Giovanni Cardone
Fino al 19 Gennaio 2025 si potrà ammirare alla Galleria Nazionale dell’Umbria Perugia la mostra L’Età dell’Oro. I Capolavori Dorati della Galleria Nazionale dell’Umbria Incontrano l’Arte Contemporanea. La suddetta mostra vuole creare un dialogo tra i capolavori dorati della Galleria Nazionale dell’Umbria e i maestri dell’Arte Contemporanea a cura di Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli e Carla Scagliosi. L’esposizione presso la Sala Podiani del museo perugino si avvale del patrocinio del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Città del Vaticano. La mostra propone cinquanta capolavori di artisti quali il Maestro di San Francesco, Duccio di Boninsegna, Gentile da Fabriano, Taddeo di Bartolo, Niccolò di Liberatore, Bernardino di Mariotto, il Maestro del Trittico del Farneto, Bartolomeo Caporali e altri, in gran parte provenienti dalla collezione della GNU, in dialogo con opere di grandi autori contemporanei, tra i quali Carla Accardi, Alberto Burri, Mario Ceroli, Gino De Dominicis, Yves Klein, Jannis Kounellis, Marisa Merz, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, Andy Warhol, capaci di disegnare un itinerario assolutamente unico che, in nome dell’oro, vede creazioni impermeabili a una lettura cronologica, ma in grado di affrontare un colloquio con un’altra epoca, facendo parlare i simboli, le forme, l’essenza più intima dell’opera e dell’arte stessa. All’interno del percorso s’incontra inoltre il dipinto Le tre età (1905) di Gustav Klimt, autore per il quale l’oro ha rivestito un ruolo fondamentale, concesso straordinariamente in prestito dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, e rimasto in Umbria, dopo essere stato protagonista dell’iniziativa Un capolavoro a Perugia. L’oro, il re dei metalli, non soggetto a ossidazione e inalterabile all’acqua e all’aria, malleabile eppure forte, dalla natura quasi sovrannaturale, che compare già nelle sepolture del tardo Neolitico come degno di un’offerta agli dèi per la sua forza, acquista nelle arti visive il potere di trasformare la figurazione in manifestazione stessa del sacro e della luce celeste. In una mia ricerca storiografia e scientifica sull’incontro e scontro tra Rinascimento e Contemporaneità attraverso la tecnica dell’oro apro questo mio saggio dicendo : C’è chi come me frequenta musei in cerca di un piacere superiore davanti a capolavori della pittura e della scultura. Coloro che sensibili alle forme espressive ascoltano musica, leggono romanzi e poesie, frequentano teatri e cinema per sentire verificarsi in loro quella particolare sintesi estetica che chiamiamo “bello”. Frequentemente tra questa stessa umanità si sente ripetere che il bello è una percezione “soggettiva”. Come abbiamo anche sentito ripetere da tempo che, essendo il bello una questione inerente l’edonismo individuale, il senso autentico dell’arte è qualcosa di più profondo e articolato. L’influenza sul senso comune della cultura contemporanea è evidente: la storia dell’arte, l’estetica, la filosofia e teoria delle arti, oggi prevalentemente negano all’arte il suo senso e valore più immediato, in nome di un relativismo salutare, come esito estremo di quella critica ai valori universali metafisici che arriva da lontano, che nel Novecento si è consolidata. Attribuendo al bello una valenza “soggettiva”, si richiama evidentemente una proposizione kantiana della Critica del Giudizio (ed è forse per questo che la convinzione ha assunto tale autorevolezza). Ma Kant, se è vero che dice qualcosa di simile, lo intende in altro modo da come è espresso e inteso nel senso comune, in cui con “soggettivo” si intende relativo, non universale. Kant invece sostiene che il giudizio di gusto (come facoltà di percepire il bello) è un giudizio riflettente, soggettivo, universale. Cioè sostiene che il bello non è nell’oggetto, ma è il soggetto che interpreta la particolare conformazione dell’oggetto come bello. Ma Kant sostiene anche che tutti i soggetti hanno la stessa facoltà di gusto, cioè di cogliere il bello, che dunque risulta un valore condiviso, intersoggettivo e universale. Peraltro tra i filosofi prevale la convinzione, non solo che il bello sia un fattore relativo dell’arte, ma anche secondario, cosa che sembrerebbe avallata dallo stesso Kant quando, pur ammettendo che il bello è un valore universale, afferma che una percezione più profonda dell’arte implica funzioni intellettuali, portando a «pensare molto», spostando il focus dell’arte nel pensiero. Evidentemente questo “pensare” è riferito a concetti indeterminati, espressi in una dimensione simbolica, quanto però basta a Kant per sancire il primato della ragione. Sulla scorta di tali diffuse convinzioni, coloro che amano l’arte continuano a frequentarla, tuttavia per non sentirsi “superficiali edonisti”, cercando motivi diversi, ascoltando le audioguide nei musei, leggendo testi esplicativi. Ma traditi poi dai loro stessi giudizi sulle opere, che vengono infine valutate come belle o brutte, e non certo come interessanti o istruttive o semplicemente valide. Una riprova è nel fatto che generazioni sono ripetutamente affascinate sempre dalle stesse opere intramontabili, che vengono definite “capolavori”.
Il concetto stesso di capolavoro designa una gerarchia qualitativa delle opere, stabilita da lungo tempo in un dibattito trans-storico, quale gerarchia stabile della qualità estetica, cioè del bello. Diversamente usciremmo dalla dimensione estetica, per cui qualsiasi documento storico potrebbe competere con un’opera d’arte, anche per quel «pensare molto» kantiano. Questa confusione nel rapporto tra arte e bello sembra nascere da una contrapposizione tra istinto e cultura, una cultura che si oppone all’istinto estetico per portare su di un piano diverso il senso dell’arte, che si vorrebbe, come tutto il resto, sottomesso alla ragione e alla scienza. Oggi tuttavia si avverte emergere, in modo sempre più marcato, la questione del bello come necessità di liberarsi di tali premesse o “pregiudizi”, che dir si voglia, per godere dell’arte ricominciando dalla dimensione contemplativa, questione che come vedremo apre a problematiche generali rilevanti. Occorre dunque più che mai interrogarsi sul bello, in particolare sul bello artistico, chiedendosi di cosa si tratta, ma soprattutto se il tornare ad accettare l’universalità del bello come essenza dell’arte, debba necessariamente comportare il ritorno ai vecchi valori metafisici, così a lungo controversi perché ritenuti abusivi. Penso che i capolavori italiani dal Medioevo fino al primo Rinascimento si sono contraddistinti per l’uso della tecnica del Fondo oro, che si legava ad un preciso valore simbolico, volto ad alludere all’irraggiungibile e sacra sfera celeste. Esempio di quanto detto ce l’offrono le opere di due pittori toscani, quali la Maestà del Duomo di Siena di Duccio di Buoninsegna e la Maestà di Santa Trinità di Cimabue. Successivamente, con l’apporto dell’indagine artistica di Giotto, il fondo oro e gli schematismi bizantineggianti vennero parzialmente abbandonati e la pittura tornò a raffigurare il mondo e, soprattutto, il cielo. Infatti, dal Trecento in poi iniziarono progressivamente ad imporsi sfondi architettonici e paesaggistici, che ridussero gradualmente la percentuale di tavola decorata in oro. Nel Rinascimento, la consapevolezza dell’importanza degli sfondi realistici si affermò definitivamente, tanto che la tecnica del Fondo oro cominciò ad essere meno popolare. Nonostante ciò quest’ultima non scomparve mai del tutto, restando in uso anche nel Cinquecento ed affermandosi maggiormente nelle zone d’influenza della religione ortodossa, dove si diffuse anche il culto delle icone. In epoca moderna, il fondo oro è stato utilizzato da molti artisti, fra i quali, il più famoso è senza dubbio quello di Gustav Klimt. Un ‘altro grande maestro della contemporaneità se confrontato oltre a Klimt ed è stato Lucio Fontana, posso affermare che i rapporti tra arte contemporanea e arte bizantina non sono identificabili immediatamente. Non è possibile individuare precise corrispondenze iconografiche o medesimi modelli formali. Lo stesso Fontana non ammette mai apertamente un’influenza diretta dell’arte bizantina. Non si può negare altresì che l’artista sia entrato in contatto con essa e che abbia elaborato alcune soluzioni formali grazie a suggestioni provenienti dall’arte bizantina. Si trovano infatti numerose affinità tra la modalità creativa di Fontana e quella dei maestri bizantini, evidenti in più aspetti, soprattutto nelle opere degli anni trenta che nel ciclo dedicato a Venezia, che l’artista realizza nel 1961. È per questo motivo che le opere prese in considerazione si concentrano su questi due momenti della carriera artistica di Fontana. Il mosaico è una tecnica artistica decorativa che si ricollega principalmente alle opere bizantine, tra le quali, in Italia, possiamo individuare come modelli esemplari le chiese di Ravenna, le chiese siciliane della Martorana e di Monreale e la basilica di San Marco a Venezia. È una tecnica che si sviluppa soprattutto nell’antichità arrivando fino al Medioevo, ma perdendo di interesse nell’età moderna. Il Novecento ritrova un modo nuovo di intendere il mosaico, volto a riconferirgli un valore storico ma anche materico. Il cammino riabilitativo del mosaico principierà con l’esperienza della secessione viennese, per poi espandersi in Europa fino a giungere in Italia. Suggestioni musive sono arrivate sicuramente anche a Lucio Fontana durante il primo periodo milanese di formazione artistica, che va dal 1927 al 1940. Forse Fontana conosce la “plastica musiva” negli esempi di scultura precolombiana in tessere lapidee. Due opere del genere sono esposte al Museo Etnografico Pigorini di Roma; si tratta di maschere realizzate con tessere lapidee di vari colori che raffigurano volti umani. La prima è ovoidale, realizzata con tessere irregolari di colore celeste per l’incarnato, e rosso per certi lineamenti del viso . Sulla sommità della fronte ha una parte triangolare che sembra un copricapo, che si poggia su una treccia decorativa, forse ad indicare i capelli annodati assieme. Seguono gli occhi che sono fori funzionali a permettere di vedere alla persona che indossava la maschera. Sono molto allungati, con l’arcata sopracigliare ben marcata che si conclude su un naso pronunciato. La seconda maschera invece segue i lineamenti del volto, e ha in comune con la prima la forma degli occhi molto allungata, il naso pronunciato e le sopracciglia sottolineate da tessere di colore rosso . Ma le suggestioni estetiche più prossime agli esiti raggiunti da Fontana sono quelle prese a prestito dall’arte bizantina. Gli anni trenta sono un momento di grande fortuna per quest’arte in Italia. Le antichità bizantine rientrano in una riflessione che coinvolge intellettuali, artisti e teorici. Sergio Bettini compie un viaggio nei Balcani proprio in questi anni, con il placet del rettore dell’Università di Padova. Poco dopo Bettini pubblica anche tre volumi dedicati rispettivamente alla pittura, ai mosaici e alla scultura bizantina. In modo particolare, è la tecnica musiva a trovarsi al centro di un’interesse crescente. Mario Sironi e Gino Severini sono due importanti testimoni di questa tendenza. Entrambi vogliono far rivivere la tecnica musiva, riprendendo la funzione didascalica che si evince dalle opere bizantine rimaste. Sironi studia i maestri antichi, soprattutto Giotto e i mosaici di Ravenna e li rielabora in chiave personale . Severini invece si concentra sulla tecnica e sulla trattazione teorica, che espone in Ragionamenti sulle arti figurative nel 1936. “L’oro di Fontana è una materia ancora vergine impastata con fango. Scava una montagna per trovare una pepita”. L’uso dell’oro fin dalla metà degli anni venti assume per Fontana un valore particolare. È un colore molto utilizzato da Adolfo Wildt, suo maestro all’Accademia di Belle Arti di Brera. Fontana lo riprende e lo usa sia per le fusioni in bronzo, sia sulle opere create in gesso o terracotta, sulle quali per coprire il materiale originario Fontana stende il colore oro in una patina luminosa e cangiante che diventa “elemento primario dello sviluppo plastico”. L’oro è il mezzo con il quale Fontana si riferisce a una spazialità metafisica, lontana dalla realtà. Con l’utilizzo di tale colore il modo tradizionale di creare statue si arrichisce del valore di una ricerca spaziale innovativa per l’epoca. Questa dimensione spaziale innovativa viene creata dalla luce che l’oro veicola. Nel retro di un’opera del 1964 Fontana scrive: «L’oro è bello come il sole». Per Fontana la bellezza dell’oro è la stessa bellezza della luce, elemento che appunto trasfigura la materia e ne caratterizza la spazialità. L’oro quindi non è solamente un ornamento, ma “diventa una pura emanazione di luce in un processo che tende a sottrarre la scultura dalla seduzione della materia”. Tale principio estetico, basato su una trasfigurazione della materia nella luce, in una sorta di metafisica della materia, trova un precedente nell’utilizzo dell’oro da parte dei maestri bizantini, che con esso ottengono una valida soluzione formale per la realizzazione delle loro opere. Oltre che ad avere una funzione spaziale, dichiarata già dai titoli, serve come indizio per ipotizzare le fonti dalle quali Fontana ha preso spunto per realizzare le tele. I rimandi più immediati di opere che nella città lagunare utilizzano ampiamente questo materiale prezioso sono i mosaici bizantini presenti nella basilica di San Marco e la Pala d’Oro. Ma nel contempo Il percorso espositivo, che si dipana tra opere che, per assonanze tecniche ed estetiche, propongono nuovi confronti, suggestioni e prospettive, spalancando inediti orizzonti di interpretazione, si apre con la straordinaria collezione di “fondi oro” della Galleria Nazionale dell’Umbria nella quale ben si inserisce il capolavoro seminale di Michelangelo Pistoletto, Autoritratto orodel 1960. Si tuffa quindi nel XIII secolo quando il Maestro di SanFrancesco introdusse nella pittura su tavola raffinatissime tecniche di lavorazione della foglia d’oro. La sua Deposizione del dossale di San Francesco al Prato è accostata al Monochrome sans titre realizzato da Yves Klein per il santuario di Santa Rita da Cascia, per il medesimo afflato spirituale e l’uso del purissimo blu oltremare che li caratterizza. Con Duccio di Boninsegna si assiste a una ulteriore evoluzione in termini di complessità ed eleganza di queste abilità di lavorazione dell’oro, che interessa la stagione più fulgida dell’arte senese nella prima metà del Trecento, quando si raggiungono anche nell’oreficeria dei vertici insuperati di virtuosismo e finezza. La sua Madonna col Bambino e sei angeli(1304-1310), immagine di nascita e morte, confermata dall’ansia del bimbo che cerca gli occhi della madre, dal velo leggero che lo avvolge prefigurando un sudario e dallo sguardo severo della Madonna consapevole del destino del Figlio, dialoga con il Concetto spaziale su fondo oro di Lucio Fontana, proveniente dalla Fondazione Prada di Milano, che appare come una diretta evocazione della potenza simbolica dell’icona, rafforzata dal gesto umano della lacerazione sulla tela. Seguono due magnifici reliquiari: quello di santa Giuliana di Cataluccio di Pietro da Todi, che conteneva il cranio della martire e accoglie invece in questa occasione la testina femminile dorata di Marisa Merz che conserva il potere e il sapore di una reliquia, estrema traccia pagana che resiste nella liturgia cristiana, equello di Montalto, attribuito a Jean duVivier, manufatto di pregiatissima fattura di oreficeria francese della fine del XIV secolo, appartenuto in passato a Carlo V di Valois e Lionello d’Este e donato poi da Sisto V alla cittadina marchigiana d’origine, che si affianca all’ex-voto che Yves Klein dedicò a Santa Rita da Cascia, donatodall’artista francese al convento delle Agostiniane della cittadina umbra, quale ringraziamento per aver superato una delicata operazione al cuore; entrambi i lavori sono caratterizzati dall’abbinamento dell’oro con lo smalto traslucido, tecnica estremamente elaborata messa a punto proprio a Siena sul calare del Duecento. L’apice della ricercatezza e dello splendore, per l’uso dell’oro nelle arti, si consegue all’inizio del Quattrocento con la piena maturazione del gusto tardogotico, di cui è prova luminosa la Madonna col Bambino di Gentile da Fabriano, con l’evanescente apparizione dei suoi angeli graniti che evoca l’altrettanto incorporeo Sacerdote di Michelangelo Pistoletto, schiacciato in una bidimensionalità bizantina, protetto da un’architettura goticheggiante che si staglia sull’oro del fondo; lo stesso che pian piano crescerà in una serie di autoritratti dagli effetti sempre più riflettenti, come evidente precursore dei quadri specchianti. Proseguendo nel percorso storico, il più rustico Maestro del Trittico del Farneto, che muove proprio dai modelli di Gentile, orchestra intorno ai temi della morte e della fine dei tempi una composizione dai complessi significati simbolici, in cui i motivi della stella e dei dardi suscitano un accostamento suadente con l’opera di Gilberto Zorio Stella di giavellotti, icona per eccellenza nel vocabolario visivo dell’artista piemontese, simbolo magico ed esoterico che attraversa le culture, con le punte che simboleggiano i cinque elementi metafisici di Aria-Acqua-Terra-Fuoco-Spirito. Sono ancora suggestioni visive, semantiche e iconografiche a ispirare dialoghi come quello fra la bellezza smaterializzata della Golden Marilyn 11.40 di Andy Warhol e l’Angelo dalla Pala dei cacciatori di Bartolomeo Caporali, l’Oroblu (Oriente) di Carla Accardi e il manto in tessuto operato della Madonna col Bambino del Maestro della Madonna di Montone, o LaMaddalena tutta “mentale” di Fausto Melotti e la santa dalle lunghe chiome e dalle vesti opulente dipinta da Taddeo di Bartolo per il Polittico di San Francesco al Prato. Tra le associazioni più liriche, spicca quella fra la Crocifissione della Pinacoteca Comunale di Terni di Niccolò di Liberatore, in cui la nota dominante è il nero, colore del lutto e della disperazione, e la Tragedia civile di Jannis Kounellis,dove un attaccapanni che si staglia davanti a una parete ricoperta da lamina dorata conserva un cappello e un cappotto nero, evocando una tragedia e diventando simbolo della presenza dell’uomo nella storia. Di questa opera saranno esposte per la prima volta insieme le due versioni, una realizzata nel 1975, proveniente dal Kolumba,il Museo d’Artedell’Arcidiocesi di Colonia (Germania), l’altra realizzata nel 2009, di proprietà della Galleria Alfonso Artiaco di Napoli. Nel momento del passaggio fra Medioevo e Rinascimento, in ossequio al principio dell’arte quale mimesi della natura, la foglia d’oro scompare dagli sfondi dei dipinti per essere progressivamente confinata in parti marginali e accessorie della figurazione, come le aureole, per poisvanire quasi del tutto.Restano però alcune singolari eccezioni, come la produzione dell’eccentrico Bernardino di Mariotto, che nel Cinquecento inoltrato continua a distribuire copiosamente nelle sue opere lamine baluginanti e dettagli in gesso rilevato e dorato, ad esempio nell’Incoronazione della Vergine, abbinata nel percorso espositivo al Diadema di Giulio Paolini. In epoca moderna il più prezioso dei metalli continua a essere utilizzato diffusamente in altre tecniche artistiche, anche al di fuori dell’ambito dell’oreficeria, come nella miniatura, come dimostrato dalle magnetiche visioni di Cesare Franchi detto il Pollino, rilette in chiave attuale da Elisa Montessori. Oppure nell’arte tessile, dove abbonda l’uso dell’oro nella moda delle classi più elevate e soprattutto nei paramenti liturgici. Particolarmente esemplificativo, a questo proposito, è il dialogo tra gli Scarabei stercorari di Jan Fabre, con i loro simboli cristiani, e lo splendido piviale ricamato appartenente al cinquecentesco parato Armellini del Museo del Capitolo della Cattedrale di San Lorenzo. L’allestimento è un’evoluzione del progetto realizzato a Venezia in cui la stella come forma chiusa, che consentiva di ammirare i confronti tra coppie di opere girando intorno alla struttura, si apre al visitatore attraendolo verso il fulcro ideale, dove è l’unico confronto in cui un’opera si compenetra nell’altra, e da qui poi proiettandoloverso l’esterno, come spinto da una forza centrifuga, che gli consente di muoversi liberamente in ogni direzione verso l’incontro con tutti i capolavori della mostra. L’astro è interpretato come simbolo primordiale di luce dorata e brillantezza che si riflette in tutti i piani dello spazio, da quello orizzontale con la stella esplosa, visibile anche dall’alto grazie all’affaccio verso la sala, al verticale con l’opera di Zorio, che reitera nuovamente la forza simbolica della forma nella sua semplicità e armonia. Accompagna la mostra un catalogo Silvana Editoriale con testi di Josè Tolentino de Mendonça, Simone Casini, Costantino D’Orazio, Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli, Carla Scagliosi, Antonino Tranchina, Alessandro Vanoli.
Galleria Nazionale dell’Umbria Perugia
L’Età dell’Oro
dal 26 Ottobre 2024 al 19 Gennaio 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 8.30 alle ore 19.30
Lunedì Chiuso
L’ Età dell’ Oro crediti Marco Giugliarelli – Galleria Nazionale dell’Umbria