Giovanni Cardone
Fino al 4 Maggio 2025 si potrà ammirare al Palazzo dei Priori di Fermo la mostra dedicata a Steve McCurry Children ideata e curata di Biba Giacchetti. L’esposizione è promossa dal Comune di Fermo con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo, in collaborazione con Orion57, partner Mus-e del Fermano. L’organizzazione è affidata a Maggioli Cultura e Turismo. Con oltre cinquanta fotografie, il pubblico avrà l’occasione di ammirare l’unica esposizione tematica interamente dedicata ai bambini, realizzata nell’arco di quasi cinquant’anni di carriera. Le immagini, provenienti da ogni angolo del mondo, ritraggono i più piccoli in scene di vita quotidiana, offrendo un omaggio a questo periodo straordinario della vita. A Fermo una straordinaria galleria di ritratti esplora tutte le sfaccettature dell’infanzia, accomunate da un elemento universale: lo sguardo dell’innocenza. I bambini immortalati da McCurry, pur diversi per etnia, abiti e tradizioni, condividono la stessa energia inesauribile, la gioia di vivere e la capacità di giocare anche nei contesti più difficili, spesso segnati da povertà, conflitti o condizioni ambientali estreme. Il visitatore sarà guidato in un viaggio ideale accanto a McCurry, attraverso paesi come India, Birmania, Pakistan, Tibet, Afghanistan, Libano, Etiopia e Cuba. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Steve McCurry apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che la fotografia di reportage, come dimostra la sua storia, oltre a descrivere situazioni di guerra in paesi lontani, si è sviluppata soprattutto nelle strade delle metropoli, seguendo la vita quotidiana delle persone comuni. «Io penso a me stesso come a un testimone della storia» commenta il famoso fotografo della Magnum Alex Webb«in un senso molto vasto del termine: fotografando soprattutto lo scorrere della vita della gente comune». Non è un caso che i reportage di questo tipo abbiano avuto più volte una committenza pubblica, poiché sono stati uno tra gli strumenti nelle mani delle istituzioni per comprendere la realtà sociale del loro territorio. Come abbiamo dimostrato nei precedenti capitoli, il linguaggio iconografico è polisemico: la fotografia di reportage, a sua volta, amplifica questa caratterista, essendo in grado di raccontare delle vere e proprie storie, anche molto complesse, all’interno di ogni immagine, e relazionarle con altre in una sequenza di immagini (creando veri e propri saggi fotografici). «Ogni cosa, nella fotografia, dovrebbe contribuire alla descrizione», afferma infatti la fotografa Margaret Bourke-White. Una buona fotografia permette di comprendere a fondo l’oggetto rappresentato e il suo contesto, a patto che il fotografo sappia utilizzare a pieno il linguaggio del reportage fotografico. «La mia fotografia è una riflessione che prende vita nell’azione e conduce alla meditazione. La spontaneità, il momento sospeso, interviene durante l’azione, nel mirino. La precede una riflessione sul soggetto. La segue una meditazione sulle finalità», racconta in maniera esemplare il fotografo iraniano Abbas, mentre il fotografo di Life Leonard McCombe afferma «io voglio far riflettere, non intrattenere». È la padronanza degli elementi formali della composizione che permette al fotografo e al sociologo visuale di sintetizzare in uno scatto la situazione che vuole testimoniare, facendo affiorare gli elementi importanti per l’analisi del fenomeno sotto indagine. Questa operazione non ha alcuna pretesa di oggettività; al contrario, è la soggettività del ricercatore che diventa importante nella interpretazione di un fenomeno. «Fotografare significa, in uno stesso istante, riconoscere il fatto e la rigorosa organizzazione delle forme percepite visivamente, che esprimono e determinano questo fatto» (Cartier-Bresson, 2005 ). Bisogna quindi calarsi a fondo nella realtà che si vuole indagare, capirla, comprendere l’oggetto e la situazione che si fotografa, e solo a questo punto bisogna scattare l’immagine. Il fotoreportage richiede molto tempo per essere prodotto. E, se si desidera che una fotografia racconti, spieghi, illustri in modo convincente e coi dovuti significati la porzione di realtà alla quale deve la sua origine e la sua ragion d’essere, allora è indispensabile conoscere quali sono i procedimenti necessari al raggiungimento di questi scopi. Esiste infatti una vera e propria estetica del reportage, che trascende da tutti gli altri generi di fotografia: l’unico modo di comprendere questo vero e proprio linguaggio, è imparare a leggere i maestri della fotografia di reportage, che nel secolo scorso hanno tracciato in maniera esemplare le linee, le rotte da seguire. Non possiamo dare inizio ad una discussione sul fotogiornalismo e l’etica dell’immagine ad esso connessa, se non facciamo innanzitutto una premessa riguardo ciò che è alla base del processo di rappresentazione della realtà attraverso le immagini. Il presupposto di tale riproduzione è costituito ovviamente dalla fotografia. L’etimologia della parola fotografia deriva dalla lingua greca; due parole: φως (phos) e γραφίς (graphis) riassumono letteralmente la funzione di questa pratica artistica, ovvero scrivere (grafia) con la luce (fotos). L’invenzione della fotografia fu incoraggiata da diversi fattori, alcuni di carattere storico e sociale, altri più prettamente tecnici. Il primo di questi fu la “memoria dello sguardo”, che si era radicata nella coscienza delle persone di pari passo con il linguaggio. Italo Zannier scrive a tal proposito che: “La memoria dell’uomo ha sempre cercato garanzie nei segni, sonori tattili grafici, promuovendo una sequenza di processi, che hanno impegnato unitariamente l’evolversi della nostra cultura per quanto riguarda l’immagine, si è passati a poco a poco, dai disegni delle caverne sino alla fotografia, una tecnica meccanica che realizza immagini talmente ricche di informazioni da costituire una seconda realtà.” Si ritiene che i primi studi su tale fenomeno vennero condotti addirittura da Aristotele, il quale osservò che la luce, passando attraverso un piccolissimo foro, proiettava un’immagine circolare. Fu però lo studioso arabo Alhazen Ibn Al-Haitha che a ridosso dell’anno Mille descrisse questo fenomeno ottico, assegnandogli il nome di camera obscura. Da quel momento, successive implementazioni tecniche, quali l’applicazione di lenti convesse e dispositivi per ridurre le aberrazioni, consentirono di ottenere una migliore qualità e definizione dell’immagine riflessa. Il percorso che portava all’invenzione della fotografia era, però, ancora lungo. Un’accelerazione di questo processo avvenne solo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, e coincise con un fattore sociale decisivo: l’ascesa della nuova borghesia. Far parte della classe borghese significava anche riprendere tradizioni, usi e stili di vita dell’aristocrazia. Fra questi, la consuetudine del ritratto di famiglia, un vero e proprio status symbol. Gli appartenenti alla nuova classe sociale però, a differenza dei nobili, si caratterizzano per la parsimonia nelle proprie scelte, e quindi anche le opere figurative dovranno essere a buon mercato e facilmente riproducibili per una più ampia diffusione. Parallelamente a questo fenomeno aumenta, anche in campo editoriale, la richiesta di libri e periodici illustrati . Il passo fondamentale da compiere, perché si potesse avviare e diffondere la pratica fotografica, restava la combinazione dei fenomeni ottici già scoperti e studiati fino a quel momento, con particolari fenomeni chimici che consentissero alle immagini di restare impresse su un supporto materiale. La pratica di raccontare delle storie giornalistiche attraverso le fotografie fu resa possibile dalle innovazioni tecniche nel campo della fotografia e della stampa avvenute alla fine del XIX secolo, per la precisione fra il 1880 e il 1897. Mentre eventi di rilevanza giornalistica cominciarono ad essere fotografati già intorno al 1850, i processi di stampa a partire dalle incisioni, furono possibili solo negli ultimi due decenni del secolo. Prima di allora era possibile soltanto pubblicare delle litografie derivate dalle foto, in quanto, quest’ultime, non possono ancora essere stampate sulla carta insieme alle righe di piombo. La Guerra di Crimea, combattuta dal 1853 al 1856, è stato il primo evento di una certa rilevanza storica (e giornalistica) del quale conserviamo una testimonianza fotografica, documentazione che dobbiamo a Carol Szathmari, il primo fotogiornalista della storia. Purtroppo sono solo poche, fra quelle scattate, le immagini sopravvissute fino a noi. Le immagini di William Simpson dell’«Illustrated London News» e le foto di Roger Fenton, furono pubblicate come incisioni. Allo stesso modo, le foto della Guerra Civile Americana, scattate da Mathew Brady, furono incise prima della loro pubblicazione sull’«Harper’s Weekly». Il pubblico aveva però voglia di rappresentazioni che fossero più realistiche di quelle presenti sugli articoli dei giornali. Così, era pratica comune che le fotografie più interessanti venissero esposte in gallerie fotografiche, oppure riprodotte in un limitato numero di copie. La prima foto giornalistica fu pubblicata il 4 Marzo 1880, sul giornale newyorkese «The Daily Graphic». Tecnicamente si trattava di una riproduzione in mezzi toni (invece che di una xilografia come era stato fatto fino ad allora). «Negli ultimi anni del secolo scorso iniziava così finalmente a svilupparsi quello che è stato il più importante mass medium contemporaneo, prima dell’avvento e della diffusione pubblica della televisione: il fotogiornalismo». Furono anni che videro la realizzazione di numerose innovazioni. In questa fase, le prime lampade al magnesio permettevano di generare un forte lampo di luce che metteva gli operatori nelle condizioni di poter fotografare anche in interni. Ad utilizzarle, fra i primi importanti fotogiornalisti, spiccava Jacob Riis, reso famoso per il suo bel lavoro sugli slums newyorkesi, intitolato How the Other Half Lives (Come vive l’altra metà della città), con i suoi scritti e le sue immagini, che vide la luce nel 1890. Sfortunatamente al momento della pubblicazione le tecniche di riproduzione tipografica delle fotografie lasciavano ancora molto a desiderare e quindi, delle treantacinque immagini presentate solo diciassette furono stampate a mezzi toni peraltro di qualità assai scadente, mentre le altre vennero riprodotte con la tecnica del disegno e dell’incisione, perdendo così quasi completamente tutti quegli elementi di immediatezza e di aderenza alla realtà che le caratterizzavano all’origine . Susan Sontag sottolinea che «la fotografia, intesa come documentazione sociale, era uno strumento di quell’atteggiamento essenzialmente borghese, insieme missionario e soltanto tollerante, curioso e indifferente, che va sotto il nome di umanesimo, e che vedeva negli slum il più affascinante degli ambienti». Solo nel 1897 fu possibile riprodurre le fotografie con la tecnica dei mezzi toni nel processo di stampa veloce dei giornali, siano essi periodici o quotidiani. In ogni caso, la velocità con la quale giungevano le notizie scritte in redazione, era decisamente superiore rispetto allo sviluppo e alla stampa delle fotografie, che quindi non potevano essere presenti sul giornale al momento della pubblicazione della storia. C’era sempre un margine di alcuni giorni fra il primo lancio della notizia e la pubblicazione della foto che la accompagnava. Nonostante fossero state avviate tutte queste innovazioni, rimasero altrettanto numerose le limitazioni tecniche, ed infatti molte delle storie presenti sui giornali sensazionalistici dell’epoca, furono presentate attraverso disegni ed incisioni. Eravamo comunque in quella fase, molto importante per lo sviluppo del giornalismo moderno, inaugurata da Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst il New Journalism e la Yellow Press che diede tendenzialmente maggiore spazio alle immagini e alla cronaca cittadina. Nel 1921, per la prima volta, la telefoto rese possibile la trasmissione di immagini alla stessa velocità con cui viaggiavano le notizie. Tuttavia, servirono il lancio della prima fotocamera “commerciale” Leica con formato 35mm nel 1925, e le prime lampade flash fra il 1927 ed il 1930, affinché fossero presenti tutti gli elementi necessari per poterci considerare pienamente nell’“età d’oro” del fotogiornalismo. Da quel momento il termine fotogiornalismo si è designato come un genere a sé, caratterizzato e fortemente distinto nell’ambito della storia della fotografia. Un settore indipendente entro i propri confini «quasi un continente, con un fronte ideologico, al quale si opporrebbe quello degli artisti, anzi dei cosiddetti fotografi-artisti, con le loro estetiche e filosofie, che ai fotogiornalisti sembrano perlopiù manie, velleità, inutili o eccessive ambizioni». Il fotogiornalismo acquista la sua identità a partire dagli anni Venti del Novecento sebbene, come già accennato, fosse il periodo a cavallo fra il Diciannovesimo ed il Ventesimo secolo ad aver creato le condizioni per lo sviluppo di questo nuovo genere nel sistema dell’informazione. Le innovazioni tecnologiche ed un clima socio-culturale favorevole sono stati i genitori di tale nuovo approccio, per il momento ancora embrionale, al mondo della notizia. Per quanto la fotografia avesse ormai piena legittimità nella società di metà Ottocento, ad essa non era ancora riconosciuta la capacità di raccontare le notizie allo stesso modo delle parole, di conseguenza i quotidiani e i periodici che venivano sfogliati dagli stessi soggetti immortalati nei ritratti di famiglia o nelle più diffuse e popolari carte de visite facevano un utilizzo del tutto limitato di immagini sulle loro pagine. Le poche volte che comparivano non servivano ad altro che da contorno al testo, avevano, infatti, solo carattere decorativo. Il giornalismo di fine Ottocento, però, fu radicalmente reinterpretato grazie alle innovazioni tecniche, e ad un nuovo approccio socio-culturale. Questo progressivo cambiamento portò all’affermazione della stampa illustrata, e alla successiva comparsa delle fotografie sui giornali. Inizialmente, la stampa venne arricchita solo di disegni e xilografie, per l’avvento delle immagini fotografiche si dovette attendere il perfezionamento delle nuove procedure di stampa. Prima del 1840, solo alcuni settimanali o mensili come l’«Observer» e il «Weekly Chronicle» in Gran Bretagna riproducono, piuttosto raramente, qualche xilografia. I quotidiani non sono quasi mai illustrati. Negli anni 1840 si assisteva alla prima comparsa in massa di immagini sulla stampa. Nello stesso momento in cui il dagherrotipo si diffonde trionfalmente nel mondo, vedono la luce molte riviste popolari, nelle quali l’impressione delle incisioni viene fatta su legno, dai disegni originali. La nascita del primo periodico illustrato è datata 1842, si tratta del «The Illustrated London News», che nasce nella capitale britannica ad opera di Herbert Ingram. Un nuovo tipo di concezione della notizia, un prodotto editoriale che avrebbe dovuto offrire ai lettori un «resoconto continuo degli avvenimenti mondiali importanti, dei progressi sociali e della vita politica, per mezzo di immagini costose, varie e realistiche» . La pubblicazione illustrata riscosse un enorme successo, e le vendite crebbero vertiginosamente. Fra il 1855 e il 1860 la sua tiratura passa da 200.000 a 300.000 copie. I buoni risultati raggiunti consentirono all’editore di arricchire l’offerta del giornale ampliando il numero dei collaboratori, giornalisti e disegnatori, che furono inviati a testimoniare sia le vicende che si svolgevano in importanti teatri di guerra (guerra di Crimea, guerra franco-tedesca, Comune di Parigi) che gli eventi di grande rilevanza economica, storica, sociale, politica e culturale (funerali di stato, efferati omicidi, ecc). Con la fondazione a Londra, nel 1869, del «Graphic», la rivista di Ingram deve fare i conti con un serio concorrente. Questo nuovo prodotto editoriale si consolida in tutta Europa e si assiste alla nascita di numerose testate a tema, come le francesi «Le Monde Illustré» e «L’Illustration» (Parigi) e la tedesca «Illustrirte Zeitung» (nata nel 1846, da non confondere con la «Arbeiter Illustrierte Zeitung – AIZ», periodico del partito comunista tedesco stampato dal 1921 al 1938). In Italia nel 1847 nacque «Il Mondo Illustrato» (Torino) che rappresentava il primo giornale italiano di grande formato, illustrato con incisioni in legno; esso avrà però vita breve in quanto chiuderà già alla fine del 1849. A Milano nel 1864, uscirono sia «L’Illustrazione Italiana» (editore Cima) che «L’Illustrazione Universale» (editore Sonzogno). La prima chiuse quasi subito, in quanto utilizzava un tipo di incisione di lenta lavorazione e tiratura limitata; anche la seconda non ebbe vita facile in quanto non disponeva di abili incisori. Solo «L’Illustrazione Italiana» (Milano), nata nel 1875 su iniziativa di Emilio Treves e con la collaborazione di una fitta rete di laboratori di incisori, ebbe la fortuna di essere pubblicata per diversi decenni. Nacquero e si diffusero riviste illustrate anche aldilà dei confini del Vecchio Continente, si tratta di «Harper’s Weekly» e «Frank Leslie’s Illustrated Newspaper» (New York), «Revista Universal» (Città del Messico), «A Illustraçao» (Rio de Janeiro), fino all’australiana «Illustrated Australian News» (Melbourne). Tutte pubblicazioni basate sulla presenza delle immagini, che facevano di queste la propria peculiarità nei confronti degli altri giornali e che senza dubbio rappresentano le antesignane dei fotogiornali. La svolta sarebbe avvenuta di lì a poco. Nel 1869 il «Canadian Illustrated News» pubblicò la prima illustrazione ricavata direttamente da una fotografia, mentre, a partire dagli anni 1880, con l’invenzione della lastra a mezzatinta fu possibile, finalmente, stampare le fotografie sui giornali utilizzando la stessa macchina necessaria per i caratteri tipografici. La fotografia comincia quindi a fare la propria comparsa sui giornali e, rispetto alle illustrazioni, consente un notevole risparmio di tempo. In quegli anni i disegnatori cominciano a portare con sé, nei reportages, apparecchi fotografici per se così si può dire «prendere appunti». Numerose fotografie scattate dall’équipe di Mathew Brady servono durante la guerra di Secessione come «materia prima visuale» nei laboratori d’incisione delle maggiori riviste americane. Tutta una serie di procedimenti di stampa fotomeccanici consente di ottenere risultati notevolmente definiti e dettagliati, ma si tratta di operazioni lunghe, costose e spesso più vicine a produzioni artigianali che a riproduzioni in serie. Negli anni 1890, le incisioni su legno cedono progressivamente il posto ai clichés in mezzatinta, tratti da fotografie ma spesso con retino grossolano e quindi poveri di dettagli. In questo periodo di transizione i disegnatori, per raggiungere una maggiore apparenza di realismo, eseguono «istantanee» e gli incisori si soffermano su particolari e sfumature. Si ottiene una sorta di osmosi che vede le illustrazioni sempre più vicine all’immagine fotografica, e fotografie – spesso molto ritoccate e retinate – somigliano sempre più ad incisioni manuali. Nel 1898, lo scoppio della guerra tra Spagna e Stati Uniti segna l’irruzione nella stampa americana del reportage fotografico. Pagine intere riportano le immagini dei combattimenti a Cuba, scattate da Jonh C. Hemment, James Burton, F. Pagliuchi, William Randolph e James Henry Hare. Proprio quest’ultimo, prima di documentare il primo conflitto mondiale, fra il 1900 e il 1914 fotografa la guerra contro i Boeri, quella russogiapponese e le rivolte nell’America Centrale. A partire dal conflitto russo-giapponese del 1904-1905, le sue immagini, largamente riprodotte dalla stampa americana, sono anche vendute a periodici illustrati europei: si fondano così le basi della diffusione internazionale delle immagini fotografiche. La fotografia fornisce la materia prima, un po’ come avviene per le agenzie di stampa nascono nello stesso periodo in cui viene inventata la fotografia, la prima è la francese Havas, del 1835 che forniscono i dispacci necessari alla composizione del giornale. La foto è una risorsa particolarmente pregiata perché internazionale sin dalla sua realizzazione, insensibile ai confini linguistici che richiedono per i testi scritti una lunga e laboriosa traduzione. Immagini dai fronti di guerra, istantanee di soldati e militari, testimonianze da città e quartieri degradati, si accompagnavano a veri e propri fotoreportages che, sebbene vincolati alle scelte politiche soprattutto per quanto riguarda vicende militari o editoriali, facevano trasparire l’identità e la professionalità dei fotogiornalisti. Capacità che andavano ben oltre i ritratti posati fino a quel momento realizzati dalla maggior parte dei fotografi. In Germania, l’«Illustrirte Zeitung» pubblicò nel numero del 15 marzo 1894 due istantanee raffiguranti le manovre dell’esercito tedesco, si trattava di stampe tratte da lastre incise a mezzatinta. Inizialmente, comunque, le immagini fotografiche ebbero un ruolo puramente illustrativo. Solo nel 1890 nasce una rivista che ha lo scopo di usare prettamente la fotografia: l’«Illustrated American». Nel suo primo numero, in una nota dell’editore, si legge: «Il proposito particolare della rivista è quello di approfondire le possibilità, fino a oggi quasi inesplorate, della fotografia e dei vari procedimenti di riproduzione». Nello stesso anno nascono in Germania diverse riviste illustrate che raccolsero molto successo, fra queste la «Berliner Illustrierte» e la «Münchner Illustrierte Presse» le quali «nel momento di maggiore successo, stampano sia l’una che l’altra circa due milioni di copie e sono alla portata di tutte le tasche, giacché un esemplare costa solo 25 pfennig . Alla fine del Diciannovesimo secolo, «Paris moderne» (1896), giornale dall’impaginazione più tradizionale rispetto alle nuove riviste illustrate, introduce una concezione del fotogiornalismo che preannuncia i lavori di Salomon, Kertész, Cartier-Bresson (artefice e fautore del momento decisivo). Nell’editoriale del primo numero il direttore afferma che la rivista nasce «nel momento giusto» e che, volendo essere «non un imitatore, ma un innovatore, un pioniere» egli intende affidare un ruolo di primo piano all’istantanea e creare così una documentazione inestimabile, «un riflesso straordinariamente realistico della vita in tutte le sue forme». A suo giudizio, è passato il tempo del «Fermo così». Compito di un giornale illustrato deve essere quindi quello di «rendere in immagini avvenimenti pieni di vita». Purtroppo la rivista chiude dopo pochi mesi di pubblicazioni, ma le intuizioni del suo fondatore, Auguste Deslinières, furono decisive per lo sviluppo del fotogiornalismo. Arrivati a questo punto, in cui il rapporto tra fotografia e stampa si fa sempre più stretto, la foto può essere considerata un prodotto finito e non più solo una materia prima, «alla fotografia è finalmente aggiunto quanto le mancava per essere veramente un medium, cioè un circuito di distribuzione». Ancora una volta, sono le innovazioni tecnologiche a segnare il passo. Il Ventesimo secolo si inaugura con la nascita della stampa mediante rotativa di immagini e testi fotograficamente incisi su cilindri. Successivamente perfezionata, questa tecnica consentì di arrivare pronti all’importante appuntamento con la prima guerra mondiale. I giornali erano ormai in grado di diffondere immagini d’attualità con tirature ingenti e qualità soddisfacente. Si da avvio all’era moderna della stampa illustrata. Si afferma la categoria professionale dei reporter fotografi, i fotogiornalisti come oggi li intendiamo. Inizialmente i quotidiani riservano uno spazio minore alla fotografia, rispetto ai settimanali. Le foto sono in numero limitato sulle pagine e rappresentano solo un corredo della notizia, la carta utilizzata, fra l’altro, condiziona negativamente la resa delle immagini. I settimanali, invece, stampati su carta più pregiata, dedicano alla fotografia molto più spazio, non avendo l’obbligo della completezza delle notizie, come il quotidiano, selezionano alcune storie, conformi alla linea editoriale della rivista e ritenute interessanti a tal punto da essere diffusamente raccontate. Di questo racconto le immagini (molteplici per ogni servizio) sono prima il corredo e poi, sempre più, l’ossatura. Testo scritto e fotografie cominciano ad integrarsi e compenetrarsi profondamente. Ogni foto reca una didascalia in cui l’immagine viene spiegata e interpretata, aggiungendo spesso giudizi e opinioni. Alla vigilia della Grande Guerra, le immagini fotografiche fanno ormai parte dei media, sono al servizio dell’informazione ma anche della propaganda come vedremo in particolar modo nelle Seconda Guerra Mondiale. Il fotografo di inizio Ventesimo secolo ha raggiunto ormai una consapevolezza matura dei mezzi a propria disposizione e della capacità di raccontare le vicende politiche, storiche e sociali tramite immagini scattate da apparecchi fotografici sempre più leggeri, maneggevoli ed efficaci. Ciò che distingue il fotoreporter da un qualsiasi altro operatore fotografico sta in quella abilità, prontezza e temerarietà nel saper cogliere istanti di vita vissuta, condensandoli in immagini spesso insolite, ma significative. L’abilità decisiva sta nel cogliere l’attimo preciso in cui far scattare l’otturatore della macchina fotografica per poter catturare quell’accadimento che solo un secondo dopo potrebbe essere perduto. Il bravo fotoreporter sa che quella deve diventare un’operazione istintiva, che non può dar spazio all’esitazione. Cartier-Bresson dirà che fotografare «è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere.» Un esempio emblematico di tale approccio fu l’episodio che vide coinvolto William Warnecke, fotografo del «World» , quando andò a fotografare, nel 1910, il sindaco di New York, William J. Gaynor, che si imbarcava per un viaggio in Europa. Arrivato in ritardo, quando ormai tutti i suoi colleghi erano già andati via, pregò il sindaco di posare per un’ultima foto. Nell’esatto istante in cui scattava, un assassino sparò due colpi di rivoltella verso Gaynor. Nonostante la confusione generale, Warnecke riuscì a restare calmo e a fotografare il sindaco che, ferito – fortunatamente non a morte – cadeva fra le braccia dei suoi accompagnatori. Alla fine degli anni Venti l’Europa, che comincia a rialzarsi dopo i gravi disagi provocati dalla Grande Guerra, vede fiorire in maniera decisiva la propria editoria. Sono anni di consolidamento tecnico e rinnovamento culturale. In Germania, in particolare, si pubblicavano più riviste illustrate che in qualsiasi altro paese del mondo. Il primato statunitense era per il momento superato dall’esplosione editoriale europea. Nel 1930 la tiratura complessiva delle riviste tedesche era di cinque milioni di copie alla settimana, con un numero di lettori stimabile intorno ai venti milioni di persone. La formidabile diffusione si deve soprattutto ad un fattore di scelta editoriale, supportato ancora una volta dal perfezionamento tecnico, l’integrazione di testo e fotografie in una nuova forma di comunicazione, per l’appunto il fotogiornalismo. Le immagini non servivano più solo da ornamento o contorno come avveniva in origine, ma acquisivano una determinata valenza narrattiva e descrittiva, e sempre più forte si avvertiva l’influenza di chi quelle fotografie le aveva cercate, inseguite, scattate. Sono la tenacia e la risolutezza dei fotografi a farla da padrone in questa fase. Newhall scrive che «la fortuna aiuta spesso i fotoreporter, ma le fotografie di attualità che fanno colpo non sono mai accidentali». Così è avvenuto il 6 maggio1937 quando ventidue fotografi, inviati dai giornali di New York e Philadelphia, hanno avuto l’occasione di assistere ad una delle sciagure più importanti della storia: l’esplosione del dirigibile tedesco Hindenburg. Nei quarantasette secondi che seguirono l’esplosione prima che il dirigibile si schiantasse per terra, ciascuno dei ventidue fotografi, ha documentato in modo completo la triste sciagura. L’indomani i giornali hanno potuto riservare pagine su pagine alle foto di quell’accaduto. Un esempio significativo di quel luogo comune secondo il quale una fotografia vale più di mille parole. E in effetti la parola in questo caso non avrebbe saputo descrivere l’evento con la stessa efficacia delle istantanee scattate. Fotoreporter, sempre più affermati sulla scena internazionale, grazie alla disponibilità di apparecchi via via più piccoli e sofisticati, dotati di obiettivi luminosi e pellicole veloci, furono in grado di sfruttare i perfezionamenti tecnologici per portare il lettore-osservatore direttamente sulla scena degli avvenimenti, anziché fornendo loro soltanto una documentazione fotografica. Il fotogiornalista è testimone dei fatti, perché si trova nel posto dove, e nel momento in cui, questi fatti accadono. Può considerarsi testimone privilegiato perché riesce a raccontare gli eventi con una forza e un’immediatezza che raramente le parole possiedono. È tale forte carica emozionale presente nei grandi servizi di reportage, che porta il lettore ad essere in qualche modo compartecipe delle vicende fotografate. Il fotoreporter assume una doppia identità nei confronti del pubblico. Prima di tutto rappresenta una proiezione dello sguardo del lettore. Si dirà che, la rivista «Life» ha fatto molto più che portare la guerra nelle case di tutti gli americani: ha portato gli americani nei luoghi della guerra. In secondo luogo, il fotoreporter è complice di quel meccanismo di autoidentificazione innescato da una fotografia che consiste nella realizzazione di un bisogno di partecipazione. L’idea di essere visti coinvolge non solo l’autore, ma anche il soggetto che riprende. La parola d’ordine è dunque spettacolarizzazione, il lettore deve essere coinvolto dalle immagini, deve sentirsi spettatore. Dalle anonime cartoline che numerose, e anonime, sono circolate per raccontare la prima guerra mondiale, si passa a foto cariche d’azione, e di morte. Lo spartiacque è segnato dalla guerra civile di Spagna. «Per vedere la vita, per vedere il mondo, essere testimoni dei grandi avvenimenti, osservare il viso dei poveri e i gesti dei superbi; per vedere cose strane: macchine, eserciti, moltitudini, ombre nella giungla; per vedere cose lontane migliaia di chilometri; nascoste dietro muri e all’interno delle stanze, cose che diventeranno pericolose, donne amate dagli uomini, e tanti bambini; per vedere e avere il piacere di vedere, vedere e stupirsi, vedere e istruirsi». Con queste parole Henry Luce presentava il primo numero di «Life», comparso negli Stati Uniti il 23 novembre 1936, con una tiratura iniziale di oltre quattrocentomila copie. Il cuore della rivista «Life» fu senza dubbio rappresentato dalla fotografia, che decretò la sua gloria e il suo successo. Si trattò di un favore reciproco, in quanto fu proprio grazie alla rivista che la fotografia raggiunse ogni angolo del mondo, raccontando la vita dagli aspetti più remoti ai risvolti più comuni. «Life» contribuì a creare il mito del fotoreporter, conferendo alla fotografia il massimo splendore. «Life» fu la prima rivista pianificata da capo a fondo. Henry Luce intendeva realizzare una rivista “brillante” in senso lato, su carta patinata e con immagini luminose. Voleva fare una promozione del fotogiornalismo, sempre pronto, come in una squadra vincente, «a comprare dai migliori quello che c’è di meglio».
La caratteristica che però, sin dall’inizio, distinse «Life» dai competitors fu quella di lavorare con un’équipe di quattro o cinque fotoreporter titolari, questo consentì alla rivista di definire il proprio stile ed a i suoi fotografi di essere ricordati come i fautori di uno dei progetti editoriali più riusciti del Ventesimo secolo. La copertina del primo numero della rivista riportava l’impressionante fotografia di Margaret Bourke-White che rappresenta la diga di Fort Peck, simbolo di volontà e successo. Accanto ad una delle prime donne-fotoreporter – sicuramente fra le più importanti – lavorava una validissima squadra dai grandi nomi. Alfred Eisensteaedt, giunge negli Stati Uniti nel 1935 dopo aver lavorato per diverse riviste europee, ed essersi consacrato grande fotografo grazie al reportage sulla guerra d’Etiopia. Carl Mydans, proveniente dalla Farm Security Administration che si specializzò in problemi dell’Estremo Oriente. Fritz Goro, proveniente dalla «Münchner Illustrierte» e dedicatosi alla fotografia scientifica. John Phillips che, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, girò in lungo e in largo il mondo per seguire avvenimenti di ogni genere. Un nome che la storia ricorda, fra i più importanti, è quello di un altro collaboratore di «Life»: William Eugene Smith, uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi. Smith, nella sua travagliata vita consacrata alla fotografia, ci ha regalato fra i più bei reportages che il fotogiornalismo possa annoverare, ne ricordiamo tre in particolare: Country Doctor, Spanish Village e Nurse Midwife. Il primo fu pubblicato nel settembre del 1948, quando Smith era ormai piuttosto famoso per via delle foto di guerra eseguite nel Pacifico meridionale. “Villaggio spagnolo” apparve nel 1951 ed è forse il servizio di Smith più conosciuto, quello che rappresentò per molti fotografi un punto di riferimento. Il terzo, pubblicato nel dicembre dello stesso anno, è forse il più bello, «quello che riesce a coniugare mirabilmente le ragioni informative con quelle stilistiche e umane dell’autore» . Smith rappresenta per il fotogiornalismo una figura di santo e di martire. «La forza e la grandezza delle sue immagini, violentemente espressioniste ed estremamente elaborate in fase di stampa, hanno qualcosa di epico». La vita di Smith fu caratterizzata da due contraddizioni che Colin Osman definisce «terribili e feconde al tempo stesso». Prima di ogni cosa, pretende di essere il solo a decidere delle proprie foto, compresa la pubblicazione. Smith, infatti, non permetteva a nessuno di intervenire sulle immagini che aveva scattato. Egli stesso dirà: «non voglio che un qualsiasi difetto di presentazione mi rovini il lavoro. Prima di fotografare cerco di capire, poi fotografo con passione quello che ho voglia di fotografare. Poi esamino i risultati, e il modo di utilizzarli, con metodo impassibile e freddo. Soltanto allora lascio che la passione ritorni». Allo stesso tempo, però, questo modo di fare, rendeva Smith insopportabile a chi gli stava intorno, ed anche da un punto di vista professionale non furono rari i cambiamenti durante la sua vita. Conoscere il percorso fotografico di questo fotografo ci consente di fare delle riflessioni sull’etica della fotografia intesa come veritiero racconto di notizie per immagini. I suoi reportages letteralmente “riportare” la realtà erano giornalismo o erano arte? Lo stesso Smith è consapevole del considerevole disaccordo fra l’obiettività del fotogiornalista e la soggettività del grande fotografo “creatore” di immagini. «Sono continuamente lacerato – dirà Smith – fra l’atteggiamento del giornalista coscienzioso, che riferisce i fatti, e quello dell’artista creatore, il quale sa che poesia e verità letterale stanno male insieme». Si evidenziano, in maniera decisiva, le contraddizioni del reportage classico. Smith con la sua intransigenza professionale e con il suo stile eroico e drammatizzato, ne rappresenterà allo stesso tempo il capolavoro e la fine. Lo stesso vale per Steve McCurry egli racconta narra la società contemporanea attraverso la fotografia, posso dire che la fotografia è questo lo sapevano bene i situazionisti anche se consideravano a ragione che la critica della vita quotidiana non può essere separata dalla critica dell’arte (o viceversa) a differenza dei surrealisti. Il compito dell’artista è quello di delegittimare il pensiero dominante attraverso nuove forme e nuovi contenuti, chiamarsi fuori dalle subordinazioni dell’arte alla politica e denunciare le falsità del potere senza mezzi termini. Non si può capire la fotografia senza una critica radicale che si ispiri a un progetto di opposizione della società spettacolare, senza una critica radicale della creatività liberata. Il capitalismo parassitario è responsabile della crescita delle disuguaglianze ed è la più seria minaccia per la libertà. “Proprio come i parassiti, la grande forza del capitalismo sta nella straordinaria ingegnosità con la quale esso cerca e scopre specie ospitanti nuove ogni volta che quelle sfruttate in precedenza si estinguono” (Zygmunt Bauman) i crimini di guerra non sono frutto di errori o peccati dei popoli, sono sempre il risultato di saprofagi della finanza, della politica e dei governi… le chiese monoteiste sono stupendamente tolleranti (almeno quanto il boia di Londra), perdonano tutto, tranne la disobbedienza civile. Se davvero il “capitalismo parassitario” è all’origine di ogni cattività, perché non incitare a demolirlo attraverso forme concrete di disobbedienza civile. I filosofi si sono limitati a interpretare il mondo, ora tocca ai popoli impoveriti e alle giovani generazioni. La concezione di democrazia partecipativa che passa attraverso convegni federali, cooperative, consigli di fabbrica ecc, è una forma di opposizione alla sovranità (che proviene dall’alto) sancita dal consenso elettorale, ed è una necessità per arrestare il potere coercitivo dello Stato, della Chiesa e della Finanza. Le concentrazioni dei saperi detengono l’imperio dell’immaginario e attraverso i media (cinema, fotografia, televisione, carta stampata, telefonia, internet) educano gli uomini alla sottomissione, alla paura, alla mediocrità violenze, distruzioni, vigliaccherie sono legati alle grandi dichiarazioni dei governi le forze dominanti della società globale non fanno sconti i carri armati sono il linguaggio primario del potere e i partiti rappresentano gli interessi fondamentali dei potenti solo i popoli falcidiati dalla guerra la piangeranno, perché solo dei massacrati è il lutto. La fotografia corrente è una forma normale di delirio c’è qualcosa di marcio nell’idea di fotografia che circola nei luoghi deputati alla sua mercificazione nell’immaginale fotografico più consumato, la fattività e la stupidità sono un’unica cosa una fotografia che lascia il lettore uguale a com’era prima di vederla è una fotografia sbagliata. Chi parla di fotografia senza pensare al vissuto quotidiano ha un cadavere in bocca. L’indice storico delle immagini figura, infatti, un’epoca determinata dall’indifferenza o, per alcuni fotografi, un presente che non ha bisogno di infingimenti e diviene strumento di disvelamento del dominio reale. La fotografia così fatta racchiude l’intero esistente, sia in superficie che in profondità, e sottende il desiderio di una storia dell’umano tutta da costruire. Per gli antichi greci la bellezza è intimamente legata con la giustizia, sono due diverse facce della stessa qualità: la virtù e l’eccellenza. La bellezza è uno stile, la giustizia è il florilegio della sua poetica clandestina. Qualsiasi imbecille può fabbricare una “buona opera”, ma solo un poeta senza guinzagli può comprendere e cogliere l’immagine della bellezza e della giustizia come testimonianza eversiva del proprio tempo di nessuna chiesa è l’arte liberata da tutte le strutture dello spettacolo mercantile. Ci viene da ridere o sobbalzare quando leggiamo o ascoltiamo (assaliti da conati di vomito), certi fotografi affermare “La mia arte fotografica” davanti a un tribunale degli angeli sarebbero condannati per insignificanza universale e allontanati dal cielo, come dalla volgarità, senza remissione dei peccati! W. Eugene Smith o Henri Carter-Bresson o Diane Arbus si sarebbero lavati la lingua col sapone prima di dispensare tanta stupidità! In ogni millantatore coesistono l’idolatra e il portinaio in cerca della deificazione, foss’anche quella dell’entusiasta inchiodato sulla croce del riconoscimento mercatale. Sputeremo sulle vostre tombe! Steve McCurry è un grande fotografo, abilissimo nel colore, fermo nell’inquadratura, forte nelle proprie scelte espressive… le sue immagini però ci sembrano avvolte in una fascinazione quasi sacrale, che difficilmente contiene il letto di pulci dove prende i suoi ritrattati lo sguardo del lettore gode di tanta bellezza espositiva ma la povertà pare restare a margine dell’insieme affabulativo. Certo è che il suo fare-fotografia è stato emulato da intere generazioni di fotoamatori ricompensati di magie, incantamenti, meraviglie del colore di McCurry, ma ad andare a fondo della sua perfezione estetica si resta contaminati più dal santo bacio della vostra santa bocca (Salomone diceva nel Cantico dei cantici) che dal piacere materiale che ne consegue è difficile elogiare una patria o un profeta, quale che sia, quando manca il pane. Di Steve McCurry in Rete si legge: «È un fotoreporter statunitense. Nasce in un sobborgo di Philadelphia (Pennsylvania) il 24 febbraio 1950. Frequenta la High School Marple Newtown nella Contea di Delaware e poi si iscrive alle Penn State University per studiare fotografia e cinema. Si laurea in teatro nel 1974. Inizia ad interessarsi di fotografia e collabora con il quotidiano Today’s Post. Poi parte per l’India come fotografo freelance e lì dice McCurry “ho imparato a guardare e aspettare la vita: Se sai aspettare, le persone si dimenticano della tua macchina fotografica e la loro anima esce allo scoperto” . Una filosofia e teoria della scrittura fotografica della quale diffidiamo, perché è dietro il sagrato dell’oggettività che si sono sempre celati i tenutari delle forche e del plotone d’esecuzione in nome della ragione imposta hanno educato alla soggezione i popoli impoveriti e li hanno gratificati con la pubblicazione colorata (o bianco e nero fa lo stesso) dei loro volti violati in libri, giornali, riviste, televisione, film perfino nella cartellonistica pubblicitaria di profumi, mutande, vestiti griffati, e spesso nel cambio di un premio internazionale si è giustificato un crimine contro l’umanità. La carriera fotografica di McCurry salta all’attenzione dei media, quando, travestito con abiti tradizionali, attraversa il confine tra il Pakistan e l’Afghanistan territorio controllato dai ribelli, poco prima dell’invasione russa alla maniera di un immortale della fotografia sociale, Roman Vischniac, e della talentuosa allieva di Walter Benjamin, Gisèle Freund, si cuce nei vestiti i rullini di pellicola e le sue immagini vengono pubblicate nei quotidiani internazionali… sono le prime fotografie che documentano un conflitto mai finito. C’è da dire che le forze armate dei paesi comunisti (si fa per dire) e delle democrazia occidentali, mai hanno gettato una sola bomba nei campi di papaveri afghani… l’oppio dei popoli non è solo la religione, la politica, la finanza… la droga, si sa, è un deterrente importante per i saprofiti del potere e uno strumento di abbrutimento e sconfitta delle turbolenze generazionali (come è stato per la soppressione della rivolta libertaria del ’68). Il papavero è anche un fiore. Il suo reportage vince il Robert Capa Gold Medal for Best Photographic Reporting from Abroad, assegnato ai fotografi che si sono distinti per eccezionale coraggio e per le loro imprese. McCurry continua a fotografare i conflitti della modernità (Iraq, Libano, Cambogia, Filippine). pubblica nelle riviste di tutto il mondo e ha grande rilievo nel National Geographic Magazin.diventa membro della Magnum Photo dal 1986. Gli conferiscono riconoscimenti importanti come il Magazine Photographer of the Year della National Press Photographers’ Association… per quattro anni consecutivi vince il World Press Photo Contest e per due volte l’Olivier Rebbot Memorial Award. Il successo del fotografo è travolgente, anche meritato. McCurry, dicono, “si concentra sulle conseguenze umane della guerra, mostrando non solo quello che la guerra imprime al paesaggio ma, piuttosto, sul volto umano. Egli è guidato da una curiosità innata e dal senso di meraviglia circa il mondo e tutti coloro che lo abitano, ed ha una straordinaria capacità di attraversare i confini della lingua e della cultura per catturare storie di esperienza umana. «La maggior parte delle mie foto dice McCurry è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l’anima più genuina, in cui l’esperienza s’imprime sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità»”. McCurry è protagonista un documentario televisivo dal titolo Il volto della condizione umana (2003), realizzato dal pluripremiato regista francese Denis Delestrac. Nel 2013 è autore del “prestigioso” calendario Pirelli, fotografa 11 donne impegnate nel sostegno di Fondazioni, organizzazioni non governative e progetti umanitari. I suoi workshop fotografici, della durata di un fine settimana a New York, che si possono estendere a due settimane in Asia, sono molto seguiti. L’eco del suo insegnamento è planetario. Per un autore di successo, la cosa peggiore è essere compreso. Il fascino indiscreto della fotografia però è altra cosa la feticizzazione della fotografia come merce lavora per conto dell’organizzazione dell’immaginario assoggettato e sotto il controllo dei dispensatori dei saperi, il linguaggio di ogni arte designa sempre altro dal vissuto reale. Il linguaggio della critica o è la critica dei linguaggi dominanti o è poca cosa… dove c’è poesia dell’autentico non c’è Stato. Non si tratta di mettere la fotografia al servizio della verità, ma piuttosto di mettere la verità al servizio della fotografia. Le immagini sono prigioniere dei linguaggi codificati ed è impossibile sbarazzarsi di un mondo in decomposizione senza sbarazzarsi dei linguaggi che lo nascondono o lo garantiscono. Il fatto è che ogni linguaggio è la dimora del potere e il rifugio della violenza accettata. I linguaggi dell’adulazione, della conciliazione, del cattivo edonismo perfezionano la reificazione di ogni forma di comunicazione e sostituiscono un’idea vera con un’idea falsa. I vocabolari del dissidio non smetteranno di lavorare finché i poeti della bellezza e della giustizia non avranno smesso di usarli e inventare il divenire dell’innocenza. Nella fotografia non c’è più nulla da leggere, se non l’odore di carogna che si porta dietro. “La mia fotografia è onesta!” diceva il fotoreporter mentre fotografava il bambino morente e l’uccellaccio affamato in attesa di mangiarlo (l’immagine avrà poi un prestigioso premio). “Purtroppo le mie fotografie lo sono meno “, forse pensava. Qualche tempo dopo si è tolto la vita. Un fotografo di meno. Meglio un bambino vivo. La menzogna della fotografia sacralizzata è pura impostura la menzogna, talvolta ha la limpidezza della verità ma troppo spesso viene confusa con la legittimazione del falso contrabbandato come arte. A ciascuno la sua fotografia una volta che un’immagine strappa un pezzo di vita quotidiana all’oblìo, del reale non resta niente se non la sua miseria e la verità sui responsabili della rovina. Stare accanto alla verità, così come si è vicini alla fotografia, significa entrare a volto scoperto a fianco della povertà, e poiché la fotografia non è se non l’assalto al cielo del dominio, non resta che leggerla (anche nelle sue espressioni più estreme) come superamento dell’arte realizzata. Fotografare il vero, il giusto, il buono è forse comunicare, per la prima volta, l’eredità avvelenata del dolore e riprendere il lascito sovversivo dei ribelli senza causa, che non sia quella dell’amore dell’uomo per l’uomo. La sola fotografia che lascia un segno nella storia è quella che invita a scoprire le diversi voci della coscienza, quella maltrattata e quella che insorge e chiede il rispetto dei diritti umani. La fotografia della fascinazione di McCurry è abbagliante, di una bellezza rilucente… seduce ma lascia addosso qualcosa di compiuto che è sospetto di estetismo… ha poco a che fare con la filosofia della seduzione di Nietzsche o Baudrillard per il primo la seduzione contiene la magia dell’estremo e coincide con la trasvalutazuone di tutti i valori , per il secondo la seduzione è sempre all’erta, pronta a distruggere ogni ordine divino, foss’anche quello della produzione o del desiderio . La seduzione fotografica di McCurry s’accorda al romanzo autobio grafico che l’accompagna ed esorta a godere e a far godere, senza procurare danno né a se né ad altri è di una forza estetica incline alla pregevolezza e si definisce in rapporto alla costruzione etica che l’autorizza. McCurry è sensibile, a tratti commuove anche, l’insieme del suo immaginario a colori è una casistica di belle povertà e molto altro ancora attraversa inferni reali e riesce in qualche modo a portare una scheggia di dignità nel corpo sociale che tratteggia all’incrocio di sofferenze secolari. Non è poco. Il suo armamentario estetico però non sembra essere fornito dell’indignazione necessaria che aderisce al negativo che la abita. La fotografia che ha cessato di resistere si svilisce nei suoi contenuti e sarà sostituita da un’altra che resisterà. A noi, va detto, interessa riflettere sulla maestria del colore di McCurry… a sfogliare le sue immagini più famose (la ragazza afghana con gli occhi blu, volti di donne, uomini, bambini… fotografati in uno splendido Kodachrome, restituiscono appieno la gamma cromatica della pellicola e forse nessuno mai è riuscito a tanto… ad andare in profondità delle fotografie ciò che più emerge dalla loro straordinaria compiutezza formale, non è il dolore o la gioia di un’epoca, ma lo splendore dei rossi, dei verdi, dei marroni, dei blu, dei neri che operano una trasfigurazione dei soggetti e li depositano nel casellario dell’arte museale che è un merito, anche. ma poco riguarda le Istorie emarginate dalle quali parte. Le inquadrature di McCurry sono sapienti, mai liquide, anzi piuttosto elaborate le linee, gli sfondi, la composizione generale non è esente da un certa mistica dell’immagine bella, e palazzi bombardati, navi arenate sulla spiaggia, morti e carri armati che si stagliano su fondali di guerra includono forse vittime e carnefici, ma basta vedere un affresco di Paolo Uccello per comprendere le atrocità di un conflitto e gli esecutori della barbarie. Una ragazza sfigurata, un bambino che abbraccia il fucile, rottamatori di navi, danzatori indiani affogati nella tinta rossa, donne velate di nero vestite stupendamente presi nell’ascesi di una edificazione dell’arte figurativa, esaltano il gesto virtuoso e i soggetti si trascolorano in maschere e non metafore del mondo degli oppressi. Lo sguardo di McCurry è elegante, è vero, mai severo con i fotografati… anche appassionato della materia che tratta… ma nella fotografia (e dappertutto) tra il significante e il significato, bisogna mettere il primo al servizio del secondo. L’esistenza del vero è subordinata a quella del senso che gli corrisponde. Nulla mai al di sopra o al di sotto delle schegge di verità che non siano egualitarie. L’eccezione affascina, la differenza include il bastone che la produce. La fotografia della fascinazione di McCurry è generosa di ammiccamenti, giustapposizioni, quadrature formali ma il sublime fuoriesce da chi pratica il dissidio e la sovranità, la sfida e l’ironia, lo stile e la seduzione con tutta la regalità di chi pratica l’arte di dispiacere: “Io non concepisco forza senza eleganza, volontà senza tripudio o determinazione senza attenzione per una pienezza estetica. L’artista è una figura che mi riposa nel filosofo quando quest’ultimo è divenuto una caricatura di se stesso” (Michel Onfray) . La fotografia ascetica sa di polvere, e molto spesso non è altro che l’arte di sistemare i resti o i vecchi avanzi lasciati dalle religioni, dai partiti, dai saperi, all’utilitarismo della società mercantista. Qualsiasi fotografo sa indicare la via verso il sublime ma laddove non c’è volontà di rottura col modello di società esistente, non c’è via. Più vedo gli sforzi compiuti da critici, storici, galleristi, mecenati, fotografi per elevare la cultura fotografica al rango di arte per tutti più sono convinto che il mio amico finito in manicomio per aver sputato contro la Madonna in processione, aveva ragione: “Vale solo la rivolta, il resto è menzogna”. Ossequiosità, servilismo, cupidigia, provocati dalla politica consumerista e dalle bassezze elettorali sono i legacci dei privilegiati, e l’unico modo per distruggere questo stato di cose è la diserzione o la resistenza sociale. Insegnare agli uomini a non più guardare ma a vedere, è sempre stato pericoloso. Se si cominciasse col sopprimere tutti quelli che stanno aggrappati agli scranni del dominio come ratti su cumuli di spazzatura, si potrebbe intravedere la seduzione composta della società di armonia (sognata da Charles Fourier), dove anche i cani randagi hanno una qualche importanza nella dismisura delle passioni liberate e l’Utopia della felicità umana che verrà diventa storia . Le verità ultime si dicono sulla soglia del vero che si trascina irreversibilmente all’interno della bellezza che si morde (e c’impara a vivere e morire insieme alla leggibilità e illeggibilità di fotografare ciò che non si valuta in base ai suoi successi, ma alla resistenza sociale). Dare su qualsiasi cosa, compresa la disperazione, giudizi irreconciliabili contro i possessori d’illusioni, è l’unica maniera di non tradire la fame degli impoveriti. Se mi chiedessero qual è, di tutti i misteri, quel che resta più difficile a conoscere, risponderei senza esitare, la fotografia in amore verso gli ultimi la fotografia pensa e invita a pensare intorno a se stessa un’immagine è centro di un evento o è solo banalità patinata il cuore profondo della fotografia è nella vita trasfigurata che desidera raggiungere ciò che gli manca. Ciò che non uccide la fotografia, la fortifica. La mostra racconta storie di gioia, resilienza, famiglia e amicizia, immortalate con empatia e rispetto. Tra le immagini più iconiche spicca quella della piccola afghana ritratta in un campo profughi nel 1984, diventata un simbolo universale delle sofferenze inflitte dalla guerra. Questo scatto precede di anni la stesura della Carta dei Diritti dei Bambini, approvata dalle Nazioni Unite nel 1990, e continua a testimoniare l’urgenza di tutelare l’infanzia in tutto il mondo. In questo scenario globale, McCurry vuole anche sensibilizzare il pubblico sul tema dello sfruttamento infantile. Nei suoi viaggi, soprattutto in Asia, ha documentato le vite di molti bambini costretti a lavorare quando dovrebbero giocare o frequentare la scuola. “La visione dell’infanzia di McCurry è varia e diversificata, proprio come lo sono i bambini nel mondo. Eppure, ovunque si posi il suo obiettivo, emerge un messaggio chiaro: finché ci sono bambini, c’è speranza”, afferma Owen Edwards, critico fotografico. Attraverso le sue immagini, McCurry cattura l’eterna resilienza dei bambini, la loro capacità di trovare gioia anche nelle situazioni più difficili. Un esempio è lo scatto dei bambini che giocano su un carro armato arrugginito, trasformando uno strumento di morte in un giocattolo, oppure quello in cui giocano con delle ruote sotto antichi esemplari di baobab in Madagascar, venerati per la loro età e la capacità di immagazzinare acqua durante i periodi di siccità. Il loro è un modo di divertirsi semplice e accessibile, seppur in un contesto con risorse sempre più limitate. Lo stile di vita dei bambini, specialmente nel sud del mondo, è infatti minacciato anche dal cambiamento climatico, che troppo spesso impedisce loro di avere condizioni di vita sostenibili. Ma i bambini, come sappiamo, sono sempre in grado di approcciarsi ai contesti più anomali con estrema creatività. “Non c’è ideologia o filosofia alla base del loro gesto: solo il desiderio di gioco e leggerezza«, prosegue Edwards. Grazie alla sua capacità narrativa, ogni fotografia diventa una finestra sulla vita dei soggetti, capace di trasmettere autenticità, spensieratezza e purezza. La mostra si apre con una serie di ritratti intensi e si snoda attraverso immagini che alternano guerra e poesia, sofferenza e gioia, stupore e ironia. Steve McCurry, uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, è una figura iconica capace di raccontare il nostro tempo con profondità e poesia. La mostra è un viaggio nei ricordi della nostra stessa infanzia, una riflessione profonda sulle responsabilità di ciascuno verso le nuove generazioni. In ogni scatto ritroviamo un invito a costruire un futuro più giusto, consapevoli che il cambiamento inizia dalle azioni del presente.
Palazzo dei Priori di Fermo
Steve McCurry. Children
dal 20 Dicembre 2024 al 4 Maggio 2025
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.30 alle ore 13.00 e dalle ore 15.00 alle ore 18.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.30 alle ore 13.00 e dalle ore 15,00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto Allestimento Mostra Steve McCurry. Children courtesy Palazzo dei Priori di Fermo