrapponendo la pittura a tempera, ritenuta tecnica italiana per eccellenza, alla pittura a olio, riconosciuta come tecnica di origine settentrionale. Trattata per la prima volta nel 1933, la questione viene ripresa da Savinio in modo più deciso e con ampiezza di argomentazioni l’anno successivo nel testo Tempera e affresco. Per rivendicare l’italianità della tempera Savinio fa appello a un intervento precedente sullo stesso giornale del restauratore Michele Pozzi, che definiva la tecnica di esecuzione dei dipinti murali di Pompei come una “tempera” a base di cera, e non come affresco. L’interpretazione saviniana della pittura pompeiana come tempera a cera, dunque definibile anche come “tempera encaustica”, richiama la ricetta per l’encausto proposta da de Chirico nel suo Piccolo trattato di tecnica pittorica, che non a caso si intitolava Tempera a cera o incausto [sic] a freddo. Inoltre, la sua lode alla tempera quale simbolo della “italianità artistica” in funzione antitetica rispetto alla pittura a olio, “nemica” di ascendenze nordiche, sembra ricondursi alle teorie proposte nel decennio precedente da de Chirico, che nel testo La mania del Seicento opponeva polemicamente la tempera grassa, da lui riconosciuta come la tecnica per eccellenza del Rinascimento italiano, all’olio “fangoso” dei pittori fiamminghi del Seicento. La diffusione delle idee dechirichiane sul “mestiere” e la conoscenza dei suoi precetti tecnici, attraverso la lettura dei suoi saggi e soprattutto del Piccolo trattato di tecnica pittorica, è d’altronde più estesa di quanto non si pensi. Tra gli artisti che a cavallo degli anni Venti e Trenta si appassionarono alla sperimentazione con la materia pittorica per merito della sua influenza troviamo per esempio Gianfilippo Usellini, uno dei più giovani partecipanti al cantiere decorativo della V Triennale. Esponente dell’ambiente artistico milanese di Novecento, usa la tempera grassa su tavola per realizzare le proprie opere sin dall’esordio, che avviene nella seconda metà degli anni Venti, mentre negli anni Trenta comincia a dedicarsi anche alla pittura murale, sperimentando peraltro con l’antica tecnica dell’encausto. La poetica di Usellini si presenta come un classicismo venato di meraviglia, una metafisica insieme quotidiana e visionaria, che si alimenta dell’amore per i maestri del passato, in particolare del Quattrocento: una passione che lo accomuna a de Chirico . Da questi, molto importante nella sua formazione, deriva l’idea di una pittura come rivelazione, ma soprattutto ne condivide l’idea del “mestiere” e l’interesse per la tecnica pittorica degli antichi maestri. Sassu, che lo conobbe ed ebbe modo di frequentarlo negli anni Trenta, ricorda come discutessero a lungo di questioni e soluzioni tecniche e di come il volumetto di de Chirico fosse da entrambi non solo consultato, ma anche integrato e arricchito. Come de Chirico, Usellini amava l’impiego delle velature in pittura, testimoniato dai restauri su alcune sue opere, ma soprattutto dall’artista Vincenzo Ferrari, suo assistente dal 1959 fino alla scomparsa. Lo stesso Ferrari ci riferisce infine dello scambio epistolare tra i due artisti, che certamente ha corroborato la passione di Usellini per la sperimentazione. Dal canto suo, de Chirico era invece tornato alla tecnica a olio dal 1925, come già ricordato, dopo aver utilizzato la “tempera grassa” tra il 1920 e il 1924, sostenendola con una coerente e articolata attività teorica. La pittura murale, in cui si era cimentato per la V Triennale, è un momento isolato nella sua carriera artistica, né compare nei suoi scritti, compreso il Piccolo trattato, alcun accenno sulle tecniche e i materiali da utilizzare, a parte la citata testimonianza delle Memorie relativa al cantiere milanese. Il pittore prosegue le proprie ricerche in nuove direzioni, continuando a usare l’olio e sperimentando tra gli anni Trenta e Quaranta un medium sempre più grasso, fino ad arrivare al cosiddetto “olio emplastico”, di cui si dirà più avanti. I nuovi sviluppi della sua ricerca avranno luogo a Parigi, dove de Chirico decide di tornare a vivere alla fine del 1933, in seguito alle esperienze deludenti avute in Italia. Nella capitale francese la situazione era tuttavia peggiorata rispetto al tempo in cui l’aveva lasciata, poiché i suoi mercanti avevano cessato ogni attività; nonostante ciò riprendeva con entusiasmo le proprie ricerche, come testimonia nelle Memorie. Jean Maroger, pittore, restauratore e consigliere tecnico del Louvre, aveva studiato a lungo la tecnica dei fratelli Van Eyck, cercando di carpirne il segreto che consisteva nell’aver saputo riunire, secondo lui, la rapidità di essiccamento e la trasparenza della tempera a colla con la resistenza e l’elasticità dell’olio. I primi risultati delle proprie ricerche li comunicò all’Accademia delle Scienze nel 1931, e poi una seconda volta nel 1933. Riuscì così a mettere in commercio il famoso medium che avrebbe dovuto avere le stesse caratteristiche di quello inventato dai Van Eyck nel Quattrocento. In seguitò pubblicò anche un noto manuale di tecniche pittoriche, dove illustrava le tecniche dei grandi maestri del passato. Le ricerche di Maroger sono conosciute anche da Gino Severini, altro grande maestro del Ritorno all’ordine italiano, che si rivela interessato quanto de Chirico a perfezionare la propria materia pittorica con l’utilizzo della vernice messa a punto in quegli anni dal restauratore francese. Secondo quanto riporta Severini nel suo libro, questo medium di Maroger sarebbe un’emulsione composta da una soluzione acquosa di colla animale o vegetale con olio di lino cotto – a circa 200 ºC e con un siccativo a base di manganese mescolato a caldo a resina Mastice (ovvero una vernice grassa). Il nuovo soggiorno parigino vede inoltre de Chirico alle prese con l’ennesimo mutamento iconografico. Nel 1934 appare infatti il primo nucleo dei Bagni misteriosi, soggetto tra i più enigmatici della sua produzione, nelle dieci litografie della cartella Mythologie, tirata in centoventi esemplari, con testi di Jean Cocteau. Il tema compare successivamente in un gruppo di sette dipinti tra quelli inviati alla II Quadriennale romana alla fine del 1934, dove a de Chirico è dedicata una sala personale, da lui stesso presentata in catalogo. Tale interesse ritorna infatti nella corrispondenza con Nino Bertoletti, pittore che aveva conosciuto ai tempi in cui frequentava il Caffè Aragno di Roma, punto di incontro degli artisti gravitanti intorno a «Valori Plastici». A poche settimane dall’inaugurazione della Quadriennale romana, de Chirico, non potendo muoversi da Parigi, gli scrive chiedendogli di occuparsi dell’allestimento della sua sala e della manutenzione dei quadri. La prassi per realizzare le velature con olio di papavero ed essenza di trementina in parti uguali è indicata nell’ultima sezione del Piccolo trattato di tecnica pittorica, dedicata alla pittura a olio, dove è consigliato anche l’uso del vaporizzatore. La Vernis à retoucher Vibert è invece menzionata nella prima parte del trattato, dedicata agli strumenti pittorici, dove è consigliata come vernice provvisoria in caso non si possa aspettare il tempo necessario per dare quella di finitura. Tra i dipinti presentati alla Quadriennale, peraltro ancora una volta oggetto di critiche, vi era l’Autoritratto nello studio di Parigi, che meglio di ogni altro simbolizza la centralità del “mestiere” dichiarata nell’autopresentazione, ponendosi quale manifesto del nuovo corso della sua pittura. Lo studio è il luogo del lavoro solitario, microcosmo delle scoperte e delle invenzioni, dove de Chirico si rappresenta in piedi intento a dipingere un nudo femminile. La testa classica che si scorge a terra, probabilmente di Apollo, richiama infine i suoi testi programmatici del tempo di «Valori Plastici», in cui prescriveva agli artisti di copiare dai calchi in gesso per “tornare al mestiere”. In questa prima metà degli anni Trenta il suo incessante lavoro di ricerca affiora in modo significativo nel carteggio, peraltro ancora in gran parte da esplorare, dove l’artista si mostra interessato, oltre che al legante pittorico, in particolare ai metodi di esecuzione degli strati preparatori della tela. A questo aspetto aveva dedicato un paragrafo nella prima sezione del Piccolo trattato di tecnica pittorica dove, fatta una distinzione tipologica fra preparazioni assorbenti, semi-assorbenti e non assorbenti68, precisava la sua predilezione per una preparazione assorbente realizzata secondo il metodo tradizionale a gesso e colla. Momento caratterizzante era poi la realizzazione di una particolare emulsione da applicare sulla superficie dell’ultimo strato, una volta asciutto, per facilitare lo scorrimento del pennello sulla superficie così assorbente. Quanto enunciato dall’artista nel suo Trattato non ha tuttavia valore definitivo, essendo egli animato dal continuo bisogno di sperimentazione. Negli anni propone dunque diverse varianti delle proprie ricette per gli strati preparatori, così come per i leganti pittorici, soprattutto nelle lettere indirizzate ad amici e colleghi. In una missiva inviata a Carlo Carrà il 27 maggio del 1931 da Parigi, dopo averlo ringraziato per la lodevole recensione su «L’Ambrosiano», gli suggerisce un legante per la preparazione composto da svariati ingredienti dosati come in cucina a mo’ di “cucchiaini da minestra” o “da caffè”: Bianco di Zinco, Bianco di Spagna, Carbonato di Calcio, olio di lino, vernice Damar o Mastice, latte, colla gelatina, glicerina e miele. Nell’estate del 1936, insofferente del clima parigino come lo era stato di quello italiano, de Chirico decide infatti di spostarsi nuovamente, scegliendo una destinazione ancora più lontana: New York. Il periodo americano sarà caratterizzato dall’acquisto di numerose opere da parte di importanti musei e di collezionisti privati, tra cui il miliardario Albert C. Barnes, ma anche da un’intensa collaborazione alle prestigiose riviste di moda «Vogue» e «Harper’s Bazaar». De Chirico e Isabella torneranno in Italia nel gennaio 1938, trovandovi però una situazione ancora una volta poco favorevole. Decisi ad agire energicamente per riguadagnare terreno, si recano a Milano, dove si terrà infatti la prima mostra a marzo presso la nuova galleria di Vittorio Barbaroux. In quel periodo il gallerista curava peraltro un significativo Referendum, promosso dal quotidiano milanese «L’Ambrosiano», sull’arte contemporanea e sul rapporto tra avanguardie e tradizione, da cui scaturirono interessanti risposte. Dal febbraio all’agosto 1938 parteciparono al referendum Carrà, Casorati, de Chirico, Arturo Martini, Severini, Funi e altri artisti del Ritorno all’ordine. Questa generazione si era infatti trovata schiacciata tra la rimozione del passato operata dalle avanguardie storiche e la necessità di riannodare i fili di un rapporto con una tradizione non più percepita come un patrimonio comune. Negli anni Trenta, quando la stagione più vivace del Ritorno all’ordine si era ormai esaurita, la questione si incrociava oltretutto con le esigenze retoriche della cultura di regime. Tra le risposte al Referendum pubblicate per prime c’è quella di de Chirico, che riguardo al problema della tradizione afferma: La tradizione significa per me temperamento pittorico unito a mestiere, a chiaroveggenza, ad alto senso poetico e morale della vita e del mondo e a ferma volontà di rendere sempre migliore, evitando ogni scappatoia, la qualità della propria pittura. Gli fa eco Achille Funi, altro paladino del recupero delle tecniche della grande tradizione italiana, la cui risposta costituisce l’ultima puntata del Referendum e interpreta la tradizione come “una trasmissione di mestiere e di una conoscenza comune delle forme. Sotto un altro aspetto, la tradizione non è che la civiltà di un popolo. Tra Giotto e Masaccio c’è distanza di tempo, ma non di spirito”. In questo periodo de Chirico accarezza inoltre l’idea di insegnare il proprio “mestiere” nelle istituzioni pubbliche. Quello della trasmissibilità del sapere è per lui un aspetto importante, come si può osservare dall’analisi del suo secondo romanzo, Il Signor Dudron, testo dalla complessa gestazione e di cui si dirà meglio più avanti. Egli aveva individuato in Italia alcuni giovani pittori che apprezzava perché dediti a una pittura naturalistica e alla ricerca del perfezionamento della tecnica, in particolare Gazzera. Sarebbe perciò stato contento di avere un posto di insegnante presso l’Accademia di Roma o di Milano, dove seguire un gruppo di allievi, “per farli beneficiare delle scoperte tecniche e anche di quelle filosofiche riguardanti la pittura”. Mentre la sua attività espositiva procede intensamente, con frenetici spostamenti sia in Italia che all’estero, la situazione in Italia evolve di nuovo negativamente, nel settembre 1938, con l’emissione dei cosiddetti “decreti per la difesa della razza”. In preda all’inquietudine, essendo Isabella Pakszwer di origine ebrea, i due lasciano nuovamente Milano per Parigi. Qui de Chirico riprende infaticabile le consuete ricerche tecniche, nell’ambito delle quali vivrà un’esperienza definibile come una “terza rivelazione”. Dopo la prima avuta in piazza Santa Croce a Firenze nel 1910, la seconda era avvenuta all’inizio degli anni Venti nel Museo di Villa Borghese e lo aveva portato a riconciliarsi con la pittura del Rinascimento, nonché alla sperimentazione della tempera grassa. La terza, che ha luogo al Louvre e origina nuove importanti ricerche, è così ricordata nelle Memorie. L’episodio dovrebbe collocarsi all’incirca nell’autunno del 1938. De Chirico torna dunque a sperimentare delle emulsioni oleo-proteiche, come aveva fatto ai tempi della “tempera grassa”. Si tratta di un legante maggiormente grasso, con l’aggiunta di una resina, ma soprattutto non più finalizzato a recuperare la materia “chiara e luminosa” del Rinascimento, bensì a imitare gli effetti della pittura di epoca barocca, in particolare di Velázquez e dei fiamminghi, tra cui soprattutto Rubens. De Chirico, in eterna contraddizione, insegue ora il segreto di quella materia pittorica che aveva avversato nei primi anni Venti definendola “fangosa”. Le nuove ricerche, volte alla realizzazione di questa “miracolosa” emulsione, saranno gestite in parallelo con il torinese Romano Gazzera mediante un fitto scambio di consigli e ricette svolto attraverso il mezzo epistolare. Con le emulsioni de Chirico realizzerà quadri che anche sul piano iconografico e stilistico risentono dei modelli seicenteschi. Già nelle mostre del 1938, a Milano, Londra e Venezia, le forme appaiono opulente e la pennellata densa e scattante, lasciando presagire i nuovi sviluppi, come si può osservare, ad esempio, nel piccolo quadro dal titolo Cavaliere con berretto rosso e mantello azzurro, oggi presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. La prima occasione ufficiale in cui può mostrare i nuovi frutti del suo lavoro è la III Quadriennale d’Arte Nazionale, che si svolge a Roma da febbraio a luglio del 1939. De Chirico non ottiene però il risultato auspicato, figurando solo con tre dipinti, peraltro quasi ignorati, in un contesto che privilegia Pirandello, Salietti, Broglio e, soprattutto, Morandi. Dopo l’estate 1939 l’atmosfera internazionale continua a peggiorare e in molti cominciano a lasciare la capitale francese. Così, verso la fine dell’anno i de Chirico, ricaricate le valigie sulla fedele Balilla, riprendono la via dell’Italia con destinazione Milano. Tra il 1940 e il 1942 vivono tra Milano e Firenze, dove nei periodi estivi sono ospiti dell’antiquario Bellini. Ormai definitivamente avviato verso quella pittura “romantica e barocca” che segnerà la sua produzione fino agli anni Cinquanta, l’artista si dedica soprattutto al perfezionamento della pittura ad emulsione, uno strumento che gli consente libertà di esecuzione, di modellare, di sfumare e di dare al quadro ariosità e preziosità di materia. E non si stanca di fornire dettagli riguardo alle sue sperimentazioni a Romano Gazzera, a cui per esempio scrive da Milano nel 1940. La riscoperta della “bella materia”, il cui segreto sembrava essere stato smarrito dagli artisti moderni dalla seconda metà dell’Ottocento, aveva spinto de Chirico alla ricerca sull’emulsione. Nel luglio 1942 arriva persino a pubblicare una Preghiera del mattino del vero pittore, dove la polemica contro il mondo artistico italiano contemporaneo assume toni di graffiante sarcasmo. Gli scritti di questo periodo, per la maggior parte pubblicati su «L’Illustrazione Italiana», confluiranno nel 1945 nel volume Commedia dell’arte moderna, accanto a una silloge di testi più antichi. Un fatto di rilievo è che il volume riporti anche la moglie come autrice, alla quale in sostanza de Chirico attribuisce la sua più recente riflessione teorica. Seppure l’orientamento decisamente tradizionalista del pittore a partire dai primi anni Trenta vada anche riportato all’influenza di Isabella, siamo tuttavia di fronte a una sottile beffa dell’artista, che trasforma la moglie nel suo doppio, adoperando una finzione letteraria che ricorrerà ancora in futuro. Nell’autunno 1942 il pittore ritorna finalmente sulla scena internazionale con la Biennale di Venezia, dalla quale mancava da ben dieci anni, dove ha un’ampia sala personale in cui può dispiegare la sua nuova pittura “barocca”. Ancora una volta le sue opere non sono apprezzate dai critici, che le ritengono discutibili e appesantite dalla ripresa di elementi cinquecenteschi e seicenteschi, ad eccezione di Libero de Libero. Gli oli emulsionati della Biennale segnano comunque la fine di quella ricerca e aprono a nuove elaborazioni, finalizzate a un ulteriore perfezionamento della materia pittorica. Difatti, anche le opere realizzate con la pittura a emulsione avevano cominciato a presentare degli inconvenienti, come risulta fra l’altro dallo scambio epistolare tra de Chirico e Cipriano Efisio Oppo in occasione della IV Quadriennale romana del 1943. Al segretario generale dell’esposizione, che gli scrive per segnalare le difficoltà ad asciugare dell’Autoritratto come pittore in costume rosso.L’intenso lavorio pratico e teorico di questi anni è trasferito con grande ironia nel suo secondo e affascinante romanzo Il Signor Dudron, dalla gestazione lunga e tormentata, la cui versione definitiva è stata pubblicata postuma. Il testo prosegue la vicenda letteraria dell’autore, inaugurata nel 1929 col capolavoro metafisico Hebdòmeros, facendo affiorare una nuova vena realistica intrisa di risvolti ironici e narrativi. Concepito secondo una singolare formula che incrocia biografia e teoria dell’arte, esso ha come protagonista un pittore, Dudron, che costituisce il suo alter ego. Si tratta quindi di un’opera soprattutto teorica, dedicata a ciò che più premeva all’artista in quegli anni: la questione della materia pittorica. Ispiratrice è la moglie Isabella, che come già ricordato aveva reso possibile la rivelazione della “bella materia” davanti a un quadro di Velázquez presso il museo del Louvre. Ella riveste il ruolo di musa filosofica, alla quale de Chirico-Dudron porge i propri interrogativi; attraverso tali colloqui l’autore svolge i temi di cui si compone l’opera nella stesura definitiva, incentrati sulla “bella materia colorata”, sul problema del “mestiere”, della tecnica, e pertanto sulla polemica antimodernista. Rispetto al Piccolo Trattato di tecnica pittorica il testo si avvale di ulteriori informazioni, conseguenti alle ricerche effettuate dall’artista negli anni Trenta presso le biblioteche parigine insieme a Isabella. Va poi soprattutto osservata l’importanza della trasmissione del sapere per de Chirico, che nel 1938 si era rivolto al ministro Bottai chiedendo un insegnamento in Accademia. Raggiunta la maturità, l’artista si sente pronto per consegnare ai posteri le proprie conoscenze sulla pittura; Dudron diventa perciò l’alto garante delle leggi dell’arte. Attraverso il romanzo l’autore sembra articolare un corso ideale per i propri discepoli, i cui argomenti sono riversati direttamente dai saggi teorici da lui pubblicati sulle riviste tra il 1940 e il 1945 e poi raccolti nella Commedia dell’arte moderna, con la coautorialità della moglie Isabella Far. È infatti lei a incorniciare i saggi di volta in volta ripresi nel romanzo, dando così inizio alla finzione letteraria per la quale de Chirico le avrebbe in seguito rivendicato la paternità di numerosi suoi scritti teorici. Tra le vicende descritte nel romanzo, ci sembra significativo un episodio nel quale de Chirico ironizza sull’emulsione pittorica. Infine, ci sembra opportuno menzionare ai fini della nostra riflessione l’opera del pittore friulano Luigi Zuccheri. L’etichetta un po’ sbrigativa di pittore animalista ha in parte oscurato le qualità della sua produzione artistica, tuttavia rivalutata in seguito dalla critica più avveduta. Proveniente dall’aristocrazia friulana, si dedicò alla pittura solo dopo essersi scontrato con il volere della famiglia, studiando privatamente e pertanto lontano dalle accademie così come dai principali focolai dell’avanguardia italiana. Tuttavia, durante un lungo soggiorno parigino intorno al 1930, Zuccheri si interessò al movimento surrealista. Questa apertura insieme ai giovanili studi letterari dovettero influire sulla sua intensa capacità di attenzione fantastica. La sua pittura è in apparenza descrittiva, fedelmente aderente a quella natura che ne costituisce la tematica costante: vaste distese di campi sotto cieli tersi o tempestosi, con in primo piano uccelli in attesa di migrare, o animali da cortile prigionieri rassegnati; talora troviamo i pesci dei fiumi friulani o della laguna di Venezia. Quadri che potrebbero sembrare illustrazioni enciclopediche, ma nei quali l’occhio più attento del critico scorge gli elementi di una realtà trascesa, come in un mondo di favola . Nella prima ampia monografia dedicata all’opera di Zuccheri, il pensiero di Maurizio Fagiolo dell’Arco va dunque a Savinio, come a de Pisis e ovviamente a de Chirico, senza tralasciare grandi maestri del passato quali Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch, che pure hanno alimentato la visione fantastica di tanta pittura europea tra le due guerre. Nel periodo tra il 1940 e il 1943 il suo travaglio spirituale per le vicissitudini del conflitto mondiale si traduce in una profonda metamorfosi stilistica. E a questo periodo dovrebbero riferirsi anche i suoi primi esperimenti tecnici sulle proprietà dei colori e delle vernici. Zuccheri infatti abbandona progressivamente la più “moderna” tecnica a olio per passare a quella più “antica” della tempera all’uovo, cominciando a riscoprire e studiare antichi ricettari e portando la sua ricerca a livelli di una certa raffinatezza, emulando un percorso compiuto vent’anni prima da de Chirico, quando si fece paladino del recupero della cosiddetta “tempera grassa”. I due si conosceranno dopo la fine della guerra, dando inizio a un intenso rapporto di amicizia, avente come principale oggetto di conversazione proprio i segreti della pittura a tempera, anche attraverso lo scambio epistolare. Intorno al 1947, Zuccheri aveva comprato una piccola proprietà sulle colline nei pressi di Firenze, dove si era presto creato una cerchia di amici scelti, tra studiosi, collezionisti e artisti. Ed è in casa di Primo Conti che avviene il primo incontro con de Chirico, verosimilmente tra il 1947 e il 1948, dal quale nascerà un rapporto decisivo per la sua definitiva maturazione artistica. Non si dimentichi che proprio a Firenze de Chirico aveva tenuto a battesimo la nascita del gruppo dei Pittori moderni della realtà nello stesso periodo. De Chirico è in fondo il pittore che ha maggiori punti di contatto con Zuccheri, del quale sentì profondamente il fascino e che stimò soprattutto per quel peculiare interesse nei confronti della tecnica della pittura. Sulla scia di questa appassionata ricerca, che lo fa sentire più vicino ai suoi antichi maestri veneziani e all’amico antimodernista de Chirico, anche Zuccheri si cimenta nella redazione di un trattatello, Del piturar a tempera, pubblicato nel 1966 per le edizioni All’insegna del Pesce d’Oro di Vanni Scheiwiller , non a caso il figlio di Giovanni, committente ed editore del Piccolo trattato di tecnica pittorica di de Chirico nel 1928. Un ricettario tanto più singolare perché scritto in veneziano, italiano e inglese, reso possibile dalla stima di Scheiwiller, che fra il 1966 e il 1974, anno della morte di Zuccheri, si adoperò in ogni modo per rendere noti a un pubblico più vasto le sue preziose creazioni e il suo straordinario patrimonio di cognizioni sulla pittura a tempera, con una serie di raffinati libretti illustrati. Volumi che non potevano mancare nella libreria di de Chirico, che, nel già menzionato testo commemorativo, aggiungeva: Egli ha anche scritto un trattato molto intelligente ed approfondito che io conservo gelosamente. Da quanto fin qui esposto, risaltano dunque l’ampiezza della diffusione delle ricerche dechirichiane intorno alla tecnica e ai materiali pittorici, anche a distanza di molti anni dall’uscita del suo Piccolo trattato, l’influenza su una serie di artisti più giovani anche in termini programmatici e talora la condivisione di percorsi di sperimentazione, attraverso lo scambio di consigli e di ricette per la pittura. Intanto, nel dopoguerra de Chirico si stabilisce con Isabella definitivamente a Roma, dove prosegue quell’evoluzione barocca che per la critica è un’involuzione, concentrandosi ostinatamente sulla ricerca della “bella materia” e prendendo a modello i grandi maestri del passato che hanno eccelso nella tecnica. Il suo interesse si concentra sui virtuosi della pennellata veloce e fluida, quelli più spettacolari del Seicento ma anche di epoche successive: da Tiziano a Tintoretto, a Rubens, Van Dyck, Velázquez, Fragonard, Delacroix, Renoir e altri ancora. Una fase che si estenderà fino alla fine degli anni Cinquanta, causandogli l’aumento dell’incomprensione e dell’ostilità dei critici, ai quali, dal canto suo, risponderà sempre con il consueto sarcasmo e talora con esacerbato spirito polemico. Il percorso espositivo si concentra in particolare sulle litografie nate dalla preziosa collaborazione tra de Chirico e lo stampatore Alberto Caprini, un sodalizio da cui ha avuto origine un corpus grafico straordinario, espressione della piena maturità creativa del periodo neometafisico. Grazie a questo legame de Chirico ha potuto esplorare con libertà il passaggio dal disegno alla stampa, rielaborando con rigore e finezza le sue iconografie più celebri. Infatti, con l’indipendenza del maestro che ormai può giocare al grande gioco dell’arte, mescola le varianti stilistiche dei suoi diversi periodi e le intreccia in un sapiente e coerente insieme di accostamenti e di variazioni, dove una visione più “classica” si alterna a certe deformazioni espressive tipiche delle opere degli anni Venti a Parigi, riprese proprio nel periodo neometafisico.In questa ricerca artistica de Chirico da quindi una nuova vita alle sue creazioni: la celebre figura che l’artista chiama il “Trovatore”, una delle più interessanti varianti sul tema dei “manichini”, viene reinterpreta in diverse litografie presenti in mostra, come una prima versione con manto del blu di “Il Trovatore” del 1969, o “Il Trovatore con lo spadino” del 1975. L’opera “L’Architetto metafisico” del 1970, invece, è un richiamo alla figura del “Vaticinatore”, mentre “Il riposo di Arianna” (1969) ha come protagonista Arianna, figura mitologica femminile simbolo dell’abbandono, e presente in molte opere passate dell’artista, dove la donna appare sempre sola e distesa. In esposizione anche due litografie del 1969 dedicate al “sole nero”, “Sole spento e luna crescente” e “Sole sul tempio”, simbolo di un’antica malinconia, legato al tema dei soli spenti che l’artista sviluppò a partire dagli anni Trenta. Presenti in mostra anche alcuni dei dipinti più importanti della produzione artistica di de Chirico a partire da fine anni Sessanta, come “L’Astrologo”, un olio su tela del 1970, e “Il Contemplatore” del 1976 e alcune sculture. Giorgio de Chirico, infatti, ha coltivato un interesse profondo e costante per la scultura, una passione già evidente nei suoi primi dipinti metafisici, dove le statue assumono un ruolo centrale, conferendo alle composizioni un’aura enigmatica e sospesa. Nel corso dei decenni, il suo rapporto con la scultura si è progressivamente evoluto, portandolo alla realizzazione di autentiche opere plastiche. Questo percorso è culminato nella straordinaria produzione degli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui ha dato vita a una serie di sculture di grande importanza, come i bronzi “Gli Archeologi (Oreste e Pilade)”del 1966 e “Le muse inquietanti”(1968) in esposizione a Sarzana.
Fortezza Firmafede di Sarzana- La Spezia
Giorgio de Chirico. La Metafisica della creazione
dal 22 Marzo 2025 al 21 Luglio 2025
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.0 alle ore 12.00 e dalle ore 15.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto Giorgio De Chirico
Giorgio de Chirico, Il contemplatore, 1976
olio su tela, cm 65 x 55
Roma, Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, inv. 43
Giorgio de Chirico, Il dialogo misterioso, 1973
olio su tela, cm 92,5 x 68
Roma, Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, inv. 28
Giorgio de Chirico, Le muse inquietanti, 1968
bronzo argentato, cm h 35,5 x 16 x 16
Roma, Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, inv. S12
Giorgio de Chirico, Cavalli antichi, 1969
bronzo patinato, cm h 36,5 x 23 x 32
Roma, Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, inv. S29