Giovanni Cardone
Fino al 12 Gennaio 2025 si potrà ammirare alla Galleria Modernissimo Bologna una retrospettiva dedicata al grande Vittorio De Sica – Tutti De Sica. Regista & interprete a cura di Gian Luca Farinelli un excursus approfondito sulla vita e la carriera di Vittorio De Sica, a 50 anni dalla sua scomparsa. L’esposizione è prodotta e sostenuta dalla Cineteca di Bologna con il contributo di istituzioni come il Comune di Bologna, la Regione Emilia-Romagna e il Ministero della Cultura, insieme a sponsor come Gruppo Hera e BPER Banca. In mostra immagini uniche sul e fuori dal set, oggetti di culto, documenti personali: il baule dei ricordi dei figli Emi, Manuel e Christian De Sica vengono esposti nei rinnovati locali della Galleria Modernissimo per rileggere la vita e l’arte di uno dei Maestri del ‘900. La mostra comprende una ventina di manifesti originali, centinaia di fotografie provenienti dagli archivi privati dell’artista, dei figli e di Giuditta Rissone, video, costumi, preziose lettere con i grandi artisti dell’epoca, l’incontro con Chaplin, la collaborazione con Zavattini, gli Oscar che hanno suggellato i suoi film, la bicicletta più famosa della storia del cinema. Oggetti che raccontano il Vittorio De Sica regista e attore, ma anche cantante e uomo di spettacolo, così come il De Sica privato, le sue due famiglie, l’amore per la prima moglie Giuditta Rissone e quello per la seconda, Maria Mercader. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Vittorio De Sica apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che nell’immediato secondo dopoguerra, De Sica si è fatto coinvolgere come attore in pochissimi progetti. Tra la fine della guerra e il 1952, prima di farsi sempre più interprete della scioltezza propria del carattere nazionale, ha scelto in maniera molto oculata i ruoli da interpretare in film spesso drammatici, che raccontano varie facce del Paese: un’Italia in crisi come in Roma città libera di Marcello Pagliero e Abbasso la ricchezza! di Gennaro Righelli, entrambi del 1946 un’Italia internamente divisa come nello Sconosciuto di San Marino di Michael Wasziński, del 1948; ma anche un’Italia caratterizzata da un eroismo “antico” come nel Cuore di Duilio Coletti, prodotto nel 1947 e uscito in sala nel 1948. Tutti film che dimostrano da parte dell’attore una chiara progettualità a incarnare personaggi carichi di esperienza, che hanno attraversato la Storia e che devono fare i conti con essa. L’onorevole che in Roma città libera si aggira per le strade di una inedita Roma notturna e che si chiede, guardandosi allo specchio, «Chi sono io?», incarna la crisi di identità di una intera generazione che si interroga sull’eredità lasciata ai propri figli. Sono molti gli studi che hanno ripercorso la storia di un concetto tanto immediato quanto elusivo come quello di italianità . In particolare, risulta utile per una riflessione su performance attoriale e italianità lo studio di Silvana Patriarca, che ha insistito sul nesso tra cultura popolare e carattere nazionale, in quanto tale distinto dall’identità. Se alcuni tratti del carattere nazionale messi in scena dal cinema diventano più omogenei nei primi anni Cinquanta, è negli anni tra il 1946 e il 1948 che bisogna cercare, anche al di là del neorealismo, la rappresentazione di uno smarrimento della nazione e di un’ansia per il vuoto di identità collettiva nel quale sono piombati, senza rete, gli italiani. Non a caso, i pochi film interpretati da De Sica in questi anni sono caratterizzati da un fondo di cupezza che dice molto della trascrizione del senso di incertezza di un’intera nazione. Solo Cuore sembra voler colmare questo senso di mancanza, riproponendo un classico per la formazione dell’identità nazionale come il romanzo di De Amicis. Cuore aveva infatti trascritto in romanzo esemplare la necessità di unificare il Paese da un punto di vista culturale e antropologico, come ha ribadito la stessa Patriarca, che nel suo libro sottolinea la «missione civilizzatrice» presente sia in Cuore che nel Pinocchio di Collodi, edito nel 1883.
Sceneggiato da Oreste Biàncoli, Adolfo Franci, Gaspare Cataldo e un non accreditato Vittorio De Sica, Cuore di Duilio Coletti riattiva questa caratteristica del romanzo e la proietta su un duplice fronte: quello interno, dove si tratta di ri-fare gli italiani, e quello esterno, per rifondare un’identità nazionale da proporre a livello internazionale. È un film in cui De Sica si presenta come figura propositiva e autorevole, un’ideale figura ‘paterna’ che incarna a livello di immaginario cinematografico un progetto di ricostruzione identitaria. Qualche dato e qualche data aiutano a capire l’operazione politica proposta dal film. Per prima cosa, va sottolineato che non si tratta tanto di un adattamento del romanzo quanto di un omaggio a De Amicis e al suo socialismo umanitario, in coincidenza forse non casuale con il centenario della nascita dello scrittore, celebrato nel 1946. Oltre a Cuore, gli sceneggiatori riprendono infatti una serie di altri racconti di De Amicis e soprattutto modificano in modo decisivo l’impianto cronologico della vicenda, affrontando un segmento molto più ampio della storia patria che giunge fino al presente. Il film si apre con una cornice memoriale, collocata a ridosso del secondo dopoguerra, che ovviamente non ha alcun riscontro nel romanzo di De Amicis: un anziano Errico Amici, durante un tragitto in tram, si imbatte casualmente in una pagina della «Stampa» che dedica un ricordo alla maestrina dalla penna rossa. Sarà quindi il successivo incontro tra i due, mediato dai ricordi della maestrina e da quelli di Errico, a rievocare in flashback tutta la vicenda, che prende avvio a metà degli anni Novanta dell’Ottocento e che procede su una cronologia più avanzata rispetto a quella del libro, pubblicato nel 1886. È uno scarto temporale che permette agli sceneggiatori di inserire nel film fatti storici e contenuti politici, con un’originale contaminazione tra il livello di realtà dell’autore e il livello finzionale che intreccia liberamente romanzo e trasposizione cinematografica. Nel film, l’attenzione si sposta infatti decisamente dall’apprendistato dei bambini alla figura del maestro, nel quale confluiscono i tratti del personaggio Perboni e quelli dello stesso De Amicis, nella sua duplice veste di scrittore e uomo politico. Basta dire che, nel film, il discorso tenuto da Perboni in occasione del Primo Maggio è costruito sui discorsi pubblici tenuti da De Amicis in varie occasioni a partire dal 1890. È dunque il maestro, in quanto figura animata non solo da intento pedagogico-culturale ma anche schiettamente politico, a parlare, attraverso la tessitura del film, di una Italia tutta da rifondare. In lui torna l’anelito risorgimentale all’unità culturale della nazione, centrale in tanti discorsi sull’identità italiana dopo la Liberazione . Ma attraverso di lui emerge anche un impegno politico più diretto e orientato: così il maestro del film di Coletti si firma Spartacus sul settimanale socialista «Il Risveglio», pubblicando articoli contro la guerra in Africa che definisce in più occasioni e senza mezzi termini una guerra di conquista. Lo fa ad esempio in un dialogo con il tenente dei bersaglieri Gardena: «Invece di mandare la gente a morire in Abissinia, invece di spendere decine di milioni per il prestigio della patria, farebbero bene a costruire scuole e a combattere la miseria». Malgrado ciò, non si sottrae al suo dovere di italiano nel momento in cui viene richiamato alle armi proprio per combattere contro Menelik ad Adua, battaglia nella quale troverà la morte. L’operazione del film è dunque eminentemente politica: Perboni-De Sica convoglia una molteplicità di discorsi legati alla ricostruzione identitaria nazionale, in quanto figura che incarna un eroismo italico precedente alla virilità marziale fascista, capace di recuperare un patriottismo di matrice non nazionalista. L’operazione non sfugge a un quotidiano come l’«Avanti!», che dedica grande attenzione al film e alla figura di De Amicis e che, nel novembre del 1948, pubblica un ritratto di De Amicis, Socialismo del “Cuore” di Edmondo De Amicis, a firma di Berto Berti, che ricorda un discorso agli operai del 1890 nel quale lo scrittore si definì socialista, subendone le conseguenze . Il discorso politico di Perboni è il momento in qualche modo apicale del film di Coletti. È la scena in cui risulta più evidente quanto De Sica utilizzi in questo film uno stile di recitazione che rasenta l’immedesimazione, mirando al coinvolgimento emotivo dello spettatore e al suo rispecchiamento nei valori proposti dal personaggio. La recitazione dell’attore avrebbe una funzione maieutica, dunque, perseguita anche dal maestro: educare i fanciulli ed educare gli italiani sono ancora tutt’uno, come nei dibattiti appena successivi alla formazione dello stato unitario . Per questa interpretazione De Sica ha vinto il suo unico Nastro d’Argento come miglior attore protagonista, sia per l’importanza simbolica rivestita dal personaggio, sia per l’adesione dell’attore al personaggio: «Vittorio De Sica – nel giudizio di Gian Luigi Rondi – incardina nella sua figura e nella recitazione “quanto di meglio, di duraturo e di onesto il passato ha trasmesso all’anima italiana” e che “i tempi nuovi hanno fatto con più fervore lievitare”». Nel complicato contesto storico-politico del secondo dopoguerra, questa riscrittura originale del romanzo di De Amicis assume insomma una duplice valenza, non priva di ambiguità ideologiche: non solo richiamare un passato italiano eroico, che tende idealmente a ricongiungere gli ideali risorgimentali a quelli resistenziali, ma anche alimentare una tipica tendenza all’auto-assoluzione, anch’essa iscritta nel nostro carattere nazionale, con Perboni che va in guerra malgrado i suoi ideali e che sembra voler sollevare gli italiani, in termini simbolici, dalla responsabilità di aver combattuto una guerra ingiusta dall’esito catastrofico. L’«anima italiana» risvegliata dalla Resistenza avrebbe così una matrice preesistente al fascismo che va recuperata per rifondare la nazione. Solo un decennio dopo, mentre l’Italia procede verso il Boom, le cose sembrano profondamente cambiate. Il 1957 è l’anno di Amore e chiacchiere (Blasetti), un film sintomatico di come l’attore De Sica il suo corpo, la voce, lo stile di recitazione incarni compiutamente il modello di italianità ormai veicolato dall’immaginario cinematografico. Il tentativo di ricostruire una nuova identità nazionale, addirittura di recuperare una forma di eroismo civile è ormai tramontato. Di quel progetto resta poco più che una caricatura, i tratti costanti di un carattere nazionale ridotto a macchietta e stereotipo, l’immagine abituale e addomesticata degli italiani brava gente, creativi e sognatori. Anche lo slancio verso una rinnovata fiducia nelle istituzioni, tanto più necessaria dopo la nascita della Repubblica e la ricostruzione del Paese, si affievolisce nell’inerzia di un popolo concentrato sul particulare, spesso compiaciuto della propria furbizia, capace di trasformare in ‘arte’ del singolo un’antica insufficienza collettiva: appunto l’arte di arrangiarsi. In questo quadro, la commedia diventa sempre più uno specchio delle consuetudini e del costume nazionale, con uno sguardo antropologico che indaga e riflette alcuni tratti del carattere ma che ha perso qualunque slancio progettuale in termini di identità. I ruoli interpretati da De Sica negli anni Cinquanta raccontano una Italia e un Italiano che ritornano al passato. L’avvocato truffaldino, il padre incapace di educare i suoi figli, il politico che abusa del suo potere sono ruoli ricorrenti e che vedono un aumento di frequenza crescente mentre il Paese avanza verso il suo Miracolo. A conferma che l’avvocato di Il processo di Frine, ruolo che l’attore in un primo momento non voleva interpretare, dà l’abbrivio a un De Sica sempre più incarnazione dei pregi e difetti del carattere nazionale, arriva poco dopo il corpulento e bonario Maresciallo dei Carabinieri Antonio Carotenuto, protagonista della serie dei Pane, amore… (1953-1959). Carotenuto incarna un’autorità che, di film in film, si fa sempre più inaffidabile, incapace a gestire il suo ruolo pubblico e la sua autorevolezza: dal maestro Perboni-De Amicis, padre dei discepoli e sorta di padre della patria, passiamo al Maresciallo che all’occasione sa chiudere un occhio sulla legge, al dongiovanni impenitente che non diventa mai uomo. L’avvocato Azzeccagarbugli altra figura appartenente all’immaginario in negativo del carattere nazionale, diventa un altro ‘tipo’ costante interpretato da De Sica. Rispetto ad altri film in cui interpreta lo stesso ruolo, in questo caso, dalla penna di Cesare Zavattini e con la complicità di Alessandro Blasetti, nasce un avvocato che appare come la sintesi totale dei vizi e delle virtù attribuiti atavicamente agli italiani: Vittorio Bonelli, protagonista di Amore e chiacchiere, è infatti un personaggio in cui il nesso tra retorica, politica, autorità paterna e italianità si chiarisce ulteriormente. E si chiarisce anche lo stile di recitazione di un attore che, con sempre più palese autoironia straniata, enfatizza i tratti tipici del personaggio. De Sica è esecutore di questi personaggi ma, allo stesso tempo, mostra anche di osservarli dall’esterno, aiutando così lo spettatore ad esercitare il suo giudizio critico. Questa sorta di distacco, col passare degli anni, si confonde sempre di più con la cautela dei personaggi stessi, che esibiscono tratti ambivalenti, enfatizzando una linea pirandelliana che, come ha più di recente sottolineato Roberto De Gaetano, attraversa tutto il cinema nazionale. Senza riassumere interamente la trama del film, è bene però ricordarne alcuni ingredienti: l’ambientazione a Matorno, una località d’invenzione che ricorda la Sagliena di Pane, amore e fantasia; i conflitti genitori-figli che si dipanano secondo traiettorie consuete, come l’opposizione al matrimonio interclassista anche da parte del genitore, appunto Bonelli, che si dichiara progressista e di sinistra; la corsa verso il benessere economico del paese incarnata dal protervo imprenditore (un grande Gino Cervi); le ingiustizie sociali che non favoriscono i soggetti deboli, come gli anziani di un ospizio mai ricostruito dopo la guerra. In questo contesto da neorealismo rosa, Vittorio Bonelli si trova a passare da membro dell’opposizione a sindaco, e il suo spropositato egocentrismo insieme all’ambizione alla notorietà pubblica lo fanno scendere facilmente a patti con la sua coscienza. Il politicante trasformista è l’obiettivo dello sguardo satirico di Cesare Zavattini per il quale Bonelli è sicuramente parte di una critica all’arte della parola come efficace mezzo di suggestione dei semplici, oltre che come strumento della vanità personale. Nel mirino ci sono l’ipocrisia e la malafede del Potere, insomma, che si auto-rappresenta diverso da ciò che è, e indossa costantemente una maschera senza che essa sia visibile. Il sottotitolo del film (Salviamo il panorama), messo, così, tra parentesi, inscrive già nel titolo una riflessione sulle tante speranze deluse dal secondo dopoguerra, comprese quelle del cinema italiano e della stagione del neorealismo, che proprio della riscoperta del paesaggio italiano aveva fatto uno dei suoi principi ispiratori. È importante scoprire che uno dei primi titoli del film doveva essere quattro passi sotto le nuvole con un chiaro riferimento a Quattro passi tra le nuvole di Blasetti del 1943, considerato da molti un film anticipatore del neorealismo. Zavattini, Blasetti e De Sica fanno squadra come numi tutelari del cinema italiano e maestri del neorealismo. Ed è evidente come l’avvocato Vittorio Bonelli sia stato scritto, fin dal nome proprio che il personaggio porta, pensando a Vittorio De Sica, come si evince con estrema chiarezza da Il raccontino del soggetto presente tra le carte d’archivio del regista. Sono tanti, dunque, i tratti caratteristici dell’attore che troviamo nel personaggio, dal sorriso affabile alla sua capacità vocale, passando per l’origine meridionale, poi conservata nel film, anche se l’ambientazione si è spostata più a Nord. La sceneggiatura ebbe una lunga gestazione, dal 1954 al 1957, un processo che si può ricostruire grazie a soggetti, sceneggiature, lettere private e commerciali presenti nel Fondo Blasetti. E proprio a proposito di cinema e identità italiana il film assume un interesse particolare per come il soggetto originario di Zavattini sia andato progressivamente a convergere con le nuove tendenze della commedia all’italiana. Le note sulla sceneggiatura di Aldo Paladini e Virgilio Tosi dimostrano come il film contribuisca a sancire il definitivo passaggio dal neorealismo rosa alla commedia all’italiana. In particolare, i due commentatori sottolineano come la presenza della voce di uno speaker che fa da cornice al racconto sia fuorviante perché fa pensare ad una narrazione neorealistica, mentre il film è una commedia di costume. In maniera speculare, criticano il finale del film, troppo bonariamente ottimista, che va verso un «abbraccio universale e indiscriminato» colpevole di eliminare ogni tipo di riflessione sul conflitto sociale. Riprendendo il giudizio sulla sceneggiatura di un lettore consapevole come Luigi Chiarini, si capisce come, a suo parere, l’arma per salvare l’obiettivo critico del film possa essere solo la recitazione dell’attore. Senza la particolare forma di adesione e distacco dal personaggio che De Sica matura forse anche passando per la regia nel corso degli anni Cinquanta, senza quel suo stile particolarissimo che lo portava ad osservare il personaggio mentre era intento ad interpretarlo, il film avrebbe perso del tutto la sua valenza critica, perché, visto il finale assolutorio, non sarebbe riuscito a sottolineare la «discrepanza tra parole e atti», vizio imperituro della politica nostrana. Dopo il tentativo di ricostruzione di una identità nazionale, il corpo di De Sica ha così accompagnato gli italiani e il loro cinema verso gli anni Sessanta, decennio sostanzialmente di crisi, in cui la partita identitaria sembra perdersi, in attesa che un nuovo afflato collettivo, esploso poi col 1968, sposti l’ottica dall’identità nazionale alla formazione di nuovi soggetti politici, nuovi attori sociali che si muoveranno su un piano collettivo e in uno sfondo internazionale. La mostra Tutti De Sica si propone di andare oltre l’immagine semplificata e spesso stereotipata di Vittorio De Sica, restituendo una visione più sfaccettata della sua personalità e del suo talento multiforme. Da qui anche il titolo dell’esposizione che suggerisce le sue centomila vite, i suoi centomila personaggi.
La mostra è suddivisa in dodici sezioni :
Dal primo successo con Mario Mattoli e la sua impresa di spettacoli Za Bum che porta al varietà la rivista Lucciole della città (giocando sul Chaplin, in sala proprio all’inizio degli anni Trenta, di Luci della città) alla popolarità raggiunta con le incisioni discografiche (basti citare Parlami d’amore, Mariù); il passaggio dagli anni Trenta, destreggiati tra teatro e cinema (Il signor Max è del 1937) agli anni Quaranta che lo vedono imporsi come regista e padre del Neorealismo: magnifica la sequenza fotografica che vedremo in mostra, raccolta sul set di I bambini ci guardano (1943), testimonianza di grandissima forza visiva nel mostrare il suo talento unico nella direzione degli attori non professionisti; la stagione del Neorealismo con i quattro capolavori Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1950), Umberto D. (1952) e il rapporto con la politica (e con la figura di Andreotti) in un’Italia che cambia a cavallo degli anni Cinquanta; il sodalizio con Cesare Zavattini e quello con Sophia Loren; e così seguendo il filo delle sue vite e dei suoi personaggi con la sezione Il piacere della maschera – Vent’anni di interpretazioni, fino a un’ultima sala dove trova spazio una riflessione sull’immensa eredità lasciata da Vittorio De Sica. Vittorio De Sica amava dire : “Uno e centomila. Parafrasando così un emblema del Novecento italiano (e del Novecento tout court), quel Pirandello narratore senza pari delle molteplicità individuali, sembra svelare il segreto di un altro simbolo dell’arte novecentesca italiana e, anche questa volta, del mondo intero.”
Biografia di Vittorio De Sica
Regista e attore. Cresce in una modesta famiglia in Ciociaria, a metà strada tra le due città della sua vita: Napoli e Roma. Si diploma in ragioneria e prima di entrare nel mondo del teatro, ancora giovanissimo, lavora alla Banca d’Italia. Debutta in teatro a sedici anni alternando lavori vari per mantenere la famiglia. Negli stessi anni debutta anche nel cinema con una piccola parte in ‘L’Affaire Clemenceau’ (1917), di Alfredo De Antoni. Nel 1923 entra nella compagnia teatrale di Tatiana Pavlova, interpretando ruoli di tipo macchiettistico che riscuotono un gran successo tra il pubblico. Nel 1932 ottiene il suo primo successo cinematografico interpretando Bruno nel film ‘Gli uomini… che mascalzoni!’, di Mario Camerini, un trionfo alla Mostra di Venezia. Nel 1933 fonda una compagnia teatrale con Giuditta Rissone, che diventerà sua moglie nel 1938. Subito dopo nasce la prima figlia Emy. L’esordio alla regia è del 1940 con ‘Rose scarlatte’, di cui è anche protagonista. Il film della svolta della sua carriera, che segna l’inizio della feconda collaborazione con lo sceneggiatore Cesare Zavattini, è ‘I bambini ci guardano’ (1943), la storia di una famiglia divisa vista dall’occhio di un bambino sballottato tra genitori e parenti. Nel dopoguerra dirige due opere che figurano tra i capolavori del neorealismo: ‘Sciuscià’ (1946) e ‘Ladri di biciclette’ (1948), che vincono entrambe l’Oscar speciale, successivamente sostituito dal premio per il miglior film straniero. Nel 1951 gira ‘Miracolo a Milano’ che si aggiudica la Palma d’oro a Cannes. L’anno dopo realizza un altro dei suoi capolavori, ‘Umberto D’, considerato dalla critica il punto più alto della sua opera. Nella seconda parte della sua carriera, De Sica sposta il suo interesse sulla commedia folkloristica dai toni leggeri. Dirige ‘L’oro di Napoli’ (1954), interpretato da Totò, Eduardo De Filippo e Sophia Loren. Nel 1960 sceglie la Loren per interpretare il ruolo della protagonista ne ‘La Ciociara’, tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia. Con questa interpretazione l’attrice vince il premio Oscar e la Palma d’oro del festival di Cannes come migliore attrice. De Sica vince altri due Oscar con ‘Ieri, oggi, domani’ (1963) e con ‘Il giardino dei Finzi Contini’ (1970). Separato dalla prima moglie, il regista ottenuta la cittadinanza francese, sposa nel 1968 l’attrice spagnola Maria Mercader dalla quale aveva già avuto i figli Manuel (compositore) e Christian (attore e regista). Muore a Parigi dopo un’operazione per asportare un tumore polmonare.
Cineteca Bologna – Galleria Modernissimo
Vittorio De Sica – Tutti De Sica. Regista & interprete
dal 1 Ottobre 2024 al 12 Gennaio 2025
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 14.00 alle ore 20.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Martedì Chiuso
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