Giovanni Cardone
Fino al 21 Aprile 2025 si potrà ammirare al Museo Civico di Bassano del Grappa- Vicenza la mostra dedicata a Brassai- ‘Brassaï. L’occhio di Parigi’, a cura di Philippe Ribeyrolles e Barbara Guidi. L’esposizione realizzata in collaborazione con Silvana Editoriale e con l’Estate Brassaï Succession, presenta quasi 200 stampe d’epoca, oltre a sculture, documenti e oggetti appartenuti al fotografo, per un approfondito e inedito sguardo sull’opera di Brassaï, con particolare attenzione alle celebri immagini dedicate alla capitale francese e alla sua vita. Ungherese di nascita il suo vero nome è Gyula Halász, sostituito dallo pseudonimo Brassaï in onore di Brassó, sua città natale – ma parigino d’adozione, Brassaï è stato assieme a Cartier-Bresson uno dei padri della fotografia del Novecento, autore di immagini che tutt’oggi identificano nell’immaginario collettivo il volto della capitale dell’arte moderna, Parigi. Pittore, scultore, scrittore dalla formazione cosmopolita, intellettuale a tutto tondo, osservatore curioso, acuto e sensibile, Brassaï sceglie di dedicarsi principalmente alla fotografia attorno al 1929, ovvero solo dopo il suo definitivo trasferimento nella capitale francese. La Ville Lumière, con i suoi luoghi e i suoi protagonisti è la musa ispiratrice di Brassaï: dai quartieri operai ai monumenti simbolo della città, dal mondo della moda ai ritratti degli amici artisti e intellettuali, fino ai graffiti e alla vita notturna. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Brassai apro il mio saggio dicendo: Posso affermare che vi sono più accezioni per intendere la parola “Umanista”. Una, secondo il dizionario, è la “persona che condivide gli ideali culturali propri dell’umanesimo, e anzitutto il culto per le lettere antiche” . Cioè, quell’ umanesimo che trova le proprie basi nella filosofia orientale già in Confucio e Gautama Buddha, sebbene il termine sia più frequentemente usato per indicare i filosofi occidentali. Il termine, coniato solo nel 1808 da Friedrich Immanuel Niethammer, designa il pensiero tradizionale in Occidente, nel quale si intendeva evidenziare l’importanza delle lettere classiche e dell’uomo, nel mondo che è fatto a sua misura. È in questa visione dell’uomo come figura centrale del mondo che si deve intendere il termine umanista nella fotografia. Vi è una rivalutazione della figura dell’uomo, che diventa il soggetto centrale e il punto cardine visto come l’essere umano che lascia una traccia di sé nella natura e nel mondo . La fotografia umanista è un chiaro esempio di come questa concezione illuminista fu fondamentale anche nei secoli a seguire, anche se teoricamente, una vera “scuola umanista” non sembra esistere e determinarne i confini temporali è particolarmente difficile. Si può supporre che il movimento principale si sviluppò tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la fine degli anni ’60, in Europa ma principalmente in Francia, per poi spostarsi negli Stati Uniti e trovando le sue radici nella fotografia e nel cinema degli anni ’30. La fotografia, dopo la grande guerra, sta avendo il suo momento di splendore, accanto alle avanguardie degli anni ’20, andando alla ricerca di valori nuovi e di nuove forme per superare quel conflitto che aveva distrutto un paese e i suoi uomini. L’espansione industriale sta sconvolgendo l’ambiente e la vita, così come il paesaggio intorno sembra star cambiando grazie alla ricostruzione di grandi fabbriche. È negli anni trenta infatti che si inizia a rivolgersi all’uomo: la fotografia diventa la testimonianza della gente dei quartieri più disagiati. La fotografia ben presto inizia ad avvicinarsi alle persone, prima nelle strade prima, poi nelle fabbriche fino a toccare i quartieri più poveri della città . Ma la Francia, come altri paesi europei, viene a sua volta colpita dalla crisi dopo quel breve periodo di prosperità. L’arte si avvicina di nuovo all’ordine e la fotografia, invece, si avvicina ancora di più alla realtà, mostrando le classi operaie e la loro ribellione, condotti dal movimento del Fronte Popolare. Ma anche questo periodo di pace, segnato anche da qualche vittoria dei lavoratori, sembra avere vita breve, intimorito dalle nuove minacce di guerra che sembrano sorgere intorno al paese.
Così le arti si fanno più scure, caratterizzate da una certa disperazione e allo stesso modo la fotografia sembra rallentare, fino ad una rottura che sarà segnata dalla dichiarazione di guerra e dall’occupazione tedesca. Se durante la guerra si era preferito una fotografia di propaganda, soprattutto al servizio del governo di Vichy, con la liberazione di Parigi, si cerca di promuovere la ripresa del paese e l’unità, anche a livello mondiale. Si cerca, al contempo, di rinnovare i valori universali di umanità che, con la scoperta dei campi di concentramento e l’utilizzo della bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale, erano stati quasi totalmente compromessi. Vi è una nuova idea di speranza, anche se le comunità nazionali sono state distrutte, e vi è il desiderio di costruire, nuovamente, un mondo migliore. Così la fotografia è imbevuta della visione umanista e universalista del periodo post-bellico, in questa realtà che è ancora ricca di pessimismo per colpa anche della paura di possibili nuovi conflitti data la Guerra Fredda e la decolonizzazione . Vi è la nascita di due correnti di pensiero diverse, una più incentrata sul raccontare e mostrare gli eventi violenti e drammatici dell’attualità e l’altra, invece, ha un approccio più scientifico-sociologico e osserva ed esplora la routine quotidiana dell’uomo, con intento, non tanto a mostrare l’azione, quanto le cose e il mondo in maniera più ampia . Esiste anche una terza via, molto più personale e artistica. Vi sono coloro che preferiscono vagare e usare la propria “fantasia”, concentrandosi sulle persone attraverso uno sguardo più ironico, tenero, quasi compassionevole, realizzando immagini isolate, risultato di una visione più personale. Sono fotografi meno interessati ad un evento o ad una specifica situazione, interessati invece ad uno spazio che loro scoprono attraverso lo scambio di sguardi, in questa relazione che instaurano con i soggetti fotografati e che viene percepita solo tra loro e il fotografo. Per questo tipo di fotografia, l’emozione è primaria ed è più importante della forma, la loro “investigazione” riguarda il quotidiano e il banale ma viene mostrata con una certa tenerezza e una grande fede nell’uomo. Non è strano che questo tipo di fotografia si sviluppi proprio in Francia, nel dopoguerra; già nel diciannovesimo secolo, grazie anche alle innovazioni tecniche, molti fotografi avevano abbandonato gli studi per invadere le strade e le vie cittadine . Tra questi anche Eugène Atget che nelle sue fotografie di uomini e dei loro mestieri, pubblicate dalla rivista Paris Moderne , è possibile cogliere l’estetica, l’ispirazione e la base di ricerca di quella fotografia poetica che invece avrà il suo culmine mezzo secolo dopo. In questi anni di ricostruzione, a causa anche delle difficoltà a ritrovare e reperire materiale e per gli alti costi di produzione, diventa fondamentale il ruolo delle agenzie di stampa, anche a livello internazionale, che permettono ai fotografi di continuare il loro lavoro e permettono di diffondere nell’immaginario collettivo, lo stereotipo della Francia. Se nel dopoguerra si diffonde un’idea pessimistica, attraverso l’arte si oppone una corrente più fiduciosa, che rifiuta la distruzione dell’uomo e quella causata dall’uomo e che concepisce la fotografia come una mezzo universale per celebrare l’uguaglianza a le democrazia. Questo nuovo umanesimo cerca di ricostruire le rovine che l’uomo ha fatto basandosi sui punti in comune che comunismo e cristianesimo scoprono di avere nel periodo postbellico. I due ideali dominano la stampa e se da una parte vi è il sogno di una società e lavoro senza classi, dall’altra vi è una particolare attenzione per la dignità dell’uomo. La stampa e i giornali di sinistra, così come anche quelli cattolici, puntano su temi, situazioni e personaggi iconici che richiamano i temi umanistici. È la stampa che è in crescita e vi è una continua richiesta di immagini e documenti, ma è la stessa nozione di reporting che inizia ad evolversi e vi è, anzi, la nascita di una nuova professione: il «reporters-illustrateurs». Non è più un solo catturare le notizie più importanti, quanto un approfondire le problematiche, per andare oltre al semplice momento, esternando quei valori di speranza e favorire un dialogo che allontani l’ombra di una futura guerra mondiale, catturando l’uomo le cui azioni possano testimoniare questa nuova era. Questo stile di immagini particolarmente apprezzato in Francia, beneficia della rinascita della stampa illustrata, con riviste come Réalités, Plaisirs de France o Paris Match ma anche grazie alle agenzie di fotografia che producono libri illustrati dei fotografi del momento, come l’agenzia Rapho, rilanciata proprio nel 1945 dove, a fotografi come Savitry, Landau e Brassaï, si uniscono Boubat, Janine Niepce e Sabine Weiss, che rappresentano la corrente umanista. Ma non tutti lavorano per la stampa, alcuni, ad esempio Doisneau o Ronis, cercano di lavorare in modo indipendente anche se lo status di fotografo continua, ancora, ad essere molto precario. Coloro che non si affidano alle agenzie, cercano di farsi conoscere grazie al passaparola, attraverso le relazioni personali e attraverso pubblicazioni precedenti o rare mostre o sono i fotografi stessi a rivolgersi a editori per proporre i propri lavori, con più o meno successo. Nella Francia del dopoguerra, i fotografi umanisti contribuiscono a creare l’iconografia nazionale che è tinta di note nostalgiche e punta all’ottimismo, cercando di cogliere i parigini nella loro quotidianità. È inizialmente una Francia in cui si mostra l’arte di vivere e gli stereotipi francesi, costruendo quello che è l’ “iconografia francese”. Le immagini sono volute principalmente da due istituzioni fondamentali, il Commissariat général au tourisme e la Documentation française, con le quali i fotografi firmano un contratto per mantenersi e lavorare sotto commissione. Questi organi sollecitano tale tipo di fotografia per mostrare e promuovere quei particolarismi nazionali, istruendo e presentando, al contempo, la nuova economia e la forza del paese. Parallelamente a queste due organizzazioni, emergono anche importanti editori, che cercano anche loro di trasmettere l’identità nazionale che sembra essersi perduta dopo l’occupazione tedesca, cercando contemporaneamente di inserirsi tra tradizione e modernità. I fotografi, in questo caso, lavorano fianco a fianco agli scrittori e se, in un primo momento devono quasi lottare per fare in modo che il proprio nome sia menzionato, con la liberazione di Parigi e il secondo dopoguerra, le fotografie umaniste, non senza qualche difficoltà, avranno sempre più spazio. La fotografia lentamente va a sostituire il disegno, e anzi, si va ad evolvere anche il rapporto tra testo e immagine. Inizialmente l’immagine era solo ornamento, per accompagnare le linee di testo ma diventerà talmente importante da ridurre lo stesso testo ad una breve legenda, fino ad essere essa stessa il punto di partenza dello scrittore. La fotografia viene scelta perché più radicata nella città, “testimonianza reale” di ciò che avviene, quindi definita più “imparziale” della scrittura che invece è filtrata dalla conoscenza e dai pensieri dello scrittore o poeta. Essa diventa importante al punto che è alla base anche della copertina dei libri, una evoluzione che però non piace a molti, notando il pericolo nel vedere le proprie immagini ritagliate, perdendo ogni riferimento al soggetto, cosa che porterà artisti come Willy Ronis a lasciare l’agenzia Rapho perché non in grado di controllare l’uso improprio delle sue fotografie . Con il termine umanista, è l’uomo il soggetto principale, immerso nella città e nella vita urbana che ne fa da sfondo ai vari scatti. Questa tendenza si rivela soprattutto nella terza edizione del 1948 del Salone Nazionale di Francia, presso la Biblioteca Nazionale – evento creato nel 1946 e successivamente organizzato annualmente, fino al 1958 – in cui la città, rappresentata nei suoi sobborghi, non è sfondo solo per moda, ma è una continua ricerca del vero e della verità che non si trova nei quartieri più agiati. I fotografi umanisti prediligono il Salon perché permette loro di mostrare il proprio lavoro personale, continuando, al contempo, l’intento stesso del Salone di preservare la “produzione di immagini”. Tra gli espositori vi sono Brassaï, Boubat, Ronis e Doisneau. L’uomo rappresentato è un uomo semplice, che vive ed è consapevole della realtà e della propria epoca, e il fotografo, attraverso la ricerca di materiale “umano”, cerca di rinnovare l’iconografia ma al contempo di soddisfare anche il gusto del pubblico. Visto il pubblico più popolare al quale la mostra era destinata, l’uomo rappresentato aveva un valore morale e un forte significato sociale, al punto però di creare e moltiplicare i vari cliché e archetipi, fino a perdere quasi del tutto la spontaneità delle fotografie, sfiorando il dilettantismo e perdendo il vigore e l’approvazione iniziale . Il fotografo umanista è idealizzato come colui che passeggia e che, attraverso quelli che appaiono incontri improvvisi e fortuiti, incornicia un momento, divenendo, al contempo, sia spettatore che attore stesso. Lui cammina tra gli altri, rivendicando la sua dimensione umana, ma al contempo fotografa, dimostrando la sua dimensione di artista. È contemporaneamente dentro e fuori quella realtà che lo circonda.
La città è lo sfondo principale delle fotografie degli umanisti, così come la strada è il luogo in cui l’uomo si inserisce. Con un forte richiamo ad Atget, la strada nei fotografi umanisti è il palcoscenico per mostrare le figure eccentriche che in passato erano le donne di strada e i disonesti. Ma è Parigi che con le sue architetture crea lo stile e rappresenta la vera estetica fotografica del movimento. Così come i soggetti privilegiati, in queste fotografie dal formato ridotto, sono l’uomo nella sfera dell’amore, della famiglia e del sociale. Le foto devono rappresentare soggetti che, in un periodo di ricostruzione post guerra, siano in grado di portare un’idea ottimistica alle nuove generazioni, immerse anche dei valori tradizionali della società, considerati bene prezioso. Se la sfera famigliare e il mondo più privato è uno dei soggetti prediletti, non nasconde però nasconde però, e anzi, lascia ben in mostra anche un’altra realtà popolata da ubriaconi, zingari, artisti o donne di strada, che brulicano e invadono le strade e le vie nel silenzio notturno. Per alcuni, come Doisneau, non è tanto il centro, quanto la periferia parigina il suo soggetto favorito, fatta di grandi cambiamenti. Le strade che attraversa, i locali che frequenta, come i bistrot, considerati luogo di convivialità, o le rive della Senna e i quartieri più svariati, sono gli stessi che anche Izis e Willy Ronis scelgono, cercando però, di interessarsi tutti ad ambiti differenti. Oltre a questa predilezione per gente comune e per quei personaggi pittoreschi che ispirarono poeti e scrittori, ad attirare i fotografi del dopoguerra sono aspetti nuovi e meno divertenti. Grazie alla stampa, i fotografi focalizzano il loro interesse sulla presenza dell’uomo che è testimone di un’era, incentrandosi su inchieste più sociali. I temi dei loro reportage riflettono le speranze e le lotte del popolo, altamente influenzato anche dagli ideali del Parti communiste français. Si lavora per ottenere un realismo poetico, con un richiamo a quello documentario, come si attesta negli scioperi che scuotono la Francia del 1947, nei quali i fotografi, con occhio attento, documentano gli avvenimenti. Illustrano con forza la durezza dei conflitti sociali, sottolineando i sobborghi della città, trasformando ciò che è sporco e malridotto in qualcosa che tende al meraviglioso, annacquando quell’iconografia solita che vedeva in modo nostalgico il passato. Molti fotografi, in questo modo, esprimono il proprio impegno ideologico, accanto a comunisti e cristiani, o sentono una certa empatia verso quest’ultimo, sentendo la solidarietà per il povero. Molti condividono le lotte operaie e ne prendono parte, ma mostrano anche la modernizzazione e il progresso nel mondo del lavoro, della vita quotidiana nelle città e nelle periferie. Si sviluppano campagne per promuovere il bene collettivo, per lo sviluppo del benessere dell’individuo, affermando una speranza per una società più giusta e un domani migliore. Willy Ronis, che insieme a Doisneau fece parte del Gruppo dei XV, è colui che è più interessato alla denuncia dei problemi sociali e alla lotta dei lavoratori, mostrando la loro vita quotidiana e la modestia dei parigini. Più riservato, attento alla forma, al catturare le persone nel loro ambiente e nel cogliere i lavoratori e le famiglie, mostrando la passione per gli uomini e l’idea di fratellanza che li unisce. Anche per questo motivo e per la sua sensibilità ai temi sociali, ne fece di lui il fotografo simbolo del Fronte Popolare. Izis invece, definito il “sognatore” e in parte “melanconico” ha sempre cercato di far trasparire questa sua tristezza e dolcezza, nei suoi scatti. Le sue fotografie alla classe operaria, ai bambini, a semplici uomini nei cafè o anche ai clochard, mostrano il disagio del loro vivere ma al contempo una dignità d’animo, raccontando la realtà umana dei quartieri più popolari. Edouard Boubat invece, appartenente al gruppo della rivista Réalités, è colui che estende il proprio campo d’azione non solo alla Francia, viaggiando per il mondo e cercando di avvicinare a sé le persone. È un testimone contemplativo e calmo, definito dal poeta Prévert come “corrispondente di pace”. Cerca di scoprire il mondo e i suoi abitanti, cercando di mostrare i momenti più felici della vita, non eventi eccezionali ma rappresentando una quotidianità ricca di “grazia, poesia e pienezza atemporale”. Questo tipo di coinvolgimento personale e sociale, per quanto in parte, come affermato prima, mitighi la nostalgica visione del passato, in realtà non hanno l’effetto sortito, in quanto nei libri viene minimizzata questa denuncia alla miseria.
Nella stampa straniera prevale per lo più, infatti, quella visione “tipicamente francese”, negando quella realtà sociale e politica del paese. Con i lavoratori, uomini semplici e le loro famiglie delle classi medie e modeste, bambini ricchi rappresentati solamente nella loro spontaneità e innocenza, o coppie innamorate che manifestano i propri sentimenti, i fotografi cercano di rappresentare un’idea e valori umani universali, ma con una loro visione personale. In tutti loro però vi è l’assenza del voyerismo e della ricerca del sensazionalismo. Non è vi è alcuna intenzione di sorprendere o scioccare, non vogliono perseguire l’insolito, ma cercano di rappresentare la vita di tutti i giorni, approcciandosi rispettosamente verso i soggetti, soprattutto quelli più umili. Il culmine di questa corrente è sicuramente la mostra organizzata nel 1955 da Edward Steichen al MOMA di New York, intitolata “The Family of Man”, che tra i tanti artisti internazionali, figuravano anche dodici fotografi francesi. La mostra fu di grande successo, al punto che, dopo un tour negli Stati Uniti, venne riaperta e riallestita permanentemente al castello di Clervaux. Questa esposizione mescola la pura foto di reportage con quella di tipo “umanista”, quasi unificandole. Il soggetto della mostra è l’uomo, l’essere umano nella sua vita e i suoi modi di agire e comportarsi, con il mondo e con gli altri, utilizzando la fotografia come mezzo di comunicazione tra i popoli, mostrando la vita quotidiana nelle sue gioie e dolori, trasmettendo la dignità umana. Fu considerata come un messaggio di speranza e fraternità globale, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, che ancora marchiava i ricordi. Questa, secondo molti considerando invece la mostra “Five French Photographers” del 1951 ancora poco matura – segna il trionfo dell’umanesimo e il punto più alto della corrente, che si espanse poi al di fuori del suo epicentro francese, ma considerata anche l’ultima manifestazione degna di nota di questo importante movimento. La mostra che però non mancò di ricevere critiche, soprattutto per l’eliminazione delle differenze, dell’importanza della storia dei singoli paesi verso una verità universale, obiettivo che molti fotografi non perseguono. Anzi, questa eliminazione delle tante diversità per una fraternità globale, sembrò aver cancellato anche la natura soggettiva nei lavori dei fotografi. Ma si può notare come in questa mostra solo una minima parte, il 6% delle opere esposte , fosse di artisti francesi, facendo intuire anche come l’Europa e la Francia, in quel periodo, non fossero più il centro del mondo .Da non confondere con il Gruppo dei Quindici, il Groupe des XV era una associazione di fotografi francesi con l’obiettivo di promuovere la fotografia come arte e al contempo di preservare il patrimonio fotografico francese. Nata nel 1946 come continuazione dell’associazione Le Rectangle, scioltasi con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, venne fondata e guidata da André Garban, e insieme si riunivano presso il suo studio fotografico, vicino alla chiesa di Notre Dame de Lorette. Tra il 1946 e il 1957 ultimo anno prima dello scioglimento – veniva organizzata una mostra collettiva all’anno, in diverse sedi come nella Galerie Pascaud, o nella galerie Mirador. André Garban fu anche creatore e promotore del Salon national de la photographie e il curatore Jean Vallery-Radot concesse loro lo spazio della galerie Mansart, presso la Biblioteca nazionale, dal 1949. Il manifesto del gruppo aveva un forte richiamo a quello di Le Rectangle, creando quindi un legame tra le due associazioni, promuovendo una fotografia come arte, in grado di mostrare opere di qualità, impegnandosi a rispettare lo spirito di lealtà e aiuto reciproco, caratterizzati da un forte cameratismo, “quasi spirito di squadra sportivo” . Il rispetto veniva associato anche al processo fotografico, attraverso l’utilizzo di una fotografia reale, un negativo perfetto e, se possibile, senza alcun ritocco, ricercando nuovi angoli, nuove idee ma guardando sempre alla tradizione, identificata in Nadar, Atget e Cartier-Bresson. Il 1946 fu, oltre che l’anno di fondazione del gruppo, un anno importante per la nuova visione delle arti e una nuova rivalutazione che portò alla nascita della SIAP, associata al Groupe des XV, che gestiva il diritto d’autore e la riproduzione delle fotografie, attraverso un codice etico e prezziario, per controllare la diffusione delle opere. Tra i membri del gruppo, ricco di stili differenti, possiamo ricordare soprattutto i due umanisti Robert Doisneau e Willy Ronis, infatti in comune alla corrente umanista, sono interessati alla documentazione della vita nelle strade della città, mostrando la cultura francese, con richiami però al Surrealismo e alla Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit), rifiutando invece il pittorialismo. Il lavoro dei fotografi è reso possibile grazie all’utilizzo di una macchina fotografica molto più maneggevole e leggera, al punto da essere una vera e propria rivoluzione. L’arrivo della Leica è considerato il punto di partenza per la fotografia moderna, che consente di avere più angoli di inquadratura, diventando una “estensione dell’occhio” stesso. Gli ingranditori però, non erano abbastanza avanzati e l’immagine stampata non permetteva di essere di buona qualità, ma granulosa, anche nel formato 18×24. L’introduzione di Ergy Landau, nel 1928, della Rolleiflex 4×4, fu una vera rivoluzione in Francia, che venne presto utilizzata da Brassaï e dal gruppo di fotografi ungheresi, per poi venire adottata anche da chi lavora per l’agenzia Rapho . Il nuovo dispositivo, preferito alla Leica, permise un movimento più fluido, liberandolo dall’ingombro del treppiede. Oltre a Leica e Rolleiflex, si inizia ad utilizzare anche la Contax, competitor della Leica, che venne presto utilizzata soprattutto per la possibilità di montare ottiche Zeiss e che permetteva di avere dai grandangolari ai teleobiettivi. Nel 1935, intorno a questi tre dispositivi, si riunirono più fotografi formando dei piccoli “gruppi” divisibili in: Contax-club, Rollei-club e Leica-club. I fotografi, con queste nuove attrezzature, furono ben presto in grado di creare un rapporto simbiotico con il dispositivo, rendendo in questo modo il loro lavoro più personale e, grazie al formato quadrato (6×6), danno vita ad una propria estetica. L’evoluzione della fotografia umanista fu possibile, dopo il secondo conflitto mondiale, anche grazie al progresso tecnologico e alle attrezzature americane, con l’introduzione anche di lampade flash, strobo, teleobiettivi a focale corta e pellicole 1000 ASA. I fotografi umanisti, grazie anche ad una naturalezza nella composizione, attraverso la luce e il contrasto, non abbandonano l’importanza della forma, sempre secondaria però al soggetto principale. In più, lavorano quasi esclusivamente in bianco e nero, che permette un approccio diverso rispetto all’utilizzo del colore, con anche però ulteriori problemi tecnici che possono influenzare le fotografie, lasciando meno spazio all’immaginazione. Rifiutano, almeno in teoria ed ispirandosi a idee pre belliche, ciò che è il trucco tecnico, il falso e il ritocco. Non hanno il gusto per le manipolazioni né per le composizioni audaci, cercano di riprodurre la realtà che si presenta loro sul momento, atteggiamento forse ereditato dalla fotografia documentaria, e non vogliono infatti ricostruire la scena. Questo rifiuto per il cambiamento però è ora visto solo come una pura teoria dopo la scoperta che “Il bacio davanti all’Hotel De Ville” di Doisneau era stato organizzato insieme a due attori, cosa ben diversa dalle fotografie invece fatte su commissione come quelle di Ronis. Anche la stampa e la qualità di stampa ha il suo valore nella fotografia umanista, al punto che lo stesso formato va a condizionare anche l’impaginazione dei giornali dell’epoca. Bisogna però aspettare il 1955 con l’introduzione di nuovi obiettivi e pellicole più veloci, come l’introduzione nel mercato della pellicola Tri-X caricata su un dispositivo 24×36, per avere un’ulteriore rivoluzione nella fotografia, che però sembra toccare solo di sfuggita quella umanista, se si considera la fine, apparente, del movimento a fine anni ‘60. Gyula Halász, detto Brassaï, ha legato il proprio nome alla città di Parigi. Amò Parigi di notte o sotto la pioggia, ne fotografò le ville, i giardini, il lungosenna e le stradine senza tempo dei quartieri antichi. La sua opera costituisce una sorta di prolungamento più intensamente noir dei ‘luoghi del delitto’ di Atget, rispetto al quale si differenzia soprattutto per la grande importanza accordata alle persone nei suoi scatti. Il legame del fotografo con la terra d’origine era parimenti cruciale, tanto è vero che il suo pseudonimo deriva da lì: Brassaï significa “di Braşov”, e si riferisce alla sua cittadina natale (che, anche se oggi fa parte della Romania, all’epoca era nella Transilvania ungherese).Una volta radicato nelle viscere del territorio parigino, ad ogni modo, la sua attenzione fotografica nei confronti della città diventò assoluta. Brassaï aveva già vissuto a Parigi da bambino, a partire dai tre anni, quando suo padre ottenne la cattedra di professore di letteratura alla Sorbona. Tornato in patria per studiare all’Accademia di belle arti di Budapest prima di arruolarsi nella cavalleria dell’esercito austroungarico durante la prima guerra mondiale.
Nel 1920 andò a vivere a Berlino, lavorando come giornalista e riprendendo gli studi all’Accademia. Nel 1924 si trasferì definitivamente a Parigi, andando a vivere a Montparnasse e diventando grande amico dei molti intellettuali che frequentavano il quartiere, come Jacques Prevert e Henry Miller. Brassaï può essere considerato il fotografo ‘gemello’ di Kertesz: i due si conobbero non appena il primo giunse a Parigi nel 1925, essendo entrambi parte di una piccola cerchia di bohemienne ungheresi. Fu Kertesz ad insegnare a Brassaï a fotografare di notte, ma viceversa Paris de nuit (1933), il libro fotografico di quest’ultimo fungerà da modello di Kertesz dell’anno successivo. Entrambi lavoreranno poi negli Stati Uniti dopo la guerra (per un certo periodo presso la medesima rivista, Harper’s Bazaar). Dal punto di vista dello sviluppo dei loro percorsi artistici, nelle traiettorie di Kertesz e Brassaï possiamo rintracciare come una struttura chiasmica: se il primo partiva da una forte intuizione e per lui la fotografia era inizialmente innanzitutto intuizione umanistica, e solo in seguito, come abbiamo visto, andò acquisendo idee formali che presero ad influenzare più nettamente il suo lavoro, il secondo aveva viceversa una preparazione accademica che lo dotava di un formalismo di partenza, da cui imparò poi a liberarsi con il tempo. È assai probabile che l’influenza reciproca abbia avuto un peso notevole in questi sviluppi. In Paris La Nuit il formalismo è evidentissimo; Parigi vi appare quasi deserta, per lo più inanimata, e quando compaiono delle persone, esse risultano subordinate o incorporate negli elementi grafici. In alcune foto è però possibile presagire un maggior interesse per le figure e le vicende umane, che il nostro in seguito svilupperà ampiamente: scatti rubati da un Brassaï voyeur notturno, queste immagini di due amanti sembrano dei fotogrammi di un film dell’epoca, e ci dicono molto sulle influenze reciproche che il cinema e la fotografia hanno evidentemente esercitato l’uno sull’altro. In una foto è inoltre evidente l’intrecciarsi del discorso sulla notte e sull’amore con una maggiore sensibilità alla problematica sociale: una tematica sviluppata ancor più chiaramente in un’altra delle immagini di Paris la nuit, quella Clochards sotto Pont-Neuf (1932) alla pagina seguente, che sembra ironizzare sull’idea di Parigi come Ville des lumieres, città delle luci, giustapponendo l’elegante lampione della parte superiore con la luce del falò della parte inferiore. Il progetto successivo di Brassaï, Paris plaisir, è un’indagine ben più approfondita sui bassifondi di Parigi. Intrufolandosi in cafè e locali malfamati nelle ore piccole della notte, Brassaï andava alla ricerca di quella ‘bellezza delle cose sinistre’ di cui parlava il suo amico Prevert, che spesso lo accompagnava in queste peregrinazioni. Nel suo lavoro più che in quello di chiunque altro l’idea della strada è estesa ai locali adiacenti al manto stradale in senso stretto: d’altronde le sue fotografie spesso danno l’impressione di un temerario attraversamento delle consuete barriere tra pubblico e privato, accedendo perfino all’intimità delle stanze degli alberghi ad ore ed in generale dipingendo un mondo in cui crimine e trasgressione sessuale si intrecciano con facilità. Rimane un forte dubbio circa la natura veramente istantanea di alcune di queste fotografie. D’altra parte Brassaï stesso dichiarò in varie interviste che detestava le istantanee. Per poter scattare le proprie immagini egli non si affidava infatti ad un effetto sorpresa, come aveva fatto a suo tempo Riis e come farà, tra gli altri, Weegee. Brassaï soleva piuttosto coltivarsi le amicizie dei personaggi a volte pochissimo raccomandabili che frequentavano questo milieu, e talvolta agiva proprio come un regista, fabbricando immagini scandalose a bella posta. D’altra parte i criminali collaboravano anche perché erano vanitosi e gli piaceva leggere delle proprie gesta e vedersi ritratti su riviste di quart’ordine come Le scandale, su cui pure Brassaï pubblicò numerosi scatti prima di raccoglierli in volume. L’elemento artificioso di queste immagini in definitiva dunque non ci disturba più di tanto: si percepisce infatti che sarebbe inutile inseguire una naturalità in questo mondo in cui il comportamento più naturale è proprio la posa. A questo proposito si veda l’insistenza di Brassaï sugli specchi, superfici riflettenti che raddoppiano le identità e le alterano, permettendo al fotografo e dunque a noi di vedere la stessa scena da numerosi punti di vista leggermente diversi, anche se convergenti.
Ampliando il visibile, il mondo viene scomposto in piani in modo da minare le fondamenta stesse dell’idea di una realtà unica e univoca: in questo senso la sperimentazione di Brassaï ha una certa affinità con le sperimentazioni cubiste di scomposizione dei piani esemplificate al meglio dalle opere di Picasso. Si veda poi lo scatto che sembra un rifacimento voluto del celeberrimo quadro di Manet del Bar alle Folies Bergère: anche se le ragazze ritratte nella foto sono delle clienti di un bar e non una cameriera come nel dipinto, ed il loro entusiasmo nell’essere fotografate non trova corrispondenza nel viso mesto della ragazza ritratta dal pittore impressionista, la similitudine strutturale attesta il costante rifarsi del fotografo alla propria formazione accademica, anche in questa serie così dominata dall’elemento umano. Nelle migliori foto di Brassaï infatti la ricerca estetica e la vividezza delle emozioni sono come due correnti opposte che navigano sulle diagonali dell’inquadratura tenendosi reciprocamente in equilibrio. Altrettanto straordinaria è la galleria di immagini dei protagonisti di quegli anni leggendari: scrittori, artisti, musicisti, personaggi del mondo della moda e dello spettacolo, ma anche le persone più umili, come i venditori ambulanti e i lavoratori delle Halles che, visti assieme, compongono un ritratto corale di poetica bellezza. Nelle sue passeggiate, Brassaï non si limita alla rappresentazione del paesaggio o alle vedute architettoniche, ma si avventura anche in spazi interni più intimi e confinati, dove la società si incontra e si diverte. La vicinanza al movimento surrealista e l’amicizia con artisti e scrittori celebri come Dalí, Matisse, Prévert e Picasso gli apre infine le porte dei salotti intellettuali, permettendogli di partecipare allo straordinario fermento culturale che investì Parigi in quegli anni irripetibili. Genio poliedrico dal multiforme talento – si è cimentato con il disegno, la pittura, la scultura ma anche con la scrittura – Brassaï trova nella fotografia il mezzo perfetto con cui affrontare il reale. L’obiettivo è un filtro che gli permette di depurare il mondo che lo circonda dalle convenzioni e dalle consuetudini, trasformando anche l’oggetto più banale in qualcosa di sorprendente: “Se tutto può diventare banale, tutto può ridiventare meraviglioso: che cos’è il banale se non il meraviglioso impoverito dall’abitudine?” afferma infatti l’artista. Le sue più celebri immagini, come la serie Parigi di notte e le foto che hanno ispirato la nascente poetica del Surrealismo e quelle della serie Graffiti che hanno precorso la poetica dell’Informale e dell’Art Brut, accompagnate da una selezione di sculture, un arazzo, documenti e oggetti appartenuti all’artista, si articoleranno in un percorso espositivo di dieci sezioni tematiche che immergeranno il visitatore nelle sofisticate e misteriose atmosfere della capitale francese della prima metà del Novecento, meta di artisti e intellettuali, “città spettacolo” che seduce e rapisce. La mostra sarà inoltre accompagnata da una pubblicazione curata da Philippe Ribeyrolles, studioso nonché nipote del grande fotografo.
Biografia di Brassai
Brassai, pseudonimo di Gyula Halász (1899-1984), è stato un famoso fotografo, scrittore e scultore di origine ungherese. Nato il 9 settembre 1899 a Brassó, Transilvania (ora parte della Romania), Brassai trascorse la maggior parte della sua vita e della sua carriera a Parigi, diventando noto per le sue fotografie iconiche della città. Dopo aver studiato pittura e scultura all’Accademia di Belle Arti di Budapest, Brassai si trasferì a Parigi nel 1924, dove si dedicò alla fotografia. Durante i suoi primi anni a Parigi, lavorò come giornalista e scrisse per diverse riviste ungheresi. Fu in questo periodo che decise di adottare il nome d’arte «Brassai», prendendo ispirazione dal suo luogo di nascita, Brassó. Brassai iniziò a fotografare le strade di Parigi di notte, catturando l’atmosfera misteriosa e la vita notturna della città. Le sue immagini spesso ritraevano prostitute, avventori di caffè, lavoratori notturni e altri personaggi della notte parigina. Il suo lavoro era caratterizzato da un approccio realista, ma al contempo poetico e suggestivo, che gli valse l’apprezzamento critico e il riconoscimento internazionale.
Nel 1933, Brassai pubblicò il suo primo libro di fotografie intitolato «Parigi di notte» (Paris de Nuit), che divenne un grande successo e lo rese famoso. Il libro conteneva una raccolta delle sue fotografie più significative, accompagnate da testi scritti dallo stesso Brassai, in cui raccontava le storie dietro le immagini. «Parigi di notte» è ancora oggi considerato uno dei libri di fotografia più importanti e influenti del XX secolo. Nel corso della sua carriera, Brassai fotografò anche molti artisti e intellettuali parigini famosi, come Pablo Picasso, Henri Matisse, Salvador Dalí e molti altri. Le sue fotografie ritraevano spesso gli artisti nel loro ambiente creativo, fornendo uno sguardo intimo e autentico sulla vita artistica dell’epoca. Oltre alla fotografia, Brassai scrisse diversi libri e saggi sull’arte e la fotografia, esplorando temi come l’estetica, la creatività e il processo artistico. Le sue opere letterarie, come «The Secret Paris of the 30s» e «Conversations with Picasso», offrono un’ulteriore prospettiva sulla sua esperienza e sulla sua comprensione dell’arte. Brassai continuò a lavorare come fotografo e scrittore per tutta la sua vita, ricevendo numerosi premi e riconoscimenti per il suo contributo alla fotografia. Morì il 8 luglio 1984 a Beaulieu-sur-Mer, in Francia, lasciando un’impronta duratura nella storia della fotografia come uno dei grandi maestri del suo tempo. Le sue fotografie sono ancora oggi ammirate per la loro capacità di catturare l’anima di Parigi e per la loro sensibilità estetica unica.
Museo Civico di Bassano del Grappa – Vicenza
Brassaï. L’occhio di Parigi
dal 16 Novembre 2024 al 21 Aprile 2025
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Foto Allestimento Brassaï. L’occhio di Parigi Museo Civico di Bassano del Grappa Courtesy- museibassano