uno dei più grandi e amati fotografi del Novecento
Giovanni Cardone
Fino 4 Maggio 2025 si potrà ammirare alla Galleria Nazionale dell’Umbria – Perugia una mostra dedicata Robert Doisneau – In breve, Robert Doisneau, a cura di Alessandra Mauro. L’esposizione viene ospitata nello spazio CAMERA OSCURA dedicato alla fotografia per la prima volta in Umbria una mostra su Robert Doisneau. La mostra presenta 30 fotografie che raccontano l’intera poetica del fotografo parigino: tra di esse spicca la sua immagine più iconica, il famoso Bacio dell’Hotel de Ville, pubblicato sulla rivista americana Life nel 1950 e divenuto immediatamente il simbolo di epoca e di una generazione. Robert Doisneau, tra i fotografi più influenti del suo tempo, fu in grado di raccontare come nessun altro la Parigi del Secondo dopoguerra in una serie di immagini perfette per costruzione e poesia. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Robert Doisneau apro il mio saggio dicendo: Posso affermare che vi sono più accezioni per intendere la parola “Umanista”. Una, secondo il dizionario, è la “persona che condivide gli ideali culturali propri dell’umanesimo, e anzitutto il culto per le lettere antiche” . Cioè, quell’ umanesimo che trova le proprie basi nella filosofia orientale già in Confucio e Gautama Buddha, sebbene il termine sia più frequentemente usato per indicare i filosofi occidentali. Il termine, coniato solo nel 1808 da Friedrich Immanuel Niethammer, designa il pensiero tradizionale in Occidente, nel quale si intendeva evidenziare l’importanza delle lettere classiche e dell’uomo, nel mondo che è fatto a sua misura. È in questa visione dell’uomo come figura centrale del mondo che si deve intendere il termine umanista nella fotografia. Vi è una rivalutazione della figura dell’uomo, che diventa il soggetto centrale e il punto cardine visto come l’essere umano che lascia una traccia di sé nella natura e nel mondo . La fotografia umanista è un chiaro esempio di come questa concezione illuminista fu fondamentale anche nei secoli a seguire, anche se teoricamente, una vera “scuola umanista” non sembra esistere e determinarne i confini temporali è particolarmente difficile. Si può supporre che il movimento principale si sviluppò tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la fine degli anni ’60, in Europa ma principalmente in Francia, per poi spostarsi negli Stati Uniti e trovando le sue radici nella fotografia e nel cinema degli anni ’30. La fotografia, dopo la grande guerra, sta avendo il suo momento di splendore, accanto alle avanguardie degli anni ’20, andando alla ricerca di valori nuovi e di nuove forme per superare quel conflitto che aveva distrutto un paese e i suoi uomini. L’espansione industriale sta sconvolgendo l’ambiente e la vita, così come il paesaggio intorno sembra star cambiando grazie alla ricostruzione di grandi fabbriche. È negli anni trenta infatti che si inizia a rivolgersi all’uomo: la fotografia diventa la testimonianza della gente dei quartieri più disagiati. La fotografia ben presto inizia ad avvicinarsi alle persone, prima nelle strade prima, poi nelle fabbriche fino a toccare i quartieri più poveri della città . Ma la Francia, come altri paesi europei, viene a sua volta colpita dalla crisi dopo quel breve periodo di prosperità. L’arte si avvicina di nuovo all’ordine e la fotografia, invece, si avvicina ancora di più alla realtà, mostrando le classi operaie e la loro ribellione, condotti dal movimento del Fronte Popolare. Ma anche questo periodo di pace, segnato anche da qualche vittoria dei lavoratori, sembra avere vita breve, intimorito dalle nuove minacce di guerra che sembrano sorgere intorno al paese. Così le arti si fanno più scure, caratterizzate da una certa disperazione e allo stesso modo la fotografia sembra rallentare, fino ad una rottura che sarà segnata dalla dichiarazione di guerra e dall’occupazione tedesca. Se durante la guerra si era preferito una fotografia di propaganda, soprattutto al servizio del governo di Vichy, con la liberazione di Parigi, si cerca di promuovere la ripresa del paese e l’unità, anche a livello mondiale. Si cerca, al contempo, di rinnovare i valori universali di umanità che, con la scoperta dei campi di concentramento e l’utilizzo della bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale, erano stati quasi totalmente compromessi. Vi è una nuova idea di speranza, anche se le comunità nazionali sono state distrutte, e vi è il desiderio di costruire, nuovamente, un mondo migliore. Così la fotografia è imbevuta della visione umanista e universalista del periodo post-bellico, in questa realtà che è ancora ricca di pessimismo per colpa anche della paura di possibili nuovi conflitti data la Guerra Fredda e la decolonizzazione . Vi è la nascita di due correnti di pensiero diverse, una più incentrata sul raccontare e mostrare gli eventi violenti e drammatici dell’attualità e l’altra, invece, ha un approccio più scientifico-sociologico e osserva ed esplora la routine quotidiana dell’uomo, con intento, non tanto a mostrare l’azione, quanto le cose e il mondo in maniera più ampia . Esiste anche una terza via, molto più personale e artistica. Vi sono coloro che preferiscono vagare e usare la propria “fantasia”, concentrandosi sulle persone attraverso uno sguardo più ironico, tenero, quasi compassionevole, realizzando immagini isolate, risultato di una visione più personale. Sono fotografi meno interessati ad un evento o ad una specifica situazione, interessati invece ad uno spazio che loro scoprono attraverso lo scambio di sguardi, in questa relazione che instaurano con i soggetti fotografati e che viene percepita solo tra loro e il fotografo. Per questo tipo di fotografia, l’emozione è primaria ed è più importante della forma, la loro “investigazione” riguarda il quotidiano e il banale ma viene mostrata con una certa tenerezza e una grande fede nell’uomo. Non è strano che questo tipo di fotografia si sviluppi proprio in Francia, nel dopoguerra; già nel diciannovesimo secolo, grazie anche alle innovazioni tecniche, molti fotografi avevano abbandonato gli studi per invadere le strade e le vie cittadine . Tra questi anche Eugène Atget che nelle sue fotografie di uomini e dei loro mestieri, pubblicate dalla rivista Paris Moderne , è possibile cogliere l’estetica, l’ispirazione e la base di ricerca di quella fotografia poetica che invece avrà il suo culmine mezzo secolo dopo. In questi anni di ricostruzione, a causa anche delle difficoltà a ritrovare e reperire materiale e per gli alti costi di produzione, diventa fondamentale il ruolo delle agenzie di stampa, anche a livello internazionale, che permettono ai fotografi di continuare il loro lavoro e permettono di diffondere nell’immaginario collettivo, lo stereotipo della Francia. Se nel dopoguerra si diffonde un’idea pessimistica, attraverso l’arte si oppone una corrente più fiduciosa, che rifiuta la distruzione dell’uomo e quella causata dall’uomo e che concepisce la fotografia come una mezzo universale per celebrare l’uguaglianza a le democrazia. Questo nuovo umanesimo cerca di ricostruire le rovine che l’uomo ha fatto basandosi sui punti in comune che comunismo e cristianesimo scoprono di avere nel periodo postbellico. I due ideali dominano la stampa e se da una parte vi è il sogno di una società e lavoro senza classi, dall’altra vi è una particolare attenzione per la dignità dell’uomo. La stampa e i giornali di sinistra, così come anche quelli cattolici, puntano su temi, situazioni e personaggi iconici che richiamano i temi umanistici. È la stampa che è in crescita e vi è una continua richiesta di immagini e documenti, ma è la stessa nozione di reporting che inizia ad evolversi e vi è, anzi, la nascita di una nuova professione: il «reporters-illustrateurs». Non è più un solo catturare le notizie più importanti, quanto un approfondire le problematiche, per andare oltre al semplice momento, esternando quei valori di speranza e favorire un dialogo che allontani l’ombra di una futura guerra mondiale, catturando l’uomo le cui azioni possano testimoniare questa nuova era. Questo stile di immagini particolarmente apprezzato in Francia, beneficia della rinascita della stampa illustrata, con riviste come Réalités, Plaisirs de France o Paris Match ma anche grazie alle agenzie di fotografia che producono libri illustrati dei fotografi del momento, come l’agenzia Rapho, rilanciata proprio nel 1945 dove, a fotografi come Savitry, Landau e Brassaï, si uniscono Boubat, Janine Niepce e Sabine Weiss, che rappresentano la corrente umanista. Ma non tutti lavorano per la stampa, alcuni, ad esempio Doisneau o Ronis, cercano di lavorare in modo indipendente anche se lo status di fotografo continua, ancora, ad essere molto precario. Coloro che non si affidano alle agenzie, cercano di farsi conoscere grazie al passaparola, attraverso le relazioni personali e attraverso pubblicazioni precedenti o rare mostre o sono i fotografi stessi a rivolgersi a editori per proporre i propri lavori, con più o meno successo. Nella Francia del dopoguerra, i fotografi umanisti contribuiscono a creare l’iconografia nazionale che è tinta di note nostalgiche e punta all’ottimismo, cercando di cogliere i parigini nella loro quotidianità. È inizialmente una Francia in cui si mostra l’arte di vivere e gli stereotipi francesi, costruendo quello che è l’ “iconografia francese”. Le immagini sono volute principalmente da due istituzioni fondamentali, il Commissariat général au tourisme e la Documentation française, con le quali i fotografi firmano un contratto per mantenersi e lavorare sotto commissione. Questi organi sollecitano tale tipo di fotografia per mostrare e promuovere quei particolarismi nazionali, istruendo e presentando, al contempo, la nuova economia e la forza del paese. Parallelamente a queste due organizzazioni, emergono anche importanti editori, che cercano anche loro di trasmettere l’identità nazionale che sembra essersi perduta dopo l’occupazione tedesca, cercando contemporaneamente di inserirsi tra tradizione e modernità. I fotografi, in questo caso, lavorano fianco a fianco agli scrittori e se, in un primo momento devono quasi lottare per fare in modo che il proprio nome sia menzionato, con la liberazione di Parigi e il secondo dopoguerra, le fotografie umaniste, non senza qualche difficoltà, avranno sempre più spazio. La fotografia lentamente va a sostituire il disegno, e anzi, si va ad evolvere anche il rapporto tra testo e immagine. Inizialmente l’immagine era solo ornamento, per accompagnare le linee di testo ma diventerà talmente importante da ridurre lo stesso testo ad una breve legenda, fino ad essere essa stessa il punto di partenza dello scrittore. La fotografia viene scelta perché più radicata nella città, “testimonianza reale” di ciò che avviene, quindi definita più “imparziale” della scrittura che invece è filtrata dalla conoscenza e dai pensieri dello scrittore o poeta. Essa diventa importante al punto che è alla base anche della copertina dei libri, una evoluzione che però non piace a molti, notando il pericolo nel vedere le proprie immagini ritagliate, perdendo ogni riferimento al soggetto, cosa che porterà artisti come Willy Ronis a lasciare l’agenzia Rapho perché non in grado di controllare l’uso improprio delle sue fotografie . Con il termine umanista, è l’uomo il soggetto principale, immerso nella città e nella vita urbana che ne fa da sfondo ai vari scatti. Questa tendenza si rivela soprattutto nella terza edizione del 1948 del Salone Nazionale di Francia, presso la Biblioteca Nazionale – evento creato nel 1946 e successivamente organizzato annualmente, fino al 1958 – in cui la città, rappresentata nei suoi sobborghi, non è sfondo solo per moda, ma è una continua ricerca del vero e della verità che non si trova nei quartieri più agiati. I fotografi umanisti prediligono il Salon perché permette loro di mostrare il proprio lavoro personale, continuando, al contempo, l’intento stesso del Salone di preservare la “produzione di immagini”. Tra gli espositori vi sono Brassaï, Boubat, Ronis e Doisneau. L’uomo rappresentato è un uomo semplice, che vive ed è consapevole della realtà e della propria epoca, e il fotografo, attraverso la ricerca di materiale “umano”, cerca di rinnovare l’iconografia ma al contempo di soddisfare anche il gusto del pubblico. Visto il pubblico più popolare al quale la mostra era destinata, l’uomo rappresentato aveva un valore morale e un forte significato sociale, al punto però di creare e moltiplicare i vari cliché e archetipi, fino a perdere quasi del tutto la spontaneità delle fotografie, sfiorando il dilettantismo e perdendo il vigore e l’approvazione iniziale . Il fotografo umanista è idealizzato come colui che passeggia e che, attraverso quelli che appaiono incontri improvvisi e fortuiti, incornicia un momento, divenendo, al contempo, sia spettatore che attore stesso. Lui cammina tra gli altri, rivendicando la sua dimensione umana, ma al contempo fotografa, dimostrando la sua dimensione di artista. È contemporaneamente dentro e fuori quella realtà che lo circonda. La città è lo sfondo principale delle fotografie degli umanisti, così come la strada è il luogo in cui l’uomo si inserisce. Con un forte richiamo ad Atget, la strada nei fotografi umanisti è il palcoscenico per mostrare le figure eccentriche che in passato erano le donne di strada e i disonesti. Ma è Parigi che con le sue architetture crea lo stile e rappresenta la vera estetica fotografica del movimento. Così come i soggetti privilegiati, in queste fotografie dal formato ridotto, sono l’uomo nella sfera dell’amore, della famiglia e del sociale. Le foto devono rappresentare soggetti che, in un periodo di ricostruzione post guerra, siano in grado di portare un’idea ottimistica alle nuove generazioni, immerse anche dei valori tradizionali della società, considerati bene prezioso. Se la sfera famigliare e il mondo più privato è uno dei soggetti prediletti, non nasconde però nasconde però, e anzi, lascia ben in mostra anche un’altra realtà popolata da ubriaconi, zingari, artisti o donne di strada, che brulicano e invadono le strade e le vie nel silenzio notturno. Per alcuni, come Doisneau, non è tanto il centro, quanto la periferia parigina il suo soggetto favorito, fatta di grandi cambiamenti. Le strade che attraversa, i locali che frequenta, come i bistrot, considerati luogo di convivialità, o le rive della Senna e i quartieri più svariati, sono gli stessi che anche Izis e Willy Ronis scelgono, cercando però, di interessarsi tutti ad ambiti differenti. Oltre a questa predilezione per gente comune e per quei personaggi pittoreschi che ispirarono poeti e scrittori, ad attirare i fotografi del dopoguerra sono aspetti nuovi e meno divertenti. Grazie alla stampa, i fotografi focalizzano il loro interesse sulla presenza dell’uomo che è testimone di un’era, incentrandosi su inchieste più sociali. I temi dei loro reportage riflettono le speranze e le lotte del popolo, altamente influenzato anche dagli ideali del Parti communiste français. Si lavora per ottenere un realismo poetico, con un richiamo a quello documentario, come si attesta negli scioperi che scuotono la Francia del 1947, nei quali i fotografi, con occhio attento, documentano gli avvenimenti. Illustrano con forza la durezza dei conflitti sociali, sottolineando i sobborghi della città, trasformando ciò che è sporco e malridotto in qualcosa che tende al meraviglioso, annacquando quell’iconografia solita che vedeva in modo nostalgico il passato. Molti fotografi, in questo modo, esprimono il proprio impegno ideologico, accanto a comunisti e cristiani, o sentono una certa empatia verso quest’ultimo, sentendo la solidarietà per il povero. Molti condividono le lotte operaie e ne prendono parte, ma mostrano anche la modernizzazione e il progresso nel mondo del lavoro, della vita quotidiana nelle città e nelle periferie. Si sviluppano campagne per promuovere il bene collettivo, per lo sviluppo del benessere dell’individuo, affermando una speranza per una società più giusta e un domani migliore. Willy Ronis, che insieme a Doisneau fece parte del Gruppo dei XV, è colui che è più interessato alla denuncia dei problemi sociali e alla lotta dei lavoratori, mostrando la loro vita quotidiana e la modestia dei parigini. Più riservato, attento alla forma, al catturare le persone nel loro ambiente e nel cogliere i lavoratori e le famiglie, mostrando la passione per gli uomini e l’idea di fratellanza che li unisce. Anche per questo motivo e per la sua sensibilità ai temi sociali, ne fece di lui il fotografo simbolo del Fronte Popolare. Izis invece, definito il “sognatore” e in parte “melanconico” ha sempre cercato di far trasparire questa sua tristezza e dolcezza, nei suoi scatti. Le sue fotografie alla classe operaria, ai bambini, a semplici uomini nei cafè o anche ai clochard, mostrano il disagio del loro vivere ma al contempo una dignità d’animo, raccontando la realtà umana dei quartieri più popolari. Edouard Boubat invece, appartenente al gruppo della rivista Réalités, è colui che estende il proprio campo d’azione non solo alla Francia, viaggiando per il mondo e cercando di avvicinare a sé le persone. È un testimone contemplativo e calmo, definito dal poeta Prévert come “corrispondente di pace”. Cerca di scoprire il mondo e i suoi abitanti, cercando di mostrare i momenti più felici della vita, non eventi eccezionali ma rappresentando una quotidianità ricca di “grazia, poesia e pienezza atemporale”. Questo tipo di coinvolgimento personale e sociale, per quanto in parte, come affermato prima, mitighi la nostalgica visione del passato, in realtà non hanno l’effetto sortito, in quanto nei libri viene minimizzata questa denuncia alla miseria. Nella stampa straniera prevale per lo più, infatti, quella visione “tipicamente francese”, negando quella realtà sociale e politica del paese. Con i lavoratori, uomini semplici e le loro famiglie delle classi medie e modeste, bambini ricchi rappresentati solamente nella loro spontaneità e innocenza, o coppie innamorate che manifestano i propri sentimenti, i fotografi cercano di rappresentare un’idea e valori umani universali, ma con una loro visione personale. In tutti loro però vi è l’assenza del voyerismo e della ricerca del sensazionalismo. Non è vi è alcuna intenzione di sorprendere o scioccare, non vogliono perseguire l’insolito, ma cercano di rappresentare la vita di tutti i giorni, approcciandosi rispettosamente verso i soggetti, soprattutto quelli più umili. Il culmine di questa corrente è sicuramente la mostra organizzata nel 1955 da Edward Steichen al MOMA di New York, intitolata “The Family of Man”, che tra i tanti artisti internazionali, figuravano anche dodici fotografi francesi. La mostra fu di grande successo, al punto che, dopo un tour negli Stati Uniti, venne riaperta e riallestita permanentemente al castello di Clervaux. Questa esposizione mescola la pura foto di reportage con quella di tipo “umanista”, quasi unificandole. Il soggetto della mostra è l’uomo, l’essere umano nella sua vita e i suoi modi di agire e comportarsi, con il mondo e con gli altri, utilizzando la fotografia come mezzo di comunicazione tra i popoli, mostrando la vita quotidiana nelle sue gioie e dolori, trasmettendo la dignità umana. Fu considerata come un messaggio di speranza e fraternità globale, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, che ancora marchiava i ricordi. Questa, secondo molti considerando invece la mostra “Five French Photographers” del 1951 ancora poco matura – segna il trionfo dell’umanesimo e il punto più alto della corrente, che si espanse poi al di fuori del suo epicentro francese, ma considerata anche l’ultima manifestazione degna di nota di questo importante movimento. La mostra che però non mancò di ricevere critiche, soprattutto per l’eliminazione delle differenze, dell’importanza della storia dei singoli paesi verso una verità universale, obiettivo che molti fotografi non perseguono. Anzi, questa eliminazione delle tante diversità per una fraternità globale, sembrò aver cancellato anche la natura soggettiva nei lavori dei fotografi. Ma si può notare come in questa mostra solo una minima parte, il 6% delle opere esposte , fosse di artisti francesi, facendo intuire anche come l’Europa e la Francia, in quel periodo, non fossero più il centro del mondo .Da non confondere con il Gruppo dei Quindici, il Groupe des XV era una associazione di fotografi francesi con l’obiettivo di promuovere la fotografia come arte e al contempo di preservare il patrimonio fotografico francese. Nata nel 1946 come continuazione dell’associazione Le Rectangle, scioltasi con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, venne fondata e guidata da André Garban, e insieme si riunivano presso il suo studio fotografico, vicino alla chiesa di Notre Dame de Lorette. Tra il 1946 e il 1957 ultimo anno prima dello scioglimento – veniva organizzata una mostra collettiva all’anno, in diverse sedi come nella Galerie Pascaud, o nella galerie Mirador. André Garban fu anche creatore e promotore del Salon national de la photographie e il curatore Jean Vallery-Radot concesse loro lo spazio della galerie Mansart, presso la Biblioteca nazionale, dal 1949. Il manifesto del gruppo aveva un forte richiamo a quello di Le Rectangle, creando quindi un legame tra le due associazioni, promuovendo una fotografia come arte, in grado di mostrare opere di qualità, impegnandosi a rispettare lo spirito di lealtà e aiuto reciproco, caratterizzati da un forte cameratismo, “quasi spirito di squadra sportivo” . Il rispetto veniva associato anche al processo fotografico, attraverso l’utilizzo di una fotografia reale, un negativo perfetto e, se possibile, senza alcun ritocco, ricercando nuovi angoli, nuove idee ma guardando sempre alla tradizione, identificata in Nadar, Atget e Cartier-Bresson. Il 1946 fu, oltre che l’anno di fondazione del gruppo, un anno importante per la nuova visione delle arti e una nuova rivalutazione che portò alla nascita della SIAP, associata al Groupe des XV, che gestiva il diritto d’autore e la riproduzione delle fotografie, attraverso un codice etico e prezziario, per controllare la diffusione delle opere. Tra i membri del gruppo, ricco di stili differenti, possiamo ricordare soprattutto i due umanisti Robert Doisneau e Willy Ronis, infatti in comune alla corrente umanista, sono interessati alla documentazione della vita nelle strade della città, mostrando la cultura francese, con richiami però al Surrealismo e alla Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit), rifiutando invece il pittorialismo. Il lavoro dei fotografi è reso possibile grazie all’utilizzo di una macchina fotografica molto più maneggevole e leggera, al punto da essere una vera e propria rivoluzione. L’arrivo della Leica è considerato il punto di partenza per la fotografia moderna, che consente di avere più angoli di inquadratura, diventando una “estensione dell’occhio” stesso. Gli ingranditori però, non erano abbastanza avanzati e l’immagine stampata non permetteva di essere di buona qualità, ma granulosa, anche nel formato 18×24. L’introduzione di Ergy Landau, nel 1928, della Rolleiflex 4×4, fu una vera rivoluzione in Francia, che venne presto utilizzata da Brassaï e dal gruppo di fotografi ungheresi, per poi venire adottata anche da chi lavora per l’agenzia Rapho . Il nuovo dispositivo, preferito alla Leica, permise un movimento più fluido, liberandolo dall’ingombro del treppiede. Oltre a Leica e Rolleiflex, si inizia ad utilizzare anche la Contax, competitor della Leica, che venne presto utilizzata soprattutto per la possibilità di montare ottiche Zeiss e che permetteva di avere dai grandangolari ai teleobiettivi. Nel 1935, intorno a questi tre dispositivi, si riunirono più fotografi formando dei piccoli “gruppi” divisibili in: Contax-club, Rollei-club e Leica-club. I fotografi, con queste nuove attrezzature, furono ben presto in grado di creare un rapporto simbiotico con il dispositivo, rendendo in questo modo il loro lavoro più personale e, grazie al formato quadrato (6×6), danno vita ad una propria estetica. L’evoluzione della fotografia umanista fu possibile, dopo il secondo conflitto mondiale, anche grazie al progresso tecnologico e alle attrezzature americane, con l’introduzione anche di lampade flash, strobo, teleobiettivi a focale corta e pellicole 1000 ASA. I fotografi umanisti, grazie anche ad una naturalezza nella composizione, attraverso la luce e il contrasto, non abbandonano l’importanza della forma, sempre secondaria però al soggetto principale. In più, lavorano quasi esclusivamente in bianco e nero, che permette un approccio diverso rispetto all’utilizzo del colore, con anche però ulteriori problemi tecnici che possono influenzare le fotografie, lasciando meno spazio all’immaginazione. Rifiutano, almeno in teoria ed ispirandosi a idee pre belliche, ciò che è il trucco tecnico, il falso e il ritocco. Non hanno il gusto per le manipolazioni né per le composizioni audaci, cercano di riprodurre la realtà che si presenta loro sul momento, atteggiamento forse ereditato dalla fotografia documentaria, e non vogliono infatti ricostruire la scena.
Questo rifiuto per il cambiamento però è ora visto solo come una pura teoria dopo la scoperta che “Il bacio davanti all’Hotel De Ville” di Doisneau era stato organizzato insieme a due attori, cosa ben diversa dalle fotografie invece fatte su commissione come quelle di Ronis. Anche la stampa e la qualità di stampa ha il suo valore nella fotografia umanista, al punto che lo stesso formato va a condizionare anche l’impaginazione dei giornali dell’epoca. Bisogna però aspettare il 1955 con l’introduzione di nuovi obiettivi e pellicole più veloci, come l’introduzione nel mercato della pellicola Tri-X caricata su un dispositivo 24×36, per avere un’ulteriore rivoluzione nella fotografia, che però sembra toccare solo di sfuggita quella umanista, se si considera la fine, apparente, del movimento a fine anni ‘60. È in questo variegato e animato contesto storico francese che si sviluppa il movimento umanista. I fotografi che ne fanno parte diventano importanti protagonisti della scena pubblica del paese, sia a livello sociale che nella sfera umana. Molti fotografi decidono di dedicarsi a questa nuova idea di uomo e di visione e tra questa moltitudine di personaggi, colui che è possibile designare a “fondatore” del movimento umanista è Robert Doisneau. Nasce in un sobborgo di Parigi nel 1912 e si forma, studiando litografia, presso l’Ecole Estienne, ma sostiene più di una volta che le lezioni più importanti le abbia imparate nelle strade e nei sobborghi dov’è cresciuto. Inizia a la sua carriera da fotografo relativamente presto, nel 1929, quando prende in prestito la sua prima macchina fotografica, senza però mostrare l’uomo come soggetto, e inizia a lavorare per il fotografo André Vigneau nel 1931 e passare alle fotografie industriali. La fotografia per lui è una vera scoperta e nel 1932 compra la sua prima Rolleiflex per iniziare la sua scoperta di Parigi e i suoi sobborghi, di uomini e passanti, ma ancora ad una certa distanza, per una certa timidezza. Nel 1934, dopo il servizio militare, inizia a lavorare per la Renault come fotografo, dove scopre il mondo degli operai, la loro dignità e la solidarietà che saranno sempre presenti nella sua memoria. Dopo essere stato licenziato, si mette in contatto con Charles Rado, fondatore dell’agenzia Rapho ma in quello stesso periodo, scoppia la Seconda Guerra Mondiale. Lo scoppio della guerra non fa interrompere la sua carriera fotografica e anzi, sopravvive in quel paese occupato con diversi espedienti, tra cui entrare nelle fila della Resistenza, utilizzando le sue capacità di acquisite all’Ecole per mandare comunicati e falsificare documenti. Con la fine della guerra, torna nuovamente a lavorare come fotografo pubblicitario, realizzando per Vogue parecchi reportage. Inizia una nuova attività fotografica frenetica, rappresentando non la desolazione che aveva lasciato la guerra ma quella sommossa popolare vista non più come violenza. È una fotografia umanista e poetica, interessato alla vita delle periferie e degli operai. Importante fu, nel 1945, l’incontro con lo scrittore Cendrars con il quale, nel 1949, pubblica il suo primo libro fotografico, “Le Banlieu de Paris”, il primo di una serie, in cui vengono mostrate le immagini di Parigi e dei suoi cittadini. Un lavoro del quale sarà sempre molto affezionato perché mostrava la realtà che lui stesso aveva vissuto da ragazzo e durante la sua infanzia con una “commovente gentilezza” in contrasto con la visione disillusa, quasi brutale e ruvida dell’autore. Nel 1950 entra in contatto con la rivista Life, la quale richiede un reportage sugli amori parigini e gli innamorati. Da questa richiesta verrà realizzata la serie di “Baci” tra i quali anche una delle sue fotografie più note, Bacio davanti all’Hôtel de Ville. Questa serie portò alla ribalta internazionale Doisneau e l’anno seguente, insieme a Willy Ronis, Izis e Brassaï, parteciperà ad una mostra al Moma a loro dedicata (“Five French Photographers”). Da metà anni ‘50 in avanti, la sua vita e la sua attività da fotografo diventa frenetica, lavorando per riviste di moda o per campagne pubblicitarie, cercando, nel frattempo, di continuare la propria ricerca personale, vagando attraverso le vie della città in compagnia di Robert Giraud, permettendo alla sua fama di consolidarsi sempre più. Dopo aver vinto il premio Niepce, entra a far parte del Gruppo XV, associazione di fotografi particolarmente dediti alla ricerca artistica e attenti al tramandare la tecnica nel campo fotografico, partecipando a mostre collettive, tra le quali anche la famosa “The Family of Man”, per la quale vedrà le proprie foto girare il mondo. Il suo repertorio fatto da immagini della tradizione o al di fuori dai canoni, è caratterizzato da una forte sensibilità umanista che in molti dei suoi scatti sarà presente, almeno fino agli anni 60’, duranti i quali la fotografia umanista sembra andare in crisi. Con la diffusione capillare della televisione, anche la generazione di Doisneau sembra spegnersi e così, anche dopo la decisione di tornare in strada a fotografare, quelli sembrano essere anni bui, lontani alla visione originale. Il cambio generazionale e di mentalità della società sembra essere la fine del fotografo che in realtà scopre una nuova rinascita negli anni ’70, con un ritorno alla ribalta che durerà fino alla sua scomparsa, nel 1994. La sua fama lo trasformerà nel fotografo francese più popolare del suo tempo e i suoi scatti diventeranno icone della fotografia . La città prediletta di Doisneau è la capitale francese, nella quale sa muoversi e orientarsi, in quelle vie che lentamente si trasformano. Per scoprire la città, un fotografo deve sapere dove fermarsi, dove rimanere in attesa che si mostri la realtà in mezzo alla monotonia. Doisneau ama al punto Parigi che cerca di compiere meno viaggi possibili, perché in un viaggio si vedono troppe cose e non si ha idea di cosa riprendere, e per fare il fotografo, secondo lui, non si deve essere turisti . L’incontro decisivo, che gli permise di ampliare i suoi orizzonti di fotografo, avvenne nel 1945, quando conobbe lo scrittore Blaise Cendrars. Gli venne infatti incaricato dal suo editore un ritratto, trovandosi subito in sintonia. Profondo conoscitore di Parigi, e della periferia, Cendrars è anche un noto sostenitore del “populismo”. I temi prediletti tratti dalla cultura popolare sono simili a quelli di Doisneau, entusiasmandosi velocemente delle sue fotografie. Riuscì anzi a trovare un editore e insieme iniziarono a lavorare per questo progetto condiviso che porterà alla pubblicazione di La Banlieue de Paris. Cendrars e Doisneau realizzano questo lavoro omogeneo frutto di incontri e che mette a confronto e in dialogo immagini e parole. Il testo a volte utilizza un tono quasi acido nel rapportarsi con le immagini e anzi, vi è a tratti una descrizione quasi pessimistica delle foto. Il libro offre l’opportunità a Doisneau di mostrare i suoi scatti dei primi quindici anni di lavoro fotografico e permette di mostrare la sua passione nel cogliere sul vivo l’umanità. Attraverso questo libro Doisneau riesce a consolidare la propria fama nel mondo della fotografia anche se come libro non fu un successo. Tra il 1950 e il 1956 pubblica altre sei opere con il tema di “Parigi”, pubblicate da diverse case editrici con le quali avrà una lunga collaborazione. L’uscita a poca distanza dei vari lavori accentua l’identità parigina del fotografo, in una evoluzione anche nelle immagini, che, se in Le Banlieu de Paris, sono quasi cupe, vi è invece una vena quasi umoristica che si sprigiona nelle immagini, apprezzate soprattutto nelle generazioni successive. Il primo approccio con la città e con il reale è un relazionarsi attraverso le strade, senza avvicinarsi troppo alle persone, preferendo inquadrature larghe che diverranno parte del suo stile e collocandosi ad una certa distanza. La distanza permette a Doisneau di collocare il soggetto in una storia più ampia, contestualizzandola e arricchendola, diventando parte integrante della narrazione. Con il passare degli anni, la trasformazione economica e commerciale di Parigi, ha fatto perdere il fascino della città e delle sue periferie, delle strade dove i protagonisti si sono presto allontanati e scomparsi. Il cambiamento della città però ha reso le fotografie di Doisneau una testimonianza di un mondo che è scomparso divenendo solamente memoria . Lo stile di Doisneau potrebbe essere descritto come una continua ricerca di semplicità, in sintonia con l’immediatezza e una certa economia dei mezzi. Mezzi economici che lui traduce attraverso l’utilizzo della Rolleiflex 6×6, dall’inizio degli anni ’30 fino a fine anni ’50, maneggevole e portatile, soprattutto apprezzata dal gruppo degli umanisti. Uno strumento particolarmente semplice e poco ingombrante, normalmente posizionata all’altezza dello stomaco che non necessitava di complicati movimenti per azionarla. Certo però che il formato 6×6, a fine anni ’50, per Doisneau sembra essere troppo limitato perché con un unico obiettivo il quale decide di cambiare e comprare una Leica, con pellicola 24×36 con il vantaggio di poter montare vari obiettivi e quindi avere diversi approcci, anche se con il mirino ad altezza occhio e quindi meno discreto. È grazie a queste macchine che nelle sue fotografie riesce a rendere l’attimo e il fotografo deve essere in grado di cogliere l’atto, diffidando invece delle immagini che sono costruite o elaborate, con troppi riferimenti. La fotografia doveva essere in grado di cogliere ciò che è imperfetto, che avviene per pura fortuna, un istante che però non è automaticamente spontaneo. In una Parigi distrutta dalla guerra, Doisneau diceva: «Il mondo che cercavo di far vedere era un mondo dove stavo bene, dove la gente era gentile e dove trovavo la tenerezza di cui avevo bisogno. Le mie fotografie volevano dimostrare che un mondo del genere poteva esistere» Per lui la fotografia è come la “pesca”, che necessita di tempo, è una attività lenta e sedentaria, che ha bisogno di pazienza per cogliere lo scatto, non senza una certa preparazione. Molti dei suoi scatti, infatti, sono il risultato una attenta progettazione e la sua immagine spesso nasce dal contrasto tra una figura umana e lo spazio che la circonda, nella “sceneggiatura”. In questo spazio, o décor, il fotografo può aspettare che avvenga ciò che Doisneau definisce come “miracolo”, come nella serie di Il pont des Arts del 1953, oppure esiste un secondo metodo che è quello di “inseguire” una forma e aspettare che si inserisca in un décor appropriato per lo scatto, in entrambi i casi però, è l’ambientazione quella che rende la fotografia ciò che è. In certi casi però, diventa anche una vera messa in scena, servendosi di comparse, di attori pagati o amici. Proprio di una messa in scena di parla con il Bacio dell’Hotel de Ville che rivelò come li scatti di quella serie fossero in realtà frutto di una “finzione”. Le fotografie di Doisneau sembrano voler narrare una storia ed è proprio a questo che inizialmente il fotografo si ispira, lasciando che venisse stimolata l’immaginazione dello spettatore. Fondamentali furono i titoli da lui scelti, dalle didascalie esplicative e descrittive, che nel corso degli anni, fino ad avere un culmine negli anni ’70, si fecero più poetici, accentuando la sua tendenza “letteraria”, dando il proprio gusto e la propria soggettività. Le sue “storie” sono però spesso velate di una carica umoristica, incentrate sull’uomo e le azioni umane, immerse in un contesto cittadino e popolare con l’attenzione anche a personaggi bizzarri. Questa sua vena “umoristica” divenne un tratto fondamentale nella sua fotografia, non realizzabile secondo una messa in scena ma solo attraverso il caso, il fatto accidentale, un nuovo approccio che risiede nella sua visione leggera e giocosa, non solo nei suoi scatti ma anche nel suo modo di essere, che funziona da filtro attraverso l’obiettivo. Umorista ma anche umanista, che intende mettere al centro l’uomo e i suoi problemi, politici, sociali ma non solo. Una nuova visione, nel dopo Occupazione, che ha un qualcosa di poetico e pittoresco, quasi consolatorio, che si riallaccia al pre-Guerra Mondiale. Si avvicina agli individui stabilendo un rapporto empatico con loro, cercando di fotografare non tanto l’esterno, quanto l’interno e sentirsi partecipe di ciò che avviene. Ha sempre considerato lo scatto e la fotografia come un momento di condivisione, evitando gli scatti rubati o le foto di violenza. La gente rappresentata nelle sue fotografie è quella definita come “povera”, che spesso non viene rappresentata, con un forte attaccamento alla classe operaia e alla piccola borghesia. Non è una fotografia “politica” quanto più sensibile e compassionevole, ma mai sciocca, dalla quale traspare sempre un velato pessimismo ma che non nasconde invece una certa malevolenza nei confronti di coloro che hanno il potere e delle autorità . Il senso del tempo, scoperto nella pesca, è uno dei motivi più importanti nelle fotografie di Doisneau. Si può facilmente affermare che la storia della fotografia è basata sulla dimensione temporale, come una continua sfida con questa dimensione che va oltre la propria esistenza. Concezione del tempo che si tramanda anche nella filosofia, letteratura e con la quale gli uomini si scontrano sempre. Negli scatti di Doisneau è possibile cogliere una dimensione tempo unica e transitoria, da vivere istante per istante, nel presente. La città di Parigi fa da sfondo alle sue storie e, nelle sue vie e nel suo correre della Senna, vi è un incrociarsi di passato e futuro, così come nelle fotografie vi sono momenti della vita in un “meraviglioso quotidiano”. Ciò che esiste, in Doisneau, è la sua realtà e il suo mondo e se uno non ha un mondo da mostrare, che sia diverso da quello dei media, allora non vale la pena fare immagini. Per essere fotografi, bisogna essere sensibili, bisogna sentirsi allo stesso livello di ciò che si fotografa, mai sentirsi superiori. Per sentirsi uguali bisogna quindi conoscerlo e frequentarlo, quindi passare il proprio tempo e usarlo per creare una certa complicità. Doisneau entra in rapporto con i propri soggetti, dedica loro del tempo, per pura curiosità, per amore per la gente e per il mondo che lo circonda. Il tempo dei suoi scatti è solo un istante, non è la realtà in sé ma un punto di vista soggettivo di quella realtà. Tempo e luce sono le materie prime di un fotografo. La città di Parigi, per egli, trasuda di una propria luce diffusa, emessa da tanti punti diversi che illumina in maniera uniforme. Per lavorare a lungo, ripercorrendo le strade e le vie, il fotografo ha bisogno di trovare sempre nuove motivazioni, dando un nuovo e continuo senso al suo lavoro, proprio per questo, Doisneau ha preferito attraversare Parigi, rimanendo a volte ore fermo dove “non c’era niente da vedere”. Per compiere ciò, ha dovuto sviluppare la pazienza, contrapposto invece alla smania dei giovani fotografi di essere subito famosi, di arrivare e vantare le proprie fotografi pubblicate. È attraverso questo esercizio di “tempo” che riesce a realizzare lo scatto giusto, che permette di “addomesticare il caso” e di essere testimone di una “improvvisa armonia”. Il protagonista dello scorrere del tempo, nella città di Parigi è sempre l’uomo che vive in quello scorrere che è la sua vita. Importanti sono quelli scatti che hanno come protagonisti i personaggi considerati minori nella società, con una predilezione per le figure dei perdenti e degli emarginati, considerati al contempo veri eroi della storia. Altri protagonisti assoluti sono i bambini delle periferie, capaci di divertirsi con niente e far passare il tempo. I suoi scatti li raffigurano nei momenti più quotidiani come nel loro fuggire dopo uno scherzo, o attraversando una strada oppure in classe. Nei suoi scatti si ricerca un richiamo a quella età infantile, innocente e viva, con una nota autobiografica. I bambini sono descritti sempre con rispetto solenne, senza alcun giudizio, ma ridà valore a chi sembra non averne. Nelle sue fotografie vi è una leggera malinconia che sembra infatti presagire il cambiamento degli ambienti e dell’uomo per lasciare che la città diventi colma di grandi case e che le strade si riempiano di traffico e non più bambini. Doisneau è anche un abile ritrattista e davanti al suo obiettivo posano dai personaggi famosi a quelli invece più famigliari, come le proprie figlie. Davanti alla sua macchina poseranno artisti e attori tra cui celebre la fotografia di Picasso con i quali Doisneau riesce a stabilire un rapporto quasi d’amicizia, in una continua ricerca di un terreno comune e di empatia. Oltre agli scatti di pure piacere personale, Egli realizza anche lavori per campagne pubblicitaria e di moda. Di tutti questi suoi scatti, sono rimasti in archivio circa 450.000 negativi, che dimostrano il costante lavoro di Doisneau in oltre sessant’anni di produzione . Forse uno dei suoi scatti più famosi e più noti al pubblico anche per via delle movimentate vicende che la riguardano. Scattata nel 1950, apparentemente mostra due giovani innamorati scambiarsi un bacio sul marciapiede, davanti ad un classico café parigino, mentre intorno a loro, passano e sembrano correre passanti e auto in quello che è un istante nella frenetica vita In realtà questo scatto è tutto frutto di una messa in scena. La stessa figlia di Doisneau affermò che l’agente di suo padre propose, alla rivista Life, una serie sugli amanti di Parigi e questa accettò. Mentre era alla ricerca di ispirazione, trovarono due giovani a baciarsi e Doisneau chiese loro se fosse possibile ripetere il gesto in tre luoghi diversi. Nel 1993, l’anno prima della sua morte, due coniugi fecero causa al fotografo sostenendo di rivedersi nel volto dei due amanti e richiedendo un compenso adeguato. Proprio per quel motivo il fotografo ammise di aver usato due attori Françoise Bonet e Jacques Carteaud che all’epoca cercavano la fama e ai quali Doisneau aveva già ricompensato con denaro e stampa timbrata. L’ammissione della foto “truccata”, oltre a sollevare molte critiche, mise fine a quella immagine quasi fiabesca che era il Bacio, diventato ormai simbolo iconico della Parigi degli anni cinquanta. La figlia Francine dichiarò che “I suoi modelli non erano modelli nel senso che posavano. Mio padre stava semplicemente testimoniando il loro flirtare e baciarsi, in modo molto naturale” . La mostra si compone di una scelta di immagini tra le più celebri della sua produzione, in una selezione messa a punto con i suoi eredi e l’Atelier Robert Doisneau di Parigi. Il Catalogo edito da Silvana Editoriale.
Galleria Nazionale dell’Umbria – Perugia
In breve, Robert Doisneau
dal 15 Novembre 2024 al 4 Maggio 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 8.30 alle ore 19.30
Lunedì Chiuso
Robert Doisneau fotografato da Bracha L. Ettinger nel suo studio di Montrouge nel 1992
Robert Doisneau, Le Baiser de l’Hôtel de ville, Paris 1950 © Atelier Robert Doisneau
Robert Doisneau, Les pains de Picasso, Vallauris 1952 © Atelier Robert Doisneau
Robert Doisneau, La dame indignée, 1948 © Atelier Robert Doisneau