Giovanni Cardone
Fino al 6 Aprile 2025 si potrà ammirare a Palazzo del Duca Senigallia – Ancona la mostra dedicata a Mario Giacomelli La Camera Oscura di Giacomelli a cura di Katiuscia Biondi Giacomelli. L’esposizione ricade nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita dell’artista che prenderanno il via nel 2025. Si possono ammirare nella parte riqualificata dell’edificio monumentale circa cento fotografie accuratamente selezionate e allestite in maniera permanente in collaborazione con gli Archivi Giacomelli. L’esposizione è stata realizzata nell’ambito del progetto Senigallia Città della Fotografia promosso dalla Regione Marche ed è stata organizzata dal Comune di Senigallia e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi. Fulcro della mostra è la camera oscura, spazio alchemico in cui Giacomelli trasformava la materia del reale in visioni straordinarie. Tra gli oggetti esposti figurano la sua macchina fotografica Kobell, provini di stampa, appunti manoscritti e strumenti che raccontano la peculiarità di un processo di lavro in cui tecnica, immaginazione e intuizione trovavano declinazioni sempre intense. A orientare il percorso, l’installazione multimediale Sotto la pelle del reale, che riporta la voce dello stesso Giacomelli, tratta da un’intervista del 2000, intrecciandosi con immagini in movimento e frammenti scritti. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Mario Giacomelli apro il mio saggio dicendo: Dato che tradurre non significa dire la stessa cosa in un’altra lingua, prendiamo la definizione che ne dà Eugene A. Nida: «La traduzione consiste nel riprodurre nel linguaggio del ricevente l’equivalente naturale più vicino al messaggio nel linguaggio di partenza». Trovo questa definizione molto appropriata, in quanto si adatta perfettamente alle tre forme di traduzione individuate da Roman Jakobson, e pone l’accento sulla ricerca dell’equivalente naturale più vicino al messaggio di partenza. È proprio sul concetto di questa equivalenza che si è concentrata la mia ricerca, cercando di indagarne i diversi parametri e accezioni. I tipi di traduzione individuati da Roman Jakobson, alle quali ho accennato sopra, sono quelle a cui faccio riferimento nella mia ricerca. In particolare Jakobson ne ha individuate tre:1) la traduzione endolinguistica o riformulazione che consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua; 2) la traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta [che] consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di un’altra lingua; 3) la traduzione intersemiotica o trasmutazione che consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici. Amplierei la definizione di traduzione intersemiotica dicendo che essa consiste nell’interpretazione di segni per mezzo di sistemi di segni differenti. Infatti la trasmutazione non comprende solo la traduzione da testi linguistici, ma quest’ultimo potrebbe essere il testo di arrivo, o addirittura, i due testi in causa potrebbero non essere linguistici entrambi, come nel caso del creare una musica partendo da un quadro. Inoltre aggiunge Umberto Eco, «nel processo di interpretazione si passa non solo da un sistema semiotico all’altro, come avviene nella traduzione interlinguistica, con tutti i mutamenti di sostanza che essa comporta, ma da un continuum o materia, all’altro» . Umberto Eco preferisce essere cauto con la terminologia ed evitare il termine traduzione, preferendo espressioni come trasmutazione o adattamento. È probabilmente l’enorme differenza tra il testo di partenza e quello di arrivo a creare delle perplessità. Nella mia ricerca ho considerato la trasmutazione una traduzione a tutti gli effetti, analizzandone i meccanismi in relazione a quelli della traduzione propriamente detta. In particolare mi sono soffermata sui concetti di fedeltà e negoziazione, che sono alla base della traduzione. In primo luogo ci si scontra con la questione della fedeltà: una traduzione cerca di essere il più fedele possibile al testo di partenza; poi interviene la negoziazione: il meccanismo chiave della traduzione intersemiotica.«Il vero limite della traduzione starebbe nella diversità delle materie dell’espressione», così ci mette in guardia Paolo Fabbri. Infatti anche nella traduzione interlinguistica, nonostante la materia sia la stessa, ci si ritrova ad affrontare tematiche legate all’equivalenza. Ci sono scuole di pensiero che sostengono una traduzione attenta al testo di partenza o source oriented ed altre che sostengono una traduzione attenta al testo di arrivo o target oriented. Affrontando una traduzione intersemiotica, bisognerà effettuare necessariamente una traduzione target oriented, dove l’attenzione non sarà da rivolgere solo al testo e alla cultura di arrivo, ma soprattutto alla materia del linguaggio di arrivo. L’equivalenza tra i due testi difficilmente sarà assoluta, ci sono casi in cui i due testi si equivalgono ed esiste reversibilità, come nella traduzione di frasi molto semplici tipo Mary loves Tony, o come succede con le icone e i simboli, ma sarà praticamente impossibile riscrivere lo stesso romanzo da cui è tratto un film partendo dal film. L’ostacolo consiste, appunto, nel mutamento di materia. Come abbiamo visto dalla precedente citazione di Nicola Dusi, nella traduzione ricerchiamo l’equivalente naturale più vicino al messaggio nel linguaggio di partenza. Raggiungere un’equivalenza assoluta risulta quindi impossibile, soprattutto nella traduzione intersemiotica. Per meglio comprendere come gestire le equivalenze tra due testi, vorrei introdurre i concetti di adeguatezza e accettabilità teorizzati da Christiane Nord, che meglio si adattano alla traduzione intersemiotica, e al passaggio da una materia all’altra. L’adeguatezza si riferisce al testo di partenza ed è un «concetto dinamico, legato al processo dell’intera azione traduttiva, e si riferisce alle istruzioni e ai compiti fissati preliminarmente dalla traduzione, grazie ai quali si opera una selezione delle caratteristiche del testo di partenza considerate appropriate allo scopo comunicativo» . Questa operazione consente di individuare i livelli di trasposizione pertinenti da prendere in considerazione per tradurre ad esempio un romanzo in un film. Adeguatezza significa quindi che la traduzione si debba dimostrare adeguata alle esigenze del testo fonte. Invece l’accettabilità si riferisce al testo e alla cultura di arrivo, la traduzione dovrà quindi essere accettabile per chi recepirà il testo. Nella traduzione intersemiotica, l’accettabilità ha a che fare, più che con la cultura di arrivo, con il confronto con una materia completamente diversa. I livelli selezionati del testo di partenza secondo princìpi di adeguatezza, devono quindi scontrarsi con la materia del sistema semiotico di arrivo e prendere una nuova forma accettabile per il nuovo linguaggio. Il risultato sarà sempre diverso da quello del testo source, e «il traduttore produrrà sempre un altro tipo di informazione, in un’altra forma». Come ho già accennato precedentemente la stratificazione del testo e a un’analisi atta a individuare diversi livelli in un testo da tradurre. L’individuazione dei livelli non è ben definita e sempre uguale, ma si può comunque cercare di delinearne un quadro. Una prima divisione potrebbe essere quella tra forma e contenuto, dove per forma intendiamo la forma dell’espressione, e per contenuto intendiamo ciò che viene raccontato. Il livello più evidente all’interno del contenuto è la trama, che a sua volta può essere considerata come intreccio o venire semplificata in fabula. Ma oltre alla trama un testo spesso racconta altro, ci sono dei valori che possono emergere, come valori ideologici, fenomeni storici o problemi filosofici, questi dovranno essere individuati di volta in volta dal traduttore. Un testo contiene inoltre diversi tipi di informazioni, i quali, potrebbero essere trattati diversamente in una trasposizione in base alle affinità con la materia del sistema semiotico di arrivo. Ci sono ad esempio elementi descrittivi, azioni, dialoghi, elementi sonori ed elementi psicologici (come pensieri e considerazioni). Se dovessimo tradurre un racconto in fotografie, dovremmo quasi sicuramente scartare i dialoghi e gli elementi sonori, anche se è sempre possibile trovare un modo per creare un’equivalenza. Anche a livello di forma si potranno individuare per ogni testo diversi livelli, per esempio la metrica della poesia può essere considerata come un ripetersi di equivalenze, in quest’ottica si potrebbe ideare un sistema, nel linguaggio del testo di arrivo, per riproporre questa ripetizione. Anche lo stile può essere un livello da tenere presente per la traduzione, ad esempio i romanzi di Jane Austin vengono trasposti in film che riprendono nello stile una narrazione più classica, mentre un film come Trainspotting tratto dal romanzo di Irvine Welsh utilizza uno stile più crudo e moderno. Nella traduzione intersemiotica si tratta quindi di identificare quali livelli considerare pertinenti per la trasposizione. È quindi l’atto interpretativo ciò che sta alla base della traduzione, e che focalizzandosi sulle differenze più che sulle equivalenze fa apparire la traduzione una manipolazione. Essendo la traduzione un atto di comunicazione interculturale, è normale che porti con sé le tracce di questo lavoro interpretativo. Ma manipolazione si riferisce anche, secondo Eco, agli stravolgimenti che avvengono nel passaggio da un sistema semiotico all’altro, dove a volte quello che ritroviamo nella trasposizione non è l’intenzione del testo originale. Il testo di arrivo costituito di nuova materia viene manipolato attraverso un lavoro di interpretazione, che deve poi incontrarsi con la negoziazione e la creazione di un sistema di equivalenze relative. Tutto questo porta a risultati nuovi e anche inaspettati, che pongono degli interrogativi sulla fedeltà al testo fonte . E quello che ha fatto Mario Giacomelli artista sensibilissimo e tormentato, Giacomelli considera la fotografia un suo personale modo di narrare la vita la natura, per cui fotografa con il suo sofferto bianco e nero i paesaggi marchigiani che raccoglie in Storie di terra e Presa di coscienza sulla natura (1954-2000). Per arrivare all’ultimo drammatico racconto Questo ricordo lo vorrei raccontare (1999-2000), quando l’autore riesce a tradurre in intensa e drammatica rappresentazione la sua stessa malattia; in queste immagini si legge una struggente volontà di lasciare un traccia del proprio passaggio sulla terra in un’ennesima sfida con la morte con la quale si era confrontato a lungo nel corso della sua esistenza e in tanta parte della sua produzione artistica. Questo straordinario maestro dell’immagine ha mostrato, anche in questa occasione e fino all’ultimo soffio di vita, una fede assoluta nel suo lavoro, continuando con determinato puntiglio a rappresentare il suo mondo poetico con questo tenerissimo racconto autobiografico, dove il “raccontare” nasce dalla consapevolezza che il futuro è diventato uno stretto sentiero da percorrere con il desiderio di sopravvivere a se stesso, che bisogna condensare l’ultimo brandello di vita in una sequenza di immagini animate da ombre e simboli, da maschere grottesche e animali fantastici: siamo di fronte allo struggente addio al mondo da parte di un Maestro che affida al suo ormai fragile respiro la volontà di “architettare un racconto come intuizione futura nel silenzioso fiume. Giacomelli si è affermato come un originale narratore che ha saputo trarre ispirazione da alcuni testi poetici che sono stati capaci di suscitare in lui particolari sensazioni e stimoli creativi: “Soltanto un nobile poeta dal puro sentimento ha detto Giuliana Scimè riesce a coniugare in armonia le parole, il loro significato con la trasposizione in fotografie evocative di pensieri e non di eventi. Mario Giacomelli è uno dei pochissimi che tenti questo ardito miracolo il suo racconto visivo è un’opera autonoma che è stata stimolata da un’altra opera, interpretazione personale che svela, a noi sordi e ciechi, il mistero dei dialoghi con l’immaginario”. Il fotografo marchigiano è un autore difficilmente classificabile secondo scuole e generi fotografici, in quanto più che alla perfezione tecnica egli punta al risultato narrativo, che riflette una “voglia” di raccontare fortemente legata e motivata al proprio mondo interiore in un continuo e singolare raffronto con la poesia. Infatti Giacomelli riesce ad entrare nello spirito più profondo di testo poetico non per diventare un “illustratore di versi”, ma per essere un autore che si esprime attraverso le immagini, seguendo il filo di emozioni, sensazioni, sentimenti, ricordi e riflessioni, che una poesia ha fatto nascere in lui: “Guardando le cose che ho fatto egli dice mi accorgo che i miei lavori non hanno valore come bella immagine ma, se hanno qualcosa, è quella che io ho cercato di dare. In queste foto rimane la traccia dell’intervento, nelle poesie e nei racconti, che mi porta fuori dal quotidiano, dal contatto traumatico coll’esistenza. cioè mi servo di qualcosa di reale che però e, in un certo senso, fuori dal quotidiano. Mi piace passare dentro quello che accade, dentro il racconto dentro la realtà, con tutte le emozioni che può provare un uomo, cercando prima dentro se stesso”. Giacomelli ha lavorato per tutta la vita su alcuni testi poetici con una straordinaria coerenza come se stesse riscrivendo in continuazione lo stesso racconto fotografico, nel quale confluisce, pur con modulazioni e contenuti diversi, una materia in costante ebollizione che comporta anche una evoluzione umana e artistica. Nel corso del suo lungo percorso di ricerca egli ha aggiunto e ha tolto immagini in continuazione; ha mescolato fotografie fatte in epoche e in occasioni diverse; ha accostato o sovrapposto fotogrammi in cui la realtà è chiaramente leggibile con altri segnati da una forte astrazione. In tutte queste operazioni (e qui sta la sua coerenza stilistica) si avverte il suo personalissimo intervento nella particolarità e nel “taglio” dell’inquadratura, nella manipolazione del negativo o della stampa, perché chiuso nel suo laboratorio egli è solo preoccupato di tradurre in una immagine fotografica quella immagine mentale che i versi di un poeta avevano fatto nascere a livello interiore, tanto che egli può affermare: “Le mie non vogliono essere solo fotografie…io non faccio il fotografo, non so farlo…Sono uno che cerca dei godimenti – ma non solo per se stesso – perché in ogni caso rendo consapevoli anche gli altri…ho bisogno degli altri, perché voglio che l’immagine non finisca con me, ma continui a vivere con gli altri”. Secondo Giacomelli i suoi racconti “vivono delle forze inconsce. Gli oggetti sono segnati dal passato e da una nuova realtà portata in luce come esperimento di libertà sentita, come creatività che lievita, nel suo silenzio. Analizzo i pensieri per tramutarli nella forma a misura d’uomo, dove l’uomo non è determinato dal mondo circostante, ma è il centro, il creatore di ogni libertà. Non il suo mondo esterno, ma la creatività, la libertà, il guardare sotto la pelle delle cose ribaltando le emozioni in immagini sulla superficie della pellicola. E’ ciò che mi interessa. La realizzazione figurativa è una cosa mentale, è lo spirito che crede nella genialità della forma; che silenziosamente fonde presente e passato, realtà e ricordo, in un unico blocco mentale che è il linguaggio. Nasce così la reinvenzione come elemento di costruzione, come spostamento fantastico di una realtà vissuta, dove l’intensità del pensiero di nuovo crea e trattiene quel silenzio che produce il tracciato del “Racconto”. Il “Racconto” segue le vie che l’interiorità ha disposto in un continuo di segni, di simboli e significati che slittano progressivamente nell’indicibile; all’incrocio del tempo che si impregna con quello dello spazio. Il passato diventa presente, produce ulteriori ricordi tradotti in domande senza risposte, come oggetto di discussione per i periodi silenziosi della mia anima. Mi accorgo di contraddirmi in continuazione, ma questo sono io, queste sono le mie immagini, perché tutto è solo impronta di quell’attimo fuggitivo e di quelle sensazioni interiori che io non so spiegare. In fondo io sono un “realista”, a me interessa la realtà, il rapporto tra l’essere umano e l’essere umano, il mistero, del tempo, dell’anima, il ricordo delle cose che mi hanno sconvolto”. Sulla base di queste convinzioni una eccezionale serie di racconti poetici ha inizio con A Silvia di Giacomo Leopardi, a cui Giacomelli lavora dal 1964 al 1987, componendo e scomponendo le varie sequenze fotografiche, con eliminazioni e sostituzioni che gli consentono d’impadronirsi della poesia leopardiana con un’adesione interiore che deriva dalla comune rivisitazione delle memorie, dalla meditazione sul presente e sul destino ultimo dell’uomo, dal rapporto amore -morte – giovinezza -speranza – sofferenza – aspirazione alla felicità – crollo delle illusioni di fronte al duro impatto con la realtà. Fra tutte le figure femminili di matrice leopardiana Giacomelli sceglie Silvia, che incarna il tramonto delle speranze, delle gioie delle attese giovanili, l’inganno delle illusioni, che rappresenta la vittima sacrificale della “Natura matrigna”. Il racconto si apre con una meravigliosa immagine della luna, l’astro più amato dal poeta recanatese che riveste di luce astrale il paesaggio marchigiano. Così anche per Giacomelli questa “diletta luna” diventa la protagonista che apre la strada al “rimembrar della passate cose”, che ci introduce all’interno del “paterno ostello” e più precisamente in quella austera biblioteca dove si consuma il “tempo giovanile” del poeta impegnato negli “studi leggiadri” e sopra le “sudate carte” sui cui egli “spendea la miglior parte” della sua giovinezza. Ecco allora emergere dalle ombre del passato un volto femminile che appare come deformato dallo specchio della memoria, ma questi contorni indefiniti assumono via via i lineamenti di una giovane donna che ci fissa con i suoi limpidi occhi: il fantasma di Silvia si materializza, diventa realtà, entra in una dimensione temporale del presente, dove passato e futuro sono come sospesi per lasciare il posto a questa fanciulla che guarda la vita “lieta e pensosa”. In quello sguardo c’è tuttavia l’oscuro presentimento di un tragico destino che incombe, un senso di solitudine e predestinazione: scompaiono le immagini del gioco, dell’amore e della spensieratezza giovanile e Silvia, “da chiuso morbo combattuta e vita”, si prepara a dire addio al mondo. Si sta consumando un dramma, a cui fa eco la chiusa finestra del poeta che sembra imprigionare il cielo in un ultimo anelito di speranza. Ma la Natura è pronta ad imporre la sua inesorabile legge, mentre le finestre della casa di Silvia sembrano trasudare come ferite sulla nuda parete dell’arido “vero”. La stessa morte fa la sua silenziosa apparizione in una tragica reinterpretazione del carnevale così accade in diversi racconti giacomelliani; quindi un cancello, soffocato dagli arbusti, annuncia il luogo dove si consuma “la sorte delle umane genti” e dinanzi ad esso sostano le ombre di un’umanità congelata di fronte a un invalicabile mistero, mentre nel cielo nere nubi sembrano voler imprigionare il sole e togliere un ultimo residuo di speranza, ma questa ultima immagine può anche essere letta nel segno della “l’ambiguità” giacomelliana: quel prorompere violento dei raggi solari al di là del velario di nubi significa la fine di tutto o l’inizio di una nuova vita? Il primo è Eugenio Montale, del quale sceglie un testo particolarmente complesso come Felicità raggiunta, si cammina con il dichiarato proposito di compiere un personale viaggio dalla luce al dolore, dalla realtà della morte alla speranza. Come protagonista di questa avventura dello spirito egli sceglie un bambino che sia in grado di ricondurlo alle radici stesse della sua memoria personale e della sua storia. Vediamo pertanto questo Fanciullo-Ulisse attraversare l’esistenza umana alla ricerca dei significati primi della condizione umana, senza tuttavia tralasciare di addentrarsi negli universi paralleli della natura e del mondo animale. E’ lecito chiedersi come sia possibile esprimere tutto questo usando il solo mezzo della fotografia ed è sufficiente rispondere che Giacomelli è uno straordinario poeta dell’immagine che s’interroga con la complessità del filosofo, ma che sa esprimersi con la stupefatta fantasia di un bambino, capace di porsi di fronte allo spettacolo della vita per riportare in superficie con “spudorata” innocenza quel fanciullo che giace addormentato in ciascuno di noi. Nello stesso tempo Giacomelli è un “narratore” che non sconfina mai nel banale, poiché è capace di concepire e costruire un racconto estremamente complesso, riuscendo attraverso l’uso di segni e simboli figurativi o astratti ad esprimere “l’indicibile” della poesia montaliana che nelle sue mani diventa una poesia dello sguardo, un viaggio dello spirito che non si limita ad esplorare la poesia prescelta, ma l’intero universo poetico di Ossi di seppia, superando i limiti del reale per addentrarsi su di un sentiero che conduce all’interno di un mondo fatto di brandelli di memoria e di ombre frantumate di una realtà che trova una sua precisa collocazione soprattutto nella mente e nell’animo dell’autore, che alla fine riesce a spalancare una porta sulla sua “ambiguità”: in mezzo alle nebbie del dolore appare all’improvviso una bambina che, sospesa sulla sua altalena, si libra e vola nel cielo, pronta a darci il suo incredibile-fantastico-eroico messaggio di speranza, invitandoci a guardare con coraggio oltre i limiti della realtà per arrivare fino alle nostre anime attraverso la finestra degli occhi. Il secondo poeta è Vincenzo Cardarelli, un autore che nel pieno fiorire della stagione ermetica sente in modo più profondo e partecipato di altri la lezione leopardiana così cara anche a Giacomelli, il quale non sceglie per caso una composizione come Passato, dove vicende e sentimenti personali si fondono con tematiche più universali: lo scorrere delle stagioni, il fiorire della bellezza femminile nel tempo adolescenziale, il rapido trascorrere della vita che passa lasciando soltanto labili tracce nei nostri ricordi, che sono “ombre troppo lunghe/del nostro breve corpo”. Per confrontarsi con questo testo, Giacomelli avverte la necessità di mantenere il consueto rigore espressivo coniugato ad una raffinata eleganza, per arrivare ad esprimere persone e amori, oggetti e paesaggi sublimati attraverso il filtro della memoria. Nel testo di Cardarelli egli coglie tre fondamentali blocchi tematici: le “ombre lunghe” dei ricordi che si agitano come fantasmi dentro i labirinti della memoria; l’immagine di una giovane donna un tempo protagonista di una storia d’amore, che non si rassegna a scomparire; il tempo che scorre inesorabile e che brucia con rapidità estrema tutte le esperienze, senza arrestarsi nemmeno di fronte all’amore. Su di essi Giacomelli costruisce una storia tutta giocata su un appassionato autobiografismo con invenzioni figurative di grande respiro. Il ricordo sfuma nella dimensione mitica del sogno e il volto misterioso di una donna amata attraversa come un lampo l’intera vicenda in un continuo gioco di forti contrasti bicromatici e delicate sfumature che finisce per diventare un linguaggio fotografico del tutto nuovo: l’impiego della dissolvenza incrociata di derivazione cinematografica, l’uso disinvolto del fotomontaggio, lo studio delle trasparenze, la programmazione delle sovrapposizioni sono strumenti linguistici che l’autore adatta e piega al suo modo di raccontare che scaturisce da una continua associazione di icone. La figura della donna è continuamente imprigionata all’interno di uno specchio deformante, appeso ai ricordi che il dondolio di una vuota altalena sospesa nello spazio segna come un silenzioso metronomo che scandisce i battiti di un’età perduta. Le tracce di un amore perduto riaffiorano tra l’anonimato della folla, scorrono lungo la riva di un mare in tempesta e sotto un cielo segnato dal volo dei gabbiani, mentre i ricordi si materializzano come una ferita incisa sul bianco muro che richiama i simboli cari e ricorrenti della casa (il porto delle memorie) e dell’albero (l’ancoraggio alla terra). Fra i muri corrosi di un deserto urbano ogni ricordo è destinato a bruciarsi lungo segnali un tempo familiari, ma che sono diventati segni indecifrabili di ormai impossibili ricordi. Giacomelli si rifugia allora nel palinsesto delle memorie domestiche, dove trovano posto i suoi familiari, i volti degli artisti più amati e della protagonista di questa storia “bruciata” dal tempo, rivendicando per sé il ruolo del protagonista collocato al centro di questo personale universo iconico. Mentre quel volto amato ritorna a perdersi nelle nebbie di un passato che, nato in riva al mare, dinanzi al mare si conclude: sopra un molo circondato da marosi in tempesta, un uomo cammina solo in compagnia dei propri ricordi, mentre un volo di gabbiani rimane padrone di un cielo vuoto di sogni. Giacomelli per tutta la sua vita, persino quando rappresenta il paesaggio, ha sempre affrontato i grandi temi del dolore umano che diventa esemplare in tre grandi poemi fotografici. Il primo è Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (completato più tardi con l’altra serie Non fatemi domande), attraverso il quale l’autore, partendo dai celebri versi di Pavese, porta il dramma del “pianeta vecchiaia” fuori dalla cerchia claustrofobica delle mura di un ospizio per farne un tema universale, affrontando la decadenza dei corpi soprattutto femminili che hanno ormai perso il fascino di un tempo per diventare il simbolo di un doloroso smarrimento, di un’angoscia di vivere legata alla consapevolezza della morte. Egli evoca sentimenti di pietà e di comprensione, di commozione e di una religiosità laica di fronte ad una umanità continuamente sospesa tra disperazione e speranza. Questo tema si collega direttamente al viaggio compiuto a Lourdes che dà origine a un altro grande poema del dolore: le file dei malati su barelle e carrozzine formano una lunga catena di sofferenza per diventare poi sul piazzale della grotta un folla dolente in attesa di un segno che dia voce alla propria speranza, una folla dove le mutilazioni, le deformazioni, l’angoscia disegnata sui volti sono grida congelate di dolore. La stessa immensa fiaccolata, che si snoda nella notte come una silenziosa preghiera, suggella questo viaggio verso la luce, verso un alba di speranze che sarebbe impossibile decifrare con gli strumenti della ragione, ma solo con la risorsa della pietà e della fede. La terza opera è Il pittore Bastari (1993) che rappresenta forse il vertice narrativo di Giacomelli che costruisce una storia intorno a un personaggio traslato dalla realtà, ma che si trasforma in una figura sospesa tra sogno e dimensione reale della vita, che si muove in un mondo popolato da ombre e fantasmi, da simboli e da creature fantastiche in un percorso narrativo che diventa un viaggio attraverso il travaglio dell’arte, la sofferenza e la solitudine dell’artista, il rifugio nell’immaginario. Il racconto risulta così vasto e impegnativo da assumere le dimensioni di un vero e proprio romanzo fotografico strutturabile in quattro sequenze narrative, nelle quali il protagonista, simile al mitico Leopold Bloom dell’Ulysses di Joyce, compie un viaggio esistenziale nell’universo urbano di un’allucinata Senigallia. Nella Seduzione della tela il pittore Bastari cerca senza successo di fissare sulla tela i simboli allucinati della sua fantasia per poi fuggire in una città che lo respinge con la solitudine delle sue vie e le ferite dei suoi muri screpolati. In Oltre l’inganno il protagonista si muove all’interno di uno scenario ossessionato da maschere impietose, per cui è costretto a cercare rifugio nelle pieghe della memoria, nei sogni, nelle illusioni infantili per finire in una specie di bosco–incubo popolato da immagini di morte. Nell’Illusione del mare Bastari trascina sulla spiaggia il suo povero fardello di speranze, nell’illusione di trarre ispirazione da quel mare che rimane un mitico simbolo di vita, ma l’illusione è breve e il pittore ritorna a vagare con i suoi fantastici compagni fra le ombre di una realtà sempre più evanescente. Nel Viaggio nel sogno il protagonista compie l’ultima parte del suo percorso, addentrandosi fra le rovine del passato e di una perduta innocenza, in un non-mondo dove anche l’arte diventa un inutile orpello. Bisogna pertanto cancellare l’impalpabile confine tra sogno e realtà e ritornare al centro di un paesaggio segnato da una bianca casa in cima alla collina, luogo deputato dei sentimenti più sacri, oasi di speranza dopo la traversata del deserto urbano, da cui Giacomelli–Bastari è pronto a ripartire per una nuova avventura dello spirito, consapevole di essere “un viaggiatore di sensazioni in terre sconosciute”. Giacomelli in una intervista rilasciata trent’anni dopo, ha modo di affrontare i concetti di “poesia” e “fotografia” in un modo che risulta illuminante non solo per capire la sua personalità di artista, ma anche lo spirito che anima questo capolavoro dei pretini: “Il mio mestiere è il tipografo e vivo con il mio lavoro. La fotografia è un’altra cosa: quando io fotografo è come se entrassi in un bel giardino dove sento il profumo dei fiori, dove vedo i fiori anche se non esistono. E’ semplice: io ho bisogno di lavorare per mangiare e ho bisogno della fotografia per vivere il sogno…Io sono proprio il fotografo della domenica, perché il resto della settimana è occupato dal lavoro. La domenica…vado con la macchina alla ricerca di emozioni. Provo fastidio a sentirmi definire poeta, perché esistono i poeti veri…Allo stesso modo mi arrabbio quando mi chiamano fotografo, perché non sono nemmeno questo. Io non so caricare la macchina di un altro e adopero la mia perché è la più stupida che esista. E’ un po’ come me, la più semplice delle cose: lei un oggetto chiamato “macchina”, io sono un oggetto chiamato “uomo”…La verità è che tu vivi dove vivono gli altri, vedi quello che vivono gli altri, però tu selezioni quello che gli altri non selezionano, cioè i tuoi occhi riescono a vedere un fiore che si è piegato…Cosa mi ha dato la fotografia? Ci vorrebbe una parola magica perché mi ha dato qualcosa di magico, ma non vorrei usare questa parola perché ritengo che ognuno di noi abbia quello che si merita. Io ho avuto questo qualcosa di magico non solo perché me lo merito, ma anche per una mia scelta di vita. Si corre dietro a un’infinità di cose e io ho scelto questo aggeggio così stupido, così insignificante perché mi permette di scrivere e di parlare di poesia senza avere gli strumenti letterari per farlo. Ho capito che per la mia ignoranza la macchina fotografica era l’oggetto giusto per esprimermi. Non so con precisione che cosa mi ha dato la fotografia, posso dire soltanto che essa ha aperto un cancello, perché questa è in fondo la mia idea di fotografia: apro un cancello e vedo un giardino pieno di ogni cosa che desidero, che mi sfugge di continuo, ma che di continuo io posso afferrare. Quindi per me la fotografia è la cosa più astratta e nello stesso tempo più concreta. Con la macchina fotografica ho attraversato un cancello e ho trovato un prato dove non si finisce mai di respirare l’aria, la libertà, questo verde, questi fiori, questo silenzio, tutto quello che ti può dare un prato. L’unica cosa certa per me è questa immensità della fotografia: il fotografo ha bisogno di un vuoto, di uno spazio avanti a sé e in questo spazio lui vuole che danzino immagini che sono soltanto segni, scritture indecifrabili per gli altri”. Il percorso espositivo, articolato in otto sale tematiche, rivela il cuore pulsante della poetica giacomelliana: l’intreccio tra memoria e paesaggio, tra letteratura e immagine. Tra le opere esposte spiccano i cicli più celebri, come Io non ho mani che mi accarezzino il volto, ispirato ai testi di Padre David Maria Turoldo, e Spoon River Anthology, tratto dai versi di Edgar Lee Masters. Questi lavori testimoniano il legame inscindibile tra fotografia e poesia nell’arte di Giacomelli, dove la luce diventa strumento di introspezione e le immagini sono la sintassi di un discorso sul rapporto tra l’uomo e il mondo. La camera oscura torna ancora, a fine percorso, nelle riproduzioni fotografiche commissionate da Guido Harari in occasione del progetto editoriale Nella camera oscura di Mario Giacomelli. L’antro dello sciamano (Rizzoli Lizard, 2024), realizzato in collaborazione con l’Archivio Mario Giacomelli di Rita e Simone Giacomelli. La mostra non è altro che un invito al viaggio per scoprire l’immaginario giacomelliano, mostrando come le sue opere siano ancora oggi una fonte inesauribile di ispirazione e un invito a guardare oltre la superficie del reale.
Biografia Mario Giacomelli
Nasce a Senigallia (Ancona) nel 1925, è il maggiore di tre fratelli e all’età di 9 anni perde il padre. In questo periodo comincia a dipingere e a scrivere poesie. La madre trova lavoro come lavandaia presso il locale ospizio. Qualche anno più tardi (1955) Mario ritornerà in quel luogo, dove realizzerà le immagini della serie “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, titolo ripreso da Cesare Pavese. Avrà modo di dire in seguito che tra tutte le immagini, quelle dell’ospizio di Senigallia gli hanno procurato le più grandi emozioni. La prematura perdita del padre, costringe Mario ad iniziare presto a lavorare come garzone in una tipografia di cui diventerà in futuro proprietario. Il tempo della scuola viene sovente impegnato in tipografia, la magia della stampa lo cattura e a 13 anni decide di fare il tipografo. La “Tipografia Marchigiana” affacciata sulla piazza che, nel centro di Senigallia, celebra con un monumento Papa Mastai Ferretti (Pio IX), ha chiuso le sue serrande nel Dicembre del 1999. Il 1953 segna la svolta nella vita di Giacomelli, acquista infatti per 800 lire una macchina fotografica e il giorno di natale si reca sulla spiaggia per scattare la sua prima fotografia. E’ solo di fronte al mare che lambisce la spiaggia con le sue onde, scatta e movendo la macchina al momento dello scatto ottiene la sua prima fotografia “L’approdo”, immagine della battigia carezzata da un’onda come un colpo di pennello. Vicino alla tipografia abita una persona che tanto peso ha avuto nell’inserimento delle Marche sul dibattito che, a livello nazionale, si stava sviluppando sulla fotografia, quest’uomo è Giuseppe Cavalli. Avvocato, uomo di lettere, profondo conoscitore di Croce (cita spesso a memoria passi del “Breviario” al giovane Giacomelli, chiedendogli poi opinioni a cui il “nostro” risponde invariabilmente “non ho capito” o “non sono d’accordo”) ma anche esperto di tecnica e storia della fotografia, fondatore nel 1947 con Leiss, Finazzi, Vender e Veronesi de “La Bussola”, storico circolo le cui idee crociane furono espresse nel Manifesto pubblicato da “Ferrania” nel maggio 1947. Dopo alcuni anni tuttavia il successo iniziale riscosso da “La Bussola” comincia a venir offuscato dal progressivo affermarsi di un altro gruppo storico “La Gondola” guidato da Paolo Monti, alle cui immagini molti giovani si avvicinano, colpiti dal loro grande vigore espressivo. E’ forse questo uno dei motivi per cui, nel 1953, Giuseppe Cavalli fonda proprio a Senigallia il gruppo “Misa”, di cui Giacomelli e Piergiorgio Branzi rappresentano le “giovani speranze”. Nel “Misa” non c’è la presenza egemone delle idee di Cavalli come ne “La Bussola”, è un gruppo aperto dove ognuno è libero di condurre le ricerche che vuole, sono così inevitabili gli scontri, soprattutto tra Giacomelli e Cavalli stesso. “Cavalli purtroppo vedeva solo da una parte e allora litigavamo sempre” avrà modo di dire Giacomelli. Del gruppo “Misa” Mario Giacomelli è cassiere per alcuni anni. Nel corso delle discussioni all’interno del “Misa”, Giacomelli conosce le opere di Paolo Monti, apprezzandole al punto di arrivare a dichiarare “Cavalli diceva che era il nemico pubblico n° 1, ma a me Monti mi faceva morire!”. E sarà proprio Paolo Monti (in giuria con Roiter e Comisso, tra gli altri) a dargli la soddisfazione del premio al miglior complesso di opere al Concorso di Castelfranco Veneto nel 1955. “Apparizione è la parola più propria alla nostra gioia ed emozione, perché la presenza di queste immagini ci convinse che un nuovo e grande fotografo era nato” dichiarerà in seguito lo stesso Monti. Nel 1956 Cavalli, forse nel tentativo di svecchiarla, lo chiama a far parte insieme a Branzi de “La Bussola”, da cui uscirà ben presto per insanabili divergenze. Del 1957-59 è la serie di immagini riprese a Scanno, Giacomelli rimane affascinato dall’atmosfera fiabesca del luogo, che aveva già colpito altri grandi fotografi, tra cui Henri Cartier Bresson. Sempre del 1957 è la serie “Lourdes” seguita, nel 1958, da “Zingari”, “Puglia” e, nel 1959, (ripresa nel 1995) “Loreto”. Del 1961 sono le immagini di “Mattatoio” e nello stesso anno inizia a lavorare alla serie “Io non ho mani che mi accarezzino il viso”, titolo ripreso da uno scritto di padre Turoldo. Le immagini sono riprese nel Seminario Vescovile di Senigallia, che Giacomelli frequenta per un anno prima di dar forma alle foto vere e proprie. In questo ambiente i giovani seminaristi sono ripresi in momenti di ricreazione, le foto restituiscono l’incanto di uno spazio umano, ma al tempo stesso sospeso in una sorta di astrazione temporale. Nel 1963 inizia la grande stagione di mostre che porteranno le sue immagini nei più grandi spazi espositivi del mondo, dalla Photokina di Colonia nel 1963 al MOMA di New York (1964), dal Metropolitan di new York (1967) alla Bibliothèque Nationale di Parigi (1972), dal Victoria & Albert Museum di Londra (1975) al Visual Studies Workshop di Rochester (1979 e poi Venezia, Providence, Parma, ancora New York, di nuovo Colonia, Mosca, Arles, Amsterdam, Tolosa, Bologna, Londra, Rivoli fino alle recenti antologiche di Empoli, Losanna e Roma (purtroppo postuma). Risale agli anni 1964-66 “La buona terra”, seguita da “Caroline Branson” del 1971-73, lavoro ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, poi “presa di coscienza sulla natura (1980-94), la grande serie dei paesaggi. Su testi del poeta Permunian si fonda “Il Teatro della neve” (1985-87) seguita da “Ninna Nanna” e “A Silvia” (1987-88), lavoro pensato in origine per un programma televisivo. Nel 1986 muore la madre, a cui aveva dedicato nel 1955 un intenso ritratto. Tra i lavori più recenti ricordiamo: “Il mare dei miei ricordi” (1991-94), “Io sono nessuno” (1994-95) su testi di Emily Dickinson fino ad arrivare a “Questo ricordo lo vorrei raccontare” (1998-2000) e “Bando” (1998-99) ciclo di immagini in serie di 4, ispirate ad una poesia di Sergio Corazzini e presentato nel 1999 alla XXIV Biennale d’Arte contemporanea di Alatri. Il 25 novembre 2000, all’età di 75 anni, Mario Giacomelli si è spento nella sua casa di Senigallia.
Palazzo del Duca Senigallia
La Camera Oscura di Giacomelli
dal 13 Dicembre 2024 al 6 Aprile 2025
dal Giovedì alla Domenica dalle ore 15.00 alle ore 20.00
dal Lunedì al Mercoledì Chiuso
Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1961, provino con appunti di stampa_Courtesy Archivi Mario Giacomelli (c) Eredi Giacomelli
Ritratti Mia madre, 1955. Courtesy Archivi Mario Giacomelli © Eredi Giacomelli
A Silvia, Spoon River, Paesaggio, variazione di stampa, rielaborazione anni 80 di una fotografia degli anni 60. Courtesy Archivi Mario Giacomelli © Eredi Giacomelli
Paesaggio, anni 60. Courtesy Archivi Mario Giacomelli © Eredi Giacomelli
Metamorfosi della terra, La luce in luglio, anni 70. Courtesy Archivi Mario Giacomelli © Eredi Giacomelli