Giovanni Cardone
Fino 24 Febbraio si potrà ammirare presso la Fondation Louis Vuitton Parigi una retrospettiva dedicata a Tom Wesselmann – Pop Forever, Tom Wesselmann &… a cura di Dieter Buchhart e Anna Karina Hofbaue. L’esposizione sarà incentrata principalmente sul lavoro dell’artista americano, per poi spaziare e approfondire le evoluzioni del movimento che ha rivoluzionato il modo di fare arte negli Anni Sessanta. In mostra oltre 150 dipinti e opere in vari materiali. La mostra presenta anche 70 opere di 35 artisti di diverse generazioni e nazionalità che condividono una comune sensibilità per il «Pop», dalle sue radici dadaiste alle sue manifestazioni contemporanee, e dagli anni ’20 ai giorni nostri. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla Pop Art e sulla Figura di Tom Wesselmann apro il mio saggio dicendo : Ciò che per me accomunava tutti i popist era la creazione di lavori che avevano a che fare con l’idioma della cultura di massa, avvertita innanzitutto nei grandi centri urbani. Tale linguaggio era formato da pubblicità, fumetti, design, fotografie quali elementi ricorrenti. Attraverso le proprie opere, gli artisti pop dimostravano di volersi distanziare dalla pittura d’élite che aveva continuato a caratterizzare anche il primo Novecento a favore della nobilitazione di quanto ritenuto basso. Nell’opera d’arte pop trova spazio anche ciò che non è meraviglioso a favore di elementi provenienti dalla vita quotidiana, al punto che «nella cultura di massa non c’è nessuna discontinuità tra arte e vita» . La pop art esprime la cultura di massa che è a sua volta espressione dell’epoca di cui ne è figlia: «La cosiddetta cultura popolare, o “cultura di massa” a seconda dei punti di vista, non è né il frutto di tradizioni culturali regionali né un’emancipazione delle classi popolari, ma deriva piuttosto dalla crescente industrializzazione delle società occidentali, che ne regola il contesto e i meccanismi» . L’inclusione della quotidianità è un tratto distintivo della Pop Art e concorre a fare sì che l’opera arrivi al fruitore in tutta la sua immediatezza. Filosoficamente, in testi e bibliografie sulla Pop Art non mancano riferimenti al saggio di Walter Bejamin L’oeuvre d’art à l’epoque de sa reproduction mechanisée in cui il filosofo scrive che «l’opera d’arte è sempre stata riproducibile» avendo cura di precisare che «la riproduzione tecnica dell’opera d’arte è invece qualcosa di nuovo» oltre a introdurre termini onnipresenti nei dibattiti sulla pop art quali “aura” e “autenticità”. Altri rimandi filosofici frequenti ai pragmatisti basti pensare al modello semiotico di Peirce in Nomenclature and Divisions of Triadic Relations in cui egli introduce i concetti di representamen (ciò che rappresenta l’oggetto), interpretante (come si interpreta l’oggetto) e oggetto stesso. Certo, è doveroso precisare che la quotidianità che favorisce tale immediatezza è inclusiva dei contenuti dei mass media: a partire dalle star hollywoodiane avvicinate all’uomo comune grazie alla loro immagine reiterata e riprodotta ovunque fino ad arrivare alle sfavillanti scritte segnaletiche. Nel corso del Novecento, la serialità è diventata parte integrante del paesaggio americano attraverso le pubblicità. Volendo leggere nell’arte lo specchio del tempo in cui è prodotta, in Lichtenstein e in Warhol si trovano dunque numerosi esempi del fascino che tale mutamento paesaggistico ha esercitato in loro. La serialità dell’elemento pubblicitario, soprattutto se riferito a prodotti industriali come generi alimentari, abiti, arredi ed elettrodomestici, fa sì che anche nell’arte si passi dal rigore all’atto sistematico. Oggetto di tale atto sistematico saranno proprio generi alimentari, abiti, arredi, elettrodomestici, fumetti, e tutto ciò che si presenta mutato dall’industrializzazione tant’è che anche il tipo di rappresentazione sarà fortemente ispirato alla tecnologia dell’industrial design. La serie di quadri Brushstrokes intende essere, oltre che la rappresentazione dell’«annullamento pulsionale del soggetto» , un commento ironico sul «culto eccessivo del gesto nell’espressionismo astratto quello dei quadri di Jackson Pollock, per esempio».
Attraverso l’ingrandimento della pennellata e l’isolamento dal contesto pittorico, Lichtenstein «distrugge anche le fondamenta dell’idea che l’arte moderna ha di sé, basata sull’originalità artistica e sul carattere unico dell’opera d’arte» a favore del «linguaggio standardizzato del fumetto, un linguaggio specializzato nella produzione della stampa» . Nella sua opera, poi, «i quadri della serie possono dirsi veramente conclusi solamente dopo la stampa serigrafica» . La rappresentazione di elettrodomestici e generi alimentari ha originato diverse scuole di pensiero tra i critici d’arte, soprattutto per quanto concerne il grado di ironia e sarcasmo in rappresentazioni del genere. Per Argan, «se nella Pop Art c’è un’intenzione satirica, non è esplicita» per Dorfles, si tratta invece di «ironizzazione della civiltà consumistica» . Quando la parola è stata data agli artisti stessi, invece, è stato difficile ricevere dichiarazioni di schieramenti decisi – «non sono molto certo del genere di messaggio sociale contenuto nella mia arte, ammesso che ve ne sia uno». È più probabile che siano stati mossi dalla volontà di giocare con gli effetti del consumismo. Riprendendo il motto di McLuhan “il medium è il massaggio”, Osterwold sottolinea come nella pop art «Il medium non trasmette solo messaggi, non è solo forma e veicolo di comunicazione, ne è anche il soggetto, il tema, lo scopo finale» e ciò deve accadere con immediatezza. Il Padre della Pop Art è Andy Warhol, nome di battesimo Andrew Warhola, nasce a Pittsburgh da genitori immigrati dalla Rutenia in Slovacchia. La sua data di nascita però risulta incerta, nella letteratura, infatti, sono riportate molte date, tuttavia essa dovrebbe essere compresa tra il 1928 e il 1931. Risulta difficile scoprire la verità sulla vita Andy Warhol, in quanto, la contraddizione, l’offuscamento dei dati biografici, la sostituzione della sua figura tramite sosia e la riservatezza nei confronti dei giornalisti sono metodi vitali, utilizzati dal futuro artista per la creazione di un personaggio completamente nuovo: Andy Warhol come egli stesso si chiamò dal momento del suo trasferimento a New York . La sua figura alquanto contraddittoria, nonostante sia insofferente nei confronti delle interviste o per meglio dire dei giornalisti, lasciò una gran quantità di messaggi lungo il corso della sua carriera: frasi dal carattere aforistico e due libri autobiografici. Nel grande magazzino il giovane Warhol fece il suo primo incontro con il mondo del consumismo e della pubblicità, dove lavorava come aiutante nel periodo delle vacanze. L’ambiente di lavoro offriva a lui, nullatenente, una vasta gamma di oggetti. Durante l’anno, frequentava la facoltà del Carnegie Institute of Tecnology di Pittsburgh dove studiò arte grafica e pubblicitaria e dopo il conseguimento della laurea, si trasferì nella grande metropoli, New York, che non avrebbe mai pensato seriamente di raggiungere. Il sogno americano del futuro artista si stava pian piano realizzando, iniziò da subito a lavorare per Carmel Snow redattrice della rivista di moda Harper’s Bazaar esercitando inizialmente la professione di grafico pubblicitario. In breve tempo era riuscito a diventare un artista commerciale di grandissimo successo ma non era ciò a cui Warhol aspirava, malgrado la crescente fama nel mondo della pubblicità, egli voleva essere un artista di tipo molto diverso. Il suo, inizialmente, fu un percorso esitante, di certo non esplosivo, verso un’arte che ancora non esisteva e verso un’identità che né Warhol né nessuno della sua cerchia avrebbe saputo definire. Warhol si sforzava di essere riconosciuto come un vero artista, anche se, nei primi anni Cinquanta, era richiesto soprattutto come grafico pubblicitario; forse il capitolo più significativo della sua arte commerciale, fino all’inizio degli anni Sessanta, furono i disegni per calzature, nessuno aveva mai disegnato scarpe come fece Andy. Affermava la direttrice artistica di Glamour, per la quale il futuro artista disegnò ben cinquanta schizzi di scarpe . Le rappresentazioni delle scarpe e la loro estetica erano i nuovi soggetti che interessavano a Warhol all’epoca del suo primo approccio alla Pop Art, anche se utilizzava ancora la maniera dell’Espressionismo astratto nell’uso del colore. E’ difficile però immaginare che egli volesse diventare un membro dell’Espressionismo Astratto americano, movimento che aveva un monopolio incontestato negli anni Cinquanta; la filosofia di questa corrente si fondava sull’idea romantica dell’anima dell’artista: il pittore, infatti, attraverso i segni tracciati sulla tela doveva esprimere i segreti nascosti nel profondo del suo inconscio. Si capisce come alla base di una tale visione che valorizza il culto dell’interiorità ci sia un forte legame con il pigmento del colore che permette di esprimere, tramite le ampie pennellate, tutta l’istintività dell’animo. La concezione dell’arte dell’Espressionismo Astratto è assolutamente lontana dalla visione del movimento pop e dello stesso Warhol, il quale, se inizialmente utilizzò il colore alla maniera Espressionista lo fece semplicemente per muovere i primi passi all’interno dell’avanguardia. Credo che Andy Warhol rifiutava la concezione di base dell’Espressionismo astratto che non poteva esercitare su di lui nessun tipo di fascino . Sentiamo come si esprime l’artista nel suo tipico stile aforistico: se volete sapere tutto di Andy Warhol non avete che da guardare la superficie dei miei quadri, i miei film e me stesso. Eccomi. Nulla è nascosto. Non vi sono, dunque, nell’arte di Warhol segreti nascosti di cui lo spettatore non conosce l’esistenza, persiste un legame naturale tra l’artista e lo spettatore e, nel caso di Warhol, ciò contribuì al processo che lo trasformò in una icona . E fu a partire dagli anni Sessanta che l’arte di Warhol prese una svolta significativa, oltre a cambiare il suo repertorio tematico, iniziava ad abbandonare i disegni pubblicitari per riviste esclusive e ripulì l’estetica élitaria dei prodotti ricca di glamour ed esclusività rimpiazzandola con immagini semplici, concrete ed efficaci rappresentazioni proletarie . A parere di molti critici la svolta, considerata una vera e propria trasformazione da artista commerciale di grande successo a icona, si ebbe tra il 1959-1961. Sicuramente La nascita a cui si allude nel titolo non fa di certo riferimento all’effettiva data di nascita dell’artista, che per altro avvenne attorno al 1928 le parole sono estremamente importanti, perché inducono a capire che proprio nel periodo compreso tra il 1959-1961 Warhol iniziò la scalata verso l’enorme successo che lo condurrà a diventare una celebrità acclamata. Una delle opere che citiamo come rappresentazione della svolta della vita di Warhol è un dipinto del 1961, Before and After si tratta di una versione ingigantita in bianco e nero, disegnata e dipinta a mano dall’artista, ispirata all’immagine di un annuncio pubblicitario allora in voga che celebrava i vantaggi della chirurgia estetica. Egli attivò con Before and After una sorta di processo inverso: dall’arte élitaria a messaggi ottici della pubblicità di massa, privi di fronzoli decorativi ed eleganti dal gusto leggermente ordinario. La semplicità e la concretezza di immagini come Before and After, di cui Warhol dipinse numerose versioni, si adeguavano alla mediocrità dell’epoca e penetravano direttamente nell’ambiente culturale newyorchese che li accolse con grande entusiasmo. Questi grandi e banali disegni pubblicitari riprodotti da Warhol nel 1961 hanno come soggetto il profilo della stessa donna, come suggerisce il titolo, prima e dopo l’operazione chirurgica a cui si è sottoposta Warhol stesso si sottopose ad un’operazione al naso. Nel profilo sinistro, infatti, la donna ha un naso aquilino che vediamo scomparire nell’immagine di destra la quale presenta il medesimo profilo dopo o After, come suggerisce il titolo dell’opera l’intervento estetico che ne ha mutato l’aspetto, rendendola così più attraente. Before and After può essere considerato a tutti gli effetti un titolo programmatico, una sorta di metafora artistica che vuole andare a sottolineare la trasformazione della stessa figura di Warhol, perciò esso si può leggere anche come “Prima e Dopo Warhol”. Tanto quanto la signorina Nasona desiderava l’aspetto da cheerleader o da attricetta della signorina Nasino all’insù, non meno ardentemente Warhol desiderava una trasformazione che in quegli anni lo fece diventare un membro dell’avanguardia .Dobbiamo stare ben attenti al fatto che questo mutamento non avvenne semplicemente a livello di status personale dell’artista: ci fu una vera e propria transizione sociale e culturale. Il suo nuovo linguaggio condusse a una rivoluzione artistica che imporrà una svolta decisiva sulla frontiera dell’arte contemporanea, il cosiddetto mondo dell’arte dell’epoca fatto di curatori, mercanti, critici, collezionisti, artisti era pronto per questa innovazione, era pronto per Andy Warhol. Warhol cambiò per così dire il modo di intendere l’arte elevando un’immagine stereotipata, appartenente all’immaginario collettivo, a vera e propria opera d’arte ‘Before and After 1961’. La trasformazione risulta alquanto invisibile se consideriamo che l’artista non ha fatto altro che riproporre una semplice riproduzione notevolmente ingigantita dell’immagine originale.
Certamente il momento in cui l’arte di Warhol si impose fu propizio perché, come abbiamo già detto precedentemente, le frontiere dell’arte erano pronte ad accettare il nuovo cambiamento tematico che attingeva ora a motivi più “bassi”, tratti direttamente dal nuovo spirito sociale dell’era consumista. Del resto, l’artista newyorchese, non fu il solo ad esprimersi attraverso questo nuovo linguaggio Pop, espressione adottata dal critico americano Lawrence Alloway, all’inizio degli anni Sessanta, per delineare un nuovo tipo di movimento d’avanguardia. Questa nuova corrente Pop era esclusivamente americana nello schieramento dei suoi protagonisti, perciò possiamo dedurre come Warhol non fu il solo ad essere impegnato in un progetto che elevava le immagini triviali della vita di tutti i giorni allo status di opere d’arte. Ma vi fu una svolta radicale in Andy Warhol e questa gli permise di essere percepito in modo differente rispetto agli altri artisti della Pop Art: diventò, già a partire dal 1965, l’artista per eccellenza, un vero e proprio divo della nuova cultura americana. A tutto questo possiamo aggiungere che entro la metà degli anni Sessanta Warhol modificò il suo aspetto esteriore. Il fatto non è da sottovalutare perché seguiva di pari passo i cambiamenti imposti dallo stesso mondo dell’arte, da cui era affascinato. L’immaginario artistico dell’epoca non era più quello degli anni Cinquanta, al quale egli si era esposto come artista commerciale; il suo look, quindi, doveva cambiare completamente, come nota David Bourdon, autore e critico d’arte, amico personale e conoscente di Andy Warhol: la sua trasformazione in un personaggio “pop” fu lungamente riflettuta e ben ponderata . L’artista diventò inoltre molto magro, indossava giacche di pelle e blue jeans, e anche il suo atteggiamento precedente venne sostituito: da uomo di mondo diventò un masticatore di gomma e apparentemente ingenuo, dedito alle forme più basse della cultura pop .L’anno cruciale per questo movimento è il 1960, arrivarono i primi segnali che qualcosa stava cambiando in campo artistico: un evidente distacco dall’Espressionismo astratto che aveva il pieno monopolio negli anni Cinquanta, dove dominava incontestato l’informale. Tuttavia gli artisti pop presero campo e reagirono all’impeto creativo e personale di artisti come Jackson Pollock, Franz Kline, Clyford Still, Mark Rothko e molti altri, la cui concezione dell’opera d’arte come azione vitale e liberatrice era realizzata attraverso tecniche pittoriche particolari. Quello della Pop Art non fu un vero e proprio movimento, ciò che accomunava questa nuova generazione di artisti, infatti, è il loro comune atteggiamento rivoluzionario che non può essere considerato semplicemente come una reazione allo spirito modernista, di cui l’Espressionismo astratto costituisce l’ultima grande espressione artistica. Fu così che a New York, in questi anni, si affermarono un certo numero di artisti che, senza alcun tipo di accordo e spesso sconosciuti gli uni agli altri, si videro impegnati in progetti simili. Nessuno se lo aspettava e invece, il pop colpì il mondo dell’arte tradizionale come un fulmine, una marea improvvisa . Un interesse comune di questi artisti verso la nuova realtà urbana e mediale lì condusse a dipingere, ciascuno per conto proprio, temi tratti dalla vita quotidiana, alla quale essi guardavano costantemente, ricavandone gli stimoli per realizzare un’integrazione completamente nuova di motivi che erano allo stesso tempo assolutamente familiari. La nascita della Pop Art non deve essere vista solamente come un’opposizione ai valori dell’idealismo e al soggettivismo dell’Espressionismo astratto; c’era qualcosa di veramente innovativo e radicale che ciascuno di questi artisti, individualmente, riuscì a percepire nello spirito dell’epoca . Coloro che potremmo indicare come il nuovo “gruppo” di artisti dell’avanguardia pop: Robert Rauschemberg, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Jim Dine, James Rosenquist e Tom Wesselmann, per indicarne alcuni contribuirono a creare uno stato profondo di agitazione che rivoluzionò il concetto di arte e pian piano penetrò nelle sfere culturali, fino ad invadere tutti gli aspetti della vita. Rispetto agli altri individui, questi artisti avevano capito una cosa fondamentale: il Modernismo era finito, ha perduto il suo profilo eroico, polemico e oltraggioso che ostentava nei suoi primi, aristocratici sostenitori. La società da cui essi dovevano attingere per la formazione delle loro immagini si presentava ora come un qualcosa di completamente nuovo: un universo del consumismo, basato sui mezzi di comunicazione di massa, sulla quantità e monotonia delle merci e sull’onnipresente industria pubblicitaria. Ponendo lo sguardo sulla società e sulla cultura americana, gli artisti pop si resero subito conto che questo non era nient’altro che un grande magazzino, ricco di merci e pannelli pubblicitari di cui “appropriarsi” e riutilizzare nelle loro opere . L’atteggiamento di base della Pop Art perciò appare assolutamente sfrontato: mette in campo una serie di immagini ordinarie di fronte alle quali nessuno si sarebbe mai chiesto che cosa fosse quello che aveva davanti agli occhi. Erano documentazioni pittoriche già viste da tutti perché riciclate dalle immagini televisive, dai mass media, dal cinema e in generale dal paesaggio urbano. Personaggi dei fumetti, loghi di prodotti di largo consumo, fotografie pubblicitarie di celebrità e stelle del cinema o di oggetti familiari a tutti gli americani, come gli hamburger e la Coca-Cola . Gli oggetti e le immagini della quotidianità americana, oltre a ritrovarle ogni giorno nelle pagine dei rotocalchi e impilati negli scaffali dei supermarket, ora si ritrovano anche in quadri e disegni proposti dalla nuova arte Pop. Le immagini vengono presentate così come sono, senza alcuna pretesa estetica e la scelta di dipingerle in maniera fredda e impersonale non è casuale se pensiamo ai nuovi valori che la società del consumismo propone. La Pop Art testimonia questi cambiamenti, esibisce un’arte che non da dà pensare, non penetra in profondità ma rimane legata all’apparenza, in linea con la nuova propaganda culturale americana. E’ così che i contenuti banali dei disegni pop, si prestano ad essere consumati velocemente come i prodotti e le ideologie a cui erano legati .Così facendo, i nuovi soggetti artistici non presentano più delle qualità estetiche e formali tali da potersi distinguere dai comuni oggetti triviali dell’epoca consumista. Le merci che circolano nel mondo ora sono riprodotte tali e quali nei quadri pop tranne alcuni cambiamenti legati al colore o alle dimensioni che vengono appesi alle pareti delle case, come fossero dei cartelloni pubblicitari. Questo atteggiamento che potremmo definire alquanto irriverente, fa capire che sta succedendo qualcosa di importante nel mondo dell’arte. E’ in atto un cambiamento sostanziale: una sfida per tentare di oltrepassare le barriere precedenti e rivoluzionare il concetto stesso di arte. All’inizio degli anni Sessanta i protagonisti della nuova scena artistica iniziarono a servirsi di qualsiasi soggetto, bello o brutto che sia, per realizzare le loro opere d’arte. Utilizzarono tutto ciò che c’è di banale e quotidiano per fare arte: immagini comuni e ordinarie, nulla veniva escluso dal repertorio artistico pop. Questa volontà di elevare un qualsiasi oggetto appartenente al vocabolario comune in opera d’arte, non è da intendersi come una critica nei confronti del consumismo dilagante. Lo spirito pop, infatti, non prende le mosse dagli intenti dissacratori e di denuncia sociale del Dadaismo, esso, piuttosto, mette in atto una sfida nei confronti delle barriere artistico culturali preesistenti, tentando di esplorare il limite oppure una linea di separazione tra l’arte e la vita sarebbe ancora possibile è una chela maggior parte degli artisti pop, come si vedrà in seguito, lavorerà in questa direzione, tentando di rispondere, attraverso il mezzo artistico, alla questione centrale che andava a modificare il significato dell’arte stessa. Il luogo prediletto dal nuovo artista, dunque, è il confine tra la vita e l’arte, qui egli decide di muoversi per abbattere la cultura pittorica precedente: mettere in mostra gli elementi della vita di tutti i giorni, facendoli diventare improvvisamente arte; questo è il punto di partenza nuovo e sfrontato la vera sfida dell’avanguardia pop, che divenne progressivamente il progetto essenziale degli anni Sessanta. Per questo si dice: La Pop Art fu uno degli elementi che contribuirono alla dissoluzione dello spirito del Modernismo e all’inizio dell’era postmoderna in cui ancora viviamo. Rauschenberg e Johns sono da considerarsi i capofila del movimento, irrompendo nel panorama newyorchese, a metà degli anni Cinquanta, nel momento in cui l’Espressionismo Astratto era considerato la rappresentazione artistica dominante. Costoro oltre a tenere la loro prima mostra personale nel 1958 alla Leo Castelli Gallery di New York,la galleria che si è aperta l’anno prima e che ora diviene il punto di riferimento della nuova generazione rappresentarono per Warhol dei modelli ideali e lo influenzarono profondamente . Il violento impeto proiettivo di Raushenberg fa incontrare oggetti reali e pittura, in modo da ricavarne i primi Combine-Paintings: immettere nel quadro i reperti del quotidiano e cospargerli di pittura, una sorta di assemblaggi tra elementi, immagini e frammenti diversi della realtà in cui l’artista stesso interviene con la pittura. Uno dei più famosi combine del 1955, Letto, è una vera struttura applicata sul telaio e appesa al muro con tanto di coperta e cuscino, intriso di magma pittorico applicato in modo da eliminare qualsiasi tentazione di dormirci dentro. Ciò a cui l’artista mira è creare un nuovo tipo di arte, legata al mondo esterno e non all’universo interiore, che mette in scena qualcosa che tutti quanti conoscono. Altro versante innovativo è il lavoro del collega di Raushenberg, Jaspers Johns, il quale, il più delle volte preferisce la pura pittura, in cui il ruolo centrale è dato allo strumento del pennello; bandiere e bersagli, lettere, cifre e mappe, sono gli stimoli che egli ricava direttamente dalla quotidianità, niente combine o assemblaggi: Johns preleva una sola immagine per volta che diventa il soggetto unico del quadro. Il suo lavoro, rispetto a quello del compagno di strada Rauschenberg, è decisamente più mentale, ciò che lo interessa è il problema del rapporto tra l’immagine (intesa come enunciato iconico) e il suo corrispondente oggetto (inteso come riferimento reale). In Tre bandiere , opera del 1958, Johns esegue alla lettera in proporzioni decrescenti tre bandiere americane, sovrapposte l’una all’altra. La tecnica pittorica usata dall’artista è prossima al trompe-l’oeil e, nonostante l’opera sia ben dipinta, non può essere scambiata per il suo corrispondente reale, essa rimane soltanto una rappresentazione di una bandiera dipinta. All’immagine riconosce tutti i diritti di priorità nel costituire l’oggetto in opera d’arte, nel senso che i suoi soggetti riuscivano a mantenere intatta l’identità con cui sono riconosciuti dal senso comune in un certo senso l’artista newyorchese riesce a superare la differenza fra realtà e rappresentazione. Sicuramente con le sue forti dichiarazioni e i suoi modi di intendere la scultura, da molti definita un caso a sé, Oldenburg tenta di farsi conoscere attirando l’attenzione dei media. Giunti alla metà degli anni Sessanta bisognava puntare a un tipo di arte che facesse parlare i mass media, i quali, erano parte fondamentale della nuova civiltà, definita anche mediatica. Lo stesso Warhol utilizzò questo procedimento, sapeva che poteva diventare una celebrità molto velocemente solo attraendo l’attenzione dei media . Nel 1961 Oldenburg compie una vera e propria parodia del sistema artistico commerciale: trasformò uno spazio nell’East Side di Manhattan in una sorta di “spaccio”, The Store. Qui si vendono le sue sculture che non hanno un aspetto reale ma sono realizzate in stoffa imbevuta di gesso, dai colori sgargianti e sgocciolanti; oggetti che prendono a modello soprattutto la produzione alimentare o igienica dell’industria di massa: coni gelato, hamburger, torte, lattine di bibite, ma anche giacche, calze, scarpe e camicie. L’artista, presso il suo The Store, divenne il negoziante che si occupava della vendita delle merci, da lui prodotte, e la gente comprava arte nello stesso modo in cui si comprano cibi e bevande o gli oggetti di tutti i giorni. Anche questo spazio ricreatoa Oldenburg era un altro modo geniale per mescolare la quotidianità alla materia artistica. Sicuramente Oldenburg con il suo allestimento, introduce una nota di ironia paradossale e di grottesco nei confronti della massificazione industriale, ma anche rispetto alla raffinatezza delle gallerie d’arte che, in una società così trasformata, non sono più plausibili. Il punto di riferimento per tutti questi artisti fu la galleria Castelli, specializzata per quanto riguarda l’arte d’avanguardia, di cui inizialmente facevano parte solo la coppia Robert Raushenberg e Jasper Johns. Attorno al 1960 vennero chiamati ad esporre anche altri artisti che dipingevano soggetti simili, ad esempio il giovane Roy Lichtenstein che trae le sue immagini dai fumetti e dalla pubblicità. Warhol tuttavia, all’epoca, non faceva ancora parte del gruppo di coloro che esponevano alla Castelli Gallery, anche se la visitava regolarmente e ne ammirava le opere d’arte. Ivan Karp, esperto d’arte e direttore della Galleria, era alla ricerca di nuovi pittori che lavoravano su immagini stereotipate e dopo una serie di visite allo studio di Warhol, ne percepì chiaramente un talento in quel tipo di estetica. Fu così a partire dal 1962 che l’opera di Warhol colpì profondamente Ivan Karp, tanto che i due iniziarono a collaborare e i nuovi soggetti ideati dall’artista gli permisero di acquisire il primo e indiscusso titolo di artista pop, senza che il termine avesse ancora un significato ben preciso. Nei primi anni Sessanta accanto alle immagini tratte dal mondo della pubblicità, costituite da singolari dipinti spesso trasportati su scala colossale e dipinte in bianco e nero, Warhol trova l’ispirazione nella lingua popolare dei fumetti. Nella società americana che al tempo stava vivendo una rinascita culturale e artistica, si era infatti sviluppata questa fresca, semplice e diretta cultura popolare del fumetto; i lettori del giornale quotidiano non si impegnavano più in una lettura di articoli e rubriche cervellotiche sull’attualità o sulla politica ma, diversamente da quanto propugnava una cultura élitaria, si dedicavano alla lettura dei fumetti. Lo stesso Warhol da ragazzo si era imbattuto nel mondo dei fumetti che appartenevano, in modo naturale, alla vita quotidiana di ogni adolescente americano. I nuovi soggetti dei suoi quadri, oltre a quelli pubblicitari quali Before and After, sono figure popolari tratte dai fumetti: Dick Tracy, Superman, Braccio di Ferro, Nancy o The Little King. Iniziando così a dipingere a colori dei particolari tratti da questa cultura figurativa, Warhol si stava avviando verso a quella che poteva essere considerata la tematica artistica centrale della sua opera, ricavata dai rotocalchi da quattro soldi, il nuovo universo da cui scavare . Quando Warhol si recò per le prime volte alla galleria di Karp si rese conto che aveva un concorrente e che quindi egli non era più il solo ad attingere dall’universo popolare del fumetto, al quale egli si ispirava per creare i suoi soggetti. Non appena l’artista vide i lavori di Lichtenstein decise di interrompere bruscamente le sue produzioni, nonostante i suoi fumetti perseguissero uno scopo completamente diverso dalle immagini meccaniche ed estetizzanti proposte da Lichtenstein. Il giovane pittore, infatti, era considerato un maestro nel suo campo, le sue immagini non sono inventate ma riproducono i modelli reali, esaltandone la grandezza dei particolari e applicando scrupolosamente il colore all’interno dei contorni. Warhol, al contrario, imprimeva il suo marchio di originalità anche in questo campo: egli non era meticoloso nella stesura del colore ma lo lasciava sgocciolare alla maniera dell’Espressionismo Astratto. Dobbiamo sottolineare però che l’artista, utilizzando questo tipo di pittura, non voleva perseguire lo stile Espressionista della stesura del colore ma senza alcun tipo di orientamento artistico ben preciso, egli voleva infondere la modernità nelle sue opere. Come si è potuto constatare, nonostante il metodo artistico sia visibilmente diverso da quello di Lichtenstein, Warhol dichiarò di voler smettere di dipingere fumetti, in quanto, a parer suo Roy li eseguiva fin troppo bene, perciò decise di cambiare rotta e indirizzare la sua arte verso nuove prospettive . Del resto Warhol si rese conto di dover cambiare strada perché il territorio era già stato occupato da Roy che, con questo tipo di soggetti, aveva già esposto prima di lui la sua personale alla Leo Castelli Gallery. La strategia adottata da Andy, in questo caso, era conforme al nuovo atteggiamento pop: a ognuno il suo soggetto e il suo stile, la sua riconoscibilità, i suoi “quindici minuti di gloria” . Warhol, quindi, non era ancora riuscito nei primi anni Sessanta a emergere come l’Artista decisivo dell’epoca, doveva ancora compiere il passo decisivo per la svolta desiderata. Egli era ben consapevole che per passare da artistucolo, per dirla con Danto, a personaggio-icona doveva intraprendere un nuovo percorso tematico e abbandonare, come abbiamo già visto, la strada già battuta dagli altri artisti suoi contemporanei. Nell’estate del 1960 avvenne una rottura radicale e la futura celebrità americana capì di che cosa doveva occuparsi per riscuotere velocemente successo e attirare su di sé i media, che gli avrebbero permesso di acquisire velocemente la notorietà. Come si è già detto in precedenza, Warhol percepiva questo forte desiderio di cambiamento in linea con il mondo che si stava muovendo verso una vera e propria rivoluzione sociale e culturale. Il nuovo spirito dell’epoca andò inevitabilmente ad influire sull’esistenza dell’uomo comune e dell’intero American Way of Life, perciò la nuova cultura artistica doveva trarre spunto dalle nuove proposte metropolitane se voleva cogliere a pieno l’interesse degli osservatori. E fu questa l’intuizione profonda di Warhol aiutato dall’esperto e fidato filmmaker De Antonio capì che la rivoluzione artistica doveva comprendere, in modo tangibile, qualcosa che simboleggiasse il nuovo modo di vivere americano. L’imperativo era dunque: dipingi quello che siamo . Le nuove “icone” della civiltà contemporanea sono ora riscontrabili negli articoli di massa del consumismo americano, le merci di largo consumo.
E l’intuizione di Warhol fu quella di eleggere come nuovi soggetti della sua opera i marchi più popolari e le etichette dei beni di consumo più in voga, i quali, potevano essere definiti un’espressione culturale. Quello che Warhol mostrò a De Antonio nel 1960 apre il nuovo orizzonte dello spirito pop che vede l’artista newyorchese come l’unico primitivo rappresentante, anche se inizialmente il fatto era del tutto inconscio. Così esclamò il mentore di Warhol, De Antonio, quando fu invitato dall’artista stesso a casa sua per esprimere un giudizio sulla novità che egli stava cercando di apportare in campo artistico. De Antonio indicò a Andy in modo chiaro la direzione da intraprendere: la Coca-Cola è ciò che siamo; la superiorità della seconda opera, fatta a circa due anni di distanza dalla prima gigante Coca-Cola, risiede nella sua nudità. L’inconfondibile bottiglietta assieme alla grafia del marchio sono divenuti già di per sé un emblema del consumismo nella società americana e, a ragion di questo fatto, non hanno bisogno di altri orpelli decorativi per acquisire notorietà. Secondo i consigli di De Antonio, dunque, bisogna eliminare tutto ciò che rende il disegno espressionista,ovvero: la pennellata espressiva e la vivacità dei colori, per lasciare spazio all’immagine pura e semplice, dipinta in bianco e nero. E’ come se in questo modo si volesse dire: siamo pop, non siamo pittura. E da questo momento in poi il repertorio artistico di Warhol iniziò a proporre quasi ed esclusivamente immagini ordinarie che non avevano nulla di inventivo o creativo, erano dei semplici prodotti utilizzati dalla gente quotidianamente e che potevano esser considerati come uno specchio della coscienza collettiva. Le minestre in scatola Campbell, le bottiglie della Coca-Cola, della Pepsi e il ketchup di Heinz, divengono così i soggetti eletti per la sua arte che, in linea con l’atteggiamento degli altri protagonisti pop, vuole superare la barriera che la separa dalla vita. Dopo l’immagine delle bottiglie a misura d’uomo della Coca-Cola, è il momento dei famosi barattoli di zuppa Campbell, tutte espressioni tratte direttamente dall’industria alimentare. La strategia utilizzata da Warhol mostrava i più popolari prodotti di consumo americani, quelli che la gente trovava tutti i giorni negli scaffali dei supermercati e che ora venivano replicati artisticamente nelle gallerie d’arte. Nonostante i suoi disegni rivelino una consapevole impronta antiestetica, nella misura in cui l’artista pop americano le tradusse sulla tela “elevandole” artisticamente, le tramutò in una sorta di icone della cultura contemporanea. E’ a partire dal 1962, dunque, che le tematiche proposte da Warhol cambiano completamente direzione, la sua scelta fu quella di trarre ispirazione da formule dell’industria commerciale e così raggiunse la notorietà, grazie anche al suo approccio con i mass media; se nel 1962 si parlò di lui fu perché la sua opera era decisamente pop . Le scelte che spingono Warhol a dipingere taluni soggetti, ad esempio le Campbell’s Soup Cans , sono ben ponderate e consolidate dal fatto che spesso si faceva aiutare da terzi per prendere le decisioni sulle idee da mettere in opera. Non perché l’artista mancasse di creatività, ma perché voleva che i suoi lavori attirassero presto le attenzioni del pubblico, così che si parlasse di lui e magari della sua opera, senza nemmeno averla vista. E’ curioso esaminare il caso delle zuppe Campbell e anche se ci sono varie storie in circolazione di come egli sia arrivato all’idea prenderemo in considerazione quella esaminata da Danto, nel suo attuale saggio dedicato a Andy Warhol. La versione riportata da Danto racconta del fatto che Warhol chiese consiglio a Muriel Latow, un architetto di interni, sul fatto che egli cercava qualcosa che avesse “ un impatto forte, qualcosa di diverso da Lichtenstein e Rosenquist, che abbia l’aria di una cosa molto personale, che non faccia pensare che faccio esattamente quello che stanno facendo loro”. Allora Muriel Latow a sua volta gli suggerì di dipingere qualcosa che “tutti vedono ogni giorno, che tutti riconoscono , come un barattolo di zuppa” . L’aneddoto riportato testimonia il fatto che Warhol raccolse in continuazione impulsi che scaturivano da altri, così come faceva la raccolta dei giornali popolari, utilizzandoli a sua volta come prototipi . Prendo sempre le mie idee dalla gente. A volte non le cambio. Altre volte non uso subito un’idea, ma magari più tardi mi viene in mente e la utilizzo. Adoro le idee . Disse Warhol nel 1970 in una conversazione con il suo assistente, Gerard Malanga. Dobbiamo sfatare ogni interpretazione secondo la quale il suo successo è dovuto alle idee di altri, che senza dubbio contribuirono con i loro acuti consigli, ma non fecero venire a meno il suo spirito artistico pop, il quale, non rinunciò mai alla libertà personale. Ma il punto forte non è tanto la decisione di dipingere il soggetto suggeritogli da Muriel Latow, quanto il modo in cui Warhol decise di trasformarlo esteticamente sulla tela. Infatti egli passò dalla tecnica pittorica tradizionale, con pennello e colori, ad una tecnica che si adeguava meglio alle nuove tematiche proposte, la serigrafia. Questa nuova sperimentazione consente a Warhol di allineare perfettamente gli oggetti, utilizzando appunto il telaio serigrafico, in modo meccanico e senza alcuna apparente partecipazione personale. La presentazione dei barattoli è rigidamente frontale, una griglia costituita di otto dipinti disposti su quattro file, che rappresentavano ciascuna delle trentadue varietà di zuppe Campbell prodotte all’epoca. Warhol, prima di diventare il divo della pop art, era stato un grafico di grande successo, per questo motivo la tecnica serigrafica non doveva essergli del tutto estranea; uno dei principali vantaggi che egli riscontrò utilizzandola era il principio della ripetizione o riproducibilità che consentiva di creare un blocco uniforme di copie dello stesso soggetto. Dopo le prime immagini serigrafiche, che allineano le zuppe in scatola o le banconote americane altro soggetto, si dice, suggeritogli da Muriel Latow, Warhol passa alla serie dei ritratti: fotografie di divi come Elvis Presley o Elisabeth Taylor, Marilyn Monroe, Marlon Brando e successivamente di personaggi simbolo come John e Jackie Kennedy, o di celebri capolavori come la Gioconda. Egli con questi soggetti crea appunto serie di dipinti, i quali, seppure identici, presentano delle variazioni cromatiche; nel caso delle minestre in scatola Campbell queste vengono differenziate soltanto a seconda del contenuto, ad ognuna un nome diverso a seconda del tipo di zuppa. Tuttavia, nonostante queste minime differenze nei dettagli, i motivi figurativi della sua arte appaiono del tutto uguali come Warhol stesso voleva, per poter raggiungere sempre più un tipo di pittura anonima e definitivamente libera da qualsiasi valore soggettivo. La sua arte doveva e voleva essere lo specchio della società americana in cui si trovava immersa, e la scelta della tecnica serigrafica favoriva sicuramente il sorgere di stereotipi figurativi, in opere che apparivano come semplici prodotti industriali, dei veri e propri articoli prodotti a catena. Nonostante l’apporto serigrafico non concedesse alcun tipo di lavoro manuale e Warhol volesse far vedere un atteggiamento di totale distacco nei confronti della sua arte, privilegiando l’aspetto meccanico della produzione di massa, egli dedicava loro una cura particolare. La sua meticolosa attenzione riguardava appunto quei minimi particolari di cui abbiamo parlato prima affinché, a composizione ultimata, le sue serie di dipinti si differenziassero l’uno dall’altro, anche se solo in termini di sfumature o di contenuto; in questo modo essi non permettono a una copia di essere identica a tutte le altre e non mettono in discussione il principio di unicità e originalità dell’opera d’arte che con l’avvento del contemporaneo è spesso venuto a mancare . L’estetica di Warhol a partire dal 1962, anno in cui realizzò circa 2000 quadri, raggiunse il suo compimento definitivo, tanto che la moltiplicazione mediante la ripetizione divenne il marchio per contraddistinguere la sua arte. Del resto, già a partire dagli anni Sessanta, aveva espresso l’intenzione di dover indirizzare la sua attività in un qualcosa di completamente diverso, dove io sarei stato il primo, per esempio: quantità e ripetizione bisogna considerare che la dichiarazione fatta da Warhol si riferisce all’epoca in cui i suoi lavori attingevano dalla cultura figurativa del fumetto ed erano simili a quelli di Lichtenstein. La ripetizione seriale divenne senza alcun dubbio il pezzo forte dei suoi lavori artistici: intensificare la presenza dell’immagine mediante la riproduzione essenzialmente identica della stessa, ne svuota i significati e rivela l’uniformità e il livellamento di un mondo consumista. E’ così che il telaio serigrafico allude allo schermo, all’immagine filmica, al succedersi degli eventi nella loro glaciale neutralità, atteggiamento che si confà al nuovo pubblico americano . Lo stesso volto della bellissima Marilyn Monroe, riprodotto da Warhol in un’interminabile serie di raffigurazioni analoghe utilizzando la tecnica serigrafica, diventa una maschera moltiplicabile all’infinito. L’artista produsse un’opera costituita da due insiemi di venticinque Marilyn, una sorta di dittico come sottolinea appunto il titolo, Marilyn Diptych. I due elementi che andavano a costituire un’unica unità, da un lato, per la precisione a sinistra, erano delle rappresentazioni vivacemente colorate del volto di Marilyn, a destra invece in bianco e nero. Il modo in cui Warhol propone il volto della famosa star, infatti, non rispecchia la realtà ma la tramuta in un’icona, la cui individualità è completamente assorbita dal modello ideale che lo stesso pubblico si aspetta di vedere. Il destino di Marilyn, come quello di tante altre celebrità riproposte dall’artista, non è così felice come in realtà i mass media ci vogliono far credere. D’altra parte, l’immagine proposta da Warhol non vuole scavare nel mondo privato dell’attrice, bensì farla diventare una maschera, una sorta di difesa, dietro la quale si potrebbero celare i desideri e i timori di una più ampia coscienza collettiva. Nella serie dei ritratti eseguiti egli fece di lei un simbolo di eterna giovinezza e bellezza, trascendendo, per così dire, la realtà oggettiva che veniva sostituita dall’immagine di superficie propagandata da riviste e televisioni. La maschera di superficie, di cui abbiamo fino ad ora parlato non è da confondersi con la superficialità, ma in Warhol equivale ad un’assenza di profondità, in linea con lo spirito dell’epoca. Come l’affermato artista ribadirà esplicitamente in varie interviste e occasioni, tutto è già nella bottiglietta, nella scatola, nella faccia, nell’immagine; non c’è niente sotto, dietro, dentro, è già tutto nella superficie. Vedendo esposti i dipinti di Marilyn Monroe alla Stable Gallery Michael Fried, uno dei migliori critici dell’epoca colto e sofisticato come pochi altri giornalisti, per definirlo con le parole di Danto, lì giudicò tra i migliori. Avvalorò Andy Warhol fra i più sinceri e più spettacolari pittori dell’arte dei suoi tempi e riscontrò, nella serie dedicata al volto di Marilyn, la capacità dell’artista newyorchese di percepire gli aspetti veramente umani e patetici di uno dei miti esemplari della nostra epoca . La ripetizione, come abbiamo visto, diviene dunque la modalità privilegiata delle sue manifestazioni artistiche, qualsiasi soggetto scelto ora veniva riportato in blocco e ciò andò a costituire l’essenza della sua Estetica. Questa nuova prassi ripetitiva non è da considerare solamente come dispositivo formale d’avanguardia ma era per Warhol un importante elemento che andava a scandire il suo modo di vivere e il suo atteggiamento. Essa rappresentava un’espressione della sua filosofia, poiché l’arte, secondo la sua concezione del tutto pop, doveva fondersi con la vita stessa. Si narra infatti che anche gli eventi della sua vita privata fossero scanditi dalla ripetizione, quotidianamente mangiava lo stesso lunch, le Campbell’s Soup Cans, porta per anni la stessa giacca, fino a che le tasche piene si strappano, ascolta sempre lo stesso disco e all’inizio degli anni settanta registrava ventiquattro ore al giorno in modo ossessivo. Andy voleva sempre che fosse tutto uguale, infatti, egli ammirava questo tipo di cultura commerciale e si trovava a proprio agio nella società del consumismo e dell’uniformità americana. Per giunta, la sua trasformazione radicale del concetto di arte non aveva alcun intento irrisorio, critico o di denuncia sociale ma esaltava una sorta di eguaglianza politica insita nella civiltà americana. Nel momento in cui egli decise di dipingere una Coca Cola o un barattolo di zuppa Campbell, e lo fece ossessivamente per tutta la sua carriera artistica, seguiva i consigli suggeritogli da de Antonio o dalla Latow: Dipingi la nostra società, ciò che siamo, qualcosa che accomuni tutti quanti e che tutti riconoscano facilmente. E nuovamente con questi soggetti portava in campo il principio della ripetizione estetica, al quale questa volta dava un valore politico. Un barattolo di zuppa di pomodoro Campbell è uguale a tutti gli altri barattoli. Chiunque tu sia, non potrai mai avere un barattolo di zuppa migliore degli altri. Nell’Era dell’industria e della massificazione, in cui ogni individuo tendeva a conformarsi con gli altri, vi era una sorta di livellamento sociale che l’artista newyorchese voleva trasferire anche nel mondo dell’arte. L’operazione compiuta da Warhol, quindi, poteva definirsi politica. Niente più distinzioni: le immagini popolari, tratte dall’ordinaria e banale sfera del quotidiano, dovevano essere innalzate ed entrare a far parte dell’universo dell’arte seria. Nella sua figura, più che in qualunque altra all’epoca, arte e vita si conciliavano perfettamente, elevandolo a una specie di modello, riconoscibile come Charlie Chaplin o Mickey Mouse. Un personaggio pubblico, conosciuto come l’artista pop per eccellenza.
Possiamo dire infine che con Andy Warhol il concetto di arte viene trasformato come capitò con il Dadaismo e in particolar modo con Marcel Duchamp. Mentre in Roy Lichtenstein si palesa il nuovo modo di considerare la pittura. Roy Lichtenstein utilizza le immagini dei media pur rimanendo fedele all’immediata unità del quadro tradizionale. Il suo è uno stile pulito e distaccato in quanto si tratta di superfici impersonali che di primo acchito sembrano rifiutare le profondità soggettive che si riscontravano nell’espressionismo astratto. Anche i contenuti sono altrettanto superficiali e paiono farsi beffa della profondità intrinseca nel concetto di arte. Con Lichtenstein il contenuto basso sembra annientare la forma alta. Il paradosso sta nell’autore nel definirsi come classico, votato a scopi tradizionali e intenzionato a adattare le fonti iconografiche popolari ai parametri delle belle arti. Le principali fonti iconografiche popolari da cui attinge sono i fumetti. Con Lichtenstein l!artista diventa l!esperto in un ramo particolare: nel suo caso quello della comunicazione visiva che si esplica nel genere del fumetto. La tendenza alla specializzazione del lavoro, caratteristica della società moderna raggiunge anche l!arte visuale, ponendo in liquidazione definitiva, assieme alla figura, il ruolo tradizionalmente assegnato all!artista, centrale e totalizzante nei confronti del mondo. Il gesto dell!artista, sentito ancora come preponderante ed espressione della sua soggettività nell!espressionismo astratto, con Lichtenstein sembra scomparire. Lichtenstein non si limita a copiare banalmente queste fonti, ma adotta al contrario un preciso modus operandi. Il processo consiste nel selezionare una o due vignette da una striscia, trarne uno schizzo di uno o più motivi. Proiettare il disegno su tela servendosi di un episcopio per tracciare i contorni dell’immagine a matita e appore già alcune modifiche. Riempire le forme con i puntini a stencil, colori primari, inserti verbali e linee dai contorni spessi. Pur sembrando fabbricate, le sue opere, in realtà sono una stratificazione di riproduzione meccanica (il fumetto) e lavoro manuale (il disegno, le linee e stencil a pittura), al punto che diventa quasi impossibile distinguere tra manuale e meccanico. Abbiamo definito la Pop Art come un’arte di bivalenze, in questo caso è la contaminazione tra pittorico e fotografico che trova in Lichtenstein la sua applicazione più sistematica. Per esempio, i puntini Ben-Day, un processo di stampa risalente al 1879 coniato da Benjamin Henry Day, da Lichtenstein sono sempre dipinti. L’immagine pop non è mai semplice e scontata come appare a prima vista, invece di affermare l’aspetto stereotipato delle sue immagini trovate cerca di sfruttarlo per renderlo complesso. Uno degli scopi di questo artista è proprio dimostrare che le fonti basse possono servire gli stessi scopi nobili perseguiti dalla pittura alta, creare forma e uniformare. Un aspetto interessante che emerge è la discrepanza tra l’armonia del tableau e ciò che vi si oppone culturalmente ovvero il fumetto o la pubblicità. Un’armonia che paradossalmente disturba entrambi. In questo modo Lichtenstein introduce una serie di dualismi ambigui sia tra alto e basso che tra astratto e figurativo. All’immediatezza del quadro modernista si oppone in uno scambio instabile, l’effetto mediato dell’immagine a stampa. Lichtenstein punta all’impatto, questo tipo di pittura prevede un fruitore che assorba il quadro in un unico sguardo, un pop istantaneo. L’impatto implica una reazione immediata e non contemplativa, proprio come avviene nelle immagini della cultura di massa che con i loro colori e slogan verbali puntano a catturare l’attenzione dello spettatore. Il materiale di Lichtenstein è già mediato in partenza. In parte, le forme di espressione e di astrazione modernista erano state sviluppate proprio per resistere agli effetti della riproduzione meccanica mentre quelle di Lichtenstein non possono più essere protette da una simile pressione ed è per questo che realizza delle riduzioni cartoonistiche di riproduzioni a stampa di svariati maestri dell’espressionismo e dell’astrazione da lui chiamate versioni ‘idiote’. Già nel 1963, l’artista inizia a produrre parodie di Picasso del momento cubo-surrealista come in Woman with Flowered Hat, del 1964 Mondrian neoplastico in Non-Objective I e II e della Cattedrale di Rouen e dei Covoni di Monet tra il 1968 e il 1969. Se le rivisitazioni di Picasso e Mondrian ci dicono implicitamente che la riproduzione meccanica ha trasformato la ricezione che un tempo sembrava il più privato e non-oggettivo dei linguaggi modernisti, con Monet invece Lichtenstein non fa altro che schematizzare ciò che già era presente nel modello, ovvero la ripetizione delle pennellate e la serialità delle immagini come se già in Monet vi fosse una componente meccanica. Sostanzialmente per Lichtenstein il mondo nel suo complesso naturale o artificiale è sua volta soggetto, proprio come l’arte, al processo di riproduzione meccanica. I media hanno ormai fagocitato il medium e quasi tutto può essere trasformato in immagine. L’artista americano adotta un atteggiamento critico verso gli aspetti di questa cultura consumistica attraverso una strategia che sollecita una «trasposizione mimetica in tropi», che prevede il trattamento di queste componenti come figure retoriche. Nel mondo consumista analizzato da Lichtenstein persino gli stili dell’arte modernista, ma non solo, si cristallizzano in cliché presenti nelle linee spesse, nei colori accesi e nella riproduzione di processi meccanici. La pennellata gestuale che è espressione di soggettività viene trasformata in emblema congelato. Il pittore pone la più sottile cura nel trattenere la vita dell’immagine tutta in superficie, privandola di profondità e spessore, sacrificando ogni attributo narrativo ed espressivo alla semplice presenza e, se vogliamo, espressività ottica. Stabilendo un’indipendenza ironica fra la parola e l’immagine anche il classico balloon entra a far parte dell’immagine. Di fronte ad un’opera di questo artista, come ad esempio Crying Girl, del 1963 ciò che subito ci colpisce è il fatto che appare come un’opera interamente riprodotta meccanicamente, il gesto dell’artista sembra esser fagocitato dalla stampa. Eppure, dietro questo stile apparentemente impersonale e stereotipato, la classica bella donna bionda e un po’ fragile dei fumetti, vi è una potente drammaticità che ci spinge ad interrogarci sul chi sia questa donna e sul perché sta piangendo. Qui sta il fulcro del processo di Lichtenstein: non si tratta soltanto di prendere un’immagine dai fumetti e copiarla, ma qualcosa di più, ovvero prendere quell’immagine e trasporla in un’opera che abbia la capacità di suscitare una serie di quesiti, sensazioni e deduzioni che vanno ben oltre l’aspetto denotativo. È la mediazione di una mediazione. I mass media generalmente controllano le coscienze delle persone alle quali, se vengono dati determinati codici di femminilità e mascolinità tramite il cinema, la televisione, i fumetti e la pubblicità, finiranno per perseguirli. Se viene detto loro che hanno bisogno di quel determinato prodotto per stare bene faranno di tutto per averlo. La manipolazione artistica delle fonti popolari serve ad un’introdurre un elemento di dis-identificazione nel meccanismo stesso di identificazione mass mediatica con lo scopo di risvegliare le coscienze delle persone. Nella società dei consumi tutto può essere spettacolarizzato e reso più appetibile come le armi e la guerra. In un’opera come Whaam! Del 1963 Lichtenstein rappresenta una battaglia aerea nello stile del fumetto. Questo dipinto, oltre a ispirarsi ai fumetti popolari e ai film hollywoodiani di quegli anni ambientati durante la Guerra Fredda, va letto come monito alle implicazioni della guerra e va ricordato che è stato completato poco prima dello scoppio della guerra in Vietnam. Lichtenstein dipinse la realtà di un mondo irreale e scintillante in chiave ironica non solo nel linguaggio, ma anche nelle emozioni, persino in un momento così drammatico come la guerra. Se Lichtenstein è interessato ad assimilare immagini basse ai parametri della cultura alta e a mantenere saldi i valori dell’unicità pittorica e della totalità estetica di fronte alle pressioni della cultura di massa, mettendo alla prova il tableau tradizionale evidenziandone le nuove condizioni di esistenza entro la società dei consumi. Infine posso dire che con la standardizzazione e tipizzazione sono termini che hanno caratterizzato il secolo scorso. L’eco di tali termini e soprattutto la pratica a cui si riferiscono sono ancora parte della nostra quotidianità. Il progresso tecnologico che gli artisti pop hanno inglobato nei propri lavori fa parte di un mondo in cui la serialità e l’automazione sono così presenti da fare sì che in alcune narrazioni sono inquinati sia il gusto e il senso critico del singolo che le relazioni interpersonali. Probabilmente l’esperienza di Roy Lichtenstein non demonizza il soggetto di un elemento proposto in serie od ossessivamente è molto più importante imparare a capire ed essere consapevoli del modo in cui ciò accade. Quindi la mostra,seguendo un andamento principalmente cronologico che coincide con uno sviluppo tematico, ripercorre l’intera carriera artistica di Lichtenstein a partire dagli ’60, in cui ritroviamo i suoi temi e generi, dai fumetti e la pubblicità, la natura morta, il paesaggio,le incursioni nell’astrazione e nelle forme dei grandi maestri, gli interni bidimensionali, fino alla serie dei nudi femminili. Posso affermare che Tom Wesselmann nacque a Cincinnati il 23 febbraio 1931. Frequentò l’Hiram College in Ohio, per poi essere ammesso all’Università di Cincinnati, nel 1951, come studente di psicologia. Laureatosi nel 1954, dopo aver prestato per un paio d’anni servizio nell’esercito degli Stati Uniti, decise di intraprendere la carriera di fumettista. Nel 1956 si trasferì a New York, dove seguì i corsi d’arte della Cooper Union. Qui maturò in lui l’idea di dedicarsi alla pittura, attratto dalla coeva opera di Robert Motherwell e Willem de Kooning. Sebbene da loro ispirato, egli rifiutò la deriva astratta di questi, per abbracciare un’espressione artistica più propriamente figurativa. Fermamente convinto che la conoscenza della storia della pittura fosse essenziale per lo creazione di un’opera d’arte, Tom Wesselmann riannodò i legami con la tradizione passata rinnovandone i soggetti. “Nessun artista può lavorare ignorando gli effetti della storia dell’arte, e per la maggior parte di noi quella storia è europea.” (Tom Wesselmann). La sua opera prese le mosse dalla necessità di raccontare la realtà a lui contemporanea, rimanendo al contempo fedele ad una certa solidità compositiva e ad un uso calibrato della linea. Venne etichettato come artista pop, denominazione che egli rifiutò, ritenendola troppo superficiale per poter racchiudere appieno la profondità della sua visione. “Per quanto riguarda la Pop Art, devo dire che questo termine non mi è mai piaciuto. Non miappartiene, sono un pittore figurativo nella lunga scia evolutiva dell’arte figurativa. Non c’è alcuna definizione pop che possa spiegare la mia arte.” (Tom Wesselmann)I soggetti del suo lavoro sono ossessivi e ricorrenti: giganteschi nudi di donna in versione pin-up, prodotti da supermercato come iconiche nature morte, enormi labbra laccate di rosso, sigarette accese; temi ordinari, ma incredibilmente rivoluzionari nella loro interpretazione.Wesselmann riuscì a dare voce alla banalità del quotidiano, interpretandola come suprema forma di bellezza. In lui non vi è alcuna denuncia consumistica o retorica sociologica, ma solo l’esaltazione estetica dell’oggetto comune. La donnaè una delle figure più ricorrenti nell’opera di Tom Wesselmann: donne sdraiate, donne sedute, donne che si lavano, oppure donne completamente rilassate, spiate nella loro intimità. Sono donne ritratte a figura completa, o attraverso un dettaglio anatomico esageratamente ingrandito; immortalate in interni, camere da letto, soggiorni, stanze da bagno, e con accanto sempre un accessorio della modernità, come un telefono, una radio, una televisione, un frigorifero. “Per molti anni, disegnare, soprattutto nudi, è stato un disperato tentativo di catturare qualcosa di significativo della bellezza della donna con la quale mi confrontavo. È sempre stato frustrante, perché la bellezza della donna è talmente sfuggente.” (Tom Wesselmann) Le donne di Wesselmann sono sempre sole e sempre nude. Non ci guardano perché non hanno occhi, esse ci parlano solamente attraverso le forme dei loro corpi. Tante, tantissime donne, che incarnano un’unica tipologia femminile: una ragazza ammiccante e procace, sul tipo di una Marilyn Monroe. Questa sua idea di femminilità divenne talmente iconica, che Stanley Kubrick la citò nella sua celebre pellicola del 1971. Nell’appartamento della donna dei gatti si può notare un dipinto che è un esplicito omaggio ad uno dei suoi Great American Nudes. Il tributo del regista esprime una precisa comunanza di intenti: le donne di Wesselmann, involgarite dalla mercificazione del consumismo, denunciano il medesimo degrado morale nel quale si muovono i protagonisti del film di Kubrick. Con opere che spaziano dai primi collage di Wesselmann del 1959 alle sue nature morte in rilievo di grandi dimensioni, ai suoi paesaggi (al limite dell’astrazione) e ai suoi Sunset Nudes del 2004 , la mostra si estende su tutti e quattro i piani dell’edificio della Fondation. Posso dire che qualcosa è cambiato! Non si tratta di scuola, di forma, o di stile, la mutazione è avvenuta dall’interno, si tratta di un fenomeno che ha intaccato alle radici il concetto stesso di arte. Il cambiamento non interessa un solo luogo, una regione, una nazione, si tratta di un virus che ha ammorbato due continenti, America ed Europa, con una molteplicità di nomi, correnti, artisti, critici, tutti d’accordo nell’attribuire la scintilla che ha innescato il cambiamento, alla condizione in atto, la condizione postmoderna. Tutto è influenzato dallo Zeitgeist, lo spirito del tempo, al quale si può cedere o reagire, ma che comunque impone la sua influenza. Le reazioni sono ovviamente diverse, legate alla cultura che ospita la condizione stessa. Solo il ritorno alla pittura sembra essere un comune denominatore nel mondo degli artisti. In realtà non muta solamente il modo di operare nell’arte, bensì cambia soprattutto il modo in cui essa viene fruita. La corsa all’acquisto di Van Gogh, di Picasso, di Fontana, di Warhol, comincia proprio sul finire degli anni Settanta, per raggiungere l’apice a metà degli anni Ottanta creando un mercato di disseminata corsa al rialzo basata più sul nome dell’artista che sulla qualità dell’opera, ed immettendo nel contempo un notevole numero di falsi velocemente assorbiti da un pubblico impreparato. La comunicazione di massa, la velocità con la quale viaggiano le notizie, un benessere diffuso, portano all’assalto dei musei, di fronte ai quali si è disposti a fare ore di fila pur di entrare. L’arte entra nelle case non più come gratificazione intellettuale od orgasmo visivo, bensì come investimento o status symbol. Anche sotto questo aspetto, l’Europa assomiglia sempre più all’America, paese in cui bisogna intendersi d’arte per far parte dell’élite sociale o per lo meno di quella che si ritiene tale. Anche il mondo politico occidentale ha un atteggiamento positivo nei confronti dell’arte contemporanea. In Francia un ministro della cultura socialista che come nessun altro dei suoi predecessori aveva sostenuto l’arte contemporanea divenne uno dei membri più popolari del suo gabinetto. Mentre in Germania un cancelliere conservatore ha dimostrato una grande apertura nei confronti dell’arte contemporanea e non ha esitato a patrocinarla con dispendiosi vernissage. Ed anche i Länder e i comuni nella Repubblica Federale Tedesca, le città, le province e le regioni in Francia, in Italia, e nei Paesi Bassi, così come mecenati privati in Inghilterra, cercano di superarsi l’uno con l’altro nella fondazione di nuovi musei e gallerie d’arte. Tutto ciò, in un momento particolarmente critico dell’arte o perlomeno della sua evoluzione, porta ad una febbrile ricerca del nuovo. Se si getta uno sguardo sulle diverse correnti artistiche degli anni Ottanta, quello che di primo acchito salta all’occhio è la frequente utilizzazione dell’aggettivo “nuovo”: si parla di “nuovi” pittori selvaggi, di una “nuova” arte figurativa, di una “nuova” pittura tedesca e austriaca. Alla luce del nuovo appare tutto quello che merita di essere preso in considerazione. In un lasso di tempo assai breve ai “nuovi” selvaggi è seguita una corrente artistica con un programma neogeometrico, abbreviato “neogeo”. Ma non è tutto, i neofigurativi e i neogeometrici non avevano ancora terminato le loro esposizione a New York, a Colonia, a Parigi, a Vienna, a Londra, e a Milano per recarsi in tournée nelle diverse gallerie e musei di fama internazionale, che già i neoconcettualisti attiravano l’attenzione del mondo artistico. Quanto viene lanciato in primavera, si rivela spesso già in autunno, sorpassato. Strano a dirsi sono i già citati critici d’arte i primi a lamentarsi se non c’è subito qualcosa di “nuovo”. L’opera d’arte assume il valore dell’oggetto firmato, del capo di moda. Ma le mode passano. Il fascino intrinseco in un oggetto d’arte non dovrebbe consumarsi. Anzi! Le gallerie d’arte negli anni Ottanta aumentano a vista d’occhio, sembra che riescano a riprodursi come un’entità autonoma. Autonoma rispetto all’arte. Il critico scopre, l’artista produce, il mercato esaudisce i desideri di tutti. Il potere del mercato, che sempre più spesso riesce a condizionare il pubblico, aumenta. Ciò che maggiormente è quotato maggiormente lo sarà e pertanto va acquistato. Ciò che viene maggiormente acquistato diventerà esclusivo ed aumenterà maggiormente il suo valore. Ed intanto la creatura cresce! Negli Stati Uniti, le agevolazioni fiscali per chi acquista un’opera d’arte sono molteplici, ed è infatti negli USA che negli anni Ottanta assistiamo ad una vera e propria esplosione del mercato. Al fenomeno Wahrol, che deve anch’esso molto a questo favoloso e ricchissimo, sul piano economico, decennio, conferma definitivamente la sua corsa verso cifre fino ad allora impensabili. Ad esso seguono fenomeni come Julian Schnabel, Jeff Koons, e non ultimi Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. L’artista incarna, spesso, il ruolo dell’objet trouvé, della scoperta, del ragazzo di strada portatore sano di genialità al quale critica e mercato riservano, finalmente, il trattamento che gli si doveva. I mercanti, i galleristi fanno forza, talvolta, proprio sull’aspetto più poetico della genialità incompresa per affermare le loro scoperte. Basquiat incarna la figura bohémienne dell’artista maledetto di fine millennio, inizialmente sottovalutato e non capito come Vincent Van Gogh, poi acclamato ragazzo prodigio come Michael Jackson o come Mozart. L’artista non sembra proporre solo le proprie opere, bensì anche e soprattutto il proprio ambiente. Ed è proprio il termine ambiente un’altra parola chiave di questo periodo. La pittura si mette in relazione con il mondo esterno, non è più chiusa in se stessa, si pone come medium tra due mondi, quello pittorico e quello extra-pittorico. Muta anche l’ambiente nel quale si trovano ad orbitare gli artisti. L’arte diventa mondana e salottiera. Le vernici sono l’occasione per incontrare i divi più famosi del panorama artistico. Critici, galleristi ed artisti conquistano le copertine dei rotocalchi, fanno parlare di sé più che delle loro opere. Durante le cene ufficiali diventa buona abitudine essere aggiornati sulle ultime tendenze. L’artista diventa divo riconosciuto ed acclamato da un giorno all’altro. I casi di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring sono i più eclatanti in questo senso, ma non rimangono certo fenomeni isolati. New York è la città dalle mille possibilità e su di essa si concentra l’attenzione degli operatori d’arte di tutto il mondo. Anche artisti italiani si trasferiscono in America. Con una vena molto preziosa, ma ugualmente personale, la nascita della graffiti art spinge al limite i confini che separano l’arte colta dall’arte popolare. Se la maniera decorativa usata dagli artisti di cui prima si è parlato potrebbe essere etichettata spregiativamente come preziosismo, Kitsch o roba di cattivo gusto, la graffiti art, nel suo autentico fondamento, mette in questione le implicazioni di una bellezza controllata di fronte alla nota, forse anche assurda, deturpazione perpetrata dai “badboys”. L’arte dei graffitisti sembra urlare, l’espressione è di Sokolowski, il diavolo mi ha costretto a farlo. Accanto alla graffiti art, si sviluppano, sempre negli USA, altre etichette come pattern painting, bad painting, decorative art, narrative art, east village, new image tutti modi di esprimersi che sono accomunati dall’intento generale di abbattere il concetto di avanguardia. La produzione artistica diventa così ricca ed eterogenea che si potrebbe paragonare allo spaccio di un supermercato, o meglio, di un grande centro commerciale. Durante la passeggiata ideale che ci porta al centro commerciale ci inebriamo dei graffiti stesi alla rinfusa sui muri della città come una seconda pelle, della pubblicità fotografica di raffinata e stridente eleganza, degli effetti ottenuti al computer utilizzati nei manifesti, delle varie immagini di riproduzioni di opere d’arte più o meno note ecc.. Una volta arrivati al centro commerciale l’atmosfera non cambia. Tra gli scaffali troviamo immagini di reminiscenza pop, oggetti Kitsch, confezioni decorate con ogni tipo di soluzione. Allo stesso tempo l’immagine globale dell’interno del supermercato appare come una grande opera nella quale imperano colori e materiali. Tuttavia, all’interno delle confezioni del supermercato si conserva pur sempre il cibo, un bene irrinunciabile come il contenuto ignoto che rende l’arte così importante. Gli oggetti da supermercato li ritroviamo nelle opere degli artisti, come se lo scambio arte – market avvenisse vicendevolmente. L’arte americana degli anni Ottanta è un’arte multiforme, multicolore, multietnica e multirazziale anche perché, finalmente, gli artisti di colore sono considerati alla pari dei loro colleghi. Rimangono dei punti nodali come la decorazione, lo pseudofumetto che sempre più spesso affronta temi reali scottanti e l’espressione, una sorta di recupero dell’istinto metropolitano privo di briglie. Anche l’arte tedesca degli anni Ottanta si avvale della ludicità e dell’espressione per portare l’attenzione verso i temi trattati. Tuttavia l’interesse rivolto nei confronti della realtà sembra rifarsi a due tendenze, entrambe riconducibili alla Neuen Wilden. La prima tenta di proporre temi storici, spesso legati anche al nazionalsocialismo ed alle terribili atrocità che lo hanno reso noto, con una formula estremamente individuale e spesso con un’ironia graffiante e decisamente hard. La seconda inserisce temi infantili in atmosfere cupe e claustrofobiche, la tela Guerra Cattiva del 1983, di Martin Kippenberger nella quale si crea un netto e stridente contrasto tra un Babbo Natale ed una nave da guerra è particolarmente rappresentativa. La definizione “nuovi selvaggi” per esempio, era stata coniata dal direttore del museo di Aquisgrana, Wolfgang Becker, in un saggio riguardante artisti quali Robert Kushner e Kim Mac Connel e l’aveva anche applicata ad artisti quali George Baseliz, Markus Lüperz, A. R. Penck e Anselm Kiefer. Becker intendeva sollevare la questione se fosse plausibile stabilire delle relazioni tra i drappeggi sontuosi degli americani, i quadri espressivi degli artisti tedeschi e la cerchia dei fauvisti attorno a Henri Matisse. Si riproponeva quindi il vecchio problema dei rapporti tra il fauvismo francese e l’espressionismo tedesco intorno al 1910. Effettivamente Becket avrebbe dato inizio ad una discussione interessante, anche perché nel suo saggio aveva tentato di spiegare non solo l’aumento di tendenze espressive e figurative nell’arte contemporanea, ma aveva anche messo in rilievo la connessione tra gli sviluppi neofigurativi dell’arte americana e tedesca, stabilendo il loro punto di riferimento comune all’interno della tradizione europea. Purtroppo la discussione non ebbe mai luogo. Si utilizzò invece la definizione di Becket, che si prestava sicuramente a delle contestazioni, per artisti che all’inizio degli anni Ottanta fecero improvvisamente irruzione nel mondo dell’arte contemporanea con un’esuberante attività, cambiandone improvvisamente la configurazione. La causa di questo malinteso può essere ricercata nel fatto che questi artisti effettivamente si servivano di un linguaggio figurativo. Meno comprensibile è il fatto che Baseliz, Lüperz, Penck e Kiefer siano stati definiti i “padri dei nuovi selvaggi”. La situazione nella Repubblica Federale Tedesca negli anni Ottanta risulta particolarmente difficile e tutta la tensione dei nuovi selvaggi sembra preludere a quell’atto liberatorio, la caduta del muro di Berlino, cui tutto il mondo assisterà nel 1989. È curioso vedere come alcuni artisti della Repubblica Federale Tedesca, come Markus Lüperz e George Baseliz, abbiano scelto un look particolarmente rétro degli anni Trenta-Quaranta, molto evidente dalle foto di gruppo fatte alle inaugurazioni delle mostre. La situazione si fa ancora più complessa se rivolgiamo l’attenzione anche al territorio francese, dove si comincia a parlare di figuration libre e neoclassicismo francese, con effetti molto simili a quelli ottenuti dalla Transavanguardia, dagli espressionisti tedeschi, dagli anacronisti e dai citazionisti italiani. Tutto, a questo punto, dovrebbe, almeno ad un livello generale, cominciare ad essere chiaro. In realtà ogni tipo di analisi applicata a questo periodo corre il rischio di essere messa in discussione per una caratteristica comune, come abbiamo visto non è l’unica, a tutte le tendenze prese in considerazione all’interno di questo lavoro, il nomadismo e alla trasversalità. L’artista postmoderno è un senza tetto che cerca rifugi occasionali, e che manifesta la propria difficoltà di identificarsi in un gruppo proprio con il desiderio di non appartenenza. Questa difficoltà di identificazione sembra però essere ambiguamente superata e trovare una propria soluzione grazie al mercato. La discontinuità originariamente, non era un atteggiamento intenzionale, era piuttosto il disagio provocato dal nostro stesso lavoro nato da instabilità, insoddisfazione, desiderio di libertà. Con il tempo purtroppo, si è tornati allo “stile”, ad un linguaggio identificabile. Il mercato, le gallerie sono state delle vere e proprie interferenze, in parte hanno smorzato la vitalità iniziale fatta di continua fabbrica di misteri e di corti circuiti. Il mistero e l’alchimia presenti in origine negli artisti postmoderni si sono velocemente esauriti, perché essi non avevano calcolato di essere pur sempre creature senza pelle esposte a qualsiasi stimolo ed in balia della realtà oggettiva. Anche i galleristi assumono posizioni diverse, vi è chi si impegna in prima persona nei confronti del sistema come il mercante Emilio Mazzoli di Modena, chi invece cerca di staccarsi da ogni sorta di struttura dettata dal mercato come il gallerista Tucci Russo di Torino il quale in una recente intervista dichiara che gli anni ‘80 sono stati anche per le gallerie private il periodo più ricco e intenso dell’arte contemporanea. Negli anni ‘80 ho cominciato a fare mostre di artisti stranieri e a fare delle scelte che non fossero quelle condizionate dal mercato. Nel 1979 ho fatto al prima mostra ad Enzo Cucchi e l’unica peraltro perché mi sono reso conto che quel tipo di percorso mi interessava relativamente proprio perché metteva le basi per un tipo di mercato che cominciava a diventare un po’ troppo violento secondo il mio punto di vista… La grande sovrapproduzione di opere d’arte e di artisti, non permette, neppure agli addettia i lavori, di seguire con attenzione quello che succede, è quasi come se il mercato fosse preponderante rispetto alla vera esigenza del fare arte. In questo modo vengono fuori delle false proiezioni imposte dal mercato per poter vendere a prezzi non “reali”… l’immediata riconoscibilità e lettura attraverso la figurazione proposta da certi artisti, ha fatto rapidamente crescere i prezzi in maniera non reale. A questo punto mi sia concesso pensare che l’irrefrenabile nascita di etichette sia stata funzionale al mercato capace di influenzare gli artisti a tal punto da limitarne la libertà. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la civiltà di massa costituisce per l’arte moderna, al tempo stesso la garanzia di un incremento infinito delle proprie possibilità espressive e comunicative e la negazione ben definita, oppressiva e perfino demoniaca, del concetto stesso di fare arte come operazione individuale, libera, formale ed autentica. L’arte trova il “suo” mercato proprio in quanto rifiuta certe leggi dominanti della produzione capitalistica… però nella misura in cui si crea un “suo” mercato, accetta le regole del mercato capitalistico ed è perciò costretta… ad accostarsi sempre di più agli umori, ai gusti, alle abitudini, alle tendenze e alle richieste delle masse che chiedono visioni di libertà e di riscatto, ma impongono poi lo spessore delle proprie mediazioni intellettuali e morali per accettarle (e “comprarle”. Cosa sarebbe accaduto se il mercato non avesse richiesto una riconoscibilità alla quale la maggior parte degli artisti ha finito col cedere? Avremmo assistito ad una rivoluzione vera e propria o sarebbe stata comunque castrata a metà percorso come mi pare di poter affermare sia successo? È esistito realmente il postmoderno o è esistita solo la condizione per la quale il postmoderno sarebbe potuto esistere? Con un ironico accenno al celebre articolo di Francesca Alinovi, quel che piace a me è dovuto diventare inevitabilmente quel che piace a loro. La lotta operata nei confronti del concetto di avanguardia si è dimostrata una lotta contro i mulini a vento, il postmoderno contesta alle avanguardie il loro utopismo, ma considera utopia quello ch’era progetto e, represso, è fallito. Sostiene che il fatto di essere (o esserci) esime l’opera da ogni ricerca sulla sua ragione dei essere, che riporterebbe ad una progettualità e finalità sia pure soprannaturali. Ponendo l’attualità come un carattere del moderno, per il qui-ora del postmoderno dirò presenzialità. Consiste nell’identificazione del valore col prezzo, della realtà del fatto artistico con la sua realtà economica. Se il valore muta col prezzo, non ha più la stabilità concettuale che gli si attribuiva quando si pensava che mutasse bensì, ma come processo evolutivo o rivoluzionario della storia. La mutabilità del valore-prezzo è in rapporto con la frequenza ed il volume del consumo: tanto maggiore, naturalmente, quanto più il prezzo, che aumenta il consumo, prevale sul valore, che lo rallenta. Non è stato sufficiente nemmeno diventare dei trasversali, dei nomadi per conservare la propria libertà. La civiltà dell’arte, se ironicamente vogliamo chiamarla così, alla fine ha prevalso, l’operazione si è verificata a metà, il mercato ha avuto il sopravvento ed ha incanalato gli artisti in molteplici scatolette ed ha cominciato a collezionarli uno ad uno come tanti bei soldatini quotati e riconoscibili. Malgrado le teorizzazioni che parlano di superamento delle avanguardie storiche, la postavanguardia ripropone solo una restaurazione del concetto stesso di avanguardia. Sostiene di applicare una rimozione, ma produce una riforma, tanto che nel suo procedere fa dell’inattuale rivisitazione della storia una definizione di attualità. Ma non è tanto il richiamo al passato a disturbare, quanto l’efficacia simbolica, una “rettificazione” della storia, che sembra auspicare un ri-cominciamento e una rinascita del spere-autorità. Posso dire che oggi però l’avanguardia è pienamente accettata e ufficializzata tanto da diventare una pratica comune e banale. Non se ne può più parlare, poiché la violazione delle regole è retorica e il discorso intellettuale non si svolge più all’interno della dialettica tra avanguardia e avanguardia, come dire tra tradizione e tradizione. La permutabilità dei termini comporta una sfida alla progressione delle tendenze e dei movimenti, quanto un interscambio tra progresso e regresso, rivoluzione e reazione, sviluppo e involuzione, qualità e quantità. A questo stadio ogni segno si sottrae a critica e si assicura un rango storico, senza farlo perdere all’altro… L’effetto omogeneizzazione di cui le attuali ricerche soffrono è conseguenza di un conformismo generalizzato secondo cui si è ridotto lo spazio riservato alle scelte personali e ampliato il territorio del mediocre e del servile, quanto di un indottrinamento caratteristico di una società che, nell’associazione paritetica dei prodotti, tende ad abolire dissociazione e discussione. Anche il decoro e il redesign della storia, così da disintegrare qualsiasi segno di alterazione e di effervescenza. Anzi, per non correre il rischio di dissociarsi, si dirige verso un’imitazione passiva del passato che, riciclato mediante la citazione, si fa “contemporaneo”, così da soddisfare la richiesta del consumatore. In questo senso, il nuovo si intuisce a copia del moderno e soddisfa il doppio ruolo di un oggetto che è “sperimentale” poiché si basa sulla sicurezza del modello storico. Il soggetto di vendita è quindi sicuro, si muove tra la tradizione dell’avanguardia e l’avanguardia della tradizione. Arte senza rischio quella postmoderna, soprattutto per il mercato, secondo Germano Celant, già accademizzata grazie ai riferimenti storici dei quali si fa scudo, ma allo stesso tempo debole come il pensiero che la sostiene. Tutto ciò che affermato Celant si avverato oggi più di ieri il sistema dell’arte è stato sostituito o meglio divorato dal mercato. Da questo momento che nasce il rifiuto che le neoavanguardie oppongono alla differenza tra arte e realtà, ossia tra oggetto artistico e oggetto comune con la conseguente rinuncia alla forma artistica e quindi alla sua autonomia a costituire il tratto distintivo di quell’arte attuale che tende per molti versi a coincidere con l’industria culturale. Non a caso i mass media, sempre più nel passaggio dal ventesimo al ventunesimo secolo, si sono appropriati delle tecniche delle neoavanguardie, tanto che le stesse provocazioni artistiche rientrano nel circuito commerciale, essendo inserite in una dimensione di spettacolarizzazione. La conseguenza è che, se il sogno dell’avanguardia era quello di redimere la vita per mezzo dell’arte, ora, negli ultimi tre decenni, è l’arte stessa, o meglio la rappresentazione, a farsi vita, proprio nel momento in cui l’opera ha rinunciato alla forma. È quanto, non a caso, troviamo negli attuali reality show, come anche nel tentativo di Jeff Koons di fare della sua vita appunto un’opera d’arte: il che significa rinunciare alla vita per l’arte e, insieme, pensare che si possa presentare la vita senza più rappresentarla, con la conseguente messa fuori gioco di ogni possibile auraticità dell’opera. Più in generale, si può dire che la riconnessione tra arte e vita è avvenuta precisamente attraverso la cultura dello spettacolo, che ha da tempo assimilato gli strumenti dell’avanguardia, riprendendo sia le “ripetizioni” delle neoavanguardie, sia la cultura industriale: il risultato è una revisione della nozione stessa di “valore estetico” e, insieme, appunto, una eliminazione dell’aura. Se infatti prendiamo in considerazione un ready made di Marcel Duchamp, come per esempio lo scolabottiglie del 1914 presentato come opera d’arte, ci accorgiamo che, in questo caso, è esattamente il valore estetico dell’opera, e con ciò stesso la sua autonomia, a essere messo in questione, dal momento che in un contesto borghese il valore artistico dipende invece proprio dall’autonomia dell’oggetto, cioè dalla possibilità di separarlo dal mondo. In questa prospettiva, se la maggior parte dei ready made di Duchamp propone la sostituzione degli oggetti di valore d’uso con gli oggetti di valore estetico e/o di scambio- esponibilità uno scolabottiglie al posto di una scultura, appunto i ready made di Koons, invece, suggeriscono che tutti questi valori estetico, d’uso, e di scambio- esponibilità sono ora assimilati dal valore di scambio del segno. In altre parole, essi lasciano intendere che noi desideriamo e consumiamo non tanto merce in genere, ma merci con una marca precisa, e questa passione per il segno, questo feticismo del significante, regola anche la nostra percezione dell’arte: desideriamo e consumiamo “i Koons”, non l’opera in sé, sì che, mentre questo artista aumenta di valore sul mercato, la stessa cosa succede per le merci che egli produce. Insomma, Koons porta a compimento quanto già Benjamin aveva predetto: il bisogno culturale di compensare la perdita dell’aura dell’arte con la “falsa attrattiva” della merce e del personaggio famoso. Così, soprattutto con Koons, l’aura perduta dell’arte viene sostituita dalla falsa aura della merce: un paradosso, visto che la merce sminuisce l’aura artistica e, nello stesso tempo, trasforma il ready made da dispositivo che demistifica l’arte a uno che la mistifica nuovamente. Da questo punto di vista, il precedente è sicuramente Warhol, che è stato di fatto solo un precursore di ciò che oggi è diventata la norma: negli ultimi anni, non a caso, il cinismo artistico-commerciale e l’esasperazione del “mito dell’artista”, del quale Warhol è stato nel suo tempo uno dei massimi esponenti, hanno raggiunto uno sviluppo fino ad allora inimmaginabile: basti pensare alle opere-operazioni del già citato Jeff Koons o di Damien Hirst. Insomma, il fattore economico oggi gioca indubbiamente un ruolo importante nel processo di destabilizzazione, e insieme di dis-auratizzazione, dell’arte; del resto, è anche vero che sempre più l’artista, se vuole ottenere l’attenzione dei media, deve essere in grado di “fare notizia”. Così, quello che caratterizza il nostro mondo è il fatto che il pluralismo nell’arte, vale a dire il riconoscimento di una coesistenza di diversi modi di intendere la produzione artistica, è ora reso impotente dal “mercato dell’arte” il quale prescrive, esattamente come la moda, ciò che è appunto, di volta in volta, “di moda” nell’arte stessa. In questo quadro, a partire dagli ultimi decenni del Novecento, si può senz’altro parlare di una vera e propria “svolta reazionaria” dell’arte, intendendo con ciò, tra l’altro, il prevalere di un realismo del tutto acritico e simulacrale. In tal senso, contro il modernismo si assiste alla resurrezione di vecchie forme come la pittura a olio e la scultura in bronzo, con il conseguente abbandono del mondo dell’arte nelle mani del mercato come mai prima era avvenuto. A questo proposito, è esemplare ancora una volta la produzione di un artista come Koons le sue opere di scultura e pittura, infatti, soprattutto dopo gli anni Ottanta, si configurano sempre come imitazioni naturalistiche della realtà; ed è proprio questo realismo acritico a presentare una totale assenza di stile, e quindi di forma, come lo stesso artista ammette: “Le mie opere rispettano l’integrità dell’oggetto al punto di far scomparire qualsiasi traccia di intervento manuale da parte mia». In queste opere, insomma, a emergere è una totale assenza di quel senso critico, e insieme di quella ironia, che invece caratterizzano le opere d’arte della modernità adornianamente intesa. La conseguenza è che quello che nelle opere moderne si presenta come “negazione” della realtà quale essa è di qui, appunto, la sua dimensione utopica, e insieme auratica nelle opere di Koons, e in quelle di molti altri artisti attuali, si presenta piuttosto come una dimensione “affermativa” nei confronti del reale, tanto da tradursi in una piatta accettazione dell’esistente. Così da contrapporsi a quella dimensione ancora iconica ed epifanica che caratterizzava alcune avanguardie dei primi del Novecento in modo esemplare l’Astrattismo oggi, in molte produzioni artistiche contemporanee la pretesa di trovare il Senso nell’opera fa di questa non già un’icona bensì un vero e proprio “idolo”: non c’è alcun rimando, alcun “di più”, alcuna “epifania”, tutte dimensioni queste che invece avevano a che fare con la nozione di aura. In questo caso, infatti, a essere negata è ogni dimensione rappresentativa in nome di una presenza che, nel suo darsi come assoluta, pretende di esaurire ogni senso. Rispetto dunque all’iconicità dell’Astrattismo dei primi decenni del Novecento, e all’iconoclastia dell’Espressionismo Astratto americano, che ha in Jackson Pollock il maggiore rappresentante e nel quale la forma è messa in questione fino ad arrivare a quell’informe che è l’opera ormai identificata con un work in progress, tendono ora a prevalere opere che si offrono a noi come autentici idoli, nel paradosso di una dimensione mimetico-naturalistica che finisce col negare, di fatto, ogni funzione rappresentativa. Qui, ormai, arte e industria culturale fanno tutt’uno. Invece con il rifiuto delle opere minimaliste almeno in prima battuta, sembrano porsi totalmente nel segno di una negazione dell’aura. Così, le opere di Judd, costituite da file di scatole fissate alla parete, in quanto materiali di tipo industriale disposti in moduli seriali senza alcuna gerarchia, implicano l’eliminazione di ogni intervento manuale e presentano così la massima impersonalità. Allo stesso modo, per Carl Andre l’identità dell’opera si risolve nei componenti industriali prefabbricati, e tuttavia il merito specifico di questo scultore è quello di avere ribaltato il valore della verticalità della scultura, realizzando lavori assolutamente orizzontali: la scultura si offre come pura “pavimentalità”, e il fatto che si possa camminare sopra queste opere annulla ogni tipo di rapporto basato sulla contemplazione e insieme ogni concezione monumentale della scultura stessa. Più in generale, la formula “una cosa dopo l’altra” implica l’assenza di forma, di direzione e quindi di senso; non solo, ma con la sua tendenza a ricorrere a elementi di origine industriale o di uso commerciale, il Minimalismo ha in comune con la Pop Art un rinnovato interesse per il ready made di Duchamp, la cui attualità, non a caso, era stata rilanciata dalle opere di Jasper Johns alla fine degli anni Cinquanta, come il Bersaglio con quattro facce e la prima Bandiera. Resta comunque il fatto che c’è un’importante differenza tra gli artisti minimalisti e quelli pop: questi ultimi lavorano su immagini già fortemente connotate (fumetti o fotografie di personaggi pubblici), mentre i minimalisti usano elementi che non hanno alcun contenuto specifico, scoprendo anzi che alcuni materiali, come per esempio i mattoni, potevano essere usati senza alcuna manipolazione. Inoltre è proprio l’uso di mattoni o di altri materiali industriali, caratterizzati dall’identità di formato, che permette ai minimalisti di eliminare qualsiasi rapporto gerarchico fra tali elementi: si dà soltanto la ripetizione e la progressione seriale, eliminando così, con la dimensione dell’aura, quelle idee di centro e di necessità interna che stanno invece alla base della rappresentazione realistica propria dell’arte del xx secolo. In particolare Johns rifiuta non solo l’idea che il contenuto delle forme possa fondare la loro significazione, ma anche l’idea che il significato dell’opera pre-esisterebbe nella mente dell’autore, che è quanto mostra appunto il ready made; anche per Morris la superficie scultorea non è più il riflesso di un’idea pre-esistente nel soggetto: nelle sue opere della fine degli anni Sessanta, composte di moduli in fibra di vetro, Morris crea infatti un tipo di struttura priva di qualsiasi ordine interno fissato, sì che ognuna delle combinazioni scultoree può essere continuamente configurata in modo diverso; il risultato è il venir meno di ogni significato interno dato una volta per tutte, tale cioè da riflettere l’intenzione già formata di un soggetto esterno. Richard Serra radicalizza questo rifiuto di qualunque significato ideale interno all’opera, come mostra un suo lavoro costituito di quattro lastre di piombo che si mantengono in equilibrio tra loro senza alcun dispositivo particolare: al cubo come “idea” determinata a priori Serra sostituisce così un cubo che esiste nel tempo e dipende completamente dalle tensioni materiali che percorrono la sua superficie. Insomma, i minimalisti vogliono far derivare dal contesto esterno l’origine del significato dell’opera, negando che la composizione sia il risultato, definito una volta per tutte, della volontà dell’autore. Tutto questo porterebbe a credere che il Minimalismo, eliminando il lavoro sulla forma e della forma, faccia dell’opera un puro oggetto che si offre alla nostra vista come cosa tra cose, e in quanto tale priva di qualunque senso ulteriore rispetto alla sua semplice e definitiva visibilità: priva, insomma, di ogni auraticità. È quanto si può trovare nel “programma” di quegli artisti minimalisti che hanno in genere prodotto puri e semplici volumi, che si volevano privi di immagini e senza contenuto, volumi cioè che non indicavano altro che se stessi. Così in alcuni scritti teorici degli artisti di questo movimento, tra i quali Judd e Morris, troviamo l’intenzione di eliminare ogni idea di latenza, per proporre oggetti che chiedono solo di essere visti per ciò che sono. Si tratterebbe dunque di oggetti davanti ai quali non sembra esserci nulla da immaginare, dato che essi non nascondono niente e si offrono piuttosto come meri volumi da vedere. È quanto Frank Stella sintetizza con la formula “ciò che vedi è ciò che vedi”. A partire da questo si può capire la posizione nettamente antieuropea di Stella e di Judd: alludendo infatti ai pittori geometrici europei, ai quali era stato paragonato, Stella mette in evidenza che la loro è una pittura relazionale, basata su quell’idea di equilibrio che non è affatto importante nella pittura americana; inoltre, a giudizio di Judd, questo effetto compositivo deve essere evitato, giacché esso porta con sè una filosofia razionalista, e quindi i concetti di essenza e di intenzionalità; anche Morris, rievocando i primi anni Sessanta, afferma che allora era intenzionato a distruggere tutto quello che aveva a che fare con l’“altro”, con la trascendenza. In quei primi anni Sessanta i parallelepipedi di Morris coincidono non a caso con quelli di Judd: la conseguenza è, appunto, quel minimalismo con il quale si vuole sottolineare la qualità impersonale del processo generativo di queste opere, che hanno un carattere seriale e insieme industriale, e nello stesso tempo il superamento della distanza tra pittura e scultura. Di qui, come s’è detto, il rifiuto di quei “sistemi aprioristici” che stabiliscono inevitabilmente una gerarchia tra gli elementi costitutivi dell’opera, mirando a raggiungere un equilibrio e a produrre relazioni compositive. Riducendo radicalmente gli elementi di un’opera al punto da ricondurli tutti alla forma unitaria, Judd spera non solo di cancellare la composizione, ma anche di eliminare l’altro aspetto aprioristico, costituito dal fatto che un’idea o un’intenzione preceda la realizzazione dell’opera, come se quest’ultima avesse un nucleo motivazionale interno. La messa al bando dell’illusionismo, vale a dire del naturalismo, è dunque strettamente connessa alla liberazione dell’opera dall’intenzione. È, del resto, quanto Morris intende quando nega la trascendenza e i valori spirituali, affermando al contrario che non c’è niente, nessuna idea pre-esistente al di là della forma esterna o Gestalt. Ora, è vero che tutto ciò starebbe a significare che l’opera si risolve totalmente nella superficie, e quindi in ciò che si offre alla nostra vista, e tuttavia si tratta di una superficie che non si presenta come qualcosa di invariante, dal momento che è sensibile al gioco della luce e della prospettiva dello spettatore. Non solo, ma lo stesso Morris nelle sue opere mette in gioco due o più elementi formalmente identici e tuttavia disposti in modo differente rispetto all’osservatore, tanto da arrivare lui stesso ad affermare che l’esperienza dell’opera si fa necessariamente nel tempo. È proprio grazie al riconoscimento di questa temporalità nella produzione concreta delle opere, che dobbiamo prendere atto che c’è forse una differenza tra ciò che gli artisti minimalisti dicono e ciò che essi realizzano. Non solo, ma è precisamente nel sottolineare l’importanza della temporalità che il critico Michael Fried concorda con i minimalisti sul fatto che le loro opere entrano in relazione con la realtà circostante, compreso appunto il tempo reale necessario alla loro realizzazione; ma questo significa pure – sempre secondo Fried – che la presenza di un oggetto del genere è simile a una vera e propria “presenza teatrale”. La conseguenza è che gli oggetti minimalisti non sono qualcosa di “dato” una volta per tutte, ma sono qualcosa che “ac-cade”, nel senso che “cade fuori” dal loro essere un dato immediatamente visibile, mostrando così aspetti sempre nuovi e diversi. Ma allora quello che abbiamo davanti, per minimale che sia, non è né un visibile che escluda l’invisibile, né un invisibile che riduca il visibile a mera apparenza. Si tratta invece di qualcosa che è l’uno e l’altro contemporaneamente e che, in quanto tale, si presenta come un oggetto strutturalmente instabile; in questo senso i cubi minimalisti si offrono come immagini nelle quali la temporalità fa sì che il continuo rimando tra il visibile e l’invisibile non si risolva mai in una sintesi totalizzante. Da questo punto di vista possiamo dire che i volumi minimalisti (cubi, parallelepipedi ecc.) implicano un vedere che è insieme un sentire, dal momento che la loro visibilità ha in sé una dimensione invisibile. E se è vero che questi volumi sono stati costruiti come pure “presenze”, nell’intento di dissolvere ogni illusione rappresentativa, è anche vero che, a ben vedere, in essi presentazione e rappresentazione fanno tutt’uno, sì che la loro esteriorità implica sempre una interiorità; di qui la possibilità di sentire che in tali opere qualcosa si sottrae alla vista: si tratta di un’interiorità che non si identifica con nessuna arché, vale a dire con nessuna profondità al di là della superficie, ma che si offre con e nella superficie stessa. Insomma, l’interiorità non è ciò che si nasconde “dietro” un volume minimalista, ma ciò che si manifesta in modo tale che è la stessa organizzazione visiva di questi volumi geometrici a presentarsi come “strana” e “singolare”. Di qui, allora, il loro carattere ancora auratico. La società dei consumi, le nuove industrie di massa, la globalizzazione, la pubblicità e la cultura moderna e contemporanea abbracciando tutte le innovazioni e le mode del tempo ha fatto si che la pop art divenisse un riflesso spesso critico ed intransigente.
Fondation Louis Vuitton Parigi
Pop Forever, Tom Wesselmann &…
dal 17 Ottobre 2024 al 24 Febbraio 2025
Lunedì dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Mercoledì alla Domenica dalle ore 11.00 alle ore 20.00
Venerdì dalle ore 11.00 alle ore 21.00
Martedì Chiuso
Crédit artiste: © Sylvie Fleury Crédit photographique: © JW
Sylvie Fleury, Skin Crime 3 (Givenchy 318), peinture émail sur Fiat 128 compressée, 55,9 x 153,9 x 365 cm, Collection Larry Warsh
Foto dell’Allestimento e Foto Stampa Courtesy Fondation Louis Vuitton Parigi