Sono mille giorni che l’esercito della Russia sta massacrando il popolo dell’Ucraina, devastando e saccheggiando ogni luogo del paese. Mille giorni che l’autocrate Putin ha deciso di sfidare ogni norma del diritto internazionale, fregandosene allegramente anche del mandato di cattura spiccato dalla Corte internazionale di Giustizia per crimini di guerra. Mentre il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, al G7 con i colleghi in corso a Fiuggi si sta confrontando su come garantire l’appoggio all’Ucraina da parte del mondo libero, ritengo giusto dare questo mio spazio alla testimonianza di Olena Apcel, studiosa e soldata dell’esercito ucraino impegnata in guerra raccolta da Memorial Italia. Un testo lungo che abbiamo in parte sintetizzato. Ma una testimonianza che colpisce duro dentro ciascuno di noi. «L’imperialismo russo si combatte anche ribellandosi alla pigrizia intellettuale. Da una parte ci stiamo difendendo da un nemico dieci volte più forte, astuto e subdolo – dice- dall’altra siamo costantemente costretti a giustificarci qui in Europa. Dobbiamo, come alla scuola elementare, raccontare la storia del Novecento con una mappa in mano, una storia non deformata dalla propaganda moscovita». Olena Apcel è una regista e ricercatrice teatrale. È stata la direttrice artistica del Teatro Lesja Ukrajinka di Lviv e regista del Teatro Zoloti Vorota di Kyiv, coautrice dell’esposizione principale del Museo Memoriale dei Regimi Totalitari «Terytorija teroru». Nel 2020 è stata invitata al Teatr Nowy di Varsavia per dirigere il settore dei programmi sociali e, nell’autunno del 2022, si è trasferita a Berlino, dove ha lavorato come codirettrice del Theatertreffen, il più grande festival del panorama teatrale germanofono. Quest’anno Apcel è tornata in Ucraina e si è unita alle Forze di Difesa. Contemporaneamente continua a scrivere. Recentemente il periodico tedesco Theater Heute ha pubblicato un suo articolo sulla profonda eredità coloniale delle società europee, causa di una pigrizia intellettuale che favorisce i progetti neo imperiali. L’articolo è stato poi pubblicato in ucraino in una versione che Memorial Italia ha tradotto. Ecco una sintesi per i nostri lettori: «Per molti anni, confrontandomi con i colleghi della ‘bolla’ artistica in diversi paesi riguardo al processo di emancipazione degli ucraini dall’influenza imperiale della Russia, mi sono imbattuta non tanto in disaccordo o incomprensione, quanto piuttosto in una sorta di profonda malinconia, in un rammarico difficilmente esprimibile. Una sorta di pigrizia intellettuale… ricordo la mia paura di dieci anni fa, quando ho dovuto imparare rapidamente e da autodidatta, fare spazio dentro di me per tonnellate di nuove informazioni da elaborare. Quando, con una laurea magistrale e un dottorato in storia dell’arte, mi sono improvvisamente accorta della tossica russificazione e ho dovuto estirpare quasi tutte le conoscenze che avevo in precedenza, rimanendo praticamente nuda intellettualmente… ieri eri una storica dell’arte, una critica letteraria, una curatrice, una direttrice d’orchestra, una scrittrice, una storica, una studiosa di cultura di altissimo livello, oppure una giornalista o una sociologa affermata, e oggi ti rendi conto improvvisamente che tutto ciò che sai è, se va bene, unilaterale, altrimenti addirittura falso. Una bugia imperiale.»… «Recentemente ho avuto una conversazione con una conoscente che vive in Germania da molti anni. Conosce bene il tedesco, è un’intellettuale, traduttrice, storica dell’arte e scrittrice. Si può dire che sia una persona profondamente integrata (per quanto possibile, dato che la società tedesca non ama molto che si integrino davvero i rappresentanti di altre società, anche se non lo ammette neanche a sé stessa). Così abbiamo avuto una conversazione piuttosto franca, da cui è emersa una frase che per me non è stata una rivelazione: Gli intellettuali tedeschi non si fidano degli intellettuali ucraini. Questo sguardo si basa, ovviamente, sul passato imperialista, sullo sciovinismo nascosto (perso dai tedeschi ma non dai russi), sull’abitudinarietà, su una visione da tempo eurocentrica, sulla grande paura di un’altra guerra mondiale, sulla grande paura di nuove misure riparatorie, sulla paura della decostruzione e della perdita di un’apparente stabilità. E così si oppongono inconsciamente a concedere il diritto alla soggettività alle culture che sono state colonizzate in passato. Quasi tutti i progetti dichiarati come internazionali, con il coinvolgimento di esperti da tutto il mondo, lo sono spesso solo esteriormente. Il cambiamento di prospettiva o la proposta di nuove regole sono un privilegio che non si concede agli altri». Questa mancanza di un dialogo paritario, sottolinea Olena Apcel «deriva dalla profonda convinzione che le società e gli individui che hanno vissuto esperienze traumatiche (e noi indubbiamente ne abbiamo vissute) non siano in grado di analizzare e descrivere in modo calmo e ponderato la realtà, ma solo attraverso una prospettiva soggettiva e che, quindi, questa realtà rifletterà sempre il dolore e il punto di vista della vittima. Vorrei definire queste conclusioni superficiali, sbagliate e immature, scusarmi per averli accusati di velato sciovinismo e tornare a nascondermi nell’angolo di una cultura periferica non di rilevanza mondiale, per non disturbare con i miei traumi le culture adulte, evolute e rispettabili.»… c’è «la convinzione che un’immagine del mondo consolidata da tempo, ormai chiara a sé stessi e agli altri, sia l’unica possibile, che sia incrollabile.. questo dogma non necessita di lunghe discussioni»…. «Questa prospettiva fa sì che siamo percepiti come un popolo adolescente in rivolta. Questo però è falso e lo dimostrano l’antichità, la profondità e la complessità del pensiero filosofico ucraino e dei meccanismi di costruzione dello stato ucraino. L’Ucraina è stata costantemente zittita, sistematicamente distrutta tra carestie, campi di concentramento, fucilazioni, deportazioni, lavori forzati, stupri. I russi hanno utilizzato questi metodi contro tutti i popoli vicini che hanno oppresso, i cosiddetti ‘soggetti della federazione’. Il loro metodo consiste nel terrorizzare, sopprimere, facendo credere al mondo intero che lì ci sono solo persone piccole e insignificanti che producono una cultura insignificante e primitiva non meritevole di attenzione. Questo sciovinismo, che potremmo definire gerarchico, lo conosciamo da secoli: nelle nostre città e nei villaggi venivano eretti monumenti a Puškin mentre le autorità bruciavano gli spartiti dei compositori che rifiutavano di essere ‘funzionari sovietici’. Solo coloro che come Gogol’ accettavano l’identità russa e rinunciavano alla propria avevano la possibilità di non essere torturati e di diventare addirittura famosi.»… «Questa è una buona occasione per ricordare ancora una volta che la nostra lotta si basa su un’identità politica e ideologica, non etnica. Un concetto che, purtroppo, in Occidente si è piuttosto pigri nel comprendere e approfondire. L’Occidente teme… i russi ci stanno distruggendo proprio per la nostra identità politica nazionale: la nostra letteratura, i nostri musei, le gallerie, la nostra lingua, i simboli dello stato. Nei territori occupati uccidono i nostri poeti e i nostri insegnanti, indipendentemente dalla loro origine etnica… Dobbiamo, per l’ennesima volta, spiegare che il nostro nazionalismo politico è allo stesso tempo in parte ucraino, in parte dei tatari di Crimea, dei rom, dei greci, degli ebrei, dei caraiti, dei georgiani, dei polacchi, dei Krymcaky, degli armeni, dei gagauzi, dei bulgari, dei moldavi, dei lituani, del popolo dell’Ickeria, degli azeri, dei vietnamiti». E qui la soldata Olena Apcel parla per esperienza personale come soldata: «Prendiamo per esempio gli istruttori stranieri. Quando nel nostro esercito uno o una specialista tiene un corso di formazione, tutto si basa sull’autorità, sulla capacità di presentare il materiale e di mantenere l’attenzione del pubblico. Ma appena arriva un istruttore straniero o un’istruttrice straniera, tutti sembrano un po’ raddrizzarsi, ascoltare più attentamente, andare meno frequentemente al bagno o a fumare. Questo complesso di inferiorità significa che non importa cosa dica quella persona, l’attenzione resta alta solo perché parla una lingua straniera e viene tradotta… nei popoli che hanno oppresso funziona all’inverso: se una persona non parla bene la loro lingua o conosce poco della loro cultura viene ascoltata distrattamente o ignorata. È un meccanismo apparentemente semplice, ma che continua a essere riconosciuto con riluttanza sia dai primi che dai secondi.»… «Un esempio meraviglioso dalla scorsa estate: al Athens Epidaurus Festival uno dei dibattiti era dedicato alla lettura contemporanea dei testi antichi, alla loro interpretazione, alla loro comprensione. E coloro che parlarono di più furono gli ospiti dalla Gran Bretagna e dalla Germania (tradizionalmente, ai festival artistici internazionali, parlano di più gli ospiti britannici e tedeschi, se presenti). Noi eravamo un piccolo gruppo di giovani curatori da Georgia, Ucraina, Finlandia, Albania e cercavamo di segnalare, con brevi commenti, che sarebbe stato decisamente interessante ascoltare l’opinione degli artisti greci sul teatro greco contemporaneo che continua a lavorare anche con i testi antichi, perché eravamo venuti proprio per questo. Cercammo di suggerire ai colleghi britannici e tedeschi che forse anche a loro sarebbe interessata la prospettiva dei paesi periferici (dei quali eravamo rappresentanti), o ascoltare il dialogo degli artisti greci e delle artiste greche con i paesi periferici, qualcosa a cui probabilmente non avevano avuto modo di assistere spesso. E, come potete immaginare, ancora una volta non si trattava di appartenenza etnica, ma di identità intellettuale. Ero incredibilmente curiosa di sapere cosa ne pensasse una specialista finlandese, un esperto di teatro georgiano; è stato interessante scoprire attraverso conversazioni informali che i greci non sanno che Mariupol’ un tempo era una città completamente greca, che nell’Ucraina orientale ci sono insediamenti greci, scuole greche, che la mia famiglia della Bessarabia ha anche radici greche, e che abbiamo molto in comune, ma che ciò non ha avuto molte possibilità di emergere nell’arte a causa della repressione della nostra autonomia da parte degli imperi»… «Ricordo una sensazione simile quando nel lontano 2010 entrai all’Ermitage e vidi centinaia di quadri e opere di artisti ucraini. Chiesi alla guida perché fossero lì e non in Ucraina, e la risposta fu: ‘Ma che domanda è?’… Nelle aree occupate i russi hanno rubato tutto dai nostri musei. E quello che non sono riusciti a rubare lo hanno bruciato o distrutto. Lì, ad Atene, facevamo a turno domande alla nostra guida su dove si trovassero ora gli originali di questi o quegli artefatti. E ogni volta la guida abbassava gli occhi e, con un sorriso forzato, rispondeva: ‘Purtroppo non sappiamo ancora quando tornerà da noi, ma al momento si trova là, al British Museum o all’Antikensammlung Berlin, o nell’Archivio Storico dei Musei Vaticani’.»… «Sì, le cose più importanti sono le armi per difendere gli ucraini dai russi, ma è giunto anche il momento di lasciare spazio alle voci inascoltate. È vitale che i tedeschi e i liberali russi, che hanno invaso Berlino, capiscano che è necessario farsi da parte per dare spazio alle voci degli intellettuali kazaki, georgiani, tatari di Crimea, dell’Ickeria, moldavi, ucraini e lituani. Queste voci parleranno dalla propria prospettiva, una prospettiva nuova e inattesa per l’Europa, quella dei popoli oppressi, di chi combatte contro un impero che si definisce federazione. Ma ora il focus è sulla più grande guerra d’Europa, che sta devastando la terra ucraina e uccidendo i suoi cittadini mentre il mondo osserva online»… «Viviamo immersi in una quotidiana crudeltà senza precedenti, dove l’orizzonte è così basso che intravedere una prospettiva a una settimana di distanza è già un privilegio. Vorrei semplicemente augurarci di diventare più sensibili e onesti perché questo infastidisce gli imperi».
Nicola Perrone