Giovanni Cardone
Fino al 2 Febbraio 2025 si potrà ammirare presso la Fondazione Merz Torino la mostra dedicata a Mario Merz Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola per celebrare i cento dalla nascita. L’esposizione presenta una selezione di lavori tra installazioni, igloo, tavoli, tele e opere su carta. Alle opere già presenti nel primo allestimento, per questa nuova fase,si aggiungono tre altre opere imponenti in termini di contenuto e di misura. Il progetto espositivo prende le mosse a partire dal concetto legato alla necessità di individuare la natura profonda che si cela dietro ai modelli per arrivare alla base del pensiero umano, il quale nella sua diversità è definito sempre da leggi che sfuggono allo scorrere del tempo e alla varietà degli ambienti. La frase che dà il titolo all’esposizione è stata estrapolata da uno scritto di Mario Merz e si ricollega a questa necessità di guardare alla natura e allo scorrere del tempo per poter raggiungere un senso di leggerezza concettuale, che si ritrova nel nucleo di opere presentate. Nei lavori in mostra visono elementi e concetti che si ripropongono e che si legano in un percorso che, citando sempre Merz, mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola… All’atmosfera onirica e delicata che ha pervaso fino a oggi l’ambiente espositivo irradiato dai riflessi dorati emanati dall’igloo Senza titolo (foglie d’oro) (1997), dalla cera del tavolo Quattro tavoli in forma di foglie di magnolia (1985), esposta in questa occasione per la prima volta in Europa, dalla trasparenza dei vasi di L’horizont de lumière traverse notre vertical du jour (1995) oltre che dalle opere alle pareti già presenti in mostra, si affaccia un dominante controcanto, dovuto all’installazione di due altri igloo del 1989 e del 2002 e un imponente lavoro pittorico, Geco in casa (1983). Come un iconico virtuosismo pas de deux tra la tela e il coccodrillo con i numeri di Fibonacci, antica presenza in fondazione, le opere rimbalzano da una parte all’altra dello spazio espositivo collegandosi le une con le altre in un’atmosfera da favola; un apparente disordine in cui cose dal mondo si mescolano e diventano responsabili del loro trasformarsi per riapparire in un’armonica unione. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Mario Merz e sull’Arte Povera apro il mio saggio dicendo: Questo percorso nasce da un mio studio sull’arte povera che poi in seguito è divenuto un saggio, sull’ Arte Povera e sulla figura di Germano Celant questa definizione viene data nel 1967 dallo stesso critico per indicare le ricerche che usano in modo diversificato materiali non legati alla tradizione dell’ arte, come legno, carta ,brandelli di stoffa, gesso, pietre e paglia oppure altri elementi come la terra, l’acqua e il fuoco . Si tratta di processi creativi che mirano a riscoprire quelle forze profonde dell’immaginazione che rimangono inespresse, attraverso un viaggio alle origini della facoltà percettive. Con il termine ‘povera dell’arte’ si intende dunque recuperare il valore primario dei materiali , vissuti nel rapporto diretto con la vita quotidiana e percepiti nella loro forma originaria, fuori dall’uso e del significato assunto nella società dei consumi. In occasione della prima mostra Arte Povera – IM Spazio, organizzata da Masnata e Trentalance presso la loro Galleria La Bertesca a Genova nel 1967 tra il 27 settembre e il 20 ottobre curata da Celant, compare per la prima volta, a sorpresa, la dicitura ‘Arte Povera’ poiché, come ricorda Pistoletto: “E’ solo nel catalogo che si è scoperta l’espressione ‘Arte Povera’, di cui nessuno sapeva nulla prima dell’apertura della mostra stessa.” Un termine strano, che lasciava e lascia tutt’ora perplessi alcuni degli artisti che ne fanno parte come Pistoletto, che confida a Giovanni Lista: “Devi chiedere il perché di questa parola “povertà” a Germano Celant. Ho sempre avuto dei problemi in proposito. Personalmente, non so nulla di cosa volesse dire”. Le connotazioni che può assumere sono spesso ambigue,come fa notare sempre l’artista biellese: “Mi ha sempre causato una strana sensazione perché da giovane, facendo del restauro con mio padre, avevo avuto l’occasione di restaurare mobili definiti di ‘Arte Povera’ sistema decorativo veneziano del XVIII secolo. Non era pittura,ma una sua imitazione. Così, quando sentivo questa parola, avevo sempre paura di questa idea contenuta nella parola ‘povera’. Oltretutto, temevo la connotazione politica, non la politica in sé, ma la connotazione del ‘politico’ ripresa a quell’epoca”. Talvolta possono addirittura compromettere la corretta comprensione del lavoro di questi artisti, come quando l’aggettivo è associato a una miseria di intenti e mezzi che non rientrava nelle idee e nelle inclinazioni del gruppo. A questo proposito Merz riferirà in un’intervista qualche anno dopo lo scioglimento del gruppo: “E’ una definizione questa che mi piace poco, perché riduce il nostro movimento a un fatto esclusivamente mercantile. C’era effettivamente in gioco il concetto di valore, ma si trattava di ben altri valori. C’era in gioco il ruolo stesso dell’arte e dell’artista nella nostra società”. Ma con il termine “povero” Celant si riferiva a ben altro, a una concezione del termine che esula dall’uso comune e che si rifà al progetto e alla scuola del teatro povero di Jerzy Grotowski, in cui il regista e l’attore rifiutano tutti quegli elementi superflui una ricchezza di sovrastrutture espressive con cui il teatro si è sempre soffocato e che ostacolano il vero incontro dell’interprete con se stesso e con i suoi impulsi, per avviare una ricerca personale volta a rimetterlo in contatto “con gli strati intimi del proprio essere” e che si traduce, sul piano della recitazione, in un gesto puro e semplice, “essenza di un’espressione integrale”. Nel primo saggio critico dedicato all’Arte Povera, redatto in occasione della prima mostra genovese, scrive Celant: “Eliminano dalla ricerca tutto ciò che può sembrare riflessione e rappresentazione mimetica, abitudine linguistica, per approdare a un tipo di arte che ci piace chiamare povera. Il teatro elimina la sovrastruttura scritto-parlata, realizza il silenzio fonico e la parlata gestuale . Le situazioni umane elementari diventano segni, nasce l’esigenza di una vera semiologia basata sul linguaggio dell’azione.” Questa eliminazione delle convenzioni iconografiche parassitarie per ridursi alla semplicità del segno in Grotowski si presenta come unico modo per conferire a quell’incontro che è il teatro la pregnanza di un’esperienza diretta e povera di artifici tecnici, basata su gesti autonomi e dotati di una sostanza propria e che si pongono lungo quel filo che collega l’attore allo spettatore. Si rimane all’interno della pratica teatrale, Grotowski si oppone solamente a un certo modo di fare teatro. Al contrario in Celant la depurazione del linguaggio si pone come atteggiamento in aperta opposizione non solo nei confronti del modo di fare arte ma anche rispetto alle dinamiche culturali e del sistema dell’arte allora in atto: il rifiuto delle costruzioni stilistiche e la nascita di una “decultura”all’insegna dell’“insignificante visuale” e delle azioni vengono sbandierati come i comandamenti fondanti un nuovo movimento anticulturale non tanto perché si senta il bisogno di un effettivo rinnovamento delle forme ma per creare una “nuova semiologia” che non può essere addomesticata dal sistema mercantile dell’arte. Eppure nella critica militante di Celant non si riescono a rintracciare un manifesto degli ideali politici definiti in maniera chiara, la cui mancanza riduce il tutto a un contrasto superficiale, genericamente “anti”.Tra l’altro, il rifiuto della sostanza fonica e del testo che Celant riconduce a Grotowski non è presente nella teorizzazione del regista polacco. In primo luogo, il suono e la voce sono considerati, al pari del gesto e dei movimenti, segni ed espressione dell’essere. In seconda battuta il testo, se da un lato non deve essere “la fonte creatrice del teatro”, dall’altro però è lo “stimolo del processo creativo” e avvia il processo di presa di coscienza personale. Questo perché in Grotowski il testo non deve essere interpretato o rielaborato, ma essere l’innesco di una creazione teatrale in cui le parole in sé perdono d’importanza e diventa fondamentale solamente ciò che si può ricavare da esse, ciò che gli dà vita e le trasforma in “Verbo”. Molti altri sono gli elementi prelevati dalle tesi di Per un teatro povero: intanto non può non saltare agli occhi la medesima contrapposizione a un’arte ricca, che opera una cleptomania del sistema, dei linguaggi codificati e artificiali. C’è poi da sottolineare come la simultaneità di idea e immagine che concretizza le opere artepoveriste non sia nulla di diverso dalla contemporaneità di impulso e azione che negli attori si traduce in impulsi visivi. Allo stesso modo, l’artista che “diventa il linguaggio di se stesso e lo è, con il suo corpo e i suoi gesti”,si colloca sullo stesso orizzonte dell’attore che ricerca “il proprio linguaggio psico-analitico personale di suoni e gesti”. Inoltre Celant tenta di liberare la nuova arte dal giogo della sua stessa storia applicandovi le conclusioni di Grotowski, elaborate esclusivamente per il teatro, come se l’arte potesse trovare la soluzione dei suoi problemi solamente al di fuori delle sue possibilità d’azione, in un ambito ad alto livello di specificità e con una storia altrettanto corposa e ingombrante alle spalle. Con ciò non si vuole dire che le invasioni di campo, i prelievi di stratagemmi e tecniche tra un’arte e l’altra siano impossibili o sbagliati, anzi, sono proprio ciò che anima, vivifica e rinnova i diversi linguaggi, i quali tuttavia per evolversi in nuove forme dovranno ragionare sugli elementi costitutivi che li differenziano a livello essenziale dagli altri e gli conferiscono quelle caratteristiche proprie che li rendono ciò che sono e nient’altro. L’atteggiamento “anti” di Celant si inasprisce man mano che la costellazione dell’Arte Povera si avvicina al teatro, tra il Deposito d’Arte Presente, il gruppo Zoo di Pistoletto, le scenografie di Kounellis e le installazioni di Calzolari, nonché in seguito ai contatti di questi ultimi con il Living Theatre. E’ infatti in occasione della rassegna di Amalfi e di quelle azioni che invece di chiamarsi “atti in libertà”, secondo l’idea iniziale di ispirazione futurista di Lista e Rumma, si chiameranno anch’esse “povere”, che l’Arte Povera verrà vestita da Celant con il manto dell’anarchismo pacifista proprio del gruppo teatrale di Judith Malina e Julian Beck. Eppure,invece di essere assunto come obiettivo politico e sociale traducendosi anche in azioni di reale protesta e impegno civile come avvenne nel Living Theatre (l’unico che seguirà questa via sarà Gilardi), è ancora una volta semplicemente, genericamente “anti”. Ancora una volta il teatro viene assunto a strategia rivoluzionaria, con l’attore come “forza crito-politica” per la creazione di una “recitazione globale” e di una nuova classe che all’oggettualità del corporativismo oppone “azioni che espongono la propria processualità”. Ma queste operazioni critiche non sono che esercizi stilistici, in pieno accordo con la tendenza postmoderna: l’utilizzo di termini e toni legati all’attivismo politico, la guerriglia, la carica eversiva, l’“agire la realtà” come fatto politico, sono citazioni di un linguaggio specifico assunto a stile. E’ proprio questa forzata connotazione politica della rassegna di Amalfi che se da un lato trovò d’accordo molti critici, dall’altro preoccupò molti artisti che non la condividevano affatto: per esempio, Pistoletto e il gruppo Zoo scrissero, in una lettera inviata a Marcello Rumma il 5 dicembre 1968 che “Noi non aderiamo, non facciamo parte e non accettiamo il termine arte povera benché amiamo gli amici con cui ci siamo trovati ad Amalfi. Per noi il termine povero va bene e basta, perché esso equivale a ricco mentre il termine arte vuol dire ricco tu e povero io”, mentre sembra che Jannis Kounellis si rifiutò di partecipare all’evento proprio a causa della sua potenziale politicizzazione. Ancora più rilevante è il fatto che anche quegli artisti che vivevano la propria arte in maniera più politica si trovarono comunque in aperto dissenso con Celant per la sua volontà di costringere quelle esperienze in un apparato teorico, “che lì mostrava le sue intenzioni di formalizzare, di avviare una codificazione di tutto il lavoro che noi andavamo facendo. Con il senno di poi si può constatare che Gilardi aveva almeno in parte ragione, perché a causa dell’operazione critica di Celant e degli studi innestatisi su di essa la costellazione dell’Arte Povera viene inscritta in parametri ben definiti e resa pertanto facilmente comprensibile e manovrabile, tanto da potersi approcciare a essa da un’ottica “spettacolare”, come direbbe Debord, impoverendone i contenuti. Come riferisce Alighiero Boetti a Mirella Bandini: “Nel 1968 erano accaduti alcuni fatti si pensava di portare gli spettacoli negli stadi! Bonito Oliva voleva fare azioni alla televisione, era un’idea veramente pazzesca. Tutto questo ci trascinava ed erano i veri momenti falsi, della facilità, in cui ci lasciavamo andare ai primi impulsi. La mostra di Amalfi è stata proprio la nausea della fine”. Viene dunque avviata quella “duttile iniziativa di integrazione” che nel 1971 constaterà anche Celant stesso, in cui “le strutture d’uso ossia il mercato dell’arte con un gesto di falsa azione progressiva stanno tentando di tenere a guinzaglio l’artista e di ridurre la disusabile catarsi di arte in vita in ulteriore consumo”, sancendo il definitivo fallimento del “tentativo di distruzione del mito della cultura” e del movimento dell’Arte Povera, senza rendersi conto di esserne stato uno degli artefici. Al termine dell’esperienza dell’Arte Povera, l’elemento che più di ogni altro si era perso era quella dimensione collettiva di collaborazione spontanea che aveva scandito i primissimi anni di entrambe le frange del gruppo, e che aveva lasciato il posto a esperienze individuali che ricercavano l’elemento partecipativo in aspetti diversi da quello della “comunità artistica”. Le attività dei singoli artisti continuarono così grazie al supporto di quei galleristi, talvolta i primi ad averli scoperti, che gli assicuravano un ampio spazio di libertà espressiva, soprattutto se confrontato con quello offerto dal progetto di Celant, in cui la prospettiva corale e le idee e le convinzioni del critico limitavano inevitabilmente le singole iniziative. Si pensi a Kounellis, entrato insieme a Pino Pascali nel 1966 a far parte degli artisti della Galleria L’Attico di Fabio Sargentini, dove nel 1969 avrà la possibilità di realizzare 12 cavalli vivi, o a Pistoletto, che nella galleria di Christian Stein allestirà tra l’ottobre del 1975 e il settembre del 1976 le dodici mostre consecutive de Le stanze. Allo stesso tempo, tutta l’attività curatoriale contemporanea o precedente all’intervento di Celant, che si è avvicinata alle ricerche di stampo artepoverista da direzioni e presupposti diversi e che aveva riconosciuto nell’elemento mobile e febbrile di quei lavori non solo il loro significato ma anche l’ispirazione per le condizioni espositive più adeguate a sottolinearlo, è stata gradualmente sostituita da una critica soverchiante, che ha parzialmente fissato l’interpretazione di questa costellazione eterogenea e fluida. Senza voler sminuire l’importanza dei contributi apportati da Celant alla comprensione del fenomeno della cosiddetta Arte Povera, non si può non rilevare come un simile apparato teorico, che organizza le opere in modo tale da dare un senso e un ordine a una multiformità difficilmente avvicinabile dalle attività classiche del sistema dell’arte l’analisi storica, l’esposizione e la conservazione, il riconoscimento di un valore artistico ed economico si presenti come segno incontrovertibile di una postmodernità che può fare affidamento esclusivamente sugli appigli forniti dalle narrazioni a essa contemporanee per mantenere in efficienza le strutture tradizionali del sapere. Lungo un percorso che si snoda tra elementi ottusi e materiali morbidi, tra reazioni chimiche ed equilibri precari, l’approccio di Zorio al fattore energetico si manifesta arricchito di una scientificità inedita ad altri suo contemporanei, ricercando quell’“emozione” profonda, che tutto anima, nei processi e nei reagenti chimici e rifiutando allo stesso tempo il materiale in sé, per opporsi al materismo e alla tattilità delle correnti informali ed espressioniste astratte. Come in Merz, il rapporto con i materiali è puramente strumentale e varia secondo la quantità di passione che un’opera richiede e le necessità del momento, nonché in base alla loro capacità di adattarsi e aderire alle intuizioni dell’artista, pur facendo parte di una ben nota tavolozza di elementi primari con cui dare corpo alle diverse vibrazioni delle sue idee traducendole in “eventi di materiali”, il cui carburante sta nella natura contrastante delle materie che interagiscono di volta in volta. Questo entrare nelle rispettive sfere di influenza fisica da parte di sostanze di segno opposto genera un flusso di energia attiva e innesca così un processo dialettico di trasformazione che getta le sue radici nell’alchimia, che “è la parte ambigua della chimica, è la parte più sognante, anche la parte più ‘negativa’, ma è la parte che dà più speranza,perché noi abbiamo bisogno di speranza” che è anche in fondo il motivo per cui per Zorio si fa arte. Liquido-solido, morbido-duro, dolcezza-violenza, calore-abbaglio, leggerezza-peso, vuoto-pieno: nello scontro tra polarità opposte le materie, inevitabilmente concepite come vive Zorio direbbe che il senso animistico di cui riveste i suoi materiali serve a portarli dalla sua parte – cambiano di natura nel momento in cui entrano in contatto, “maturando”l’una nell’altra: ancora una volta l’energia, nonché il movimento da cui scaturisce, si pone come elemento fondamentalmente relazionale. Mentre nell’arte di Gilardi le relazioni tra oggetti, persone e memoria costruite e rese possibili dall’opera non rimangono confinate al momentodella sua fruizione, con le riflessioni e le emozioni temporanee che ne scaturiscono, ma invadono la realtà sotto forma di azioni creative e collettive di stampo politico.
L’importanza di una tale componente sociale e interattiva inizia a nascere e a prendere forma grazie agli scossoni intellettuali generati dalle discussioni con Aldo Mondino e Michelangelo Pistoletto, tra le poche occasioni di dibattito costruttivo di stampo artistico e talvolta politico in quella Torino di inizio anni Sessanta così isolata dalla scena italiana e internazionale a causa della sua “monocultura industriale”, che ne limita, non promuovendolo, lo sviluppo culturale e lo scambio di idee, e dove la maggior parte degli artisti di conseguenza si allinea passivamente alle tendenze, relegando ogni tentativo di ricerca e innovazione a fenomeno underground. Se questo elemento attivo e solidale inizialmente assume le forme di un’invasione da parte degli oggetti dello spazio dell’esperienza, attraverso opere che coniugano l’interazione con il visitatore a un confronto vissuto come positivo con un’ipotetica società futuristica (le Macchine per il futuro, la serie dei tappeti-natura), ben presto si evolverà, in virtù di una consapevolezza infine maturata, in interventi sulla realtà che superano la limitatezza dell’oggetto per farsiesperienze di aggregazione comunitaria. Questo lo si evidenzia in particolar modo in Mario Merz che nella sua opera sopraggiunge un’impressione di straniamento, che nasce dalla sensazione di ritrovarsi in una dimensione alternativa ma allo stesso tempo familiare. Uno spazio popolato da oggetti e materiali non avvertibili come tali, presenti ma allo stesso tempo impalpabili, privi di quella mondanità che ne rende possibile l’abitudine visiva e d’uso e ricondotti a una primordialità essenziale. L’oggetto viene infatti spogliato dei valori che socialmente gli si attribuiscono, dall’economico al funzionale, dall’estetico all’affettivo, per esser depurato da tutto il superfluo e dall’“idea di oggetto-oggetto” ed essere sintetizzato in una nuova forma. In Merz quindi si assiste a una trasfigurazione di questi oggetti che non sono più oggetti ma entità di diverso ordine, sperimentabili a un livello puramente istintivo perché appartenenti a un passato ancestrale di cui non si ha ricordo eppure realmente percepibile, non ricostruibile in maniera razionale in una struttura logica: la coscienza non può far altro che prendere nota di un momento di afasico riconoscimento. In presenza di questi oggetti sublimati si assapora la sensazione di ritrovare dentro di sé un qualcosa di arcaico, di legato a un tempo lontano e non conoscibile, un luogo di memoria condivisa nel quale hanno sedimentato quelle tradizioni e quei saperi che formano il bagaglio di conoscenze innate di ogni individuo. Riunendo in sé il carattere archetipico di un’esperienza mitica comune e la tangibilità di un’esistenza indiscutibilmente reale, l’oggetto, “di un esistenzialismo totale”, si fa depositario di una saggezza pratica, di un modo antico di vedere e fare le cose che nella sua radicale semplicità privo cioè di tutte quelle sovrastrutture culturali che ne celano, con la loro pesantezza e ingombranza, la finalità reale riesce a mettere l’uomo nella condizione di riallacciare quelle relazioni con il mondo che ha dimenticato. Viene così risvegliata la capacità umana di stabilire un intimo contatto prima con la natura, non più tenuta al di fuori ma accolta dentro di sé, poi con gli altri uomini, ora parte di una comunità che si è riscoperta globale e intrinsecamente solidale, e infine, soprattutto, con se stessi. L’azione dell’oggetto si rivela quindi bidirezionale e continua e parte dall’interiorità dell’artista, che riscoprendo una fantasia elementare fatta di solidi e serie numeriche decide di immetterla nel mondo in forma oggettuale, attuando “uno scambio cioè tra reale e immaginario” in seguito, dall’esterno del suo essere realmente presente si muove verso il dentro dell’osservatore risvegliandolo alla memoria e realizza così un ciclo che esce dalla gerarchia del tempo storico per entrare in una temporalità infinitamente dilatata che si espande tanto nel passato quanto nel futuro, perché il movimento della memoria si propaga in tutte le direzioni, aprendo la possibilità del “tutto” come visione – rendendolo materiale. L’essenzialità universale e concreta degli oggetti di Merz affonda le sue radici in una di quelle zone dove gli opposti non sono in contraddizione ma generano dialetticamente nuove possibilità: un limbo archeologico, un archetipo concreto, uno spazio mentale. Ed è proprio in questa zona che si realizza quell’identità tra l’oggetto e il materiale di cui è costituito, perché se l’oggetto, apparendo in primo luogo alla mente sotto forma di idea, necessita del materiale per acquisire organizzazione strutturale e visibilità, il materiale non può fare a meno di essere scelto come risposta alla situazione urgente che anima l’oggetto per assumere una sua espressività.
E nonostante la varietà potenzialmente infinita di elementi da usare puri, Merz ha una sua gamma personale e circoscritta a cui affidare il compito di elaborare la fisicità dell’opera. Un po’ come accade al pittore, anche Merz si avvale di un numero limitato di mezzi amorfi fondamentali dalle cui combinazioni è possibile ricavare la totalità delle risposte richieste dalle necessità poetiche e plasmare così la sua sensibilità – del resto, un approccio di stampo pittorico, inteso in senso ampio, accompagna la sua opere fin dagli inizi informali. Eppure ci sono due differenze di metodo tra l’uso che Merz fa della materia prima e quello di un pittore. In primo luogo, la presenza di certi materiali piuttosto che di altri nella sua tavolozza è il frutto di una scelta e non di un obbligo imposto dal soggetto. Bisogna inoltre tener presente che i materiali non sono più identificati con se stessi ma con le loro proprietà e talvolta, come nel caso della tela, con un simbolo di se stessi – ed è proprio ciò che guida la scelta. Ecco che allora Merz usa il vetro non come finestra ma come trasparenza, e i giornali non come mezzi d’informazione ma come parole e storia; il neon, in particolare, non è più una lampadina ma pura luce. In una profusione di pietra, argilla, cera, neon, ombrelli, bottiglie, animali impagliati, i materiali allo stato grezzo e informe tramite il gesto dell’artista assumono una propria identità e diventano elementi attivi che agiscono nella e sulla realtà creando una rete di relazioni mutevoli tra di loro e con lo spazio. Questo polimaterismo non fa che complicare ulteriormente la pratica conservativa, in quanto moltiplica la quantità di ricerche che il restauratore deve condurre per comprendere la composizione e il comportamento dei materiali, oltre che costringerlo a considerare tutti i possibili effetti dell’interazione tra materie diverse. Non sempre però si può conoscere in anticipo il grado e l’intensità con cui influenzeranno a vicenda le rispettive proprietà fisicochimiche e i relativi processi degrado, che potrebbero essere tanto smorzati (come per le materie plastiche su cui sono stese mani di pittura, che le proteggono dalla luce, dall’ossigeno e dai depositi atmosferici) quanto accelerati (incompatibilità chimica, il degrado dell’uno innesca o affretta il deterioramento dell’altro, etc.). La nuova categoria di variabili che si viene così a creare trasforma, semplificandola o rendendola più problematica, la natura e la sostanza delle misure conservative dirette o preventive da soppesare. Data la natura scomponibile e talvolta modulare di gran parte delle opere di Merz, in cui i diversi elementi non sono concretamente legati in maniera indissolubile, in molti casi si è potuto procedere al restauro individuale dei singoli pezzi e talvolta anche alla loro sostituzione. Un’operazione che se nell’etica tradizionale non solo è malvista ma integralmente respinta, per quanto riguarda l’opera di Merz è stata spesso sostenuta dal consenso dell’artista stesso, 81 che in alcune occasioni, come per il restauro di Nella strada (1967), ha addirittura aiutato i restauratori a ricostruire quelle parti (i quattro elementi in legno laccato) ormai prive della loro espressività o andate perdute. Nonostante non si sia mai rifiutato di collaborare con chi gli chiedeva consigli, opinioni e approvazioni per la conservazione e l’allestimento, egli non ha mai dato una spiegazione definitiva e sicura delle sue opere dal significato aperto e mutevole che segue lo slittamento spazio-temporale dell’oggetto nel suo movimento continuo, lasciando l’interpretazione ai singoli osservatori e mettendo così curatori e restauratori nella condizione di non poter esser certi dell’effettivo valore simbolico di ogni elemento. Ossia, impedisce un’accurata distinzione tra le componenti secondarie e quelle insostituibili. Si analizzerà la simbologia di alcuni dei materiali utilizzati da Merz e il loro trattamento in sede di restauro in base alla letteratura reperibile a riguardo. Le opere prese in considerazione sono: – Igloo di Giap, 1968. Tubi di metallo, rete metallica, sacchetti di plastica riempiti di argilla, neon, batterie, accumulatori. Centre Pompidou, Parigi. – Città irreale, 1968-69. Struttura d’acciaio, mussola sintetica, cera, neon, batterie, accumulatori. Stedelijk Museum, Amsterdam. – Spicchi di igloo, 1979-85. Tubi di metallo, rete metallica, velatino, tela dipinta, lastre di cera. LAC – Lugano Arte e Cultura. – Objet cache-toi, 1969-2001. Tubi di metallo, rete metallica, teli catramati, argilla, neon. Collezione privata. – Chiaro Oscuro, 1983. Tubi di metallo, rete metallica, vetro, fascine, argilla, morsetti, cemento. Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Rovereto. Il recupero delle strutture primarie operato da Merz è inscindibile da una sua rivalutazione delle coordinate spazio-temporali in un’ottica che non distingue tra la loro dimensione quotidiana e quella assoluta ma le fa aderire perfettamente l’una all’altra, con il risultato che anche la tecnica interpretativa attraverso cui l’uomo si confronta da sempre con lo spazio e con il tempo – ossia l’architettura – viene messa in discussione. Per Merz, in un’epoca in cui l’uomo tende a riavvicinarsi alla natura piuttosto che escluderla, arroccandosi in fabbricati che oltre a suddividere lo spazio in aggregati funzionali raziona, ottimizzandolo, anche il tempo da trascorrere in ognuno in base alla destinazione d’uso, l’architettura dell’isolamento affronta una crisi che pone in dubbio la sua stessa esistenza. A questo spazio-tempo organizzato viene opposto sempre di più uno spazio-tempo naturale non identificabile però con la natura e i suoi ritmi comunemente intesi, esterni, ma con quella zona interna all’uomo dove questi riesce ad avvertirne le vibrazioni più intime, che è poi ciò che fa risuonare alle stesse frequenze tutto il vivente. In quanto decodifica di un parametro fisso universalmente dato non può esimersi dall’essere comunque un’operazione culturale di carattere architettonico, seppur di tipo diverso e nuovo: “L’uomo assumendosi il potere dello spazio sullo spazio crea un’architettura nuova che è quella del passaggio di se stesso sullo spazio cosmico totale. L’arte questo spazio lo vede dal di fuori per cui collega i due spazi; collegando i due spazi crea una nuova possibilità di visione”. Lo sguardo dell’arte – e dell’artista – permette il travalicamento del muro della realtà da parte di ciò che risiede nello spazio mentale come idea, realizzandosi in una visione totale priva di divisioni e pertanto di omissioni. In un’arte come abbattimento delle barriere spaziali si libera l’archetipo architettonico che prende forma e che nel suo occupare spazio rivela la presenza fisica e lo svolgersi del tempo che ha impiegato a sedimentare nella memoria universale e a diventare elemento naturalmente condiviso. Uno “spazio che crea lo spazio del tempo” perché risponde a una “concezione dello spazio vista attraverso il tempo” eternamente lontano di una struttura elementare e mitica di cui l’igloo è uno dei condensati più potenti, poiché, una volta ripescato dal fondo del tempo comune come “idea organica” e ricondotto dall’arte a uno stato visibile di complessa sintesi materiale, dispiega quelle componenti attive che lo rendono uno spazio vitale di contatto profondo. La sua semisfera appoggiata sul pavimento infatti richiama al tempo stesso il globo terrestre, quell’universo-mondo che comprende ogni aspetto di ogni esistenza, e la forma più primitiva di rifugio e abitazione, con la sua caratteristica ambivalenza relazionale. Da un lato racchiude una dimensione privata in cui l’uomo si concilia con se stesso nella solitudine avvolgente e protettiva della cupola-ventre, mentre dall’altro la dimensione più comunitaria del focolare domestico in cui si consolidano i legami familiari, che grazie alla flessione sineddotica improntatigli dalla cupola-terra indicano l’intima connessione di tutti gli uomini. Un luogo trasparente e di passaggio tra interno ed esterno che si carica di significato nel momento in cui è lì presente, rendendo possibili le relazioni potenziali di cui è impregnato e non semplicemente rappresentandole. Il metodo di assemblaggio adottato da Merz per la realizzazione pratica dell’igloo una volta terminata la fase di progettazione e fruizione mentale ricalca la doppia natura dell’oggetto, generale e particolare in un unico movimento continuo. Lo scheletro dell’igloo è costituito da una struttura di tubi metallici saldati fra loro in modo tale da ottenere un perimetro circolare d’appoggio da cui si dipartono un numero di semicerchi massimi variabile in base alla grandezza dell’opera. Nella maggior parte dei casi poi il telaio è ricoperto da una rete metallica che permette l’appoggio o il fissaggio, normalmente attraverso l’uso di fil di ferro, dei materiali che andranno di volta in volta a costruire il significato specifico di un’opera. Grazie alla rete metallica inoltre Merz riesce a ottenere una superficie uniforme che indipendentemente dal tipo di materiale di cui è ricoperta permette all’igloo di ritenere una forma semisferica priva di rientranze, gobbe, buchi e irregolarità in genere. Si prendano per esempio i teli catramati di Objet cache-toi e la tela dipinta di Spicchi di igloo, che senza il supporto della rete seguirebbero l’alternarsi discontinuo dei tubi dando luogo a inopportuni avvallamenti, o anche i panetti d’argilla cruda avvolti nella plastica dell’Igloo di Giap, che appesi alla rete metallica stesa sopra la struttura tubolare a distanza estremamente ravvicinata gli uni dagli altri ne seguono l’andamento. Le uniche eccezioni sono quelle opere in cui l’artista vuole evidenziare le proprietà dello spazio trasparente e osmotico occupato dall’igloo, creando una continuità visiva tra l’interno e l’esterno che verrebbe ostacolata dalla presenza di un elemento di supporto privo di valore espressivo. In questi casi i materiali vengono appoggiati o fissati direttamente alla struttura tubolare, come accade in Chiaro Oscuro, in cui le lastre di vetro sono tenute in posizione per mezzo di morsetti applicati sui tubi e pani d’argilla situati esternamente alla base. Adattamenti pratici dei diversi modi in cui l’artista organizza l’idea di igloo, i materiali, con la loro fisicità, sono l’igloo in tutte le sue possibili variazioni, incorporando e facendo scomparire sotto il loro peso e la loro materialità qualsiasi intelaiatura metallica (anche se perfettamente visibile), metafora dell’idea, ma senza la quale l’opera mancherebbe di supporto e solidità non solo strutturali ma anche ontologici. Sarà dunque necessario, in fase di analisi preliminare dell’opera, riservare alla struttura tubolare e ai singoli materiali il medesimo grado di attenzione. I tubi utilizzati da Merz sono solitamente in ferro o acciaio, materiali che presentano una buona resistenza all’invecchiamento se conservati in un ambiente con un basso livello di umidità relativa e protetti dalla condensazione di acqua sulla superficie, dal dilavamento e dai depositi di agenti atmosferici. Un esempio particolarmente emblematico a questo proposito è quello di Spicchi di igloo, in cui la porzione di semisfera tubolare che fuoriesce dal muro, per metà rivestita da una tela di cotone dipinta e per metà coperta da uno strato non omogeneo di lastre di cera, presentava al momento del restauro differenti livelli di degrado nelle due parti. Se il telaio dello “spicchio dipinto” appariva in buono stato e privo di fenomeni corrosivi grazie alla protezione fornita dalla tela a trama stretta, nello “spicchio ceroso” i tubi al contrario erano interessati da diffusi e avanzati processi ossidativi che avevano intaccato anche i fili metallici di ancoraggio dei pannelli di cera, la cui disposizione discontinua aveva lasciato esposte parti della struttura tubolare. La forma e la grandezza variabile delle lastre di cera, unita alle diverse distanze fra le parti preposte al loro supporto (nove tubi metallici orizzontali aggiuntivi con porzioni di tela plastificata verde di dimensioni variabili) creano una trama volutamente imprecisa e casuale che blocca una quantità di particellato atmosferico e agenti inquinanti molto inferiore rispetto alla tela. Queste sostanze, come i prodotti della combustione industriale (anidride solforosa, ossidi di azoto, acido solfidrico e particelle carboniose), le polveri igroscopiche e i sali, catalizzano i fenomeni ossidativi del ferro e delle sue leghe, di cui il più comune nei manufatti esposti all’atmosfera è la corrosione a umido. Questa avviene in un ambiente umido o acquoso dove l’ossigeno atmosferico in esso disciolto rende possibile lo sviluppo sulla superficie del metallo di processi elettrochimici che portano alla formazione di ossidi diversi a seconda delle sostanze presenti nella parte umida, della possibilità o meno di processi autocatalitici, della quantità di acqua disponibile. L’ossido ferroso, la goethite, la limonite, sono alcuni dei prodotti dell’ossidazione che possono comparire sul ferro, e ognuno presenta delle proprietà specifiche. In particolare gli idrossidi, genericamente noti come ruggine, che si formano in ambienti molto umidi con pH acidi, indipendentemente dal grado di compattezza tendono a essere molto porosi e poco aderenti al substrato, permettendo la costante diffusione attraverso di essi di aria umida che continua ad alimentare il processo. La procedura standard da adottare quando si ha a che fare con i metalli ossidati è esemplificata dall’intervento svolto sul telaio tubolare dello spicchio ceroso di Spicchi di igloo: in un primo momento si procede alla rimozione meccanica dei prodotti dell’ossidazione adoperando bisturi, spazzolini, gommini o carte abrasivi, per poi passare all’applicazione di un inibitore di corrosione che ha il compito di “passivare” la superficie del metallo, ossia di isolarlo dagli agenti esterni impedendo così che questi possano attivare il processo di ossidazione. Per quanto riguarda invece le reti metalliche, oltre alla corrosione possono insorgere problemi e deformazioni strutturali a causa del peso al quale sono continuamente sottoposte. La rete di Igloo di Giap risultava infatti incurvata soprattutto nella parte ritagliata che funge da porta attraverso cui vengono inseriti i cavi e il sistema d’alimentazione delle lampade fluorescenti. Dopo aver sostituito gli anelli di fil di ferro che la collegano alla struttura principale, per garantirle una rigidità maggiore, sono state anche infilate delle bacchette di metallo tra le maglie della rete per darle più sostegno. Il neon come “segno grafico”, il neon come gesto luminoso, viene impiegato da Merz essenzialmente in due modi. Un primo modo è quello che si osserva in opere come Impermeabile (1966), Senza titolo (1974) e Nella strada, dove il neon attraversa letteralmente gli oggetti reali unendoli non solo a livello visivo, creando un percorso luminescente che li porta a intersecarsi in modo più profondo, annichilendo le loro sembianze di oggetti comuni e assumendo le caratteristiche di una nuova entità priva dei riferimenti classici. Un movimento che riflette quello degli elementi che in ogni momento si compenetrano e si fondono nella dimensione naturale, il cui significato ultimo è in definitiva la trasformazione continua e perpetua, rappresentata fisicamente dal neon e dall’energia luminosa che secerne. Quando invece il neon è utilizzato per dare forma concreta a parole, frasi e numeri, come in Zebra (Fibonacci) (1973) e Objet cache-toi, la sua luminosità fissa gli conferisce quell’imperatività perentoria propria delle dichiarazioni, bloccandole in una dimensione spazio-temporale parallela in cui ciò che è detto o pensato è assolutizzato e si carica di una forza maggiore rispetto al suo reale uso in un contesto particolare. In entrambi i casi il neon è quindi elemento metamorfico, è trasfigurazione pura; è ciò che preleva le realtà terrene e quotidiane e le porta su un altro piano di esistenza, se stesso compreso, che da mezzo da utilizzare in illuminotecnica diventa luce. E’ quindi fondamentale che le lampade fluorescenti mantengano intatte le caratteristiche che contraddistinguono il tipo di luce emessa nonché l’intensità e la tonalità del colore. Il deterioramento dei tubi al neon è da imputarsi all’usura e al calo d’efficienza funzionale delle diverse componenti che inevitabilmente compaiono con l’uso. Iniziando dalle componenti elettriche abbiamo lo starter, che in fase di pre-riscaldamento interrompe il circuito in cui passa la corrente alternata che alimenta il campo magnetico nell’induttore del reattore e i due elettrodi di tungsteno agli estremi del tubo che riscaldandosi emettono elettroni, cosicché il picco di tensione generato dal collasso del campo magnetico provoca la liberazione degli elettroni accumulati e il conseguente passaggio di corrente elettrica, accendendo la lampada. C’è poi il reattore o ballast, composto da un induttore e da un trasformatore, il cui compito è quello di mantenere la tensione al livello nominale (230V). La rapida obsolescenza di queste parti abbassa il livello delle prestazioni e porta a malfunzionamenti della lampada, e sono dunque le prime a essere sostituite non solo per motivi artistici ma anche di sicurezza. Si prenda per esempio la scritta al neon di Che fare?, che al momento del restauro presentava un’illuminazione intermittente che disturbava una corretta fruizione dell’opera, causata da un reattore malfunzionante. In Igloo di Giap la sostituzione preventiva dei ballast originali con delle versioni più recenti dotate di sistemi elettronici per il monitoraggio dell’intero impianto si inserisce invece in un aumento delle misure di sicurezza da mettere in atto in sede espositiva: a questa infatti si aggiunge la sostituzione dei cavi che collegano i neon al reattore e l’aggiunta di elementi di protezione tra i cavi e gli elettrodi. Per quanto riguarda invece il tubo di vetro in sé, nel caso in cui sia trattato con cura, le principali cause di deterioramento sono da imputarsi alle temperature operative e all’esaurimento delle componenti chimiche al suo interno. La continua esposizione al calore nel tempo provoca scolorimenti, ingiallimenti e “black hazes” che fanno diminuire l’intensità della luce. Inoltre la sporcizia che inevitabilmente si accumula sulla parete esterna attutisce ulteriormente la luminosità e fa aumentare la temperatura operativa del tubo (normalmente tra i 40 e i 50°C) accelerando il deterioramento non solo del vetro ma anche delle altre parti. Nonostante le sue ore di vita si aggirino intorno alle 20,000, a causa dei ripetuti trasporti e installazioni corre anche un elevato rischio di danneggiamenti e rotture accidentali. Se a livello teorico la sostituzione di una lampada fluorescente guasta o crepata non è particolarmente impervio, il trattarsi di un prodotto facilmente reperibile in commercio non fa di certo diminuire la probabilità di ottenere risultati cromatici ed espressivi sensibilmente diversi. Come è accaduto ai due neon blu originali di Città irreale, dei quali non era specificata né la composizione chimica dei gas nobili, che vengono ionizzati dal passaggio della corrente elettrica, né quella della polvere fluorescente che rivestiva il tubo, ossia quell’elemento che rende visibili e conferisce una determinata colorazione ai fotoni emessi dal mercurio evaporato e ionizzato dai gas nobili allo stato eccitato, né tanto meno il contenuto di mercurio e la qualità dei materiali utilizzati. La prima sostituzione in seguito a rottura, avvenuta prima del 1974 in circostanze non documentate e mai precisate, già presentava forme e colori leggermente diversi. Al momento le lampade fluorescenti blu sono copie, il cui colore è ulteriormente alterato rispetto a quello del 1969 in seguito alle normative comunitarie che pongono restrizioni sulle quantità di mercurio utilizzabili. Anche gli altri tre tubi fluorescenti attualmente esposti, ossia quelli che compongono la scritta bianca “città irreale”, sono copie, ma in questo caso gli originali sono conservati nel magazzino dello Stedelijk Museum come matrici insostituibili per future repliche. Ed è proprio in quelle opere in cui le lampade fluorescenti sono modellate per dare forma a parole o numeri sorge un ulteriore tipologia di problematiche assente laddove il neon sia utilizzato in forma diritta o leggermente incurvata, ed è quella che riguarda la grafia originale e la manualità dell’artista. Data la fragilità dei tubi di vetro e la potenziale pericolosità di ogni spostamento, nonché l’impossibilità di procedere all’intervento diretto sull’originale in caso di rottura, è imprudente non disporre di una o più copie sostitutive e/o espositive, correndo il rischio di privare l’opera di una parte sostanziale della sua carica espressiva, quella luce che con la sua energia forgia una presenza fisica, e di smarrire così il suo intimo significato. Per ovviare a questo genere di inconvenienti, opere come Igloo di Giap non solo hanno già predisposti dei tubi di ricambio, ma ne vengono corredate a ogni prestito. Pur ripresentandosi la questione dell’unicità dell’opera, se si considera la pratica artistica di Merz la replica delle scritte al neon risulta una questione meno delicata di quanto in prima battuta potrebbe apparire. Da un lato perché l’importanza del tubo fluorescente è tale da rendere impensabile la fruizione di un’opera “spenta”. Dall’altro bisogna tener conto del fatto che Merz era solito affidare ad artigiani la fabbricazione delle lampade al neon per cui aveva concepito forme e colori di certo non reperibili in commercio e per la cui realizzazione non possedeva le abilità necessarie. E’ quindi eccessivo parlare di autografia, dal momento che l’unico segno dell’autorialità secondo un’interpretazione classica risiede nell’approvazione da parte dell’artista del lavoro finito. Il consenso, da parte di Merz quand’era in vita e da parte della Fondazione ora, è proprio ciò che viene cercato nel caso di queste copie preventive, per le quali si dovranno intanto reperire tutti i disegni e le indicazioni precise date originariamente dall’artista, e in secondo luogo le specifiche tecniche utilizzate dall’artigiano o dal laboratorio che per primo si è occupato del pezzo, sicché per ottenere la stessa tonalità di colore si dovranno avere informazioni riguardanti il tipo di vetro e il suo spessore, la composizione dei gas e delle sostanze fosforescenti del coating interno, il tipo di elettrodi e il voltaggio operativo. Quando questa documentazione non è disponibile e anche il tubo originale è andato perduto, come per Objet cache-toi, l’ultima risorsa rimangono le fotografie d’epoca, in base alle quali ricostruire una forma il più fedele possibile che in questo caso dovrà essere necessariamente convalidata dall’artista per non creare un falso. Proprio come avviene per l’igloo, anche i materiali che Merz preleva dalla natura-mondo vengono inizialmente ritrovati sul fondo di un sapere vivo e antico. In questi l’artista avverte più che in altri scorrere le forze vitali dell’universo, perché gli appaiono in qualità di sostanze pure che per prime o meglio di altre hanno aiutato l’uomo a preservarsi e a ricrearsi di volta in volta, e perciò sono quelle che meglio si adattano alle esigenze di espressività atavica dell’igloo. Le pratiche che si avvalevano di queste materie sono quella base originaria e fondamentale da cui si sono evolute tutte le successive tappe culturali di complessità crescente: partendo dall’uso tradizionale e popolare, Merz inizia così un processo di sublimazione della funzione pratica del materiale, e i suoi impieghi diventano il simbolo di ciò che è. Nel caso della cera d’api abbiamo un ampio spettro di utilizzi comune a molte società e culture diverse: principalmente usata per l’illuminazione grazie alla sua elevata infiammabilità, è anche frequentemente mischiato ad altri ingredienti per la creazione di unguenti per la cura di diverse lesioni della pelle, nonché versata calda sulle ferite per isolarle dall’esterno e prevenire le infezioni, favorendone la cicatrizzazione. Le sue caratteristiche plastiche l’hanno inoltre resa uno dei materiali d’elezione per la scultura, sia in ambito artistico che religioso. La cera quindi può verosimilmente porsi come elemento caldo che protegge l’alito di vita che crea. Perché se da un lato, con la sua capacità di generare luce e calore e di essere modellata, dà forma a entità vive, dall’altro rappresenta anche un rimedio e una cura alle sofferenze sia fisiche che spirituali delle realtà che plasma. Volgendo l’attenzione al deterioramento della cera d’api, quella normalmente utilizzata da Merz, questa presenta un’elevata stabilità a livello chimico, poiché la natura satura delle sostanze che la compongono la rendono particolarmente resistente ai fenomeni di ossidazione e conseguente polimerizzazione, oltre a presentare proprietà idrofobiche e a non essere solubile in acqua. Tra i pochi fenomeni di degrado chimico che possono interessare la cera vi sono quelli di natura idrolitica provocati dal contatto con sostanze basiche, altrimenti detti di saponificazione, che portano all’irrigidimento del materiale, oltre a un aumento del livello di acidità, e che insorgono molto lentamente col tempo a causa dell’esposizione all’atmosfera in cui sono naturalmente presenti composti alcalini. Queste reazioni non avvengono nella componente principale della cera, costituita da idrocarburi, ma negli additivi, come acidi grassi, trigliceridi e altri esteri, gli stessi il cui polimorfismo (ossia la capacità di mutare la propria struttura cristallina), attivato dalle variazioni di temperatura, porta alla migrazione di alcune di queste sostanze in superficie con la conseguente formazione di efflorescenze biancastre. Al contrario, la cera d’api presenta una scarsa tolleranza a fattori e stress di natura fisica: a una bassa resistenza meccanica, che la rende soggetta a crepe – anche in fase di indurimento durante la lavorazione, dette “crepe da ritiro” – fratture e rotture se non maneggiata con cautela e se sottoposta a eccessive vibrazioni, abbina un’elevata suscettibilità alla temperatura, che si presenta come il principale elemento di rischio. Se infatti a basse temperature si contrae, diventando più fragile, può essere deformata già a 30°C, nonostante il suo punto di fusione sia tra i 66° e i 71°C. Dal momento che la cera può quindi diventare malleabile e plastica già a temperatura ambiente, si può incorrere nell’eventualità di un inglobamento del particolato atmosferico depositatosi sulla superficie, che può diventare permanente alla risolidificazione della cera. Il riscaldamento del materiale, in particolare, è associabile non solo alla temperatura ambientale ma può anche essere indotto dalle radiazioni infrarosse e ultraviolette emesse dalle sorgenti luminose, naturali o artificiali. Talvolta, come appunto nel caso della cera d’api, naturalmente di colore giallo-bruno, le sostanze colorate fotosensibili contenute vengono alterate cromaticamente dall’esposizione agli ultravioletti. Considerando l’elevata percentuale di componenti grasse, la cera è anche vittima di attacchi di insetti, in particolare della tarma della cera, che si nutrono di queste sostanze. Fra le opere analizzate ce ne sono due in particolare che esemplificano al meglio i diversi modi in cui Merz utilizza la cera e i relativi processi di degrado. In Città irreale la cera, composta da una parte di cera d’api per quattro di paraffina e lasciata del suo colore naturale, è stesa con lunghe pennellate su una tela di mussola sintetica. Nonostante sia ancora in uno stato tale da non richiedere interventi di restauro diretto, l’elevato numero di crepe da restringimento soprattutto nella parte centrale, più spessa, ha reso necessaria la messa in sicurezza della tela che le fa da supporto: secondo l’opinione dei restauratori che se ne occuparono, la cera spalmata in questo modo, in quanto impronta personale dell’artista, è insostituibile, e perciò la sua materialità attuale va salvaguardata il più possibile attraverso misure di conservazione preventiva che evitino perdite di tensione della mussola che porterebbero a ulteriori fratture e, nel peggiore dei casi, a distacchi. In Spicchi di igloo invece si può osservare l’uso della cera di gran lunga più caratteristico e frequente nelle opere di Merz, ossia in forma di lastre applicate alle strutture tubolari degli igloo. Al momento dell’analisi dell’opera le 19 lastre di forme, dimensioni e spessori variabili, realizzate presumibilmente colando in stampi di carta cerata la cera composta integralmente da cera d’api, presentavano come nel caso di Città irreale molte crettature causate dal processo di raffreddamento. Al fianco di queste si potevano osservare fessurazioni d’origine accidentale nonché la mancanza di alcune parti che si erano distaccate, oltre a un generale cambiamento di colore dovuto a processi fotochimici e all’accumulo di depositi atmosferici sulla superficie. Inoltre era stato rilevato un attacco di insetti, ancora in atto in fase di studio preliminare, che aveva scavato un cospicuo numero di gallerie all’interno delle lastre. Prima di procedere ulteriormente era pertanto d’obbligo effettuare la disinfestazione dei pannelli, realizzata in questo caso tramite anossia, la quale prevede l’inserimento del manufatto in sacche impermeabili all’ossigeno insieme ad assorbitori di ossigeno atmosferico. Il passo successivo, cinque settimane dopo, è stato quindi la pulitura dei depositi atmosferici accumulatisi sulle superfici, seguita dalla fase di consolidamento. In entrambi gli stadi sono state utilizzate sostanze Particolari del fronte (a sinistra) e del retro (a destra) di una lastra di Spicchi d’igloo. (Lo stato dell’arte 4: 4. congresso nazionale IGIIC: volume degli atti: Siena, Santa Maria della Scala, 28-30 settembre 2006, Nardini, Firenze 2006). Particolari di una galleria (a sinistra) e di un insetto (a destra). (Lo stato dell’arte 4: 4. congresso nazionale IGIIC: volume degli atti: Siena, Santa Maria della Scala, 28-30 settembre 2006, Nardini, Firenze 2006). 95 che non danneggiano lo strato ceroso né durante né dopo l’applicazione, come l’adesivo a base di resina epossidica fluida utilizzato per reintegrare i frammenti distaccati, che mantiene la sua elevata elasticità anche alle basse temperature e non si ritira durante l’indurimento, evitando la formazione di ulteriori tensioni. Le gallerie create dagli insetti sono state infine riempite con della cera prelevata dal retro delle lastre. L’argilla è un minerale che si forma per sedimentazione in seguito al trasporto e al deposito di frammenti litici di dimensioni inferiori all’1/16 di mm derivanti dall’erosione delle rocce magmatiche (graniti, basalti, etc.). I minerali argillosi di cui è in massima parte composta sono silicati idrati di alluminio che si originano dalla decomposizione per effetto degli agenti atmosferici dei feldspati (minerali a base principalmente di silicio, ossigeno e alluminio) contenuti nelle rocce originarie; a questi si aggiunge solitamente una quantità inferiore ma variabile di depositi sabbiosi e altri minerali di diversa origine, tra cui talvolta ossidi di ferro che in genere le conferiscono particolari colorazioni, come il giallo o il grigio-verde. Una delle proprietà più caratteristiche dell’argilla, che l’ha resa uno dei materiali maggiormente impiegati per la modellazione, è l’elevata plasticità che acquista una volta assorbita acqua. Questa è da ricondursi alla sua conformazione a fogli, in cui gli ioni di sodio posti tra uno strato (altrimenti detto “micella”) e l’altro non solo tengono unita la struttura dandole compattezza, ma attraendo le molecole di acqua e facendole penetrare all’interno fanno in modo che il legame tra le singole micelle si allenti e la distanza tra di loro aumenti. Gli strati lasciati così liberi di scivolare e di scorrere l’uno sull’altro permettono la manipolazione dell’argilla, che altrimenti sarebbe fragile e friabile. Questo spiega perché in campo artistico l’argilla cruda ha da sempre rappresentato una tappa intermedia del processo, che si concludeva necessariamente con la cottura del manufatto sia per stabilizzarlo da un punto di vista fisico-chimico sia per motivi estetici, come avviene nella produzione di ceramiche e porcellane, il cui caratteristico colore bianco è dovuto alla cottura di argille prive di sostanze a base ferrosa. L’unico ambito in cui l’argilla trovava un suo impiego definitivo da cruda era quello architettonico degli albori della civiltà, sotto forma di mattoni, e comunque anche in questo caso non veniva mai utilizzata “pura” ma come componente della cosiddetta “terra”. Le proprietà plastiche e leganti dell’argilla mischiata con l’acqua venivano infatti abbinate a quelle stabilizzanti di sabbia e paglia, che riducono i fenomeni di ritiro in fase di essiccamento e aumentano la resistenza meccanica del mattone una volta indurito. Considerando la forma e la disposizione tipica dell’argilla nella opere di Merz, sotto forma di pani singoli per sorreggere le lastre di vetro non fissate alla struttura tubolare o appesi fitti sulla rete metallica che copre l’igloo per ripescare un’idea antica di muratura, è proprio a questo suo uso primitivo che l’artista torinese si rifà: l’argilla come abitazione primordiale e aggregatore sociale, l’argilla che con la sua modellabilità permette alla vita che si muove al suo interno di ricrearsi di continuo. Come la cera è quindi un elemento caldo che genera le forze vitali dell’uomo e se ne prende cura. Se sono state sviluppate delle misure di restauro per le costruzioni in mattoni crudi, di cui è dovere preservare l’importanza storico-antropologica, non si può dire che lo stesso sia accaduto per le rare applicazioni dell’argilla cruda nelle arti visive. Le opzioni conservative sono davvero limitate: o si procede per irrorazione con acqua, che permette di ricreare la coesione tra i frammenti staccati e sbriciolati modellando direttamente la materia, o attraverso l’applicazione di adesivi per un incollaggio a secco. Per la conservazione dei 440 panetti di Igloo di Giap ci si è avvalsi di entrambi i metodi, da un lato per un consolidamento generale di tutti gli elementi, dall’altro per riparare i danni di entità maggiore. Eppure, se nel caso di un modello di scultura come quello del Ratto delle Sabine del Giambologna (uno dei rarissimi esempi di restauro di una statua in argilla cruda) l’unica soluzione possibile per non alterare le forme originali è l’uso degli adesivi, per quanto riguarda i blocchi d’argilla di Merz, non plasmati dal tocco personale dell’artista, una tale soluzione potrebbe apparire eccessiva. “Le fascine rappresentano la nostra quotidianità. Un gruppo di fascine messe insieme acquista un’ombra furiosa: io le ho viste qualche volta nelle grange di montagna, questi boschi disseccati e messi insieme, sembrano immesse in una specie di attesa. Sono straordinariamente evocative di un paesaggio astronomico e anche se prendono la loro qualità meditativa da un paesaggio culturale della grangia di montagna, nel lavoro diventano più astrali, si fanno scultura, tra il vivo e il morto, non sono né la scultura né la non scultura. E’ un vivo e un morto insieme, sono stranissime”. Bosco in miniatura inserito nei ritmi cadenzati dell’attività umana, le fascine riuniscono in sé la natura e la sua manipolazione. Costrette nelle realtà statiche a cui le piega la volontà dell’uomo, le fascine impiegano questi magazzini temporali come trampolino verso un altro e intangibile ordine di idee per ritornare nel luogo da cui provengono, dove esistono come elemento dell’immaginazione e dal quale traggono il loro potenziale emotivo, che rilasciano in forma di concentrazione fisica e pura quotidianità. Tant’è che non a caso Merz le paragona alla siepe leopardiana oltre la quale si apre l’infinito: le fascine come luogo emozionale di elevazione spirituale. I ramoscelli che costituiscono le fascine si deteriorano in breve tempo, principalmente a causa dell’evaporazione del contenuto idrico che porta a cambiamenti di colore e a una perdita delle proprietà meccaniche, già di per sé scarse, oltre a essere a rischio di attacchi biologici da parte di insetti e funghi che possono danneggiare anche altri manufatti. Per quanto riguarda le fascine che ricoprono l’igloo di dimensioni maggiori di Chiaro Oscuro si è deciso di sostituirle ciclicamente, reperendole dai vigneti intorno a Rovereto, non solo per far fronte nella maniera più economica al rapido degrado del materiale ma anche per aderire il più possibile alle intenzioni originarie dell’artista, per il quale i materiali “vengono scelti di volta in volta, dettati dalle sorte, dal luogo, dalla vicinanza di altri elementi, dalla dittatura dei vegetali”. Innestandosi sulla forma archetipica – e perciò costante – dell’igloo, l’elevata specificità delle singole opere dipende allora dalla relazione con l’ambiente, laddove il materiale è espressione della reazione dell’artista alle circostanze e alle coordinate particolari: un reciproco adattamento pratico alle rispettive peculiarità che si esplica “nel fare”, come scrive Bartolomeo Pietromarchi, e non risponde a un progetto preesistente, rendendo assai ardua una lettura e una decodifica precisa delle diverse opere, il cui perpetuarsi dipende unicamente – e allo stesso tempo è messa a rischio – dall’interpretazione delle direttive lasciate dall’artista. Ci sono poi quei materiali che non hanno un significato particolare e fungono solo da supporti e protezioni. Da questo punto di vista sono tanto importanti quanto i materiali simbolici, giacché l’efficacia espressiva nonché la sopravvivenza di questi ultimi dipende unicamente – o per lo meno in massima parte – dall’integrità dei tessuti e delle pellicole che li avvolgono o sostengono. In Città irreale la mussola sintetica su cui è steso lo strato di cera è presumibilmente dello stesso tipo di quelle utilizzate per la realizzazione delle zanzariere o, in agricoltura, per la protezione delle coltivazioni dalla grandine, considerando sia l’aspetto sia il risultato delle analisi preliminari, che hanno indicato il polietilene come componente unica del filo con cui è tessuta la trama larga della tela. In questo caso si tratterebbe allora di polietilene ad alta densità (HDPE), un polimero idrocarburico la cui elevata rigidità gli è conferita dalla struttura in gran parte lineare e dall’alto livello di cristallinità. Idrorepellente, resistente all’azione di alcol e solventi, come la maggior parte delle plastiche risente particolarmente dell’azione delle radiazioni sia solari che artificiali, soprattutto di quelle a onda corta come l’ultravioletto, e dell’ossigeno. Nonostante il tipo di polietilene impiegato da Merz fosse verosimilmente schermato dall’azione dei raggi UV grazie all’aggiunta di additivi stabilizzanti, queste protezioni non si rivelano mai permanenti, finendo per sottoporre comunque, nel lungo periodo, il materiale a processi foto-ossidativi. Questi danno luogo in un primo momento a scolorimento e perdita di lucentezza della superficie, per poi portare al deterioramento delle proprietà meccaniche del materiale con la conseguente comparsa di crepe e fratture e un maggior rischio di rotture in caso di sollecitazioni meccaniche. Nel caso di spessori del polietilene così ridotti, la perdita di flessibilità della struttura avviene rapidamente e nel giro di breve tempo il materiale inizia a infragilirsi e a sgretolarsi. La mussola di Città irreale, per quanto sia ancora in buone condizioni probabilmente grazie alla protezione fornita dalla cera, con cui condivide la stessa composizione chimica, presenta già un sensibile calo di elasticità osservabile nella irreversibilità di alcune pieghe. Dal momento che il degrado del polietilene è irreversibile e che nelle fibre, a differenza dei manufatti stampati, non si può nemmeno tentare il consolidamento delle fratture tramite applicazione di adesivi, le opzioni di restauro sono praticamente inesistenti, dato che l’unico altro metodo per ricongiungere elementi in polietilene è quello industriale. I restauratori hanno così volto la loro attenzione alla conservazione del tessuto nel suo insieme piuttosto che delle singole fibre di cui è composto, mantenendolo in tensione per evitare che gli sfregamenti derivanti da un eventuale allentamento provochino crepe e distacchi nello strato ceroso soprastante. E’ questa una forma di protezione reciproca, poiché non solo si impedisce la perdita dell’elemento autografo, ma si fa anche in modo che la cera, rimanendo integra, continui a proteggere a sua volta la tela rallentandone il deterioramento. Con questo obiettivo si è proceduto alla cucitura con fili di nylon dei buchi lasciati dai ripetuti inserimenti e rimozioni dei tubi e dei cavi delle lampade fluorescenti (in particolare dei due neon azzurri) in parti diverse, così come alla tessitura di un filato trasparente nella trama della mussola per aumentarne la stabilità. Si è inoltre assicurata l’immobilità sia della tela che della scritta al neon tramite agganci più saldi ai rispettivi supporti, ossia la cornice d’acciaio per il tessuto e il tessuto stesso per i tre tubi fluorescenti. Un altro caso in cui Merz affida a una tela sintetica il supporto della cera è osservabile in Spicchi di igloo, in cui le lastre cerose sono fissate alla rete metallica dell’igloo da fil di ferro arrotolato in pezze di velatino parzialmente incorporate nei pannelli. Al momento del restauro la tela si presentava fragile e lacerata in alcuni punti, tanto da non poter più sorreggere il peso delle lastre di cera. Per rinforzare il tessuto e provvedere a un aggancio più saldo e resistente alla rete, sono quindi state incollate con resina acrilica nuove porzioni di velatino a quelle originali e aggiunti dei rinforzi intorno ai punti di ancoraggio. C’è poi il caso dei sacchi di plastica che avvolgevano i pani d’argilla di Igloo di Giap. Non solo avevano perso la lucidità e la trasparenza originali a causa del deterioramento e della polvere dell’argilla che nel frattempo si stava sbriciolando, ma stavano anche subendo gli effetti della vicinanza alle lampade fluorescenti, in quanto non resistenti alle temperature operative di queste, e dei ripetuti allestimenti e disallestimenti dell’opera, che provocavano strappi e lacerazioni della plastica troppo sottile. La scelta dei restauratori è stata quindi quella di sostituire i sacchi di plastica comune con un materiale che resistesse alle condizioni estreme a cui sarebbe stata sottoposta dall’opera, dopo che una prima sostituzione fu tentata a fine anni Ottanta con il polyane, che però, nel giro di poco tempo, presentò i medesimi problemi del suo predecessore. La plastica selezionata, una pellicola FEP prodotta dalla DuPont, trasparente, tanto lucida da doverne attenuare la brillantezza e resistente alle sollecitazioni meccaniche e a temperature superiori ai 200°C, venne così impiegata per la creazione dei nuovi sacchi in cui porre l’argilla ricostruita e consolidata. Il percorso di mostra ripercorre senza soluzione di continuità l’opera di Mario Merz, restituita attraverso ogni sua sperimentazione. Dalla struttura in metallo, rami, vetro e mastice che compone Acqua scivola (1969) si passa ai disegni in tecniche varie tratti della serie Senza titolo (1978) e alle sperimentazioni nella tecnica del collage di Senza titolo (1998). Dall’incontro tra tela, roccia, terra e neon scaturiscono lavori come Un albero occupa soprattutto tempo, due alberi occupano il medesimo tempo ma uno spazio maggiore e Senza titolo (1991). Cinque gli inconfondibili igloo che popolano l’esposizione, tracciando un percorso che porta dalla struttura metallica, gomma, vetri, giornali, neon, argilla di Senza titolo (1985) alle intersezioni con il neon di le case girano intorno a noi, o noi giriamo intorno alle case? (1994-1999) e Spostamenti della terra e della luna su un asse (2002). Non mancano le lavorazioni in tecnica mista, che spaziano da La natura è l’equilibrio della spirale (1976) a Il guardiano (1981), così come le caratteristiche sperimentazioni con il neon alla base di opere come Pittore in Africa (1984) e Fibonacci sequence (2002). Durante l’inaugurazione è stato presentato presentato Mario Merz. Igloo, primo volume del catalogo ragionato dell’opera dell’artista, dedicato agli igloo. Basato sull’esaustiva ricerca condotta dalla storica dell’arte Maddalena Disch, il catalogo rappresenta un progetto editoriale di Fondazione Merz. Il volume è introdotto da un testo a firma di Beatrice Merz e dalsaggio di Maddalena Disch. Ogni opera è presentata con una scheda analitica storica e biografica coadiuvata da accurati riferimenti bibliografici e da un esauriente repertorio fotografico. Il volume include testi dell’artista e interviste. Il libro, costituito da 560 pagine e 350 immagini, esce in due edizioni, una in lingua italiana e una in lingua inglese. Il progetto del catalogo è realizzato grazie al sostegno della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura nell’ambito del programma Italian Council (2023). Sarà infine proiettato il videodocumentario Che fare? / MARIO MERZ di Roberto Cuzzillo, che rende omaggio a Mario Merz con una selezione di interviste d’epoca, accompagnate da immagini di mostre passate e recenti. Il filmato esplora il significato dell’Igloo per Merz e offre una riflessione su cosa significasse essere artisti a quell’epoca. Attraverso le sue parole e le sue opere, emergono le sfide e le innovazioni di quegli anni, che hanno plasmato il panorama artistico moderno.
Fondazione Mario Merz Torino
Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola
dal 28 Ottobre 2024 al 2 Febbraio 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 11.00 alle ore 19,00
Lunedì Chiuso
Foto Allestimento Mostra Mario Merz Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola Courtesy Fondazione Mario Merz – Torino