Giovanni Cardone
Fino al 4 Maggio 2025 si potrà ammirare Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano una mostra dedicata a Tony Cragg. Infinite forme e bellissime a cura di Sergio Risaliti e Stéphane Verger: una grande mostra personale dell’artista inglese, tra i più celebri esponenti della scultura contemporanea, noto per aver sperimentato fin dagli anni Settanta forme sorprendenti accanto a materiali e tecniche inedite. La mostra, organizzata da BAM – Eventi d’Arte, esce dallo spazio del museo per irradiarsi nelle piazze della città, grazie alla collaborazione con Municipio I Roma Centro. Tony Cragg. Infinite forme e bellissime porta negli ambienti carichi di storia delle Terme di Diocleziano con le sue Aule imponenti, coperte da volte amplissime ben diciotto sculture, di medie e grandi dimensioni, realizzate negli ultimi due decenni in bronzo, legno, travertino, fibra di vetro e acciaio: forme seducenti, perturbanti, misteriose che ora rinviano al mondo minerale e vegetale, ora alla geologia e alla biologia, evocando le onde del mare, le strutture geometriche di una pianta o di una conchiglia che adesso entrano in dialogo con gli spazi archeologici del complesso monumentale. La ricerca artistica di Tony Cragg è da sempre concentrata sulle infinite possibilità del disegno e della scultura, in un confronto inarrestabile con la natura, con i suoi processi creativi e le sue strutture evolutive. Infinite forme e bellissime, una frase topica di Charles Darwin, evoca l’inarrestabile entusiasmo dell’artista di fronte alla ricchezza delle architetture della vita, dal microcosmo al macrocosmo, da una parte, e alla meraviglia che suscita il pensiero stesso, mai pago di affondare nella conoscenza della realtà, nell’inesauribile ricchezza di forme e modelli, di strutture e processi generativi che il mondo naturale ci mette davanti agli occhi: una ricchezza cui corrisponde il fare dell’artista, in particolare quello dello scultore, che può ‘pensare’ e creare nuove forme senza porsi limiti nell’utilizzo di mezzi e materiali. Un fecondo scambio di intuizioni e immagini tra naturale e artificiale, tra modelli biomorfici e virtuali, che derivano dall’osservazione delle composizioni organiche e delle strutture cristalline dei minerali, fino a coinvolgere forme elaborate digitalmente e prodotti nati artificialmente in laboratorio: dall’archeologia alla geologia, dalla storia dell’arte alla biologia. Nel titolo risuona così l’entusiasmo dello scienziato Darwin per le forme naturali i suoi processi evolutivi che così si esprimeva: “Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue molte capacità, che inizialmente fu data a poche forme o ad una sola e che, mentre il pianeta seguita a girare secondo la legge immutabile della gravità, si è evoluta e si evolve, partendo da inizi così semplici, fino a creare infinite forme estremamente belle e meravigliose” In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Tony Gragg apro il mio saggio dicendo : La rivista “Artforum” pubblicava un sostanzioso articolo del compianto Germano Celant il quale affermava la vicenda creativa di Cragg veniva esaminata a partire dagli esordi fino agli ultimi sviluppi . Posso affermare che nei primi anni ottanta, in cui era forte la presa di distanza dalla stagione concettuale e minimal, l’opera di Cragg incentrata nella sua fase più recente su composizioni di oggetti di plastica collocate sul pavimento o a parete veniva letta dal critico italiano come segno di una rinuncia alla centralità del punto di vista rinascimentale e come riflesso di quella crisi dell’ideologia di cui tanto allora si discuteva. Si scorgeva un trionfo della variazione e della moltiplicazione agli antipodi della tendenza all’analisi e alla chiarificazione propria delle ricerche concettuali degli anni settanta. Gragg è certamente figlio del suo tempo, come confermano i richiami oggi tutto sommato abbastanza improbabili, ma allora di moda, al Manierismo e ad Arcimboldo . Tuttavia penso che Celant coglieva nel segno quando percepiva nella scultura di Cragg il preludio di un cambiamento: “Forse alla scoperta di un processo ambiguo che trasformerà in qualcos’altro gli oggetti e le figure che non sono prontamente definibili e che spesso hanno caratteristiche contraddittorie. È come se ci trovassimo in un periodo di transizione, in cui i fatti non sono distinguibili né distinti”. Non era scontato prevedere a quella data una trasformazione che sarebbe iniziata soltanto qualche tempo dopo, doppiato il capo di metà decennio, e che avrebbe visto Cragg muovere gradualmente dalla forma frammentata a quella unitaria, dalla bidimensionalità alle volumetrie compatte, dall’occupazione dell’ambiente tramite l’installazione alla scultura isolata nello spazio. Fino a quel momento, il percorso dell’artista si era svolto in modo piuttosto lineare, per quanto a partire da un avvio non del tutto ortodosso. Prima di interessarsi all’arte, Cragg sulle orme del padre, ingegnere elettrico che progettava parti di aerei aveva conseguito una formazione tecnica che lo aveva portato tra il 1968 e il 1969 a lavorare come ricercatore biochimico in un laboratorio, attività cui i suoi biografi fanno risalire l’origine di un’attitudine scientifica che sarebbe rimasta alla base di tutta la sua opera. Passato dagli esperimenti di laboratorio alla sperimentazione artistica, si era iscritto al Gloucestershire College of Art and Design, dove era rimasto un anno, per poi continuare gli studi a Londra, alla Wimbledon School of Art e quindi al Royal College of Art . Le opere degli esordi risentono del clima concettuale e poverista all’epoca diffuso in Europa. Con la messa in discussione, a metà degli anni sessanta, dell’assunto modernista della specificità tecnica, si erano aperte per gli artisti possibilità illimitate. L’eclissi (momentanea) della pittura e della scultura aveva lasciato spazio da un lato a strategie basate sul linguaggio, dall’altro al ricorso all’oggetto e ai materiali, nonché alla persona fisica dell’artista. Il lavoro di Cragg consisteva in azioni semplici di raccolta di materiali e di occupazione dello spazio per mezzo di essi. Trovati sulla spiaggia, sul greto dei fiumi o ai margini delle strade, i materiali di cui si serviva erano tanto oggetti naturali, come ciottoli o conchiglie, quanto oggetti prodotti dall’uomo, utilizzati e successivamente scartati. In Combination of Found Beach Objects del 1970, detriti di vario tipo venivano ordinati e classificati all’interno di una griglia tracciata col gesso su cubi di cemento presenti sulla spiaggia, resti di un sistema di fortificazione della seconda guerra mondiale . Analogamente, in un altro intervento senza titolo dello stesso periodo, i materiali trovati erano suddivisi in base alla forma e al colore e racchiusi in buste di plastica sigillate. Si trattava di opere realizzate attraverso un procedimento razionale, calmo e sistematico o, come è stato spesso detto, di stampo quasi “scientifico” che retrospettivamente sembra scaturito dal bisogno di una elementare presa di contatto con il mondo e dalla volontà di esaminare e riorganizzare i dati dell’esperienza. Dopo il 1970 l’attenzione dell’artista si focalizza per qualche tempo sul mondo della natura: raccoglie alghe marine, con le quali traccia serie di cifre sulla sabbia, e sassi con cui disegna frecce dirette verso il bagnasciuga. Coerentemente con una dimensione generale dell’operare artistico coevo, che tendeva ad assumere aspetti performativi sempre più marcati, e nella quale in particolare i confini tra scultura e performance apparivano piuttosto sfumati erano questi gli anni in cui Gilbert & George si auto definivano “sculture viventi” e in cui Joseph Beuys parlava di “scultura sociale” in riferimento alla totalità dell’esistenza nel mio saggio monografico Il Rivoluzionario dell’Arte edito dalla la Valle del Tempo dedicato Beuys in cui affermo: Conclusa la fase di transizione all’interno del gruppo Fluxus, Beuys cominciò a consolidare con decisione il concetto d’arte in cui credeva. Una strada che proverà a seguire con grande tenacia nel corso di tutta la sua esistenza. Il cardine principale della sua teoria artistica a partire dagli anni Settanta risedeva nel concetto di «plastica» o di «scultura sociale» e nel cosiddetto «concetto ampliato d’arte». Un contesto in perfetta armonia con il costante impegno politico. Fu attratto dalla scultura fin dagli studi accademici, basti pensare al suo legame, dai toni spirituali, con lo scultore Wilhelm Lehmbruck, in seguito insegnante di Scultura monumentale all’Accademia di Düsseldorf. Beuys partì proprio da tale forma d’arte per l’elaborazione della sua personale strada artistica, una teoria estesa anche al sociale. Fece allora della scultura una parola chiave, avente molteplici accezioni: applicata all’arte da intendere in senso fisico e letterario, annessa all’azione politica, invece, in senso astratto e metaforico. Bisognerebbe comprendere, però, il senso di ‘scultura’. In tedesco, ad esempio, il riferimento a questa parola può valersi di espressioni differenti, Bildhauerei e Plastik. Il primo indica la cosiddetta scultura «a levare», quando lo scultore incide una materia solida e precostituita e ne elimina delle parti, dando origine a una nuova forma, ossia, l’opera d’arte finale. Il secondo, invece, può riferirsi all’azione del modellare materiali, non sono necessariamente solidi, si pensi alla pietra, ma che possono mutare forma perché più malleabili. Una tipologia che, a seconda delle variazioni di calore, può subire un cambiamento di stato, diventando da solida a liquida e viceversa. Beuys ha parlato di frequente di una «forma liquida», quella che, per eccellenza, fluisce e varia: sono molti i materiali in cui questa forma liquida si è già «irrigidita», rendendo il materiale solido. Beuys fu senz’altro interessato a esprimere il secondo concetto di scultura. Ecco da dove deriva l’espressione di Soziale Plastik. È una scultura modellata subendo una trasformazione sempre nuova, assumendo nuove configurazioni e forme. Un processo in continua evoluzione che l’artista augura alla stessa società. La scultura sociale è anche sinonimo del pensiero umano che prende forma e conduce la storia verso un determinato obiettivo. Per Beuys il pensiero è tra gli strumenti più potenti a disposizione dell’uomo. Durante le sue lezioni Beuys fece spesso accenno anche alla coscienza dell’uomo e dell’artista. Nella conversazione con Volker Harlan, nel rispondere alla domanda «che cos’è l’arte», prese in considerazione proprio il concetto di scultura sociale e ne diede una definizione: Social sculpture. How we would and shape the world in which we live: Sculpture as an evolutionary process; everyone an artist. Beuys ribadì il concetto che la natura della sua scultura non fosse affatto immobile e conclusa, ma si andava delineandosi come un processo. Molte delle sue opere, infatti, subirono delle reazioni chimiche, delle fermentazioni, dei cambiamenti di colore, di decadenza e di asciugatura, proprio a causa dei materiali che egli decise di impiegare. Uno stato di perenne trasformazione. Nel diagramma realizzato dall’artista per spiegare la teoria della scultura e intitolato Plastik è presente da un lato un polo caldo e caotico, dall’altro e opposto uno freddo e cristallino, mediati da elementi di movimento. Ma anche il «concetto ampliato d’arte» (die Erweiterung des Kunstbegriffs) gli fu di fondamentale importanza. Nella prospettiva di Beuys significò due cose: sia che l’arte si potesse estendere a ogni ambito del sapere, sia che essa potesse coinvolgere tutti gli uomini, senza alcuna differenza. Un altro celebre motto attribuito a Beuys è appunto «ogni uomo è un artista» (in tedesco Jeder Mensch ist ein Künstler), ovvero, ogni uomo racchiude in sé una buona dose di creatività sufficiente a dare origine a qualcosa, ogni uomo, in sostanza, ha qualcosa in comune con Dio, perché è potenzialmente un «creatore». Anche un contadino, lavorando la terra, potrebbe sviluppare un modo per essere creativo. Partendo da questo assioma di scultura sociale per Beuys l’artista dovrebbe porsi come obiettivo quello di «modellare» e dare forma a una nuova società in grado di garantire all’uomo l’opportunità di essere realmente libero. La libertà, tra l’altro, fu un’altra parola cardine del suo pensiero. Un’altra definizione cara a Beuys in campo artistico fu quella di «controimmagine» (Gegenbilder in tedesco). Una parola che si legge, in realtà, nei libri di matematica e viene utilizzata per definire una determinatarelazione tra gli insiemi del dominio e del codominio. Traslata all’arte la parola assume un significato metaforico. Ogni opera d’arte scultura, installazione o environment che sia farebbe scaturire per contrasto una contro immagine, una counter image; after-image che è l’opposto, ma anche il completamento dell’immagine di partenza. Per afferrare il senso delle controimmagini basti pensare al cerchio dei colori: a ogni colore ne corrisponde uno complementare. I colori complementari sono sempre collocati agli antipodi del cerchio, uno speculare all’altro, tuttavia, se affiancati, si risaltano vicendevolmente. Medesimo il discorso per le controimmagini: tutte le opere di Beuys dovrebbero far emergere nella mente di chi le osserva una reazione a completamento dell’opera stessa. Tutto ciò che non si trova nell’opera viene aggiunto dallo spettatore attraverso la sua capacità di immaginazione e di pensiero. Allora, come spiegava Beuys, il grigio del feltro non risulterà più così spento e monotono se farà scaturire, per contrasto, tutta la varietà e la molteplicità dei colori.
Grazie alla controimmagine dovrebbe emergere la parte spirituale che nell’opera non è direttamente visibile e percepita. In Beuys il concetto di Plastik è tuttavia legato anche allo scambio di calore, warmth, e dunque di energia. Questa definizione di calore, che può, in senso metaforico, fare riferimento anche al «calore umano», in cui l’artista egualmente credeva, proviene dagli studi che egli compì su Rudolf Steiner. Nell’opera di Beuys si riscontrava sempre un contrasto tra l’elemento fisico-matematico e scientifico e l’elemento, invece, antropologico e spirituale: la necessità di esprimere la spiritualità vien fuori in ogni sua opera. Il calore è inteso come principio fisico, come «sostanza» fondamentale che permette l’evoluzione. Del resto è grazie alle variazioni di calore che i materiali cambiano di stato o semplicemente si modificano. Beuys si avvalse, infatti, proprio di materiali organici, che subiscono processi di questo genere, o di buoni conduttori come i metalli lastre di rame. Tuttavia, il calore è legato anche alla temperatura corporea degli uomini e degli animali e quindi non è un caso che Beuys utilizzò proprio degli animali nelle sue performance e che nella conversazione con Volker Harlan si parli, in inglese, di warmth beings e warmth organism. Anche a livello spirituale avvengono delle cessioni e delle transizioni di calore: l’amore è considerato l’affermarsi del principio del calore. Come è chiaro la sua opera fu (ed è) un continuo incrociarsi e intersecarsi tra loro di elementi fisici e altri spirituali. D’altronde il calore ha proprio a che fare con la vita: lo emana il corpo di una persona viva nelle cui vene scorre il sangue caldo, freddo è invece il corpo di chi ha smesso di vivere. Quello di cui ha parlato l’artista, perciò, è un calore che contraddistingue l’uomo e, per riflesso, le sue stesse «sculture». Anche Cragg assume il proprio corpo come materiale, giustapposto agli oggetti: organico contro inorganico, animato contro inanimato. L’artista, d’altronde, invitava a non dimenticare che “l’homo sapiens è anch’esso un oggetto naturale. Il nido di un uccello è ovviamente parte del regno della natura, ma una casa viene raramente considerata tale” . In due lavori del 1971 e del 1972, Cragg, sdraiato a terra, dispone su di sé una fila di ciottoli, a creare un cerchio che duplica quello formato dalle sue braccia sollevate e dalle mani congiunte sopra la testa; oppure, stando accovacciato con una gamba tesa, allinea i ciottoli seguendo la curva delle proprie membra, dalla spalla alla caviglia. In un’altra opera del 1971, incide il contorno della propria ombra sulla spiaggia e la fissa in uno scatto che include anche lui stesso e l’ombra reale del suo corpo . L’autoritratto fotografico che ricorda il coevo Portrait of the Artist as a Shadow of His Former Self di Keith Arnatt, in cui però l’ombra disegnata è unica protagonista è qui la sola traccia di un intervento per sua natura effimero; ma va detto che in questo periodo Cragg concepiva come non destinati a durare anche altri lavori, che non implicavano azioni, e che sono oggi documentati solo da fotografie. Alcuni interventi erano diretti a testare le proprietà di equilibrio e di gravità dei materiali e ad esplorare le loro relazioni con lo spazio. Posso dire che l’ esempio di “salvazione” degli oggetti e di loro riciclo in arte è rappresentato dallo scultore inglese Tony Cragg. In aggiunta all’idea di prendere gli oggetti e farli divenire arte con il solo tocco dell’artista, ovvero tramite la pratica del ready made o del ready made rettificato come fece Duchamp, egli ritiene di dover intervenire maggiormente nell’opera. Di conseguenza Cragg già a partire dalla fine degli anni Settanta crea sculture con gli oggetti che raccoglie nelle sue passeggiate nelle discariche ma compie un’operazione in più: i componenti delle opere vengono scelti accuratamente in base alla forma, al colore e al materiale; in seguito vengono accostati e disposti a parete o a pavimento ad una certa distanza tra di loro ma abbastanza vicini da creare otticamente l’immagine desiderata. In New stones, Newton’s tones del 1978 Cragg accosta una serie di pezzi di plastica in base alla graduale variazione del colore data dallo spettro cromatico studiato appunto da Newton, spettro che va dal rosso al violetto. Ci sono resti di utensili domestici ma anche di giocattoli, alcuni in buono stato, altri già consumati dal tempo. La cosa interessante nell’insieme è che ogni singolo oggetto sembra perdere la propria consistenza e forma invece un tutt’uno con gli altri. Saltano agli occhi la disposizione e i colori dei singoli oggetti, che riescono in un certo senso a scomparire e a uniformarsi al tutto.
Per Cragg gli oggetti sono una “mongolfiera di significati” anche oltre la loro funzione avuta “in vita” . Molto interessante, a mio avviso, è ciò che Cragg afferma a proposito dei rifiuti: “Mi sono un po’ spaventato leggendo il titolo della mia relazione, ‘Arte dai rifiuti o arte dalle immondizie’, perché proprio questa formulazione non mi piace per niente e in fondo non mi interessa affatto. Ciononostante è stata molto spesso usata per la descrizione del mio lavoro, non ultimamente, proprio all’epoca in cui creavo opere con parti di materie sintetiche, ma anche con molte altre materie. E in questo sta il primo problema. Arte dai rifiuti o arte dalle immondizie: non esiste, è una cosa che devo decisamente declinare. Non è il rifiuto del pianeta, forse qualche cosa è il rifiuto di qualche sistema economico, un sistema di sopravvivenza temporaneo o passeggero – giungere ad una risposta qui mi sembra molto difficile. Penso che addirittura la polvere di diamante trovi applicazione nella produzione di veicoli a motore, e, come tutti sappiamo, il divano costruito da pezzi di rifiuti solidi è anche un posto comodo per il meno abbiente. È stato un evento che mi ha scioccato, poiché quanto è rifiuto in base alla nostra definizione, per altri è assolutamente desiderabile e sicuramente qualcosa che essi possono utilizzare. Il termine ‘rifiuti’ dunque è già stabilito, il tipico concetto di rifiuti può essere solo una specie di soluzione d’emergenza, una specie di copertura per una quantità molto grande e complessa di materie. È come se si potesse usare una generalizzazione dei termini di questo tipo per celare qualunque cosa si faccia con i rifiuti. Si chiamano rifiuti migliaia e migliaia di materie. Ma penso veramente che i rifiuti debbano cessare di essere rifiuti, prima che l’artista ne possa fare uso. Deve allontanarsi da questa concezione molto brutale e diventare un po’ più specifico. La materia non può trasformarsi da sola, ma deve rimanere qualche cosa della capacità di percepire materie. Esiste una delle tante lettere meravigliose di Van Gogh a suo fratello, in cui descrive una passeggiata, un giro in un paesaggio incantato. Un paesaggio colmo di colori, rari e fantastici. E quello che ha descritto, penso nel 1885, è una passeggiata sulla discarica locale» . Dalle parole di Tony Cragg si evince il filo conduttore della tesi stessa ossia il concetto di rifiuto non visto come puro recupero di materiale buttato da altri ma semplicemente come modalità diversa di utilizzo e diversa consapevolezza della sua importanza. Ciò che per qualcuno è diventato superfluo per altri può diventare addirittura fonte di sostentamento come avremo modo di vedere nei successivi capitoli. Attraverso il lavoro di Cragg traspare dunque l’idea che l’uomo ha il potere di creare gli oggetti ma allo stesso tempo può demolirne il significato attribuendogli altre funzioni, senza mai definitivamente distruggerli. In un’altra opera dal titolo Stack che riproduce in più esemplari dal 1975 al 1985, il concetto è evidente. In quest’opera l’artista assembla diversi oggetti tra loro, da materiali edili a giornali scartati, dalla plastica alla carta al metallo, unendoli assieme attraverso dei pannelli di legno di varie forme e dimensioni a creare una struttura a forma di cubo. La scultura è costruita in maniera tale da ricordare una stratificazione geologica, sembra infatti di osservare una sezione archeologica con vari strati di rifiuti a rappresentare l’impatto dell’uomo sulla natura. Il materiale ligneo infatti presumibilmente sta a rappresentare la natura e nell’opera è evidente come essa sia fortemente plasmata dall’attività umana. Cragg precisa di vedere in un oggetto o in un materiale un contenitore di informazioni: per quanto può riguardare il legno, le informazioni sono molte, perché si tratta di un elemento naturale e la sua storia è dunque lunga, ma per quanto riguarda gli elementi della società industriale plasmati dall’uomo questi sono più recenti e si legano ad altre questioni che riguardano lo sviluppo della tecnologia e della chimica. Questi ultimi elementi, sempre secondo l’opinione dell’artista, dunque vanno “aiutati” a raggiungere un significato specifico tramite il loro avvicinamento alla materia naturale. Con questa modalità di lavoro Cragg cerca dunque di costruire anche per i rifiuti umani una storia che possa durare più a lungo, una storia che egli definisce “mitologia poetica” . L’interesse per la natura e la scienza porta dunque l’artista a realizzare tali opere che nel suo intento assomigliano quasi a stanze di museo naturalistico, dove vengono raccolti e classificati materiali di diverso tipo e dimensione. L’atteggiamento che l’artista ha verso gli oggetti e i rifiuti è dunque come si annotava precedentemente di “salvazione” dell’oggetto stesso. Tale concetto è sostanzialmente un concetto che sussiste anche nei musei dove la conservazione e la manutenzione delle opere sono in primis gli obiettivi più importanti. Sul versante statunitense in arte contemporanea possiamo considerare un artista il cui modo di lavorare e il cui pensiero sono molto simili a quelli dello scultore inglese. Si tratta di Mark Dion del 1961, artista noto per la sua attenzione all’ambiente e per l’utilizzo massiccio di elementi che provengono dal mondo animale e vegetale. Egli realizza opere che sembrano provenire da un museo naturalistico, anche per la raccolta quasi classificatoria degli oggetti che vi sono inseriti. Questo particolare modo di lavorare è dovuto ad una passione dell’artista che per un periodo della sua vita fece molti viaggi nelle foreste del Centro America e rimase affascinato dalla scienze biologiche che poi si mise a studiare. E’ un artista più interessato ai musei di storia naturale che a quelli di arte in quanto, a suo dire, i musei di storia naturale si pongono domande più grandi riguardo alla vita e alla storia . Dion ha dunque preso ispirazione da artisti che hanno espanso la loro definizione di arte e l’hanno arricchita guardando anche oltre l’arte stessa. Si parla di artisti come Marcel Broodthaers, Robert Smithson, Joseph Beuys. Il richiamo a Beuys è evidente nell’utilizzo di lavagne, slitte, vasetti e soprattutto animali. Anche Dion, come Beuys, crea lavori che non possono essere classificati in un unico movimento e che danno pertanto un valore eclettico al suo lavoro. Nel suo percorso artistico Cragg cospargeva il piano di un tavolo, la superficie di una sedia e una porzione del pavimento sottostante con frammenti di carta ritagliata collocati in modo da formare dei quadrati del 1971 o sovrapponeva strati di cartone fino all’altezza di 35 centimetri del 1974. Ancora, appoggiava contro uno sgabello dei blocchi di legno disposti a formare un rettangolo del 1972, o puntellava precariamente contro il muro cinque pile di mattoni, sfidandone la capacità di resistenza del 1973, in una versione più domestica e meno minacciosa dei Prop Pieces di Richard Serra. Il fatto che queste opere si prestino ad essere descritte come azioni più che come oggetti, dunque per mezzo di verbi piuttosto che di sostantivi, ne sottolinea la natura processuale e ne conferma l’affinità con le ricerche dell’artista americano. Volutamente inespressivi, i lavori iniziali di Cragg non implicavano alcun coinvolgimento emotivo dell’artista o dello spettatore; tutt’al più potevano far sospettare un atteggiamento vagamente ironico, come un Untitled del 1971 composto di due foto in cui Cragg posa di profilo, impassibile, con in testa un berretto il cui paraorecchie è sollevato in uno degli scatti e abbassato nell’altro. Il carattere neutro e ordinario delle azioni e dei loro prodotti escludeva qualsiasi tipo di seduzione visiva. Tuttavia, l’artista avrebbe iniziato molto presto ad avvertire una certa insoddisfazione per l’estetica concettuale e minimalista che inizialmente aveva orientato le sue scelte. In una conferenza tenuta all’UCLA nel 1990, egli sintetizzava il suo punto di vista su ciò che a quella data poteva cominciare a essere visto come la tradizione della neoavanguardia. Cragg interpretava tutta l’arte del Novecento come una progressiva estensione del raggio delle tecniche e dei materiali artistici, un processo di “nominazione” che negli ultimi anni aveva ampliato a dismisura la sfera di ciò che può essere usato per fare arte: “possiamo fare Spit Art, Walk Art, Love Art abbiamo avuto stanze rosse, stanze nere, stanze di terra, stanze di acqua, e stanze piene di cavalli” . Constatando come la possibilità di nuove annessioni di nuove nominazioni si fosse ormai esaurita e come la crisi rappresentata dal postmoderno ne fosse stata un segnale, concludeva che l’arte, per andare avanti, doveva concentrarsi su altre cose, “sulla qualità del contenuto e del significato”, e, al di là di questo, interrogarsi seppure in ultima istanza sul senso dell’esistenza. Qualcosa di questa insoddisfazione trapela in due opere generalmente ritenute fra le prime prove mature dell’artista, i due Stack del 1975 , oggi alla Tate Modern. Cragg aveva raccolto ogni sorta di oggetti, rifiuti e materiali presenti nel suo studio pezzi di cartone, assi di legno, mattoni, blocchi di cemento, vecchie riviste, secchi di plastica, lamiere, rotoli di tessuto ecc. e li aveva accatastati per ricavarne due cubi alti circa due metri. La combinazione di un solido geometrico elementare con il disordine e la casualità dell’esistere quotidiano metteva in discussione le premesse del discorso minimalista, incrinandone la neutralità e aprendo le porte al vissuto e alla transitorietà dell’esperienza. Al tempo stesso, e a dispetto del carattere grezzo e ordinario degli elementi impiegati, il risultato possedeva un’inattesa qualità estetica: la varietà delle forme e delle texture e l’ingegnosità con cui i pezzi erano composti insieme rispettando i contorni del cubo invitavano lo spettatore a soffermarsi; e l’affacciarsi di note sparse di colore vivo il verde prato di una pila di assi dipinte il rosa shocking di un contenitore in plastica tra il predominare del tono chiaro e opaco del legno tratteneva lo sguardo. Mentre la configurazione generale dell’oggetto, la massa e il volume del cubo si imponevano all’attenzione, l’astrattezza della sua forma geometrica non riassorbiva in sé le singole parti, che mantenevano la propria autonoma presenza individuale. Il dialogo tra insieme e dettagli, tra unità e molteplicità, così come quello tra forma e materiali, cominciava a dichiararsi come una costante nella ricerca di Cragg. Lo ritroviamo nella serie degli Hybrids del 1975, in cui due oggetti diversi, ad esempio un contenitore in plastica e uno di metallo, venivano sezionati e le rispettive sezioni accatastate insieme a strati alterni per comporre una forma intermedia: appunto, un ibrido. In modo ancora più evidente, il tema ritorna in Four Plates (1976): quattro piatti di ceramica identici fra loro, il primo dei quali è lasciato intatto mentre gli altri tre vengono spaccati dall’artista che poi ne ricompone i frantumi in modo tale da ricostituire l’immagine degli oggetti su superfici via via sempre più ampie. L’occupazione dello spazio per mezzo dei frammenti ricorda quella attuata qualche anno prima con i ritagli di carta, e l’impiego di una pluralità di elementi per delineare una forma rimanda a Stack; ma mentre in ’quest’ultimo la forma scaturiva dalla somma dei vari oggetti e materiali, qui forma e materiale sono insieme identificati e distinti, essendo i frammenti parte del piatto e al tempo stesso percepiti come unità separate. Viceversa, la forma dell’oggetto veniva obliterata completamente in Crushed Rubble (realizzato in tre versioni nel 1976 e nel 1977), un mucchio di mattoni di diverso colore sgretolati fino a ridurli in macerie. Il cumulo di polveri sul pavimento da un lato evocava la violenza del gesto che lo aveva prodotto, dall’altro colpiva per l’intensità del colore, rosso, giallo, ocra, una sorta di tavolozza di materiali dal sapore urbano e industriale. Ancora una volta, Cragg suscitava un’emozione estetica a partire dal banale e dal quotidiano. Da queste opere a quelle che per prime avrebbero imposto l’artista sul piano internazionale, il passo doveva rivelarsi breve. New Stones, Newton’s Tone , il lavoro che, esposto alla Lisson Gallery di Londra nel 1978, apre ufficialmente la nuova fase, è una composizione di oggetti e frammenti di oggetti in plastica, raccolti da Cragg e disposti sul pavimento a formare un rettangolo secondo un ordine basato approssimativamente sullo spettro cromatico di Newton, dai toni caldi a quelli freddi. Vi si ritrovano tutti gli elementi delle opere precedenti (la centralità degli oggetti, la dialettica fra il tutto e le parti e quella tra la forma e il materiale, l’importanza attribuita al colore), ma con un accento diverso. New Stones, Newton’s Tones era un lavoro rivolto simultaneamente al passato e al presente. Al passato rimandava il formato dell’installazione a terra di elementi accostati, il cui riferimento a Richard Long un artista che Cragg aveva conosciuto nel 1970 e al quale aveva guardato con interesse nei suoi anni formativi era esplicitato nella prima parte del titolo. Al presente riportava invece il fatto che alle pietre di Long Cragg aveva sostituito il loro equivalente urbano, i detriti di plastica che connotano con forza l’ambiente contemporaneo. La sua poteva sembrare una contrapposizione fra mondo naturale e contesto industriale, fra la visione neo-romantica del paesaggio tipica dei land-artisti inglesi e l’evocazione del degrado e dello squallore metropolitani, in un momento in cui la Gran Bretagna, alle soglie del thatcherismo, attraversava una fase di recessione economica e di crisi sociale. In realtà, agli occhi di Cragg, fra natura e cultura non c’era alcuna antitesi; oggi come allora, questo dualismo per lui non sussiste, dato che anche la prima è plasmata dalla seconda. “Su una spiaggia tutto è bellissimo, le pietre, la natura, la plastica!”, osservava l’artista in un’intervista del 1985 . Da un altro punto di vista, la scelta di lavorare con materiali trovati si prestava a suggerire una diversa forma di romanticismo, la fascinazione per il rifiuto, per gli oggetti scartati e abbandonati, e il desiderio di riscattarli esteticamente. Così la interpretava Celant, secondo il quale Cragg “prende il rifiuto sacrificato dal consumo e lo ricostituisce in un’arte che, per mezzo del sacrificio estetico, riconsacra il sacrificio industriale”. Questo tipo di lettura è contraddetto non solo dal fatto che non tutti gli oggetti usati da Cragg erano trovati se mancava qualche elemento necessario al lavoro, l’artista non si metteva problemi ad acquistarlo ma in modo più sostanziale dall’impulso che guida il suo approccio ovvero, il movente cruciale della ricerca artistica è l’esigenza di comprendere meglio il significato degli oggetti che ci circondano e, attraverso essi, la totalità della nostra esperienza. Come scriveva nel 1982 in occasione della sua partecipazione a Documenta 7, “il bisogno di saperne di più, tanto oggettivamente quanto soggettivamente, sulle fragili e sottili relazioni tra noi, gli oggetti, le immagini e i processi e le condizioni naturali essenziali sta diventando cruciale. È molto importante avere esperienze di prim’ordine vedere, toccare, annusare, sentire con gli oggetti e le immagini e lasciare che questa esperienza sia registrata” . Non è facile oggi immaginare l’effetto prodotto dalle opere in plastica di Cragg nei primi anni ottanta, la loro carica di energia, il loro pulsante dinamismo, l’intensità con cui proclamavano il loro essere “contemporanee”. Il vitalismo di cui traboccavano si può vedere come la parte migliore di una situazione artistica che oggi associamo all’aggressività del “ritorno alla pittura” e allo sfrontato commercialismo da cui era accompagnata, ma che all’epoca veniva percepita come un momento di rinnovamento carico di promesse per il futuro. A dominare la scena era l’avanzata, rapida e apparentemente inarrestabile, di varie forme di neoespressionismo proposte come brand nazionali dalla Transavanguardia italiana ai Neuen Wilden tedeschi e sostenute dall’euforia di un mercato in vertiginosa ascesa. La pittura, risorta dalle sue ceneri, celebrata in mostre come “A New Spirit in Painting” alla Royal Academy di Londra (1981) e “Zeitgeist” al Martin-Gropius-Bau di Berlino (1982), era presentata dalla critica quasi unanime come vittoriosa alternativa alla prassi concettuale definita “moralistica”, “repressiva e masochistica” . La scultura di Cragg emersa nel bel mezzo di una fase di riconoscimento della pittura che si manifestava in forme dalla pittura non troppo distanti una metamorfosi legittimata dalla precedente perdita di identità della scultura, che già nel contesto concettuale era stata sempre meno associata alle tradizionali idee di massa e di volume. Quella di Cragg, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, è una scultura fondamentalmente bidimensionale, dispiegata sulla superficie come un tappeto o un arazzo e pressoché priva di rilievo, a parte quello ridotto dei singoli oggetti di piccole dimensioni che la compongono. Come New Stones, Newton’s Tones dichiarava fin dal titolo, il colore vi riveste un ruolo centrale: anche se si tratta delle cromie standard delle plastiche industriali, l’attento dosaggio che l’artista ne fa attraverso la disposizione dei diversi elementi e il loro accostamento riesce a produrre effetti inaspettati. Infine, la pratica del mosaico di oggetti di plastica doveva condurre quasi subito l’artista a spostare l’accento dagli oggetti-materiali alla figurazione. In perfetta sintonia con le contemporanee vicende della pittura della fine del 1979 è la teorizzazione, sulle pagine della rivista “Flash Art”, della Transavanguardia Italiana, mentre nel 1980 la mostra “Aperto” alla Biennale di Venezia sanciva l’avvenuto cambiamento di clima artistico, già nel 1979 Cragg introduceva la figurazione con Red Skin (Stedelijk Van Abbemuseum, Eindhoven), in cui gli oggetti disegnavano l’immagine di un pellirossa in corsa; insieme alla figura dell’indiano era esposta la statuetta di plastica che era servita da modello per realizzarla. Nel 1980, con Yellow Fragment una forma a mezzaluna gialla che replicava quella di un piccolo frammento di plastica, ancora una volta presentato come parte dell’opera, Cragg compiva una mossa ulteriore, adottando per la prima volta una disposizione a parete. Il ricorso alla figurazione e la collocazione a parete vanno di pari passo, perché la figura stesa al suolo era inevitabilmente soggetta a una deformazione prospettica e subiva alterazioni successive al mutare del punto di vista dello spettatore in movimento la statuetta del pellirossa presentata insieme all’immagine aveva proprio lo scopo di facilitarne la leggibilità. Sul muro, invece, la sua configurazione risaltava nel modo più chiaro e la sua forza iconica ne veniva esaltata. Come conseguenza, il più diretto riferimento alla pittura e al suo supporto verticale prendeva il posto dei richiami all’installazione suggeriti dalla collocazione a terra. L’iconografia delle nuove opere di Cragg spaziava da immagini dello scenario urbano quali carrozzerie di auto , aerei e strade trafficate ai miti della cultura del Novecento , a eroi della cultura di massa come calciatori e atleti , fino a semplici oggetti d’uso come le bottiglie di Five Bottles del1982, flaconi di plastica per detersivi e altri liquidi che, ingranditi a proporzioni monumentali, giganteggiavano nello spazio espositivo. La conquistata libertà di rappresentazione e di narrazione veniva celebrata da opere come Palette (1985) e New Figuration (1985). In New Figuration , una figura maschile quasi fumettistica, dal corpo allungato all’inverosimile, si torce sulla parete rimbalzando irresistibilmente nello spazio come una molla colorata. Viene naturale vedere nel gioioso personaggio una proiezione dell’artista, che in questo periodo cominciava a moltiplicare gli autoritratti . Cragg si rappresentava a grandezza naturale, intento a svolgere attività quotidiane, occasionalmente accompagnato da oggetti “reali” (non facenti parte del mosaico ma collocati a terra accanto ad esso), una bicicletta, pile di riviste, un sacco, che funzionavano da mediatori rispetto all’ambiente circostante. Queste immagini suggerivano un’identità ambivalente: da una parte l’artista come uomo qualunque, partecipe della banalità dell’esperienza comune, dall’altra un viandante solitario che vaga nel caos della contemporaneità alla ricerca di frammenti da cui ricavare nuove visioni. La soluzione del mosaico di plastiche si dimostrava capace di dare forma anche a riflessioni sull’identità nazionale e sulla situazione politica e sociale. Un piccolo campionario ne offriva la serie di opere esposte in una personale tenuta tra febbraio e marzo 1981 alla Whitechapel Art Gallery, con la quale l’artista a quattro anni di distanza dal suo trasferimento a Wuppertal, in Germania – riaffermava con decisione la propria presenza sulla scena londinese. Se lavori come Postcard Union Jack e Crown Jewels ironizzavano sui simboli della “Britishness” (una bandiera e una corona fatte di detriti) e Soldier suonava come una critica del militarismo e dell’autoritarismo del governo di Margaret Thatcher, in Britain Seen from the North (ora alla Tate Modern) il discorso di Cragg appariva più sfumato una figura d’uomo in piedi apparentemente un autoritratto contempla la sagoma della Gran Bretagna ruotata orizzontalmente, con un’inversione del punto di vista che ribalta la centralità di Londra e del sud dell’Inghilterra nei destini politici della nazione. Presentando se stesso nel ruolo di osservatore esterno (dalla sua postazione tedesca) e di relativo outsider, Cragg formulava implicitamente un giudizio sulle condizioni del paese, in un periodo caratterizzato da un tasso di disoccupazione senza precedenti e da violenti scontri sociali. La mostra alla Whitechapel segnò una tappa di rilievo nella carriera di Cragg, rafforzandone l’identificazione con quella che cominciava a diventare nota come la New British Sculpture, una costellazione di artisti impegnati a reintrodurre l’oggetto dopo la tendenza alla smaterializzazione e la perdita di specificità della scultura tipiche degli anni sessanta e settanta. Ultima di una serie di ondate artistiche che a partire dal secondo dopoguerra si erano succedute in Gran Bretagna dal monumentalismo umanista di Henry Moore al formalismo di Anthony Caro e della New Generation, dagli interventi nel paesaggio di Long e dei land-artisti al concettualismo di Barry Flanagan o di Gilbert & George la New British Sculpture aveva ribadito con efficacia la presenza inglese nel dibattito artistico contemporaneo e insieme aveva sancito definitivamente l’associazione fra identità britannica e scultura un’associazione che all’inizio degli anni novanta sarebbe stata confermata dal fenomeno degli Young British Artists. L’inclusione di Cragg nel gruppo, che comprendeva Richard Deacon, Shirazeh Houshiary, Anish Kapoor, Jean-Luc Vilmouth, Alison Wilding e Bill Woodrow, era in fondo abbastanza curiosa, se si pensa che l’artista aveva scelto di vivere all’estero, mettendovi solide radici pur senza interrompere i rapporti con la madrepatria; comunque, nel corso degli anni ottanta scanditi da un’altra importante personale alla Hayward Gallery nel 1987, dalla presenza alla Biennale di Venezia come rappresentante del Regno Unito nel 1988 e dalla vittoria del Turner Prize nello stesso anno Cragg sarebbe diventato l’artista della New British Sculpture con maggiore visibilità internazionale .
Nel frattempo la sua ricerca aveva imboccato una nuova direzione, che gli avrebbe impedito di cristallizzarsi sui risultati fino allora ottenuti. Già al colmo della fase dei mosaici di plastiche aveva cominciato a sperimentare strategie parallele, in cui gli oggetti continuavano a essere protagonisti ma si combinavano in strutture tridimensionali. Dapprima, in un’opera come Axe Head, realizzata in più versioni a partire dal 1981, aveva utilizzato oggetti in plastica di varie dimensioni, graduandoli nello spazio in modo da suggerire effetti volumetrici lo spessore dell’ascia quindi si era servito dell’accostamento di parti in legno, mattoni e altri materiali per realizzare sculture a volte apertamente allusive al paesaggio naturale o urbano . Ancora, attraverso la combinazione di mobili e pietre aveva giocato sulla tensione o meglio, dal suo punto di vista, sulla continuità fra mondo naturale e artificiale . L’impressione è che con questi e altri lavori Cragg stesse saggiando diverse possibilità per superare la pratica della giustapposizione di elementi e mettere a punto una nuova sintassi formale. Un’altra soluzione alla quale ricorre è il collegamento delle varie componenti per mezzo del disegno: una fitta rete di segni tracciati con pastelli a cera ricopre scatole, pezzi d’arredo, vasi e altri contenitori. In Birnam Wood del1985, il dato unificante è invece un rivestimento di granelli di plastica; in alcune opere realizzate un po’ più tardi con mobili ed elementi in legno sarà una proliferazione di ganci metallici e in altre composte di contenitori di vetro sarà l’erosione che opacizza il materiale. Un passo decisivo, a metà degli anni ottanta, è l’introduzione del bronzo e della tecnica della fusione: un materiale nobile e carico di risonanze storiche al quale comunque se ne affiancheranno altri, dall’acciaio al polistirene al legno compensato, agli antipodi dai detriti industriali utilizzati fino a quel momento; una tecnica che consente di plasmare la materia per produrre forme unitarie. La prima scultura in bronzo è un grande mortaio con pestello, un oggetto elementare spesso interpretato dalla critica in chiave di simbolismo sessuale . Ma il mortaio, usato per polverizzare sostanze solide, è anche uno strumento di base della chimica, quindi riconducibile all’orizzonte scientifico che Cragg rivendica come presupposto della sua ricerca e che è alla radice di tante sue sculture, soprattutto a partire da questo momento. La fine degli anni ottanta e i novanta vedono nascere una serie di opere evocative di proliferazioni di molecole, di formazioni cellulari, di aggregati di cristalli, di organismi primari del mondo terrestre o acquatico di organi del corpo umano, o semplicemente allusive a fiale, storte e altri contenitori chimici. A volte questo repertorio vira verso il fantastico e il grottesco, con sculture come Manipulations del 1991, cinque provette di bronzo che si tramutano in dita umane, Terris Novalis un teodolite e una livella fusi in acciaio, ingranditi e retti bizzarramente da zampe animali, Complete Omnivore del 1993, una chiostra di giganteschi denti di gesso che sembrano avanzi di una bestia preistorica . Se il rapporto dell’artista con gli oggetti e i materiali era stato dapprima di tipo analitico, quindi rivolto a esplorarne il significato attraverso strategie rappresentative, ora a venire in primo piano è l’impulso a creare oggetti nuovi, un obiettivo che afferma Cragg è sempre stato centrale: “Il mio interesse iniziale nel fare immagini e oggetti era, e ancora rimane, la creazione di oggetti che non esistono nel mondo naturale o funzionale, che possono riflettere e trasmettere informazioni e sentimenti riguardo al mondo e alla mia stessa esistenza”. La volontà di creare “oggetti che non esistono”, spesso ribadita in scritti e interviste, ribalta l’idea diffusa tra gli artisti a partire dagli anni sessanta che il mondo sia fin troppo pieno di cose perché valga la pena di aggiungerne altre . Da questo momento in poi diventa problematico anche soltanto descrivere i temi e i filoni principali della scultura di Cragg, tali sono la varietà e la traboccante ricchezza del suo immaginario. Dal vertiginoso succedersi di invenzioni che caratterizza la sua produzione, ’l’artista arriverà a poco a poco a distillare due “famiglie” come è solito chiamarle principali di sculture dalle volumetrie imponenti, monumentali eppure dinamiche, astratte ma tuttora cariche di associazioni con il mondo organico e di richiami apertamente figurativi: le Early Forms (apparse per la prima volta nel 1988) e i Rational Beings (dai primi anni duemila). Senza soffermarsi su queste opere il fulcro della sua ricerca attuale che sono oggetto di un altro saggio qui pubblicato, va ricordato come lungo tutto questo arco di esperienze rimanga stabile l’interesse per la superficie, sempre spettacolarmente al centro della scultura di Cragg: trattata come una pelle che racchiude o circoscrive il nocciolo plastico, può essere liscia o ruvida, opaca o riflettente; può darsi come rivestimento di dadi da gioco o prendere l’aspetto di una membrana traforata, permeabile e trasparente alla vista . Nelle Early Forms, ottenute attraverso la compressione, la distorsione e lo schiacciamento di contenitori, la superficie si qualifica attraverso la patina o la verniciatura del bronzo; nei Rational Beings, realizzati per mezzo di strati di polistirene o di legno compensato sovrapposti e incollati, la “pelle” della scultura è la finitura in fibra di carbonio che la ricopre. Tuttavia, in contrasto con l’importanza assegnata alla superficie, Cragg respinge l’idea di una fruizione tattile della scultura, assegnando alla sola vista il compito di farne l’esperienza: “Credo nella capacità visiva, dunque nel fatto che l’occhio sia in grado di recepire informazioni a distanza Per questo ritengo superfluo toccare una scultura, poiché questo impedisce il vero accesso all’opera”. La fiducia nella contemplazione visiva come unico approccio legittimo all’opera d’arte può sembrare un residuo di mentalità modernista, non diversamente dalla proclamata indifferenza di Cragg al luogo in cui i suoi pezzi dovranno essere collocati. Il fatto è che l’artista concepisce la sua scultura come centripeta, non centrifuga: non deve condurci al contesto ambientale o tanto meno sociale che la accoglie, ma attirarci in profondità. Siamo invitati a penetrare la superficie della scultura, la cui forma chiusa ha la capacità di contenere il mondo, di generare entusiasmo per esso, di potenziare la nostra esperienza della realtà: “il fenomeno della vista si combina con un registro appreso di informazioni e di risposte per svolgere una funzione importante nella sopravvivenza fisica . Esiste un mondo (o più di uno) enorme ed emozionante, oltre i limiti dei miei sensi, con panorami e paesaggi spettacolari e stimolanti per la fantasia quanto la superficie che posso vedere. Non è più possibile avere a che fare con l’uno senza che entri in gioco anche l’altro ogni superficie è un portale che conduce in un mondo nascosto”. L’atteggiamento di Cragg oscilla tra concentrazione ed esaltazione, tra la relativa modestia di chi si china sulla realtà quotidiana per cercare di coglierne il lato straordinario e la hybris del creatore. A prevalere è comunque il sentimento di esaltazione, di cui lo spettatore è reso partecipe attraverso le qualità formali della scultura, che si dà come una sorta di iperbole dell’esperienza sensoria, condensata attraverso la vista. Una delle ragioni del suo fascino risiede in quello che in relazione all’arte è stato definito processo di “occultamento/svelamento” (hiding- showing). L’opera finita assorbe in sé, occultandolo, il procedimento che l’ha generata, ma proprio per questo ci fa desiderare di ripercorrere a ritroso tale processo. Le opere della maturità di Cragg spingono a chiedersi come siano state prodotte, portano a voler decifrare processi che non appaiono chiaramente leggibili ma che sono racchiusi nell’epidermide della scultura. Perciò, a dispetto del loro impianto monumentale e del loro impatto visivo immediato, richiedono una fruizione lenta, in antitesi con la rapidità di consumo delle immagini anche di quelle dell’arte tipica della cultura contemporanea. L’approdo di Cragg alla forma plastica unitaria costituisce oggi la testimonianza forse più significativa della perdurante vitalità della scultura nell’era post-mediale nella quale viviamo. In quanto tale, possiede una rilevanza storica che giustifica l’acquisizione da parte dell’artista di una reputazione di nuovo classico. Lo status raggiunto da Cragg negli anni duemila è paragonabile per qualche verso a quello del suo grande predecessore britannico, Henry Moore, con il quale il Cragg degli ultimi anni ha qualche aspetto in comune, dalla monumentalità delle opere alla tendenza a combinare astrazione e figurazione, dal rifiuto dell’idea di site -specifi – city alla facilità con cui Cragg moltiplica le dichiarazioni teoriche, fornendo ai critici argomenti per l’interpretazione del suo lavoro. L’accostamento con Moore non deve però far pensare a un artista irrigiditosi sulle posta – zioni raggiunte e comodamente adagiatosi sulla sua fama. Se per molti artisti il passaggio alla maturità e il successo internazionale coincidono con la perdita dello slancio sperimentale degli inizi, non è questo il caso di Anthony Cragg, la cui capacità di rinnovarsi ha dimostrato di resistere al tempo, mentre l’infinita varietà della sua opera, pur scaturita da premesse teoriche e poetiche costanti, non cessa di stupire. Il punto focale dell’operare artistico di Tony Cragg è inoltre incentrato su un incessante processo di esplorazione delle possibilità del materiale e di rimodellamento del mondo che ci circonda. L’artista afferma: «ci sono molte più cose che non esistono di quelle che esistono», riferendosi a una fonte di situazioni che sono ancora oltre la nostra percezione. Per Cragg la scultura è un metodo per aprire questo enorme potenziale a nuove forme e significati, ai sogni e ai linguaggi ad essi associati. Nel processo artistico, Tony Cragg preleva, crea, manipola e distorce continuamente la forma, per dar vita a sculture assolutamente sorprendenti che, muovendosi tra astrazione e figurazione, possono evocare paesaggi naturali quanto rappresentare corpi umani e oggetti quotidiani. Le opere sono pensate come strutture complesse e dinamiche, che mettono alla prova limiti fisici e strutturali, cercando di risolvere il rapporto tra materia e tecnica, tra vuoto e pieno, tra instabilità ed equilibrio. Generate da una radice che, come una monade, le sostiene dal centro, si dipanano per generare tante diverse ramificazioni, senza tralasciare la presenza fisica, materiale, con le sue qualità espressive ed energie, imitando quello che la natura fa con le sue forme, in una direzione opposta al funzionalismo e utilitarismo cui puntano l’industria e il design così come al virtuale e alla realtà aumentata. La scultura per Cragg non è solo metodo di indagine, sviluppo di conoscenza, dialogo tra percezioni e immaginazioni, mondo fisico e dell’immaginazione: nella sua pratica ha in particolare una funzione pedagogica, è un esercizio infinito di conoscenza, un modo del pensare che si sviluppa tra processi intuitivi e creativi, in un continuo dialogo tra livelli e interrelazioni di visibile e invisibile, di grande e piccolo, in modo fluido e dinamico, mai statico e definitivo. Ecco, al visitatore di Tony Cragg. Infinite forme e bellissime allestita nelle magnifiche Terme di Diocleziano, le più estese del mondo romano, è chiesto di fare un’esperienza che coinvolge i sensi e l’immaginazione, il pensiero e la vista, l’organo da cui dipende il nostro rapporto con il mondo delle forme, anche quando si tratta di livelli di realtà invisibili a occhio nudo. La mostra sarà accompagnata da un catalogo edito da Skira.
Biografia Tony Gragg
Nato a Liverpool nel 1949 dopo il diploma lavora per due anni come tecnico di laboratorio nel campo della ricerca biochimica. Durante questo periodo inizia a disegnare e viene ammesso nel 1969 al Gloucestershire College of Art and Design e successivamente alla Wimbledon School of Art. Nel 1973 si iscrive al Royal College of Art di Londra, dove si concentra sulla scultura. Prima di iniziare a lavorare con materiali tradizionali come la pietra, il ferro e il bronzo le sue opere sono concepite come assemblaggi di elementi di scarto e objets trouvés e la sua ricerca risente dell’influenza del Minimalismo e della Land Art. Nel 1976 inizia ad insegnare all’École des BeauxArts di Metz e l’anno successivo si trasferisce a Wuppertal dove nel 2008 ha fondato lo Skulpturenpark Waldfrieden. Dal 1978 al 1988 è docente all’Accademia d’Arte di Düsseldorf, successivamente è a Berlino all’Università delle Arti dove insegna scultura e nel 2006 a Düsseldorf all’Accademia d’Arte, dove è stato direttore dal 2009 al 2014. Dal 1977 in poi il suo lavoro è stato presentato nei maggiori musei e istituzioni del mondo, le sue opere sono entrate a far parte delle più importanti collezioni d’arte pubblica e privata. È stato più volte rappresentato alla Biennale di Venezia e alla Documenta di Kassel, nonché alle biennali di San Paolo e Sydney. Nel 1988 gli è stato assegnato il Turner Prize. Dopo aver ricevuto diversi dottorati onorari e molti altri eminenti premi, è stato nominato nel 2003 comandante dell’Impero britannico. Nel 2007 la Corte Imperiale giapponese gli ha conferito il Praemium Imperiale come uno tra i maggiori scultori odierni. Recentemente le sue opere sono apparse in mostre personali nel 2022 al Museo Novecento di Firenze, dove assieme a sculture e disegni è stato ricreato in parte il suo studio, alla Reggia di Venaria nel 2023, e al Negozio Olivetti in Piazza San Marco a Venezia fino a novembre 2024.
Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano
Tony Cragg. Infinite forme e bellissime
dal 9 Novembre 2024 al 4 Maggio 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 9.30 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Tony Cragg a Roma. Foto Monkeys Video Lab