Giovanni Cardone
Fino al 26 Gennaio 2025 si potrà ammirare alla Reggia di Monza – Belvedere la mostra dedicata a Vivian Maier- Le Foto mai Viste di Vivian Maier a cura di Anne Morin . Con il Patrocinio del Comune di Monza . Più di 200 stampe a colori e in bianco e nero, oltre a contact sheet, registrazioni audio originali con la voce della fotografa e vari filmati Super 8, visibili PER LA PRIMA VOLTA soltanto in questa mostra. Realizzata da Vertigo Syndrome in collaborazione con di Chromaphotography,Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier è la più importante esposizione mai fatta in Italia su questa straordinaria, riservatissima artista. 220 opere, divise in 9 sezioni, esplorano i temi e i soggetti caratteristici del suo stile: dagli autoritratti alle scene di strada, dalle immagini di bambini alle persone ai margini della società, avventurandosi anche in aspetti sconosciuti o poco noti di una vicenda umana e artistica non convenzionale. Una formidabile esplorazione della particolare vicenda umana e artistica dell’autrice pioniera della street photography, che ripercorre i temi e i soggetti caratteristici del suo stile, fornendo una testimonianza del «lato oscuro del sogno americano” che riflette una nazione in cambiamento. Un viaggio nel tempo e una visione del mondo senza innocenza, con bambini dall’aria vissuta e adulti che sembrano affaticati anche nel tempo libero. Ma anche l’arte della fotografia vista come valvola di sfogo, usata per esprimere le proprie emozioni attraverso immagini traboccanti di umanità, senso di umorismo e bellezza. In una mia ricerca storiografica e scientifica che è divenuta modulo monografico e seminario universitario sulla figura di Vivian Maier che ha lasciato una tracce indelebile nella storia della fotografia contemporanea. Apro questo saggio dicendo : Che nel ventennio che intercorse tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti d‟America furono teatro di forti e importanti cambiamenti nella percezione del ruolo delle donne. Inimmaginabili libertà personali e politiche, che coinvolgevano il comportamento in pubblico, il modo di vestire più libertino e meno costretto, la possibilità di fumare e bere alcolici, l‟opportunità di competere con gli uomini in campo professionale ed economico, diventarono d‟un tratto appagante realtà. Ma, nonostante queste dirompenti conquiste sociali, il fondamentale contributo che queste stesse donne avevano profuso prima del conflitto mondiale al fine di risvegliare lo spirito femminista messo a tacere in una società prevalentemente patriarcale, continuarono ad essere clamorosamente accantonate, forse eclissate da problemi sociali ed economici ritenuti più urgenti. Fu allora che vennero abbandonati i concetti di femminilità, eleganza e grazia intrinseche comunemente assunti come giustificazione alla quantità sempre maggiore di donne nel campo della fotografia. Le fotografe stesse iniziarono a pretendere di essere giudicate in primo luogo in base alle loro abilità tecniche, anziché in base al sesso, così da poter competere con i colleghi maschi su un piano il più possibile paritario. Le battaglie, però, non diedero i frutti sperati, e lo dimostra il fatto che i salari e le condizioni lavorative sperimentate dalle donne rimanessero iniqui rispetto alla controparte maschile. Le ingiustizie e le barriere in cui le professioniste della fotografia spesso incorsero negli anni successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale, non impedirono loro di impegnarsi con ostinazione e abnegazione nell’arte visiva moderna per eccellenza, sia in qualità di professioniste, che di artiste indipendenti. Il ritratto a fini commerciali si confermò il modo più semplice e remunerativo per le aspiranti fotografe di avere accesso al mondo fotografico. Anche donne di colore e Afro-americane riuscirono passo passo ad acquisire l‟esperienza necessaria per avere successo in un genere, ed eventualmente aprirsi anche ad altri. I miglioramenti ottenuti nelle tecniche di stampa delle immagini resero molto celebre e popolare il ritratto fotografico delle celebrità, pratica in voga già da inizio secolo , a riconferma della straordinaria lungimiranza tipica della fotografia statunitense. Tra le ritrattiste più celebri di questo periodo, non può essere trascurata Doris Ulmann la quale si dedicò prevalentemente a visi che rappresentassero un popolo, una cultura, uno specifico modo di vivere, in modo da poter catturare l’espressione di un gruppo sociale, e consegnarne al tempo le sembianze, che altrimenti rischiavano di andare irrimediabilmente perdute. Le tendenze moderniste si diffusero in questo periodo storico anche nel Nord America, così come in Europa. Molte fotografe per passione, però, esitarono ad abbandonare i dettami pittorialisti, probabilmente perché ben integrate nell’organizzazione chiamata Pictorial Photographers of America (PPA). Il PPA fu fondato nel 1916 da Clarence White, il quale era impegnato nel promuovere principi egualitari nei confronti delle donne, predisponendo così un ambiente favorevole e accogliente nei confronti dei membri di sesso femminile. Questo gruppo, inoltre, era schierato artisticamente con la posizione di chi esalta il ruolo della bellezza come elemento imprescindibile nell’espressione fotografica, e contrastava di conseguenza le idee moderniste e più dirette portate avanti da Alfred Stieglitz e Paul Strand. L‟associazione era anche attiva nell‟organizzare periodicamente esposizioni di opere realizzate dai propri membri, nonché nel promuovere il proprio linguaggio artistico attraverso la pubblicazione annuale di una rivista. Il ben radicato movimento pittorialista emergeva anche in occasione di mostre messe in piedi da altri gruppi fotografici dislocati in varie parti del Paese. I soggetti più battuti da parte delle fotografe dell‟epoca erano abbastanza tradizionali: ritratti, paesaggi, nature morte, semiastrazioni, immagini di bambole. Quando, negli anni ‟20 del XX secolo, le barriere precedentemente alzate tra l‟arte pura e le immagini prodotte a fini commerciali furono finalmente eliminate, i due ambiti si mescolarono, rendendo lecita la pratica di realizzare immagini di alto livello estetico e artistico destinate poi alla vendita e promozione di beni di consumo. In questo rinnovato contesto culturale, l‟industria pubblicitaria iniziò a fare puntuale ricorso alle fotografie e ad uno stile visivo avanguardisticamente modernista per portare all’attenzione delle masse i propri prodotti. Sebbene il settore pubblicitario fosse inizialmente dominato da uomini, anche le donne riuscirono a ricavarsi uno spazio dignitoso grazie all‟incremento del potere d‟acquisto di consumatrici di prodotti per la casa. Tra le fotografe che ottennero successo in campo pubblicitario ignorando la riduttiva ed obsoleta divisione tra arte e commercio, non possono essere dimenticate Margaret Watkins , Sara Parsons e Wynn Richards . Ciascuna a modo proprio e con uno stile personale, i riconoscimenti ottenuti da queste artiste dimostrarono che anche le donne possedevano la capacità di pensare in modo astratto, di valorizzare le caratteristiche dei prodotti, e di far appello ai desideri delle masse. Contemporaneamente all’impegno in ambito pubblicitario, alcune fotografe investirono energie anche nell‟adiacente industria della moda, raggiungendo buoni risultati, ma non riuscendo a porsi ad un livello di equità rispetto ai colleghi uomini. La costa occidentale degli Stati Uniti era meno vivace dal punto di vista culturale, e offriva minori chance di successo per le donne devote alla fotografia. La principale via per raggiungere la popolarità e guadagnarsi da vivere, era offerta dal genere del ritratto. Oltre a ciò, le fotografe decise a non spostarsi verso Est in cerca di fortuna trovavano impiego come ritoccatrici in studi di fotografia, altre si dedicavano a scatti di stampo architettonico, o al settore dell’illustrazione di libri. Sebbene le possibilità di perseguire una brillante carriera fotografica fossero relativamente contenute, uomini e donne di area Pacifica furono attivi nel sostenersi a vicenda nella strada verso il successo.
Uno dei più riusciti esempi in tal senso, fu il Group , fondato nel 1932 da Edward Weston, Ansel Adams e Dorothea Lange tra gli altri, allo scopo di facilitare l‟interazione tra fotografi e, quindi, aumentare auspicabilmente le possibilità di far conoscere i lavori di ciascuno attraverso esposizioni e mostre in musei e gallerie. Celeberrime fotografe che operarono nell‟America occidentale negli anni tra i due conflitti mondiali, sono Imogen Cunningham e Laura Gilpin . Originaria di Seattle, molto devota allo stile modernista, Cunningham individuò il proprio linguaggio figurativo prevalentemente nelle piante, che era solita inquadrare in modo inusuale e ravvicinato, così da far perdere allo spettatore le rassicuranti coordinate spazio-temporali. Punto focale della sua ricerca fu anche la figura umana nella sua nudità, spesso affrontata con un modernismo non privo di accenti pittorialisti, che contribuisce a collocare le sue immagini in un territorio di confine tra realtà e sogno. Ciò che risalta nell‟opera di Cunningham è il legame tra fotografia artistica e ambienti privati, così da rivalutare, agli occhi dello spettatore, anche l‟oggetto più banale e quotidiano. I paesaggi dell’Ovest e del Colorado, costituiscono il materiale primario dell’interesse fotografico di Laura Gilpin, la quale realizzò anche ritratti e nature morte floreali. Indifferente alle critiche della comunità fotografica maschile, Gilpin si orientò verso nuovi soggetti sempre alla ricerca di terreni inesplorati da sondare, e provvide da sola alle proprie pubblicazioni. Gli anni 30 portarono con sé importanti cambiamenti dal punto di vista sociale e soprattutto economico, a causa della Grande Depressione che colpì gli Stati Uniti a seguito del tracollo finanziario del 1929. La crisi e la povertà che conseguirono a quel drammatico periodo storico, si abbatterono sul popolo americano con una tale brutalità che tutti gli aspetti della vita e le manifestazioni culturali del Paese ne furono coinvolti e influenzati. La fotografia non fu da meno. Un nuovo corso rispetto alle tematiche affrontate dagli artisti dietro l’obbiettivo iniziò evidentemente a delinearsi, mantenendo inalterato però il ricorso allo stile modernista, al quale fu affidato il compito di porre l‟accento sulle sfumature più intime del dramma vissuto dagli americani in quegli anni. Non a caso la nuova tendenza, spesso sostenuta e incoraggiata dal governo e dalle agenzie federali per rendere evidente la necessità di riforme solide, fu definita realismo documentario. Due sono i nomi delle fotografe più celebri e attive nell’offrire uno sguardo documentario, anche se a tratti struggente, sulla situazione sperimentata dai propri concittadini: Margaret Bourke-White e Dorothea Lange . Bourke-White rappresentava una donna nuova, disincantata rispetto all’iniziale entusiasmo collegato all’industrializzazione, non intimorita da alcuna sfida, ambiziosa nel proprio progetto di carriera lavorativa e battagliera per il riconoscimento dei propri diritti eguali a quelli dei fotografi maschi. La donna collaborò con la rivista Life dal 1936 anno della sua fondazione al 1969, realizzando in questo periodo prolifico anche un reportage di guerra. Dorothea Lange iniziò la propria carriera in qualità di ritrattista, ma poi abbandonò questa strada fruttuosa per rivolgere la propria attenzione a tematiche più impellenti per il Paese in cui viveva. Fu allora che decise di lasciare San Francisco per catturare le immagini di persone disperate, rimaste senza terre e possedimenti, che si spostavano verso Ovest in cerca di fortuna. Il desiderio di Lange era evidentemente quello di vivere attraverso la fotografia i problemi della gente comune, della classe operaia, degli agricoltori, delle donne con famiglia. Il suo nome è strettamente collegato al progetto governativo della Farm Security Administration, per il quale fu scelta e che la tenne lontano dai suoi figli per fotografare i volti del proprio tempo e le immagini di un’America in ginocchio. Lo stile modernista la aiutò a cogliere le espressioni facciali più intense e le difficoltà insormontabili affrontate quotidianamente dai suoi soggetti. La sua ricerca è riuscita nella notevole impresa di coniugare il formalismo a volte freddo del modernismo con lo stile documentario del nuovo realismo. Gli straordinari esiti creativi di queste e molte altre artiste che si adoperarono nello stile documentaristico, trovarono un adeguato sbocco, nel corso degli anni ‘30, in giornali di fama internazionale, quali Life e Look. In particolare, divenne evidente il ruolo di primo piano che il fotogiornalismo in rosa avrebbe rivestito negli anni a seguire, quando la copertina del primo numero della rivista Life, risalente al 1936, diede spazio ad un’immagine realizzata da Margaret Bourke-White, già inserita a pieno titolo nello staff giornalistico. Ma la figura che stravolge la fotografia è stata certamente Vivian Maier che inizia a fotografare grazie alla passione che le ha trasmesso un’amica della madre, fotografa professionista, da cui la ragazzina e la madre stessa sono ospiti in seguito alla separazione dei genitori. La giovane fotografa viaggia e trasloca parecchie volte durante la sua crescita e all’incirca a 25 anni torna in Francia, terra natia della madre e luogo in cui ha vissuto per un periodo della sua infanzia, dove nell’attesa di vendere all’asta un terreno di sua proprietà decide di fotografare i propri parenti di quella regione. A Chicago ci arriva trentenne e lì comincia a lavorare dai Gensburg come bambinaia. Secondo le testimonianze, quella della bambinaia non è la massima aspirazione di Vivian, ma non sapendo fare altro e con l’amore dimostratole dai bambini, continua a farlo per i successivi quarant’anni. Dai Gensburg ha un bagno privato, che lei ben presto trasforma in camera oscura. Nelle sue foto racconta i bambini, le strade, la vita quotidiana dai benestanti agli emarginati, ma anche gli autoritratti, soprattutto nei riflessi con la macchina fotografica in mano. Tra il 1959 e il 1960 decide di partire da sola per un viaggio di sei mesi, visitando le Filippine, la Thailandia, l’India, lo Yemen, l’Egitto, l’Italia, per poi concludere il suo viaggio ancora una volta in Francia. Dopo 17 anni di lavoro presso i Gensburg i bambini sono cresciuti e Vivian deve cambiare famiglia. In quel periodo cambia anche approccio alla fotografia: smette di scattare con Rolleiflex e di sviluppare i relativi negativi in bianco e nero per passare alla fotografia a colori con Kodak, Leica, ma non solo. Quello che di tutto il lavoro della Maier è straordinario, è questo sguardo estremamente moderno ancora oggi, mai scontato, con una consapevolezza inspiegabile da parte dell’autrice. Normalmente un fotografo cresce nel proprio sguardo e nel proprio linguaggio soprattutto perché in grado di analizzare il proprio lavoro con occhio critico e costruttivo, oltre che per una crescita personale. Vivian Maier questo percorso l’ha fatto, ma senza spesso vedere le proprie immagini oltre all’istante prima di premere l’otturatore. Il percorso di crescita dell’autrice è evidente negli anni, sviluppando quelle foto che lei stessa non ha mai visto. Vivian Maier negli ultimi anni della sua vita ha dei grossi problemi finanziari, di lei si prendono cura i fratelli Gensburg fino alla sua morte nel 2009. Il percorso che accompagna il visitatore lungo la mostra suddiviso in tre sezioni: la prima è dedicata a “L’OMBRA”, intesa come autorappresentazione: un tema che attraversa il lavoro di Vivian Maier sin dai suoi esordi, nei primi anni Cinquanta, fino agli anni Novanta. “Miss Viv” ha continuato a sviluppare un registro compositivo di grande ricchezza ed estrema complessità, combinando queste scoperte estetiche insieme alle categorie chiave dell’ombra, del riflesso e dello specchio. Ed e proprio con “IL RIFLESSO”, a cui è dedicata la seconda sezione, che Vivian Maier reinterpreta il campo lessicale della fotografia attraverso l’idea di auto-rappresentazione. L’autrice usa mille stratagemmi per collocare sé stessa al limite tra il visibile e l’invisibile, il riconoscibile e l’irriconoscibile. I suoi lineamenti sono sfocati, qualcosa si interpone davanti a loro o li rimanda altrove, si apre su un fuori campo o si trasforma davanti ai nostri occhi. Il suo volto ci sfugge ma non la certezza della sua presenza nel momento in cui l’immagine viene catturata. Ogni fotografia è un gioco a nascondino. Ogni fotografia è di per sé un atto di resistenza alla sua invisibilità. Infine la sezione e dedicata a “LO SPECCHIO”, un oggetto che appare spesso nelle immagini di Vivian Maier. È frammentato o posto di fronte a un altro specchio oppure posizionato in modo tale che il suo viso sia proiettato su altri specchi, in una cascata infinita. È lo strumento attraverso il quale affronta il proprio sguardo, questo “Io” davanti a “Me”.
Attraverso gli scatti di Vivian Maier ripercoreremo la seconda metà del Novecento con gli occhi e negli occhi di un’icona della storia della fotografia. La mostra si compone di un nucleo di fotografie in bianco e nero e a colori, molto rare e fino a pochi anni fa mai viste in pubblico, alle quali si aggiungono filmati in formato Super 8, provini a contatto, audio con la sua voce e vari oggetti che le sono appartenuti, come le macchine fotografiche Rolleiflex e Leica.
La mostra è suddivisa in nove sezioni :
Vivian Sono Io
La mostra si apre con il nucleo di lavori forse più iconici dell’artista, quelli con cui ricerca se stessa per mezzo della fotografia. Autoritratti ricavati attraverso diverse soluzioni e processi visivi che raccontano della sua capacità creativa e intuitiva, come gli scatti alla propria silhouette proiettata, alla forma della sua ombra, al riflesso in uno specchio o in un vetro. Un vocabolario di situazioni che utilizza per affermare la sua presenza in un determinato momento e in un determinato luogo. Un lavoro particolarmente rilevante nell’era dei social media, con i suoi autoritratti che risuonano con la cultura del selfie contemporanea.
Uno Sguardo Ravvicinato e Sincero su un‘epoca passata
Prima a New York, tra il 1951 e il 1956, poi a Chicago, Vivian Maier ama perdersi passeggiando nei quartieri popolari della città, avventurandosi nel luogo dove per eccellenza va in scena il quotidiano: la strada. Gli attori sono una serie di soggetti inconsapevoli che Maier segue, osserva e immortala in gesti e reazioni spontanee, suscitando possibili narrazioni. Tra queste molte donne, di estrazione umile o benestanti, di cui Maier riusciva a raccontare la bellezza, la profondità e la saggezza dei loro visi solcati dal tempo.
L’America del Dopoguerra e la Facciata del Sogno Americano
Nelle sue frequenti passeggiate lungo la città, accompagnata dai bambini di cui si occupa, lo sguardo di Maier si posa su coloro che vivono ai margini del Sogno americano, la grande utopia da cui sono esclusi. Lontani dai classici ritratti con soggetti in posa e agghindati, l’autrice ritrae i suoi soggetti sorprendendoli, precedendo il momento in cui, accorgendosi di lei, avrebbero perso
spontaneità. Concentrandosi spesso su un dettaglio corporeo, sono iconici gli scatti in cui immortala la figura di spalle, un taglio che oggi le si riconosce come distintivo del suo stile.
Il Super 8 e la Vivace Trama Umana degli Spazi Metropolitani
Negli anni sessanta Vivian Maier affronta più compiutamente il linguaggio cinematografico, filmando frontalmente, senza artifici né montaggio, la realtà che osserva durante le sue peregrinazioni urbane. In un avvicendarsi che diviene stimolo reciproco, Maier alterna la macchina da presa Super 8 e la Rolleiflex, muovendosi e riprendendo inesorabilmente ciò che le si pone davanti e, una volta attratta da un elemento in particolare, immortalandolo in uno scatto.
Tutti i Colori della Straordinaria vita Ordinaria
Se il suo lavoro in bianco e nero è profondamente silenzioso, il colore è per l’autrice il Blues che percorre le strade di Chicago, in particolare quelle dei quartieri operai, che restituisce in un gioco cromatico estremamente ricco. L’utilizzo di una Leica 35 mm, il cui formato rettangolare differisce notevolmente da quello quadrato della Rolleiflex, conferisce un marcato dinamismo alla composizione di queste immagini, esposte pochissime volte in pubblico e tra le più rare della sua produzione.
Bambini nel Tempo
Istitutrice per quasi quarant’anni, Maier ha spesso documentato la vita dei bambini di cui si è presa cura, scoprendo e rappresentando il modo autentico con cui guardano il mondo. I volti, le espressioni, le mimiche, gli sguardi, le lacrime, i giochi: tutto ciò che costituisce la vita del bambino è passato sotto l’obiettivo della fotografa, che ha saputo restituirne lo spirito più intenso e genuino.
L’Astratto visto da vicino
L’ultima sezione della mostra raccoglie fotografie ricche di dettagli piccoli e ravvicinati: primi piani di oggettiche Maier guarda così da vicino e con tale intensità da farne talvolta perdere i contorni e il contatto con la realtà. Si tratta di scatti poetici e documentaristici che mostrano l’abilità innata di Maier nel comporre rapidamente le sue foto con piccole stranezze e sottili trucchi fotografici.
Biografia di Vivian Maier
Nasce a New York il 1° febbraio 1926 da padre austriaco e madre francese. Trascorre gran parte dell’infanzia in Francia, nella fattoria di famiglia a Saint Julien en Champseur, sulle alte Alpi, e poi nella vicina città di St. Bonnet, dove frequenta la scuola. Nel 1932 torna con la madre a New York, dove si ricongiunge momentaneamente al padre e al fratello, prima di dividersi definitivamente. Negli anni ’40 Maier vive nel Queens e lavora come impiegata nella fabbrica di bambole Madame Alexander. Con i soldi ricavati dalla vendita della tenuta di St. Julien, acquista la sua prima macchina fotografica e prende confidenza con il mezzo. Nel 1951 si stabilisce a New York dove lavora come bambinaia, guadagnandosi da vivere e finanziando la sua passione per la fotografia. Durante l’estate del 1952 acquista una macchina fotografica Rolleiflex che porta sempre con sé, nelle sue passeggiate per la città così come nei viaggi con le famiglie per cui lavora, scattando più negativi di quanti ne riesce effettivamente a sviluppare. Nel 1955, affascinata da Hollywood e dalle celebrità, Maier decide di tentare la fortuna a Los Angeles. In seguito, viaggia molto, fino a stabilirsi a Chicago, dove viene assunta dai Gensburg. Trascorre undici anni lavorando per loro, sfruttando ogni momento per muoversi per la città alla ricerca di nuovi soggetti da fotografare e allestendo una camera oscura nel seminterrato della dimora. Tra gli anni sessanta e ottanta, Maier cambia diversi datori di lavoro e gradualmente passa alla fotografia a colori avvalendosi di una Leica, così come al cinema, attraverso cui sperimenta nuove soluzioni artistiche. Pur provando a trasformare la sua passione in un lavoro, non ci riuscirà mai. Anzi, tra la fine degli anni novanta e l’inizio del duemila, vari problemi economici la costringono a fotografare sempre meno e a dover rinunciare, in assenza di un luogo dove conservarlo, al materiale d’archivio raccolto nel corso di tutta una vita. Proprio all’interno di uno dei magazzini dove Maier conservava i suoi negativi, lo studente di Chicago John Maloof, alla ricerca di materiale iconografico legato alla città, scopre la misteriosa fotografa e ne approfondisce l’opera, dando poi vita a un archivio di oltre 120 mila scatti.
Nel 2009, prima che il suo lavoro possa arrivare al grande pubblico, Vivian Maier muore a Chicago il 21 aprile all’età di 83 anni.
Reggia di Monza – Belvedere
Le Foto mai Viste di Vivian Maier
dal 17 Ottobre 2024 al 26 Gennaio 2025
dal Mercoledì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 16.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.30 alle ore 20.00
Lunedì e Martedì Chiuso
©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY
The copyright must always appear
Images can not be cropped, altered, or changed in anyway
01 – Vivian Maier, Self-Portrait, Chicago, IL, 1956, Gelatin silver print, 2014
©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY
02 – Vivian Maier, Armenian woman fighting on East 86th Street, New York, NY, September 1956, Gelatin silver print, 2012©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY
04– Vivian Maier, New York, NY, 1954, Gelatin silver print, 2012©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY