Giovanni Cardone
Fino al 12 Gennaio 2025 si potrà ammirare a Castel Sant’Angelo Roma la mostra dedicata a Marcello Mastroianni, “Mastroianni, Ieri , Oggi, Sempre” a cura di Gian Luca Farinelli. L’esposizione promossa dall’istituto Pantheon e Castel Sant’Angelo – Direzione Musei nazionali della città di Roma del Ministero della Cultura, l’esposizione con il patrocinio della Regione Lazio, ed è organizzata da Civita Mostre e Musei in collaborazione con Fondazione Cinema per Roma, Cineteca di Bologna, Archivio Storico Istituto Luce, Biblioteca Museo Teatrale SIAE, Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Rai Teche e con il contributo di archivi privati. Questa mostra tributo dedicata al grande Marcello Mastrianni in occasione dei suoi cento anni dalla nascita evento ufficiale della diciannovesima Festa del Cinema di Roma, imperdibile per tutti gli amanti del cinema italiano e della fotografia d’autore, raccoglie una straordinaria collezione di scatti fotografici che ripercorrono la carriera e la vita della grande leggenda del cinema italiano, uno degli attori più iconici del nostro tempo e simbolo della “Dolce Vita”. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Marcello Mastroianni e del Cinema Italiano apro questo mio saggio dicendo : Molti scrittori e critici tra cui anche io, si sono lungo il tempo interrogati sulla figura di Marcello Mastroianni per cercare di cogliere le spinte e le energie sottese che attraversano il corpo dell’attore e che lo rendono sotto molti aspetti eccezionalmente rivelatore. Mediante le analisi dei film che lo hanno visto protagonista o semplice comparsa, ma anche attraverso la lettura dei paratesti, cercheremo dunque di far emergere i fattori che a nostro avviso hanno reso l’attore, più di altri, un corpo simbolico, rimando implicito e inesauribile discorso. Discorso sul contesto di appartenenza ma non solo, il corpo della star dice qualcosa di sé a seconda di come viene interpellato. Ci sembra dunque che la figura di Marcello Mastroianni possa essere osservata con quell’ottica postmoderna che fa dell’attore un ideale contenitore in grado di avvicinare e rimescolare differenti contesti, influenze, ruoli. A nostro avviso i personaggi interpretati da Mastroianni possono infatti essere letti come «copie prive di originali o i cui originali sono del tutto perduti, introvabili, indifferenti». Si potrebbe pertanto osservare la lunga e variegata carriera dell’attore di Fontana Liri tentando di interrogare le immagini a esso legate come un’inesauribile fonte di significati, dove questi ultimi sarebbero portati in superficie proprio dall’accostamento, dal legame – reso infine malleabile – che viene a crearsi tra tempi e spazi lontani. Seguendo questa logica il presente capitolo vorrebbe soffermarsi in prima istanza sugli albori di Mastroianni, poiché sono questi gli anni in cui il corpo dell’attore è in fase di scrittura, in cui cioè si verificano interessanti accostamenti per quanto riguarda il doppiaggio ma anche per quanto concerne i partner ai quali viene affiancato. Dall’esordio e per tutti gli anni Cinquanta, a nostro avviso, il corpo dell’attore diviene oggetto di quelle che Pitassio definisce «operazioni di dominio, correzione e idealizzazione del corporeo». Tali operazioni, presenti massicciamente soprattutto all’interno dello star system hollywoodiano, non sono però del tutto assenti nel panorama nostrano, e al contrario, in termini non del tutto canonici, sono ravvisabili anche in Marcello Mastroianni. All’occhio dello spettatore moderno il corpo dell’attore agli albori risulta acerbo e incongruente, lontano dall’idea stratificata e complessa che se ne ha oggi. La si potrebbe definire una «figura in atto, una figura incerta, sospesa, che si sta formando, che sta apparendo. Che si sta “presentando”, e non “rappresentando”». Le prime immagini dell’attore danno in sostanza l’idea di una presenza assemblata, dalla quale è possibile scindere facilmente le diverse componenti che la costituiscono. Ed è proprio grazie a queste immagini incerte e di incontrastata purezza cui Mastroianni non è forse più tornato, che è possibile individuare la complessa trasformazione da forma naturale, a forma culturale. Come è noto, la carriera di Marcello Mastroianni ebbe inizio sul palcoscenico. Soltanto dopo le prime performance da professionista dirette dal regista Luchino Visconti l’attore farà il suo debutto sul grande schermo. Nel 1950, in seguito alle prime apparizioni – sovente non accreditate – è Luciano Emmer a offrirgli quello che è unanimemente ritenuto il primo vero ruolo cinematografico dell’attore. Tra i titoli del regista milanese prenderemo in esame alcuni titoli che videro la partecipazione di un giovanissimo Mastroianni e che furono parimenti frutto del fortunato sodalizio tra Emmer e lo sceneggiatore e produttore Sergio Amidei: Domenica d’agosto del 1950 e il fortunato Le ragazze di Piazza di Spagna del 1952. Domenica d’agosto è un caso esemplare nella cinematografia italiana del dopoguerra. L’innovazione che su tutte innalza il film di Emmer a modello nonché ad antesignano di un fenomeno risiede sicuramente nell’abile intreccio di storie e nell’inseguimento dei protagonisti principali nel corso di una giornata apparentemente ordinaria. I cinque grandi fili della narrazione danno vita ad una coralità amplificata, viva, energica e aperta alle intrusioni di ulteriori personaggi, i quali deviano il naturale svolgimento della storia per creare nuovi e inattesi intrecci. La coralità, ci sembra, è stata spesso utilizzata dal regista milanese per sottolineare la vitalità propria del racconto stesso, inteso come intreccio di avvenimenti fortuiti, nuove e inaspettate opportunità o sfortunati inconvenienti. È visibile infatti, in Emmer, il piacere per il racconto – suggerito in alcuni film anche dalla voice-over di un narratore onnisciente e per una evoluzione circolare degli eventi; incipit e finale del film vengono spesso a coincidere spazialmente (Roma in agosto, Piazza di Spagna ecc.), ma ciò che ha cambiato il modo di percepire i luoghi nella mente dei personaggi e degli spettatori è lo spostamento, l’avvenimento inatteso che ha reso utile e vitale il racconto stesso. L’indubbia efficacia legata all’impianto corale di Domenica d’agosto ma soprattutto l’abilità nel tratteggiare differenti spaccati della società, a nostro avviso sono qualità debitrici di un resistente impianto iconografico che sottende all’intero film. Ogni racconto può essere visto infatti come un quadro in cui oggetti, abbigliamento, eloquio e mezzi di trasporto divengono richiami essenziali per la comprensione del côté di riferimento. Del resto, come ricorda Mary Douglas, è una prassi abituale «partire dal presupposto che tutti i beni materiali siano dotati di significati sociali e concentrare la parte principale dell’analisi di una cultura sul loro uso come strumenti per la comunicazione». Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, con l’inizio ufficiale delle trasmissioni televisive in Italia e soprattutto con il radicarsi e manifestarsi di una nuova identità generazionale, l’utilizzo-esibizione di determinati oggetti e beni materiali acquisterà poi ulteriori significati. Nel film di Emmer i dettagli divengono una chiave di lettura oltremodo rivelatrice, sia per quanto concerne l’estrazione sociale dei personaggi ma anche e più sottilmente per quanto riguarda il ruolo che essi hanno all’interno dell’intreccio: citiamo a mo’ di esempio il good bad boy Renato (Mario Vitale) in canottiera e capelli brillantati, sorta di Marlon Brando ante litteram, oppure la giovane Marcella (Anna Baldini) e il suo costume da bagno fuori moda, la ricca baronessa che scruta con occhio clinico l’abito della giovane popolana, o ancora la matrigna dispotica e profittatrice Ines (Pina Malgarini), la quale indossa quello che per l’epoca veniva considerato un audace costume a due pezzi. Ci sembra dunque che il film di Emmer tenga in considerazione gli abiti e la moda del tempo spingendosi oltre la semplice e necessaria filologia del costume. In Domenica d’agosto, infatti, alcuni personaggi giocano con la demistificazione del proprio ruolo e della propria personalità proprio attraverso e grazie all’assenza di un tratto distintivo rappresentato appunto dall’indumento. I giovani popolani, all’interno dello spazio delimitato della spiaggia, possono apparire figli di papà, mentre Luciana (Elvy Lissiak), giovane ragazza desiderosa di raggiungere il proprio riscatto sociale, può avvicinarsi a questo sogno indossando l’elegante costume da bagno prestatole dall’arrivista Roberto (Massimo Serato) e fare così colpo su chi potrebbe garantirle un futuro lontano dalla periferia romana. Ci sembra insomma che il film di Emmer possa per certi aspetti considerarsi un vero e proprio documento etnografico in grado di catturare esemplarmente l’atmosfera di un’epoca che oggi viene spesso superficialmente percepita in relazione a una staticità e rigidità di usi e costumi. Un ulteriore e rilevante aspetto che a nostro avviso merita di essere analizzato è l’attenzione per i mezzi di trasporto e locomozione in senso lato. Lo spostamento verso Ostia è infatti un espediente utilizzato per caratterizzare ulteriormente i personaggi e le loro storie; il treno affollato per la media-borghesia, la macchina sfasciata e mal funzionante del tassista che viaggia con la numerosa e sconclusionata famiglia, l’auto sportiva ed elegante del giovane mantenuto disonesto, o ancora il furgoncino malandato che non accenna a partire guidato dal fasullo uomo d’affari che millanta una certa familiarità con Via Veneto. La prima sequenza del film è dedicata al gruppo di ragazzi che si dirige a Ostia in bicicletta, tra i quali vi è Enrico (Franco Interlenghi), protagonista di una delle vicende principali. La prima inquadratura del film mette da subito in campo un bambino che stringe tra le braccia la colazione per il fratello maggiore. Il fanciullo, come attratto magneticamente, corre a cercare un goffo contatto con il mondo dei grandi, con la “Coca-Cola” che reclama sbracciandosi, ma soprattutto con la bicicletta, un mezzo prezioso che lo affascina e che necessita una cura e una attenzione particolari. Domenica d’agosto esce nelle sale nel 1950, a soli due anni da Ladri di biciclette Vittorio De Sica del 1948 ed è oggi impossibile osservare le immagini del film di Emmer senza che queste riportino alla mente il disperato incedere di Antonio Ricci e del figlio Bruno per le strade di Roma. La bicicletta è ancora l’oggetto al quale sono legate le sorti dei personaggi, ma a cambiare è, tra gli altri ovvi aspetti, la tipologia di riscatto perseguita. La Roma di Emmer è la città delle strade deserte, dei cittadini accaldati, delle persiane chiuse. La bicicletta è quindi il mezzo essenziale per sfuggire dalla noia della città e per rincorrere la novità rappresentata dal divertimento e dall’incontro con l’altro sesso; è il mezzo sportivo elaborato e non più essenziale e disadorno, è in sostanza la bicicletta «come quella di Fausto Coppi». Ed è proprio per questa assenza dell’essenziale che Domenica d’agosto è stato spesso semplicisticamente osservato come una parentesi conclusiva del neorealismo, una sorta di avvisaglia di quelle sfumature rosee che il cinema italiano assumerà da lì a poco. In questo «bagno delle cose» che porta la firma di Luciano Emmer, la camicia nera fascista viene utilizzata come straccio per asciugarsi il volto, la propaganda aerea si è trasformata in mezzo pubblicitario e i personaggi riutilizzano pericolosamente gli slogan mussoliniani senza ricordarne le origini. Tutti i protagonisti sembrano possedere l’essenziale, cosicché ogni impedimento si tinge di toni pacati e viene privato di qualsiasi tratto drammatico. Eppure il film di Emmer ha al suo interno diversi elementi tragici tra i quali spiccano certamente gli episodi che si svolgono a Roma, come a sottolineare la compresenza di due mondi: l’uno, quello balneare, anticipa l’incombente boom economico (e il conseguente sviluppo del filone balneare), l’altro, quello cittadino, affonda ancora le radici nelle strade di Roma e scruta con occhio neorealista le borgate, la delinquenza e la povertà di chi porta ancora su di sé i segni del servizio di leva. Non è un caso che gli episodi ambientati a Roma siano gli unici a non avere un happy ending, gli unici a rimanere incontaminati da quella leggerezza di fondo che emerge più o meno faticosamente in tutte le altre storie. L’analisi di questi aspetti ci è senz’altro utile per introdurre il personaggio di Ercole, interpretato da Marcello Mastroianni e doppiato da Alberto Sordi. Ercole è un vigile urbano che fa la sua apparizione soltanto quando le altre storie sono già ampiamente avviate e molti dei personaggi sono ormai giunti sulle spiagge di Ostia. Trascorsi i primi trenta minuti dedicati ai diversi affollati spostamenti, lo sguardo ritorna alla Roma deserta, annoiata e inospitale. Dalle inquadrature affollate, spesso incentrate a catturare il caotico e inesauribile flusso di persone in arrivo agli stabilimenti balneari, si passa repentinamente al campo lungo di una strada romana completamente sgombra, in mezzo alla quale si scorge la piccola figura di un vigile in divisa bianca. Il primo piano di Mastroianni giunge inaspettato poiché le inquadrature hanno fino a quel momento prediletto la visione d’insieme e i campi lunghi, mentre i personaggi vengono avvicinati soltanto mediante piani americani o mezze figure. Il volto di Ercole, quasi a competere con la saturazione del quadro fino ad ora messa in scena, riempie così l’intero spazio a disposizione offrendo allo spettatore le informazioni essenziali sul suo personaggio. L’uomo è un vigile urbano alle prese con un traffico pressoché inesistente, il suo ruolo è quindi fin da subito mostrato come secondario, se non inutile. La sua divisa lo contraddistingue dagli altri personaggi che, come è stato accennato, vengono spogliati dei loro ruoli e immersi nell’indeterminato flusso dei bagnanti; eppure l’abito di Ercole, pur essendo l’unico connotato, risulta inutile e invisibile, è infatti in grado di spaventare e intimorire unicamente alcuni bambini che si bagnano nelle fontane romane. Anch’essi però, osservando l’atteggiamento pacato e dimesso dell’uomo, accompagnato al parco dalla fidanzata incinta Rosetta (Anna Medici), capiscono di poter ignorare la divisa perché «quella guardia è brava, sta a fa’ l’amore», come dice il più scaltro del gruppo. In queste semplici parole pronunciate ingenuamente da un bambino risiede in realtà il tratto distintivo del personaggio-Mastroianni che per diversi anni rimarrà pressoché invariato: l’uomo buono, che mira unicamente alla stabilità e ad una felicità tutto sommato modesta, ma raggiunta sempre con il duro lavoro e l’onestà. Si tratta di un personaggio che, tra le svariate figure maschili di Domenica d’agosto, sembra essere più vicino all’universo femminile, più propenso all’utilizzo di quei toni dimessi e affranti delle protagoniste del film che non alla rigida e connotata mascolinità dei capofamiglia. Oggi, con la “lezione” di Sordi ancora così vivida nelle menti dello spettatore, il personaggio di Ercole appare immediatamente contraddittorio. La voce dell’attore romano dà vita più o meno involontariamente ad un mondo molto distante da quello incarnato dal volto pulito e femmineo di Marcello Mastroianni. Per lo spettatore del tempo, al contrario, la voce di Sordi rappresentava una sicurezza, un aspetto sul quale produttori e registi certamente puntavano al fine di rendere meno brusca l’introduzione di un volto nuovo. La presenza sonora di Sordi, in un film fatto essenzialmente di volti sconosciuti, funziona proprio in luce di questo dialogo tra registi e pubblico, tra aspettative e “concessioni.” L’attore romano, infatti, in quegli anni era essenzialmente voce. Doppiatore di film italiani e stranieri, nonché attore radiofonico, Sordi era per molti spettatori l’Anthony Quinn di Blood and Sand e ovviamente l’Oliver Hardy delle comiche. Una voce conosciuta da tutti e che soltanto negli anni successivi, con il subentrare del corpo e della gestualità dell’attore romano, avrebbe assunto la connotazione che tutt’oggi percepiamo. Nel corso dell’intero episodio di Domenica d’agosto la voce di Sordi adotta toni pacati e dimessi che creano un’ulteriore discordanza con le aspettative del pubblico odierno cinefilo e non, abituato a una recitazione sopra le righe, derivata in special modo dall’esperienza nel teatro di rivista. La reazione in merito a questa sorta di dissonanza, a nostro avviso, può essere letta come una vitalità, una dinamicità dell’aspettativa spettatoriale, la quale sembra essere in continua evoluzione anche rispetto a immagini passate. Se dunque questo accostamento voce-corpo che un tempo certamente “funzionava”, diventa oggi a tratti scioccante, è dovuto essenzialmente alla stratificazione di ruoli, volti e cliché che Sordi e Mastroianni e il loro pubblico hanno introiettato nel corso di una intera carriera. Entrambi, anche se in termini molto distanti, hanno visto i loro ruoli nascere, modificarsi, per poi talvolta appiattirsi o assoggettarsi alla tipizzazione e alla semplificazione la ribellione di Mastroianni nei confronti del maggior epiteto affibbiatogli è cosa nota, mentre risulta forse più ambigua e contraddittoria la reazione sordiana nei confronti del suo eterno personaggio dell’italiano medio. Ci sembra interessante citare in merito una necessaria problematizzazione o meglio un ribaltamento delle conclusioni oggi ritenute ovvie, riportando le parole di Goffredo Fofi: «Uno come noi» dissero di lui i mille necrologi che riempirono stampa, televisione, radio quando Mastroianni morì, non solo in Italia. Uomo più comune e più vicino a un ideale di italica civiltà, era molto di più del «noi» di chi lo ha esaltato, riconoscendosi un po’ abusivamente nelle sue piccole virtù, ed era meno di ciò che avrebbe dovuto e potuto essere. La sua differenza con Sordi va, oggi, a tutto vantaggio di quest’ultimo, che non ci faceva parer più belli di quanto non fossimo, e in cui apparenza e sostanza erano esplicitamente la stessa cosa.
Dietro Mastroianni, c’era una sorta di ignavia mentre dietro Sordi c’era una passionalità, un’ambizione, uno spendersi, un azzardare. Mastroianni è l’italiano medio o quel che l’italiano pensa e vuol vedere e credere di sé; Sordi è il sotto o il super italiano, un peggio che potrebbe anche diventare meglio. Vi sono, nel discorso di Fofi, molti punti che meriterebbero un ulteriore approfondimento, tra i quali sicuramente spicca l’idea di un Mastroianni «come noi». Concetto che ci riporta inevitabilmente a quell’ambiguità e permeabilità tra vita privata e carriera del divo. Ci soffermeremo però su un altro aspetto, ovvero sull’«ignavia» attribuita all’attore di Fontana Liri, la quale secondo il critico cinematografico divergerebbe rispetto alla «passionalità» sordiana; ebbene ci sembra che questi sostantivi si prestino bene per una lettura del doppiaggio nei film d’esordio di Mastroianni. A nostro avviso, infatti, la figura dell’attore, proprio perché naturale e scevra da ogni stratificazione, risulta in qualche modo debole, sottomessa alla volontà esercitata da una voce a tutti gli effetti più salda e tenace, appunto, passionale. Si può notare in Domenica d’agosto così come in Parigi è sempre Parigi, Le ragazze di Piazza di Spagna e Viale della speranza Dino Risi del 1953, questi ultimi tutti doppiati da Manfredi, una netta predominanza della voce di due mattatori, così come oggi li conosciamo sul corpo. In sostanza i personaggi del Mastroianni doppiato non sono altro che gli antesignani dei volti e dei ruoli che di lì a pochi anni Sordi e Manfredi avrebbero regalato al cinema italiano. Riprendendo l’analisi di Michel Chion, si tratta, per entrambi i doppiatori, di una voce «d’un homme que l’on n’a jamais vu mais que l’on s’attend à voir, parce que’on le situe dans un “quelq. In Le ragazze di Piazza di Spagna il personaggio di Marcello Santoni-Mastroianni giunge a film quasi concluso, a riecheggiare l’apparizione tardiva e per certi aspetti secondaria di Domenica d’agosto. Mentre qui l’ultima inquadratura sul volto di Mastroianni-Ettore si concludeva con la sua battuta mesta e insieme fiduciosa ‘qualche santo ci aiuterà’, in Le ragazze di Piazza di Spagna, al contrario, l’uomo sembra diventare un vero e proprio deus ex machina. Tassista un po’ impacciato e sognatore, profilo utilizzato anche in film successivi, Marcello ha tutte le caratteristiche riscontrabili nei personaggi coevi di Nino Manfredi. Tra tutti ricordiamo il personaggio di Ugo Nardi, il meccanico che ne l’Audace colpo dei soliti ignoti Nanni Loy del 1959 prese idealmente in eredità proprio il ruolo di Mastroianni. L’apparizione di Santoni (nomen omen) nel film ci sembra ancora una volta piuttosto esemplificativa. L’uomo accompagna sul suo taxi la logorroica ed esuberante Luciana (Liliana Bonfatti) e il suo corpo sembra imprigionato all’interno dell’automobile, curiosamente non vediamo la figura intera dell’attore se non più avanti, a film quasi concluso. Data la predominanza del ruolo femminile nel corso del dialogo così come nell’intero film, l’intervento di Marcello risulta circoscritto in poche e semplici frasi, a volte la sua reazione si limita esclusivamente a esclamazioni romanesche, risposte svogliate e borbottii comprensibili soltanto a metà, caratteristiche spesso ravvisabili anche nei personaggi interpretati da Manfredi. Il tutto, ancora una volta, viene però a cozzare con la mimica facciale di Mastroianni, la quale spesso si limita ad un incontrollabile movimento degli occhi, che si spostano freneticamente ad osservare il volto dell’interlocutrice Luciana. Di questa breve e tutto sommato secondaria interpretazione rimane però il discorso finale di Marcello alla giovane Elena, una dichiarazione d’amore in cui l’uomo dice di sé: «lo so che non è un bell’avvenire quello che ti offro, però sono un ragazzo serio e simpatico». Insomma è indubbio che Mastroianni, con i ruoli interpretati nei primi anni Cinquanta, sia riuscito a plasmare una figura ben definita. Il cinema italiano degli anni Cinquanta è stato spesso al centro del dibattito critico-teorico, ma quasi sempre in funzione del rapporto con il decennio precedente e con quello successivo; il neorealismo in particolare è stato da sempre osservato in quanto lente attraverso cui analizzare tendenze e assestamenti successivi. Ci sembra che questo approccio «retrospettivo» sia particolarmente evidente in quelle che sono le principali scuole di pensiero riguardanti l’eredità neorealista, nate e sviluppatesi a partire dagli incontri di Pesaro del 1974. Ognuna di queste ipotesi è legata all’idea di un «cinema definibile a partire da ciò che lo precede», ovvero difficilmente ricostruibile e comprensibile con la sola analisi del periodo di riferimento. Inoltre l’incasellamento tra due periodi fondamentali per la cinematografia nostrana ha portato ad una svalutazione aprioristica del cinema popolare italiano degli anni Cinquanta. L’aspetto di maggiore interesse riguarda a nostro avviso l’indiscussa tendenza di certo cinema degli anni Cinquanta ad avvicinarsi al gusto dello spettatore, a prendere in considerazione quest’ultimo in quanto parte attiva del processo produttivo. Questo approccio ha condotto il dibattito su una ulteriore e annosa questione riguardante la contrapposizione sebbene i confini siano tutt’altro che definiti tra cinema d’autore e cinema popolare, o di genere. Come sintetizza Federica Villa, sarebbe proprio il nuovo sistema di generi a permettere al cinema di raggiungere una varietà maggiore di spettatori l’unicità e l’irreperibilità dei capolavori neorealisti viene programmaticamente evitata e la “medietà” del prodotto viene salvaguardata in quanto standardizzabile e reiterabile. Il corpo neorealista viene dunque a essere amministrato secondo una logica di genere nella sua piena accezione formulare. Il genere diventa così necessità e al contempo garanzia di intermedialità: la sua vocazione a modellizzare la fantasia collettiva lo rende riconoscibile ed esportabile, permettendo soprattutto fenomeni di alta sintonizzazione da parte del grande pubblico. In questo processo di sintonizzazione, come vedremo, svolge un ruolo fondamentale la presenza e la riproposizione di volti e tematiche che solo in parte, come già accennato, sono debitori della corrente neorealista. Soprattutto per quanto concerne la presenza divistica, possiamo dunque discostarci dai concetti di eredità e amministrazione per parlare di una vera e propria nascita; utilizziamo un termine non casuale, poiché parlare di “apparizione” o creazione ex novo significherebbe non dare i giusti meriti ad un progetto che seppe, tra le altre cose, eludere e disinnescare l’eredità lasciata dalla cinematografia del ventennio. Fallito il progetto di critica all’individualismo borghese e di valorizzazione del solidarismo, cominciarono a farsi vivi espressioni e interessi contrastanti se non addirittura antitetici che contribuirono alla coniazione del termine “controrealismo” in addizione alla ben più nota espressione di “neorealismo rosa”. All’alba del neorealismo, alcuni registi Renato Castellani in testa cominciarono dunque ad istituire implicitamente nuove direttive che si allontanavano dalle preoccupazioni più elevate che avevano animato lo spirito dei registi neorealisti, per affacciarsi piuttosto agli affanni squisitamente sentimentali, nonché alle ansie della vita quotidiana. Si tratta, per questi registi, di «un’uscita rispettosa, in punta di piedi», un allontanamento piuttosto che una rottura con le istanze del neorealismo. Due soldi di speranza Renato Castellani del 1952 è visto all’unanimità come il titolo più rappresentativo del cosiddetto periodo aureo del cinema popolare italiano. Il film «contribuì in modo decisivo, per il suo prestigio stilistico e per le stesse polemiche che sollevò, a spostare l’attenzione del cinema italiano dai contrasti drammatici della vita sociale sul più innocuo terreno della lotta di generazioni». Proprio con questo contrasto generazionale, questione che nei medesimi anni stava coinvolgendo anche la cinematografia hollywoodiana Gioventù bruciata del 1955 ne è un eccellente esempio, che è possibile tentare di approcciare il fenomeno divistico degli anni Cinquanta. A ben guardare, infatti, le personalità attoriali che animano il cinema italiano in questi anni, sono per la maggior parte appartenenti a quello che possiamo definire un neonato panorama “divistico”, che prende forma nel primo dopoguerra, per giungere poi al suo apice con Poveri ma belli di Dino Risi del 1956. Molte sono le attrici che a partire dagli anni Cinquanta saranno impegnate pressoché ininterrottamente nelle riprese di innumerevoli film: Cosetta Greco, Lucia Bosé, Giovanna Ralli, Antonella Lualdi, Marisa Merlini, Giulia Rubini, Liliana Bonfatti, ma soprattutto Gina Lollobrigida e Sophia Loren. Ad affiancarle vi sono però importanti nomi femminili provenienti dal teatro tra le altre Titina de Filippo, Tina Pica, Ave Ninchi , nomi che volgono lo sguardo al passato e rendono palpabile e giustificato ogni riferimento alla condizione italiana post-bellica. Parallelamente, il medesimo contrasto generazionale contraddistingue anche il panorama attoriale maschile, nel quale si distinguono personalità divistiche agli esordi cinematografici da Renato Salvatori, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni ecc., e grandi attori ampiamente affermati tra i quali spicca sicuramente la figura di Totò. Oltre alle similitudini e ai continui echi sul piano stilistico e narrativo, dunque, l’omogeneità della produzione cinematografica del cinema popolare anni ’50, era altresì accresciuta dal costante ricorso a volti e “tipi”, che facilitavano ulteriormente la pratica di promozione del prodotto e “fedelizzazione” dello spettatore. In sintesi «se da un lato con il neorealismo sono ’le cose a raccontare’, assecondando il loro ritmo e secondo la loro stessa natura, producendo così un effetto di cronaca degli eventi, dall’altro con il cinema popolare ’le cose sono raccontate’». E tali racconti non potevano che essere affidati a quelli che Giorgio Tinazzi definisce «ritratti che stabilizzavano senza avere l’aria di sancire». Ovvero volti riconoscibili per il pubblico, ma pur sempre “nuovi”. Sullo sfondo, a mo’ di monito, rimane però costante il riferimento a un passato dal quale prendere le mosse. Anche in questo senso funzionò la capacità intermediale del cinema, che seppe dialogare con il mondo del teatro di rivista prendendo a prestito volti e personalità che a loro volta si dimostrarono abili nel confluire da un mezzo di comunicazione all’altro, dal fotoromanzo al cinema, dalla radio al nascente mezzo televisivo. Anche quest’ultimo, infatti, non tardò a generare un saldo e rinomato gruppo di attori, cantanti o semplici conduttori televisivi destinati a divenire emblema dell’immaginario culturale italiano. Gli anni Cinquanta ci permettono dunque di analizzare il momento centrale, ovvero l’esordio di un tale folto e dinamico catalogo di volti. Risale infatti a questo periodo la prima collaborazione di Marcello Mastroianni e Sophia Loren, due attori che nei decenni a seguire vedranno il loro statuto divistico evolversi e ampliarsi a livello internazionale. Peccato che sia una canaglia di Alessandro Blasetti del 1955 è un film decisivo poiché, oltre a lanciare il duo Loren-Mastroianni, può essere considerato come progetto iniziale di una formula destinata a ripetersi negli anni a venire. Mastroianni interpreta Paolo Silvestrelli, ennesimo tassista «bonario, ingenuo, che non è comico, ma che a volte ha reazioni che fanno sorridere». Il personaggio sembra essere modellato sui tratti pur grossolani di Marcello Santoni, personaggio secondario del film Le ragazze di Piazza di Spagna di Luciano Emmer del 1952. La novità rappresentata dal film di Blasetti, è da ricercare però nell’introduzione di una figura a suo modo “rivoluzionaria”, ovvero quella di Sophia Loren. Le ragazze di Piazza di Spagna, così come gran parte dei film di Luciano Emmer, indaga lo sfaccettato universo femminile con sapiente e delicato equilibrio, mettendo in scena donne sole, emancipate ma non troppo, in fondo ancora intimamente bisognose di una presenza maschile. La figura di Sophia Loren, nel film di Blasetti così come in larga parte delle interpretazioni future, è plasmata su concezioni simili a quelle appena descritte, ma la presenza corporea dell’attrice genera paradossalmente riflessioni opposte. L’ossimoro creato da Sophia Loren è evidente se ci si sofferma sulle pose adottate, sugli sguardi altezzosi e ambigui e sugli effetti che queste due peculiarità generano sugli equilibri interni all’inquadratura. I film di Emmer e Blasetti escono a distanza di soli tre anni, eppure i due volti di Marcello Mastroianni sembrano appartenere a epoche differenti, e nella generazione di questo scarto, la Loren ha a nostro avviso un ruolo determinante. È lei, infatti, a creare e direzionare lo sguardo maschile, ad attrarre e respingere per bellezza e complessità, ricalcando alla sua maniera i canoni femminili tipici della screwball comedy. Ed è dunque lei a trasformare la presenza e la prestanza maschile di Paolo-Mastroianni, fiancheggiandolo nel corso di quelli che sembrano i primi turbamenti sessuali dell’uomo. Peccato che sia una canaglia è basato sulla continua rincorsa e fuga dei due attori principali, e questo movimento viene spesso a riflettersi anche all’interno dei singoli fotogrammi. Molte sono infatti le inquadrature che vedono Mastroianni intento ad osservare Sophia Loren. I primi film cui Mastroianni partecipa non hanno tra le prerogative quella di risaltare il corpo dell’attore ad eccezione de Il bigamo di Luciano Emmer del 1955 che rappresenta, come abbiamo visto nel capito precedente, il primo, debole tentativo in direzione opposta . Il film di Blasetti lavora sulla medesima linea, ma aggiungerà alle caratteristiche di semplice comparsa o spalla, quella ben più rilevante e a suo modo attiva di voyeur.
Possiamo pertanto analizzare e comparare Peccato che sia una canaglia e il successivo La fortuna di essere donna di Alessandro Blasetti del 1956, poiché i due film, accomunati dalla medesima personalità registica, rappresentano un importante dittico che getterà le basi per la costruzione della coppia Loren-Mastroianni. Entrambi i testi filmici sembrano essere costruiti in funzione dell’esibizione del corpo femminile, e non è un caso che l’unica vera presenza in questo senso sia quella di Sophia Loren. Il suo personaggio si muove agilmente in un mondo popolato esclusivamente da figure maschili, in cui gravitano saltuariamente ideali femminili antitetici a quelli imposti dalla Loren stessa. In questo ideale universo maschile, Marcello Mastroianni è soltanto uno dei tanti sguardi indiscreti, ma è sicuramente il più interessante se si considera che la sua posizione voyeuristica, passivo-attiva, nonché il suo ruolo marginale all’interno della coppia, non sono dovuti all’inesperienza o alla necessaria umiltà degli esordienti. A mio avviso, infatti, l’equilibrio o squilibrio della coppia agli esordi, rimarrà pressoché invariato fino all’ultima apparizione nel film di Robert Altman, Prêt-à-porter del 1993. La citazione è tratta da una analisi di Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica del 1963 ma mi sembra che queste parole descrivano perfettamente larga parte delle interpretazioni portate sullo schermo dal duo. Nei due film di Blasetti, Mastroianni si distacca dalle altre figure maschili essenzialmente per la sua fisicità, per l’atto a lui solo concesso di avvicinamento e possesso del corpo femminile. Tanti sono i personaggi che si avvicinano, che toccano fisicamente il personaggio Loren, ma quest’ultima si concede solamente all’unico uomo che si rivela incapace di dominare la sua irrequietezza incapacità che accomuna gran parte dei personaggi interpretati da Mastroianni. L’avvicinamento effettivo dei due ha però luogo soltanto nel momento in cui si giunge a un compromesso, ovvero nel momento in cui si porta a compimento la trasformazione/castrazione dell’agire maschile. I due finali dei film di Blasetti sono in questo senso emblematici, poiché mettono in scena da un lato, con Peccato che sia una canaglia, il cambiamento del tassista molle e sdolcinato in uomo duro e dominante, che schiaffeggia in pubblico la propria donna prima di baciarla, dall’altro, con La fortuna di essere donna, assistiamo invece al processo inverso, con la presa di coscienza e l’esternazione del sentimento da parte dell’uomo inizialmente insensibile e profittatore. In entrambi i casi l’unione è data dunque dal cambiamento, dalla rivoluzione/innovazione dell’agire maschile nei confronti della donna. L’incipit de La fortuna di essere donna appare oggi come una rivelazione. Sembra infatti impossibile osservare la schiera di fotografi pronti ad immortalare l’arrivo della diva del momento gli stessi che da lì a poco prenderanno il nome di “paparazzi”, senza che questa immagine riporti alla mente una celebre sequenza de La dolce vita di Federico Fellini del 1960. Com’è facilmente comprensibile, il paragone tra i due testi filmici risulterebbe senz’altro controproducente; ci limiteremo pertanto a cogliere unicamente questa particolare vicinanza, la quale vede come protagonista proprio l’attore di Fontana Liri. È infatti Marcello Mastroianni il denominatore comune che lega i due film, ma ancor più sottilmente è il Mastroianni-spettatore, colui che assiste agli eventi e in modi differenti li immortala. Ci sembra utile soffermarci proprio su questa condizione spettatoriale dell’attore, poiché si rivela a nostro avviso come uno degli aspetti fondanti del duo Loren-Mastroianni. È stato già accennato come il film di Blasetti del 1956 rientri pienamente tra le operazioni di pura esibizione del corpo di Sophia Loren, e come il ruolo di Marcello Mastroianni sia perennemente sospeso tra azione e passività, tra voyeurismo e reale consapevolezza della propria presenza all’interno del quadro. La fortuna di essere donna e il precedente Peccato che sia una canaglia, sono in realtà film su e di una coppia allargata; a gravitare attorno al duo, infatti, vi sono rispettivamente due grandi personalità come Charles Boyer e Vittorio De Sica. Quest’ultimo in particolare, collaborerà con Loren e Mastroianni fino agli anni Settanta, prima in veste di terzo componente (incomodo), poi in veste di regista. In questo moltiplicarsi continuo di sguardi tutti esclusivamente rivolti verso Sophia Loren, vi è poi l’occhio di Mastroianni, spesso nascosto da apparecchi fotografici, a preannunciare l’arrivo dei celebri occhiali dalla montatura scura La dolce vita, ad 8 ½ di Federico Fellini del 1963 ma anche, con funzione differente, ne La terrazza di Ettore Scola del 1980 o delle successive lenti deformanti indossate in special modo negli ultimi film Stanno tutti bene di Giuseppe Tornatore del 1990 . In La fortuna di essere donna, il contatto tra Loren e Mastroianni avviene proprio a causa di una fotografia scattata da quest’ultimo senza preavviso, mentre la donna è intenta a sistemarsi i collant incurante di tutto. Fin da subito, dunque, il rapporto che viene a crearsi tra i due pone l’attore in una posizione voyeuristica, mentre la Loren risulta a tutti gli effetti l’oggetto osservato, bramato e immortalato. L’immagine che più di ogni altra sembra accompagnare l’attrice a mo’ di leit motiv, è però legata innanzitutto all’esibizione delle gambe. La Loren, come si è visto, è ricordata principalmente per le forme generose, per il petto prosperoso e i fianchi larghi, caratteristiche queste che non vengono certamente nascoste all’occhio dello spettatore. Ciononostante, l’immagine cinematografica per eccellenza è quella che ritrae l’attrice nell’atto di indossare e sistemare autoreggenti o calze di varia tipologia, spesso osservata o meglio spiata da terzi. Si pensi ad esempio alla presentazione del personaggio de La donna del fiume di Mario Soldati del 1954, volutamente ricalcato intorno alla Silvana Mangano di Riso Amaro di Giuseppe De Santis del 1949. Nel film di Soldati l’insistenza sui piedi e sulle gambe della Loren è pressoché maniacale, tanto da rendere la sequenza del mambo ulteriore eco dal film di De Santis una mera esibizione del corpo femminile e delle sue movenze sensuali. Le gambe della Loren vengono prontamente nascoste dal marito geloso ne La bella mugnaia di Mario Camerini del 1955, sono esibite sulla spiaggia per distrarre il giovane tassista in Peccato che sia una canaglia, appaiono per prime in Ieri, oggi, domani nell’episodio di Adelina così come in quello di Mara. Nel corso degli anni, dunque, possiamo notare come sia andata via via delineandosi una tendenza che ha portato alla creazione di una vera e propria metonimia: le gambe, anche quando inquadrate da sole, sono Sophia Loren. Operazione a nostro avviso più interessante è però quella che successivamente verrà messa in atto da Ettore Scola in Una giornata particolare del 1977 , film nel quale viene a poco a poco sottratta l’essenza stessa dell’attrice/donna, i suoi colori, le sue forme femminili, in definitiva la sua aura divistica. Non ci sembra dunque un caso che proprio sui piedi e sulle gambe della Loren si soffermi l’occhio di Scola, il quale sceglierà consapevolmente di fare indossare alla diva dei collant smagliati, delle pantofole bucate e soprattutto un vestito dalle tinte autunnali che ricopre quasi interamente la sua figura. Un vestito che lascia scoperta soltanto una piccola porzione di quelle stesse gambe che, come si è visto, furono protagoniste di una lunga e prolifica stagione cinematografica. Con gli anni Sessanta, in special modo con il film a episodi diretto da Vittorio De Sica Ieri, oggi, domani, la coppia verrà proiettata in un complesso e stratificato decennio e i due corpi attoriali saranno al centro di un nuovo clima, di nuove mode e nuovi costumi. Come già accennato, la presenza di Sophia Loren all’interno della coppia è di per sé, a nostro avviso, motivo di disparità e disequilibrio; ciò diviene particolarmente visibile nel film di De Sica, il quale, pur avendo come denominatore comune la presenza dei due attori, è visibilmente e interamente volto alla rappresentazione della figura femminile. Fin dai titoli dei tre episodi (Adelina, Anna e Mara), sembra indubbia la volontà di raffigurare innanzitutto tre volti di donne differenti ma accomunate da una marcata indipendenza, dal carattere fermo e deciso, ma in particolar modo dalla capacità di utilizzare la figura maschile come semplice comprimario all’interno di una recita più ampia e complessa: Adelina che si presta all’escamotage del parto per evitare il carcere, Anna che cerca un diversivo dalla noiosa e fredda vita aristocratica tentando maldestramente di gestire sentimenti e pulsioni “basse”, piccolo borghesi, o ancora Mara, personaggio costruito interamente sul continuo e ripetuto spettacolo (di sé), e che all’interno delle svariate prove attoriali di Sophia Loren merita a nostro avviso un’attenzione particolare. In questa assoluta predominanza femminile, Marcello Mastroianni sembra essere, come già accennato, una sorta di presenza-assenza, un corpo che anticipa e rende sempre più desiderabile l’entrata in scena della partner. Ci sembra interessante notare come De Sica non solo non sfrutti l’aura divistica derivante da un’esperienza unica e rara come quella de La dolce vita, ma lavori persino in direzione opposta, smorzando o addirittura deridendo la componente maschile dell’attore. Il personaggio maschile dei tre episodi è se vogliamo parente lontano dell’inetto sveviano, è l’uomo incapace di gestire l’eredità rude e stereotipata del maschio latino (in Adelina), è l’intellettuale del boom economico (in Anna), è l’uomo grottesco e cartoonesco morbosamente attaccato alla figura paterna (in Mara). Nel tentativo di prendere in considerazione la prova attoriale di Mastroianni in questo film è necessario innanzitutto ricordare il fondamentale apporto dato dal contributo di grandi letterati e sceneggiatori come Eduardo De Filippo, Alberto Moravia e Cesare Zavattini. In Anna, episodio tratto appunto dal racconto di Moravia intitolato Troppo ricca, Mastroianni interpreta Renzo, un intellettuale mite e squattrinato, un uomo «così niente mondano», come lo descrive la ricca e sofisticata Anna, la quale pare esserci consegnata da una rubrica giornalistica di Camilla Cederna. All’opposto il giovane con cui ha un appuntamento e che sale sulla sua Rolls-Royce, è uno scampolo ritagliato in quella tipologia di intellettuale autentico e tuttavia disincantato che, da La dolce vita di Federico Fellini del 1960, era passato a contrassegnare molti personaggi del nostro Mastroianni. I due protagonisti della vicenda sono ovviamente agli antipodi, come spesso accade negli incontri amorosi descritti da Moravia nei suoi romanzi. L’episodio sfrutta questa diversità calcandola anche dal punto di vista attoriale; la recitazione di Sophia Loren è al limite del grottesco, pur nella sua complessiva linearità il suo personaggio ha un accento milanese che all’orecchio dello spettatore appare immediatamente artificioso, mentre Mastroianni lavora in direzione opposta, con una recitazione pacata e dimessa. Dopo una lunga sequenza per le strade di Milano, la macchina di Anna si ferma lungo i Navigli per raggiungere Renzo. L’uomo esce dalla sua Cinquecento e si avvicina sorridendo al finestrino della Rolls-Royce. È Renzo-Mastroianni il primo a presentarsi all’occhio dello spettatore, e quest’ultimo è già a conoscenza di alcune peculiarità dell’uomo grazie alle parole di Anna in voice-over. Per la donna egli rappresenta un ideale di mascolinità differente, lontano dai canoni di eleganza e ricercatezza tipici della Milano mondana. Renzo è l’intellettuale libero e generoso, con i suoi «incredibili calzini corti». Ecco dunque che la complessa stratificazione di ruoli che ha portato alla visione di un Mastroianni-icona di eleganza, passa anche negli anni Sessanta attraverso la ridicolizzazione e la messa in discussione di un ruolo e di un gusto. Ma l’episodio che più di ogni altro gioca proprio su questa messa in ridicolo è sicuramente Mara. Episodio che non casualmente ha contribuito a rendere internazionale una certa immagine di Sophia Loren – ovviamente ci riferiamo alla celebre sequenza dello spogliarello, ma che a nostro avviso ha anche rafforzato il legame della coppia portandola ad affrontare sempre più saldamente i decenni a venire. Nell’episodio di Mara Mastroianni interpreta Augusto Rusconi, un bolognese dai modi buffi e infantili, un bambino costretto in abiti seriosi da adulto. Tra i tre personaggi maschili del film a episodi questo è l’unico che porta l’attore ad abbandonare il registro dimesso e pacato per esplorarne di nuovi e più eccedenti. L’attore, infatti, passa repentinamente dalle frasi urlate e dai gesti infantili e grossolani (la mano stampata in fronte in segno di dimenticanza, la testata data volontariamente contro il muro, le ripetute cadute e i passi di danza, l’ululato), a frasi sussurrate e affettuose. La componente giocosa, in definitiva, è predominante. Rusconi è anzi a nostro avviso il primo vero esempio di recitazione-gioco dell’attore, intesa innanzitutto come regressione corporea prima che intellettuale. Una regressione infantile che può e deve dunque convivere coscientemente con la sfera sessuale. La sequenza dello spogliarello è emblematica proprio perché unisce componente sessuale e gioco in un’unica e memorabile esperienza spettatoriale; spettatore, oltre alla figura canonica, è anche Rusconi, così come lo è lo stesso Mastroianni. Quest’ultimo assiste silenzioso alle movenze seducenti di Mara/Loren accompagnando la celebre hit di Henry Wright “Abat-jour” con ululati desiderosi e versi bambineschi. La macchina da presa posa il suo sguardo principalmente sul corpo di Mara, ne segue con movimenti millimetrici gli spostamenti, ne cattura ogni particolare. Prima di concentrarsi sulla figura femminile, però, vi è una lunga inquadratura a figura intera che ritrae la coppia ai lati opposti del quadro, l’uno di fronte all’altra. Rusconi è seduto sul letto in una posizione da spettatorebambino, con la testa poggiata sui pugni chiusi, il corpo immobile ad eccezione dello sbattere delle ciglia. La recitazione-gioco alla quale si accennava poc’anzi viene dunque espressa dall’attore attraverso determinate posture e movenze corporali ad esempio con l’ossessivo contatto tra mani e viso , ma viene anche sottolineato dal variegato utilizzo del dialetto e dell’accento bolognese, nonché dai differenti utilizzi della voce: il canto sgangherato, l’imitazione della voce femminile, i versi animaleschi. Nonostante l’utilizzo del corpo e della voce di Mastroianni nel film di De Sica appaiano inaspettati o inconsueti, ci sembra ugualmente fondamentale che questa scelta non venga analizzata nella sua componente anomala, ovvero come momentaneo affrancamento da un percorso autoriale per così dire rettilineo. Al contrario ci sembra interessante osservare come in realtà vi sia un continuo scambio e una assidua riproposizione di modalità recitative. Torneremo più avanti sul discorso affrontando in particolar modo la questione legata alla ricostruzione de La dolce vita e alle svariate anticipazioni, eco e allusioni al celebre personaggio di Marcello Rubini. Concludiamo questo breve excursus con alcune rapide considerazioni in merito ai casi di riproposizione e citazione dell’episodio Mara. Un’ulteriore conferma della centralità del corpo femminile nel film ci è data infatti dalla notevole quantità di echi e rimandi cinematografici all’episodio di De Sica. La ricezione spettatoriale, ma più in particolare la traduzione in immagini di un certo gusto popolare, è senz’altro utile alla comprensione delle dinamiche coeve all’uscita del film. Ed è proprio interrogando tali immagini che sembra emergere innanzitutto l’attenzione per una figura particolare di Sophia Loren, una figura univoca che non casualmente fu utilizzata per i manifesti del film Ieri, oggi, domani. Un mostro e mezzo di Steno del 1964 e Questa volta parliamo di uomini episodio Un brav’uomo di Lina Wertmüller del 1965 sono solo due tra gli svariati casi di riproposizione del film di De Sica, sebbene l’opera filmica in sé non venga mai esplicitamente chiamata in causa. Come accadeva con il citato Totò Diabolicus, anche i due film presi in analisi giocano sulla citazione cinefila, sul rimando intertestuale dato in entrambi i casi dalla visione del manifesto cinematografico. Ci sembra che questo aspetto sia particolarmente interessante poiché a nostro avviso tende a mettere in luce l’autonomia complessiva della figura di Sophia Loren. Un’autonomia rispetto al testo filmico e alla figura registica che lo ha diretto e un’indipendenza più generale rispetto alla sua spalla Marcello Mastroianni. Nel film di Steno e Wertmüller, infatti, l’immagine di Sophia Loren viene introdotta in quanto donna, modello di bellezza e fascino apparentemente slegato da qualsiasi contesto cinematografico. Nel film di Steno, il detenuto accusato di omicidio ovvero, Franco Franchi chiede di vedere Sophia Loren come ultimo desiderio prima della imminente dipartita; data l’impossibilità di esaudire tale richiesta, la polizia francese ripiega su una semplice locandina di Ieri, oggi, domani, ponendola tra bottiglie di champagne e altre leccornie da ultima cena. Il manifesto utilizzato all’interno del film di Steno raffigura la Loren con l’ormai familiare completo intimo indossato nella sequenza dello spogliarello. Al fianco dell’attrice vi è poi l’immagine di Mastroianni-Rusconi in una posizione adottata dall’attore nel corso di una sequenza precedente, dunque slegata dalla immagine di una Loren in déshabillé. Dalla commistione di momenti fuori sincrono nasce dunque un ritratto inequivocabile: l’uomo inteso in senso lato non può che pregare, in ginocchio, per poter vedere-avere il corpo di Sophia Loren. Anche il Manfredi del film della Wertmüller entra in contatto con la figura dell’attrice attraverso la visione del manifesto del film di De Sica. L’uomo, in compagnia di un amico di bevute, sosta davanti all’immagine della Loren e, visibilmente ubriaco, si toglie più volte il cappello in segno di saluto e rispetto, manda baci, chiede alla donna di sposarlo. Congedandosi infine dal manifesto e dando a quest’ultimo appuntamento alla serata successiva, l’uomo viene informato dell’imminente cambio di cartellone: «fanno Deserto Rosso, con Monica Vitti». In questa sequenza il volto di Mastroianni, relegato in un angolo del manifesto, è ancora una volta pressoché invisibile. Così come è inesistente la necessità e la volontà, da parte dei personaggi interpretati da Franchi e Manfredi, di confrontarsi con i canoni di mascolinità portati sullo schermo dall’attore di Fontana Liri. Possiamo dunque affermare che il film di Steno, così come quello della Wertmüller, non si limitano a citare e a porre al centro dell’attenzione la presenza della diva, ma tentano di imbastire un discorso più ampio, tutto cinefilo, che prende in causa un preciso côté e ne mette in risalto le implicite rivalità: dalle parole del personaggio interpretato da Nino Manfredi si evince che Sophia Loren non piace all’uomo dai gusti difficili, e proprio a quest’ultimo non resta che attendere il prossimo cambio di cartellone. Gli anni Settanta ci sembrano anni singolarmente efficaci e prolifici per quanto concerne l’attività della coppia Loren-Mastroianni. In particolare tenteremo nel presente paragrafo di analizzare alcune interpretazioni del duo dando particolare rilievo alle scelte costumistiche adoperate. In questo decennio Loren e Mastroianni sembrano infatti essere riscoperti in quanto corpi in grado di significare e produrre significati mediante l’utilizzo e l’esibizione di divise, abiti volutamente stereotipati e connotati o vestiti che rimandano a un preciso immaginario. Prendendo in prestito le parole di Barthes, ciò che ci interessa «del vestito è proprio il fatto che esso sembra partecipare alla più grande profondità e alla più grande socialità». Profondità e socialità nel nostro caso possono essere visti come termini compenetrabili e inscindibili, poiché entrambi sembrano essere volti ad una maggiore e più acuta comprensione dei personaggi, del loro coté di riferimento, del loro ruolo sociale. A nostro avviso è sul finire degli anni Sessanta, ma ancor più visibilmente nel decennio seguente, che la coppia si distacca dai ruoli precedentemente interpretati pur mantenendo intatte le dinamiche principali interne al duo. Se nei ruoli interpretati dalla coppia nel corso degli anni Cinquanta si puntava su un abbigliamento particolarmente provocante e alla moda per Loren e su una divisa da lavoro o su vestiti generalmente anonimi, privi di eleganza e addirittura male indossati per Mastroianni, negli anni Settanta assistiamo ad un vero e proprio cambiamento di rotta che porta ad una particolare reinvenzione del personaggio- Loren e ad una maggiore creatività per quanto concerne la figura di Mastroianni. Nuovi equilibri sembrano quindi nascere e delinearsi all’interno della coppia, complici il contesto storico, le nuove personalità registiche che si avvicineranno al duo, l’interesse, a livello di scrittura, per nuove tipologie di mascolinità e femminilità. La moglie del prete D. Risi del 1970 è il caso a nostro avviso emblematico da cui parte la riflessione sul duo nei termini sopracitati. È il 1970 e Dino Risi apre il decennio riproponendo agli spettatori la coppia Loren-Mastroianni. Protagonisti del film sono il sacerdote Mario e la ex-cantante Valeria; quest’ultima, delusa dalle passate relazioni sentimentali e decisa a tentare il suicidio, entra in contatto con Mario tramite il servizio telefonico di “Voce amica”. Interessante, ancora una volta, è la prima apparizione di Mastroianni all’interno del film, un’apparizione che pone in risalto innanzitutto la voce, che ritarda volutamente la presentazione del corpo dell’attore e gioca sul mascheramento del suo ruolo di sacerdote. Si può notare fin dalle prime inquadrature come i due personaggi siano legati a scenografie e a costumi dalle caratteristiche opposte: la stanza di Valeria, in tutto simile a quella di un’adolescente di provincia, sembra far convivere tra le medesime mura l’essenza del post-Sessantotto e al contempo la sua stessa negazione. Foto, copertine di vinili e poster di Valeria ricoprono le pareti della camera, ma a completare la saturazione non solo visiva del quadro vi sono le note di “Goin’out of my head”, canzone incisa da Frank Sinatra nel 1969. Lo sfondo che fa da cornice al primo piano di Mastroianni/Mario, al contrario, appare spoglio e asettico, privo di qualsiasi oggetto che connoti la personalità del sacerdote, proprio perché quest’ultima viene a coincidere con l’abito stesso, ingombrante pur nella sua austerità. Il voluto ritardo nella presentazione del personaggio di Mario insiste implicitamente sulla voce (amica) dello stesso, una voce mediata dall’apparecchio telefonico e dal forte accento veneto, ma resa comunque immediatamente riconoscibile all’orecchio dello spettatore. Fin dai primi istanti del film il personaggio interpretato da Mastroianni sembra instradato verso il cedimento dei propri valori e verso l’allontanamento dal proprio ruolo, dunque dal proprio abito.
La telefonata a “Voce amica” segna il primo passo verso questo distacco poiché molte sono le occasioni perse dal sacerdote per mettere in chiaro la propria situazione e altrettante sono le esitazioni e interruzioni che portano inevitabilmente a un coinvolgimento sentimentale dei due personaggi. Quelle che abbiamo definito esitazioni e che si fanno palpabili principalmente all’interno dei dialoghi del film, trovano a nostro avviso un corrispettivo anche sul piano visivo. Qui assistiamo ad un vero e proprio mascheramento della figura sacerdotale, una sorta di lenta e inconscia mimetizzazione che tenta in più modi di normalizzare l’eccezione e, se vogliamo, cerca di mantenere in vita la mascolinità dell’attore giocando sul ripetuto compromesso tra autocontrollo e istinto. Emblematica in questo senso è la sequenza che vede i due protagonisti attorno al tavolo di un ristorante intenti a mangiare zuppa di pesce con un grande bavaglio legato attorno al collo. Qui l’abito di (don) Mario, così come quello della giovane Valeria, viene volutamente nascosto per favorire il gioco di un doppio camuffamento: il vestito del prete viene momentaneamente nascosto e dunque privato di significato e l’effetto può dirsi immediato. Va inoltre sottolineata la precisa scelta costumistica di un abito sacerdotale lungo, un abito che volutamente e a più riprese viene associato agli abiti di Valeria. Oltre alla gag sulle gonne dei due personaggi, infatti, ricordiamo una celebre immagine utilizzata non casualmente anche per il manifesto del film che immortala Valeria e don Mario vicini e con abiti pressoché identici, lunghi e neri, sacerdotali. Il personaggio di Valeria, così come quello di don Mario, è quindi a sua volta investito da una tendenza alla mimetizzazione e quest’ultima trova compimento proprio per mezzo dell’abito. Dai vestiti corti e appariscenti, in pieno stile beat, la donna passa al vestito monacale, fino ad indossare abiti floreali dalle tinte e dalla fantasia difficilmente distinguibili dalla tappezzeria. Così come i dialoghi tra i due sono spesso contraddistinti dai continui tentennamenti, dai numerosi tentativi reciproci di zittirsi, dagli imbarazzi e dal senso di inadeguatezza rispetto all’ambiente, allo stesso modo ci sembra che il particolare abbigliamento dei protagonisti, attraverso una continua limitazione della propria autentica esibizione, segua una direzione del tutto affine. Torniamo al già accennato caso di Una giornata particolare per tentare di mettere in rilievo alcune questioni legate all’abbigliamento e alle precise scelte coloristiche effettuate ancora una volta sull’immagine dei due attori. Già in partenza tutto quello che riguardava l’ambientazione e tutti i capi di vestiario erano stati decolorati. Poi girammo con un filtro speciale, e quindi decolorammo ancora in stampa. Insomma, fu una sottrazione progressiva dei colori, fino quasi a farli scomparire, a farli diventare bianco e nero. Una volta arrivati a questo punto, si cominciarono ad aggiungere i colori per fare risaltare magari in tutta una scena soltanto un rosa in qualche punto. E questo non fu soltanto per fare assomigliare maggiormente la fotografia ai pezzi di documentario con cui avevo aperto il film, ma perché i ricordi miei, della casa in cui abitavo a Piazza Vittorio a quell’epoca, sono in quella tonalità. Come afferma il regista stesso, una tra le scelte decisive del film fu la colorazione neutra degli interni ma anche degli abiti dai colori «malinconici e autunnali» dei personaggi. La particolare patina donata alle immagini è insomma centrale nel processo di significazione del film, non solo perché si effettua una ripresa di quelli che erano i colori dei/nei ricordi del regista, ma anche per la rivoluzione effettuata da quest’ultimo per quanto concerne la modalità di riproposizione del passato. Come ricorda Emiliano Morreale, in Una giornata particolare Ettore Scola compie un’operazione destinata a dettare scuola negli anni a venire: la desaturazione della fotografia innanzitutto denota e delimita un ambiente-altro, un passato, ma al contempo il film «rifiuta i segni di più facile identificazione del decennio raccontato. I personaggi vengono mostrati come messi fuori dalla storia, reclusi per la loro diversità (di donna o di omosessuale)». Come è consuetudine nelle opere del regista siamo di fronte ad una unità spaziale che imprigiona i due protagonisti all’interno di una palazzina (Palazzo Federici a Roma) e che delega alla voce di uno speaker radiofonico (Guido Notari) ogni collegamento con l’esterno e con gli eventi storici che stanno avvenendo. Dall’incontro fortuito tra Antonietta e Gabriele, unici inquilini rimasti all’interno del palazzo, nasce un profondo legame che unisce ancora una volta due personalità agli antipodi. Antonietta è una donna dalla cultura limitata e dalla vita monotona. Col suo corpo smagrito e sfatto dalla troppa dedizione nei confronti della famiglia e della casa, così come con i suoi abiti trasandati e malconci, Antonietta riassume forse in modalità non del tutto canoniche i canoni femminili dell’era fascista. Gabriele è invece un uomo di cultura, elegante e raffinato nei modi, dalla personalità sfaccettata e imprevedibile; l’uomo, come si scoprirà nel corso della vicenda, è un ex annunciatore radiofonico dell’EIAR allontanato dal lavoro e in seguito dalla città a causa della sua omosessualità. L’incipit del film, preceduto da un lungo estratto documentario, mostra Antonietta vagare per l’appartamento con una tazzina di caffè e alcuni abiti in mano. Sono le sei del mattino e la donna tenta di svegliare i numerosi figli e il marito poggiando vicino a ciascuno di essi i vestiti da indossare per la sfilata in onore alla visita del Führer. La “giornata particolare” ha infatti inizio con una sorta di cerimonia, un rito che prevede innanzitutto l’atto della vestizione, ovvero l’indossare l’abito connotato per eccellenza: la divisa fascista. Ciò che in prima analisi differenzia i due protagonisti del film dagli altri personaggi è infatti proprio il loro corpo nudo e libero da uniformi, sebbene a nostro avviso l’abito da casa di Antonietta sia, a suo modo, rivelatore di una situazione e di una sottomissione. Proprio quest’abito, indossato nel corso dell’intero film, ci sembra essere particolarmente utile per la caratterizzazione del personaggio interpretato da Sophia Loren; si tratta infatti di un vestito dalle tinte autunnali che ricopre quasi interamente la figura dell’attrice e lascia scoperta soltanto una piccola porzione di quelle stesse gambe che, come abbiamo visto, furono protagoniste di una lunga e prolifica stagione cinematografica. La donna indossa in un primo momento un paio di pantofole dai medesimi colori spenti e con un vistoso buco sul quale la macchina da presa si sofferma insistentemente. Allo stesso modo vengono evidenziati in Antonietta i numerosi segni di una evidente e ormai pacificata trascuratezza del proprio corpo: il collant con la lunga smagliatura, i capelli scarmigliati, la biancheria bucata stesa sul terrazzo. La sola presenza di Gabriele è sufficiente a sovvertire la stanca e apatica routine della donna e risveglia in quest’ultima l’interesse per la cura benché minima dei dettagli. Dal canto suo l’uomo appare con indosso una divisa borghese, la quale rifiuta, per la sua semplice presenza, ogni apparenza-essenza fascista. Anche il film di Scola, così come quello di Risi, gioca dunque sul nascosto e implicito mantenimento di determinate ripetizioni intimamente legate ai due attori e al loro passato cinematografico. I due casi presi in analisi sono emblematici poiché, in modalità differenti, mettono entrambi in scena l’avvicinamento da parte di una donna a due tipologie maschili disinteressate al possesso del corpo femminile. È interessante notare come nei due film il distacco iniziale dei protagonisti, una volta portato all’eccesso, svanisca inevitabilmente nell’unione. La coppia, dunque, ritorna sempre alla vitalità che l’ha contraddistinta fin dagli albori e ripropone, seppur in modalità differenti e più mature, le medesime caratteristiche che hanno contribuito a renderla celebre. La riproposizione cui facciamo riferimento intesse ovviamente dei forti legami con il concetto di citazione, concetto divenuto particolarmente significativo grazie all’incontro-scontro con la cultura postmoderna. L’immagine e in particolare la ricezione di Marcello Mastroianni, come è stato già accennato, non possono prescindere dalla componente glamour, così come da ogni discorso intimamente legato alla moda. È bene tentare innanzitutto di comprendere quali caratteristiche dell’attore abbiano giocato un ruolo fondamentale nella nascita di tale aura interrogando soprattutto gli ultimi anni di carriera. È proprio negli ultimi due decenni del secolo passato, infatti, che possiamo scorgere le operazioni più importanti e più plateali di ripescaggio e riproposizione di ruoli o di semplici caratteristiche oggi unanimemente attribuite al volto di Mastroianni. Tali operazioni, come vedremo nel capitolo successivo, sono spesso legate ad un ritorno esplicito di personaggi apparsi nel corso degli anni Sessanta (Marcello Rubini in testa), periodo particolarmente fecondo per l’attore di Fontana Liri; in questi casi il concetto di riproposizione esula dalla ricostruzione filologica per concentrarsi piuttosto sull’attore e sui significati da esso veicolati. In altre parole è il corpo di Mastroianni stesso, in quanto corpo-citazione, a restituire luoghi e anni passati, ma ancor più sottilmente è a quest’ultimo che si affida l’idea di una ricreazione-simulazione principalmente nostalgica e dunque consapevolmente lacunosa. Per meglio comprendere quanto detto ricorriamo a un esempio che ancora una volta porta la firma del regista Ettore Scola. C’eravamo tanto amati del 1974, così come il successivo La terrazza del 1980, è un film circoscritto storicamente con precisione, sebbene al suo interno non vi sia alcun riferimento a «quello che effettivamente accadde nella società, nulla dei conflitti, talora anche acuti, nulla del 1968, nulla della strage di piazza Fontana a Milano, nulla di “Mani Pulite”, meno che nulla del rapimento e dell’uccisione di Moro, nulla del lento spostamento a destra dell’asse politico italiano». Come spesso accade in Scola, infatti, è l’uomo specie se assoggettato e mansueto ad essere centrale nella ricostruzione della Storia. Come ricorda lo stesso regista «la storia assoluta è, in realtà, quella dell’uomo e non quella ufficiale e paludata dei grandi eventi». Non è un caso dunque che anche la sequenza di cui parleremo diffusamente più avanti sia essenzialmente costruita da e per uomini appartenuti a una storia «non ufficiale». Ci riferiamo in particolare all’incontro imprevisto tra Antonio (Nino Manfredi) e Luciana (Stefania Sandrelli) avvenuto nei pressi della Fontana di Trevi, proprio nel momento in cui quest’ultima diviene celebre sfondo di una sequenza de La dolce vita. L’incontro tra i due protagonisti avviene volutamente all’interno di un ulteriore set – dentro il quale vi sono Federico Fellini e Marcello Mastroianni che viene immediatamente a coincidere con un preciso e connotato momento storico. Centrale in questo processo di ricostruzione non è però la sequenza catturata in diretta dalla macchina da presa diegetica, poiché essa riprende unicamente le controfigure di Anita Ekberg e Mastroianni. Il fulcro viene piuttosto a coincidere con il vero “Marcello”, seduto al di fuori del set fittizio ma pur sempre essenziale nell’economia della sequenza. Le inquadrature a lui dedicate sono sfuggenti e l’attore appare pressoché muto, la sua voce viene infatti sovrastata dallo scrosciare dell’acqua della fontana e dalle voci della folla accalcatasi intorno. È lo stesso Manfredi, sopraggiunto sul set a bordo di un’ambulanza, a nominare l’attore indicandolo al suo collega portantino. Ciò che rende centrale Mastroianni è dunque l’essere riconosciuto cosa che non avviene per Fellini, scambiato per il regista Rossellini in quanto attore noto, tra attori noti. Il Mastroianni del film di Scola, però, deve scontare quei quindici anni che lo separano dalle reali riprese de La dolce vita, ed è forse proprio per questo motivo che al tempo delle riprese si scelse di coprire il viso dell’attore utilizzando degli occhiali da sole scuri e dalla montatura ingombrante. Più volte durante la sequenza una donna della troupe chiede all’attore di scoprire il volto, di mostrarsi ai fans e implicitamente anche agli spettatori , ma egli rifiuta e nasconde quelli che sono gli evidenti e naturali segni del tempo. Il film ci è utile proprio perché affronta la tematica per noi centrale della riproposizione, affidandosi non tanto alla precisione filologica ma piuttosto all’attenzione per quella che abbiamo già definito moda-citazione o corpo-citazione. Come è stato accennato, ad essere centrale nell’identificazione del periodo storico è innanzitutto l’uomo, che nel nostro caso è dì per sé simbolo ma a giocare un ruolo altrettanto significativo è a nostro avviso il dettaglio degli occhiali da sole indossati dall’attore. Si tratta infatti di una montatura ben nota del marchio “Persol”, il medesimo modello utilizzato dal personaggio di Marcello Rubini all’interno dell’opera di Federico Fellini. Ed è proprio grazie a La dolce vita che l’oggetto assume una precisa connotazione storico-temporale e diviene così una citazione all’interno dell’immenso catalogo o «guardaroba del passato». Possiamo dunque affermare che è innanzitutto il corpo di Mastroianni a fare di un set fittizio il set de La dolce vita, ma ancor più sottilmente è il Mastroianni che (anche) grazie all’oggetto ristabilisce la precisa atmosfera glamour della Roma del tempo. Glamour, termine che tanta fortuna ebbe tra le pagine delle riviste di moda, viene utilizzato in questa sede, e per il film di Scola in particolare, per la sua capacità elastica, per così dire modellante. Secondo Gundle il glamour è un’arma, un modo di dare al proprio aspetto sembianze ringiovanite, rinvigorite; l’accessorio, come viene accennato, è quindi essenziale per il processo di definizione del corpo ma soprattutto ci sembra fondamentale per la capacità di dare a quest’ultimo una continuità nel tempo. Continuità che, come vedremo, verrà sapientemente sfruttata con Prêt-à-porter in quella che possiamo considerare l’ultima tappa del duo Loren-Mastroianni. La sequenza presa in esame è a nostro avviso fondamentale nell’economia dell’intero film; essa infatti carpisce l’essenza di un decennio fondamentale che bussava alle porte e restituisce in pochi attimi l’anima e l’atmosfera di un certo cinema che ci si lasciava consapevolmente alle spalle. Il testimone ideale lasciato da questo cinema viene metaforicamente a coincidere con quel simbolo a firma “Persol” che nasconde il volto di Mastroianni dai segni del tempo e simultaneamente lo rivela in tutta la sua atemporalità. Il testimone, si diceva, verrà ripreso agli inizi degli anni Novanta con il già citato film di Robert Altman. Prêt-à-porter sottolinea innanzitutto l’inadeguatezza della haute couture nei confronti della quotidianità e pone polemicamente al centro dell’attenzione l’unwearability tipica dell’alta moda, nonché la tensione comune all’iper-identificazione con il proprio abito. Incessante e reiterata nel corso di tutto il film è l’azione del vestirsi e dello spogliarsi, della ricerca e della sottrazione dell’abito o del contrattempo legato al danneggiamento dell’accessorio. Nella consueta cerchia allargata di attori altmaniani spicca un Mastroianni visibilmente invecchiato l’attore morirà soltanto tre anni dopo l’uscita del film ma ugualmente protagonista. L’attore, infatti, dà inizio e termina simbolicamente una pellicola che, ritornando all’oggetto di studio del presente capitolo, chiude la lunga e prolifica collaborazione al fianco di Sophia Loren. Complice proprio la riproposizione della coppia, Prêt-à-porter tenta di rimettere in scena un passato glorioso del duo, o forse semplicemente il più conosciuto oltreoceano. L’aneddoto raccontato da Mastroianni circa la preparazione del film ci sembra utile poiché rivela come le scelte di sceneggiatura siano state in questo caso frutto di decisioni casuali, determinate più dalla consapevolezza e dalla volontà degli attori che non dalla ricezione di terzi. Oltre al ruolo fondamentale dell’attore nello scegliere di citare lo spogliarello di Ieri, oggi, domani, non vanno dimenticate diverse operazioni nostalgiche collaterali che accompagnano il film fin dai primi istanti. Sergio (Mastroianni), infatti, canta più volte “Abat-jour”, osserva Isabella (Loren) alla televisione, ripensa trasognato a un passato idilliaco, il tutto in concomitanza con la sua fuga dalle autorità parigine e con il suo incessante travestimento. Sergio, infatti, nel corso del film indossa gli abiti più disparati, tutti o quasi sottratti ad altri personaggi e debitamente modificati grazie alle sue abilità sartoriali. In questo ininterrotto flusso di abiti e accessori è interessante notare come al momento del fatale incontro con Isabella appaiano ancora una volta sul volto di Mastroianni gli stessi “Persol” de La dolce vita, occhiali che sembrano essere indispensabili per la buona riuscita dell’incontro tra i due ex amanti. La loro comparsa, lungi dall’essere filologicamente corretta, inquadrata cioè all’interno di una ricostruzione storica più ampia come poteva essere quella di C’eravamo tanto amati, ci sembra dunque confermare la visione della moda-citazione come qualcosa di antistorico, o meglio anacronistico: «Il passato è un guardaroba» dai confini determinati e, come la moda stessa, «dispone di un numero finito di forme archetipe; il che implica, alla fin fine, una storia parzialmente ciclica». Il rifacimento giocoso della sequenza di Ieri, oggi, domani diviene dunque soltanto uno degli svariati ammiccamenti e divertissement intertestuali proposti dal film. Si tratta, come già accennato, di una citazione scanzonata in cui i due attori si prestano alla ricostruzione di uno dei momenti più celebri della loro carriera. Lo spogliarello sconta consapevolmente le conseguenze del tempo aspetto che Mastroianni non ha mai nascosto né mascherato fatta eccezione per la sua comparsa in C’eravamo tanto amati ma ancor più sottilmente la sequenza sembra sfruttare una doppia complicità con lo spettatore, oscillando tra riferimenti all’invecchiamento dei due attori e ammiccamenti nostalgici a un passato perlopiù diegetico. Così, l’anticipazione dello spogliarello, ovvero il «vai sul letto, non ti ricordi più?» di Isabella-Loren a Sergio-Mastroianni, sembra essere parimenti ammonimento all’attore e al personaggio (o meglio, i personaggi). Ciò che però accomuna entrambi gli spogliarelli, protagonisti e sottofondo musicale a parte, è l’interruzione che questi subiscono, «come se l’erotismo si arrestasse a una sorta di delizioso terrore di cui basta annunciare i segni rituali per provocare l’idea di sesso e insieme la sua esorcizzazione». Marcello Mastroianni al centro di una operazione di rivisitazione e rielaborazione, operazione che, come si è visto, non è da intendersi unicamente come atto citazionista quanto piuttosto come intervento a metà tra l’inconscio e l’automatismo effettuato sul corpo di per sé simbolico dell’attore. La ripetizione e riproposizione sulle quali si è a lungo insistito nel corso di queste pagine, come si è visto, hanno messo in luce come le operazioni di riscrittura effettuate su Mastroianni siano state spesso legate alla reiterazione di una immagine profondamente contraddittoria: il divo che non vuole esserlo, il Latin lover infastidito dall’etichetta di conquistatore attribuitagli, ma soprattutto il giovane che non disdegna di interpretare i ruoli da anziano, e parimenti l’uomo che viene ripetutamente ringiovanito, spesso al fine di poter reinterpretare i suoi stessi personaggi del passato. Mi soffermo proprio su questo ultimo aspetto, cercando di fare emergere come le operazioni di riscrittura effettuate sul Mastroianni dell’ultimo ventennio di carriera si siano basate essenzialmente su uno scambio di contenuti tra presente e passato, perseguendo obiettivi differenti e ottenendo risultati multiformi. Le parole di Mastroianni in merito alla lavorazione di Ginger e Fred F. Fellini del 1985 ci sono ancora una volta molto utili per introdurre il discorso che verrà trattato nel corso di quest’ultimo capitolo. Come si evince dalla citazione riportata, l’attore dimostra una consapevolezza non indifferente nei confronti di quelli che apparentemente sono soltanto numeri o dati anagrafici. Nelle parole di Mastroianni, così come in larga parte delle interviste da lui rilasciate, ritorna spesso questa percezione razionale e temporale, che tende in primo luogo a definire la propria età così come l’età del personaggio da interpretare ecc. Un ulteriore aspetto di interesse risiede senz’altro nel rapporto tra Mastroianni e Fellini, un rapporto che si fonda, come afferma l’attore stesso, sulla costante reiterazione di un personaggio ideale e atemporale: il cosiddetto «Marcello di un tempo» il quale può essere semplicisticamente identificato con il primo Mastroianni felliniano, ovvero con il protagonista de La dolce vita. A nostro avviso però si tratta di un’immagine più ampia, che tiene in considerazione la stratificazione di personaggi che l’attore ha interpretato al fianco del regista romagnolo e che hanno contribuito, nella loro complessità, a formare un unico grande ruolo. Il continuo rimando al passato è sicuramente uno dei leit motiv della poetica felliniana, soprattutto quando questo viene declinato in una dimensione di «infantilismo». Possiamo dunque vedere in questa operazione di indietreggiamento e continua rielaborazione una ulteriore proiezione tutta felliniana di quelle malinconie esistenziali che necessitano di essere riversate nel corpo burattinesco dell’attore. Nonostante l’intento del presente testo sia quello di soffermarsi sulle operazioni di riproposizione e ripetizione che hanno visto protagonista la figura di Mastroianni, non risulterebbe proficuo tralasciare le interpretazioni dell’attore che sono andate in tutt’altra direzione. La corporeità di Marcello Mastroianni fu senz’altro estremamente plastica e duttile e lo conferma proprio la galleria di personaggi interpretati nel corso della lunga carriera. Tra i registi che lavorarono maggiormente con l’attore di Fontana Liri possiamo identificare in Ettore Scola il demiurgo di una figura imbruttita in senso lato, ovvero di un Mastroianni spazialmente scollato, disgiunto da quella è che l’icona del divo. Tale traccia è visibile soprattutto nelle collaborazioni degli anni Settanta tra attore e regista . Possiamo in sostanza affermare che lo Scola degli anni Settanta lavorò in direzione spaziale, immettendo il corpo di Mastroianni in luoghi e in contesti a lui profondamente estranei. Parallelamente, nel medesimo decennio, Marco Ferreri lavorò in direzione opposta avvicinando spesso il personaggio all’uomo, ma non senza evidenziare la profonda contraddittorietà di questa operazione . Sul finire del decennio e nel corso di tutti gli anni Ottanta, Ferreri, Fellini e Scola su tutti aprirono la strada ad una riscrittura che gioca sul/con il corpo di Mastroianni a livello temporale; l’attore in questi anni passa infatti dall’invecchiamento precoce Ciao Maschio del 1978 a personaggi profondamente nostalgici e malinconici, soltanto in apparenza immutabili (Ginger e Fred, Intervista), fino a divenire emblema di una generazione ormai passata e simbolo di uno scontro-incontro con quella presente.
Torniamo sul caso di Ginger e Fred e in particolare sull’idea di un ritorno al «Marcello del tempo». Nel film di Fellini Mastroianni interpreta Pippo, un ballerino che ha alle spalle una carriera nel varietà in coppia con Amelia (Giulietta Masina). Il duo divenne famoso negli anni Trenta e Quaranta grazie all’imitazione delle due star hollywoodiane Ginger Rogers e Fred Astaire; dopo molti anni lontani dal palco, Amelia e Pippo si incontrano nuovamente in occasione della trasmissione televisiva Ed ecco a voi, organizzata per riproporre al pubblico alcune (mostruose) glorie del passato. Nell’intervista rilasciata da Mastroianni in occasione del primo ciak di Ginger e Fred, l’attore si sofferma sulla volontà tutta felliniana di portare in scena il Mastroianni di sempre, quello magro, quello «di un tempo». Eppure nel film l’attore interpreta un ballerino molto anziano, stempiato, dal volto incavato, un uomo che si lascia cogliere da improvvise riflessioni sulla morte e che non può nascondere un evidente declino fisico. La magrezza cui si accennava precedentemente e che fu una tra le prime caratteristiche tracciate dal regista e dagli sceneggiatori, sembra dunque avere maggiormente a che fare con il deperimento e non, come si supponeva, con il vigore e la vitalità giovanile. La caratterizzazione dei personaggi di Pippo e Amelia, a nostro avviso, ha molto a che vedere con gli intenti e con le “polemiche” che Fellini ha voluto indirizzare al mondo della televisione. Una televisione strettamente imparentata con quella berlusconiana, basata cioè sul ripescaggio nostalgico e stantio e sulla «estorsione di sentimenti e di emozioni improntati dal più ribaldo patetismo». I due ex ballerini, anziani e ingessati, costretti a ripetere i passi di danza che li hanno resi celebri, rientrano dunque volenti o nolenti all’interno di questa «organizzazione baracconesca». Nonostante il personaggio di Pippo sembri dunque agli antipodi rispetto all’immagine di un Mastroianni immutato, e nonostante egli sia molto lontano da quella impronta primigenia data da Marcello Rubini, ci sembra che quanto affermato dall’attore nell’intervista citata possa ugualmente trovare un riscontro. In prima istanza il film di Federico Fellini gioca volutamente su due livelli temporali: un presente confusionario e dispersivo e un passato dorato dal quale attingere forme e contenuti. Si hanno dunque anche due livelli temporali del personaggio interpretato da Mastroianni: il Pippo del varietà e il Pippo televisivo. Federico Fellini esordì alla regia proprio con un film dedicato al mondo del varietà (Luci del varietà, Alberto Lattuada e Federico Fellini del 1950) con Ginger e Fred il regista mette in scena l’ultimo, timido atto di resistenza di questa realtà nei confronti della opposta forza fagocitatrice della televisione. Fred-Pippo incarna, se vogliamo, l’unico superstite del mondo dell’avanspettacolo e la sua unicità risiede proprio nella consapevolezza del ruolo asservito e soggiogato dello spettatore nei confronti del mezzo televisivo. L’intento di Pippo non è quello di partecipare allo show in qualità di oggetto nostalgico e patetico, quanto piuttosto quello di approfittare della schiera di italiani intenti a vedere la trasmissione per accusare questi ultimi di essere dei «pecoroni». Il Pippo della televisione è dunque l’immagine presente sbiadita e destinata a scomparire, mentre il Pippo del varietà è l’immagine passata – invisibile ma ugualmente palpabile della giovinezza e della vitalità fisica. È proprio questo intangibile eppure continuo rimando al passato che, a nostro avviso, alimenta e rinvigorisce l’immagine di un Mastroianni immutato e immutabile. Troviamo riscontro di quanto detto anche grazie all’immagine utilizzata nell’incipit del film e anche nella locandina italiana. I due protagonisti del film vengono immortalati in una immagine che va ricondotta presumibilmente agli anni in cui la coppia fittizia esordì sul palcoscenico. Ginger e Fred indossano un frac nero, lo stesso che utilizzerà Pippo nel corso della performance televisiva, i loro volti sembrano contraffatti, i loro corpi slanciati e longilinei. Reich nota come questa immagine sia profondamente chiarificatrice rispetto all’immaginario felliniano della cultura americana e dei suoi protagonisti, ma anche Umberto Eco, nel commemorare Ginger Rogers poco dopo la sua morte, ricorda come la coppia hollywoodiana abbia influenzato l’intera società, quella statunitense ma non solo. Ci sembra utile in questa sede approfondire il lavoro di Tazio Secchiaroli su Marcello Mastroianni; oltre alla fotografia utilizzata per le locandine, riportiamo qui una fotografia realizzata per la promozione del film, che a nostro avviso risulta efficace per rimarcare alcune caratteristiche specifiche del corpo dell’attore. Come si nota, quest’ultimo viene immortalato in una postura più naturale rispetto a quella scelta per sponsorizzare il film: le mani, nascoste nelle tasche del vestito, amplificano l’artificialità opposta della posa di Giulietta Masina, il sorriso è accennato e più spontaneo. È insomma un’immagine scevra dal personaggio e dalla stratificazione che quest’ultimo comporta. Questa immagine, unita all’abito fortemente iconico indossato dall’attore, ricorda per certi versi l’analogo richiamo tra la fotografia cartoonesca di Mastroianni/Mandrake scattata da Secchiaroli nel 1972 e la successiva interpretazione del mago di Intervista. Ci sembra dunque che il fotografo romano, fin dagli anni Sessanta intimamente legato all’immaginario del set felliniano così come a quello divistico di Mastroianni, abbia avuto un’importante funzione nell’eternizzare l’icona dell’attore. Le immagini di Mandrake e di Fred, infatti, stagliate su uno sfondo neutro e palesemente artefatto, immortalano un istante di giovinezza e vitalità caratteristiche più o meno fittizie, che fungono da modello ideale per la costruzione dei personaggi felliniani. Sembra dunque risiedere anche qui l’idea di un Mastroianni immutato, o meglio di una costruzione statica, pressoché astratta, dalla quale attingere. Il personaggio di Pippo ci sembra altresì importante per la rappresentazione che esso dà della vecchiaia e dell’invecchiamento maschile. Il tentativo di dimostrare la propria vitalità passa dunque attraverso la relazione con l’altro sesso e in questo caso attraverso il personaggio di Amelia/Masina. Secondo Reich è proprio in occasione di questi confronti, e con maggiore evidenza durante l’esibizione del duo sul palcoscenico, che ancora una volta si rivela la figura dell’inetto. Caratteristica che, come nota la studiosa, ha costantemente accompagnato l’attore fin dai ruoli degli esordi, pur venendo di volta in volta rimossa o contrastata dalla più facile etichetta di Latin lover. A nostro avviso questa contraddizione, che come ha dimostrato Jacqueline Reich sarebbe alla base della figura di Mastroianni, si fa particolarmente evidente nell’ultimo ventennio di carriera dell’attore. Come si è ricordato più volte, già il Bell’Antonio, in anni non sospetti e in modi sottilmente taciuti, aveva affiancato all’immagine di un giovane Mastroianni il cupo richiamo dell’impotenza. È però soltanto negli ultimi anni di vita e di carriera dell’attore che si gioca proprio sul rendere fortemente esplicito ciò che prima era implicito e si fa dunque emergere, nei modi più svariati, il segno più visibile del declino maschile. Come nota Reich, «in Fellini’s cinematic world, there is no happy ending for the aging man», e una conclusione simile può trovare un riscontro anche nella poetica scoliana. Il lavoro di Ettore Scola ha, tra i numerosi aspetti di interesse, la peculiarità di fondarsi sulla compresenza e mai sulla rivalità o superiorità di due o più attori protagonisti. La centralità del volto dell’attore e la capacità di quest’ultimo di essere al contempo cellula singola e parte di una più ampia coralità ci offre l’occasione di analizzare la figura di Mastroianni sotto un nuovo aspetto. Le parole di Giacomo Manzoli, pur essendo indirizzate verso l’analisi di un preciso contesto cinematografico e culturale, ci sembrano ugualmente adatte per introdurre un film che, per ragioni principalmente storiografiche, risulta uno tra i più conosciuti di Ettore Scola. La terrazza del 1980 viene infatti visto come un film spartiacque che segnò la fine della commedia all’italiana e, soprattutto, dei suoi protagonisti. Se la fortunata stagione ebbe inizio idealmente sulla terrazza di un palazzo popolare che vedeva Dante Cruciani interpretato dal grande Totò alle prese con un gruppo di ladri improvvisati quali erano Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Renato Salvatori, Tiberio Murgia e Carlo Pisacane ne I soliti ignoti, sempre su di una terrazza questa stessa stagione vide la propria fine. Tra i tanti invitati alla cena romana, il regista sottolinea i drammi umani di cinque volti che hanno popolato il cinema italiano e non solo (Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Jean-Louis Trintignant e Serge Reggiani). L’occasione conviviale ma tutt’altro che festosa è dunque soltanto un pretesto per mettere in luce i cinque resoconti di una stagione passata. L’intero film è infatti permeato di riferimenti al passato e più in generale a tempi ritenuti migliori rispetto a quelli contemporanei. Migliori per la politica e per l’industria cinematografica, per sceneggiatori e produttori che inseguono maniacalmente la risata, per i rapporti interpersonali ma soprattutto per come si era. L’ossessione di tutti i personaggi è infatti il ricordo di loro stessi, un’immagine che sembra allontanarsi drammaticamente ad ogni serata trascorsa sulla terrazza romana. “Vecchio” e “giovane” sono le parole che tornano più spesso, insistentemente, in tutte le vicende narrate dal regista, e anche al cinquantaseienne Mastroianni non viene risparmiato l’assillante confronto con le nuove generazioni e con i cambiamenti della società. Vista la complessità strutturale e non solo del film di Scola, ci soffermiamo su di una scena che è a nostro avviso esemplificativa per i temi qui trattati. Ci riferiamo ad uno dei momenti finali, l’unico in cui i protagonisti compaiono insieme e non subiscono alcuna irruzione o interruzione da parte di terzi. Luigi (Mastroianni), Amedeo (Tognazzi), Enrico (Trintignant) e Mario (Gassman) sono seduti in un angolo della terrazza intenti a lanciarsi accuse reciprocamente. Particolarmente interessanti e rivelatrici risultano le critiche mosse a Luigi, il quale, secondo le parole di Enrico, «continua a cercare la salvezza nella parodia di se stesso» operando quelli che vengono definiti «camuffamenti». Questa affermazione ci sembra particolarmente significativa soprattutto se osservata in luce dell’operazione di mascheramento per eccellenza effettuata da Scola stesso sul corpo di Mastroianni in C’eravamo tanto amati. La sequenza in questione non è inscritta all’interno della cena centrale del film ma rappresenta una sorta di epilogo. I medesimi ospiti si ritrovano in seguito alla morte di Serge per trascorrere l’ennesima serata che, come un antico refrain, scorre lentamente tra aneddoti, battute sempre le stesse risate di circostanza e scontri politici e ideologici stantii. La scena registra una breve ma significativa e improvvisa esplosione dovuta a una insofferenza generale che serpeggia per tutto il film e che colpisce i protagonisti in modo differente, ed è proprio in questa difformità che risiede a nostro avviso il fulcro dell’intero film. In seguito all’abbandono di Galeazzo, personaggio fondamentale sul quale torneremo in seguito, tra Amedeo e Luigi vi è uno scambio di battute che delinea due precise modalità di confronto con il proprio passato nonché due attitudini differenti rispetto alla cosiddetta crisi di mezza età. «Fino ad adesso abbiamo assodato una cosa: che il più coglione di tutti è Luigi» dice Amedeo, il quale riceve la pronta risposta di Luigi/Mastroianni: «Sì certo. Io sono il più coglione. Ma non sono disperato come te, che corri dietro agli anni col fiatone e ti tingi anche i capelli». In questo dialogo tra i due si trova la caratterizzazione del personaggio di Luigi, un uomo che mente spudoratamente, che passa dall’inibizione infantile dei propri sentimenti all’esplosione anch’essa infantile di rimorsi e conflitti. Il personaggio tende dunque a soprassedere, a dimenticare gli evidenti cambiamenti fisici, ma è allo stesso tempo consapevole che è anche attraverso di essi che i rapporti interpersonali tendono a mutare (quando Carla chiede a Luigi come sta, l’uomo risponde inginocchiandosi e facendo un rapido giro su se stesso, come a dimostrare la stretta relazione tra benessere fisico e mentale). Anche Amedeo, così come Luigi, rincorre la propria moglie e tenta di compiacerla dimostrandosi al passo con i tempi sia intellettualmente (producendo il film L’Apostata, un film che va contro la sua idea di cinema come mezzo esclusivamente nonrivoluzionario), che fisicamente (l’uomo si tinge effettivamente i capelli). La placida ammissione di Luigi/Mastroianni viene dunque seguita da quella di Amedeo- Tognazzi il quale, togliendosi la camicia dai pantaloni, ammette di fronte agli amici di portare anche la pancera. Mentre Enrico- Trintignant si limita a osservare silenziosamente l’accaduto, con quell’atteggiamento introverso che ha sempre contraddistinto l’uomo e i personaggi da lui interpretati, Mario – Gassman si esibisce sulla terrazza portando un’ultima performance cinematografico-teatrale, con una esplosione articolata, esagitata e atletica, degna di un mattatore. Le quattro reazioni, ma specialmente quelle più concitate di Gassman e Tognazzi, ci sembrano decisamente rivelatrici rispetto al labile e contraddittorio confine tra interpretazione “naturale” e interpretazione di se stessi, tra personaggio pubblico e privato, tra «il conformarsi ai modelli previsti per loro e l’individuazione propria, personale e spesso rivoluzionaria messa a punto del medesimo costrutto». In questo saggio non approfondiamo con l’attenzione che meriterebbero i numerosi casi di echi e riproposizioni che interessano i mattatori riuniti sulla terrazza ma ci limitiamo ad accennare ad alcuni casi emblematici in cui il personaggio/uomo emerge in modalità eloquenti. Per quanto riguarda la figura di Ugo Tognazzi, la «corsa dietro agli anni» e la messa in discussione del proprio aspetto, posto a confronto con uomini più giovani e con donne a tutti gli effetti indomabili su tutti La voglia matta del 1962 di Luciano Salce, sono state delle costanti dei suoi personaggi. Spesso Tognazzi interpreta uomini che si scrutano allo specchio, che si “tirano” il volto per farlo assomigliare a quello di un tempo, che trattengono il fiato per sembrare più magri o che, più semplicemente, si osservano nella loro esteriorità. Il personaggio di Amedeo è sicuramente il più ancorato a quello del vero Tognazzi; lo dimostra lo spezzone di un reale film cui prese parte e che diviene occasione di sfottò per la moglie Enza (Ombretta Colli). Ma ancora più interessante è la frase pronunciata da Amedeo stesso, il quale, parlando del prossimo film in cantiere, I nuovi tabù, ne descrive la struttura e gli attori che vi prenderanno parte: «Cinque episodi tutti copiosamente da ridere, con un pizzico di sesso ma senza esagerare. Insomma un Sordi, Manfredi, Tognazzi, Pozzetto, Muti». Egli tenta spesso di allontanarsi dai canoni della recitazione teatrale puntando proprio su questi ultimi e sul loro rovesciamento caricaturale. Tale parodia giunge poi ai limiti della metatestualità nel momento in cui l’attore inscena veri e propri monologhi teatrali, come nel caso de Il mattatore di Dino Risi del 1960, nel quale Gassman interpreta la rocambolesca e romanesca orazione di Marco Antonio dal Giulio Cesare di W. Shakespeare, opera con la quale l’attore si confrontò realmente sul palcoscenico. Ma si pensi anche all’interpretazione ne I soliti ignoti, film nel quale un Gassman balbuziente si lascia andare ad un vero e proprio monologo in birignao dinnanzi al commissario; o ancora all’arringa dagli echi desichiani dell’avvocato D’Amore nell’episodio Testimone volontario de I mostri di Dino Risi del 1963. Se guardiamo alla lunga carriera dell’attore, però, notiamo come questa convivenza tra anima teatrale, anima cinematografica e in seguito anima televisiva (dove le ultime due sono necessariamente parodia della prima), si spinga indisturbata fino agli anni Novanta. Si pensi alla trasmissione tv Gassman legge Dante e al successivo risvolto comico degli sketch proposti da Tunnel: Gassman legge le analisi cliniche, Gassman legge il menu o Gassman legge il cartello dell’oculista. Ne La terrazza Mario-Gassman parla di sé in terza persona, l’uso dei primi e primissimi piani taglia quasi del tutto dall’inquadratura l’uso energico delle mani e delle braccia caratteristica tipica della recitazione gassmaniana per soffermarsi maggiormente sul volto magro e scavato, rosso dalla rabbia. L’uomo sottolinea il suo carattere pusillanime, si autodefinisce «dolente erudito» e «implacabile stronzo», ma in questo climax ascendente di ira, ciò che porta la situazione alla normalità, ciò che in definitiva definisce l’impossibilità di un effettivo cambiamento, è il «bho, che ne so?». Il personaggio, interrogato sul significato dell’invettiva appena fatta, non sa dare altra risposta, o meglio, coerentemente con quanto detto sulla propria vigliaccheria, sceglie consapevolmente di far rimanere tutto esattamente così com’è. Lo stesso «bho» veniva posto a conclusione di un altro film decisivo nella carriera di Ettore Scola, ovvero C’eravamo tanto amati. Nel film che tante volte è stato citato nel corso di questi capitoli è proprio la filosofia del «bho» – che è poi filosofia tutta scoliana – a farsi strada nelle vite dei personaggi, per insidiarsi poi in molti film successivi del regista. Il disagio che fa la sua comparsa negli animi dei quattro attori, come abbiamo visto, si palesa sotto forme differenti: lo sfogo da mattatore di Gassman, il silenzio introverso di Trintignant, l’ammissione grottesca di Tognazzi e, in ultimo, il camuffamento di Mastroianni o, in linea con la tesi proposta da questo libro, il continuo riproporsi di medesimi costrutti e personaggi. Come si è accennato in precedenza, il personaggio di Galeazzo, pur rimanendo al di fuori delle vicende centrali del film, interpreta a nostro avviso un ruolo decisivo. Galeazzo in sostanza interpreta se stesso, Galeazzo Benti, un attore che, di ritorno dal Venezuela, tenta di essere riammesso nella «mecca del cinema». Ne La terrazza il personaggio viene presentato a più riprese dai diversi invitati alla cena. Luigi lo descrive come «attor giovane di teatro, cinema e rivista dei ruggenti anni Cinquanta», Amedeo ricorda come l’attore dalla «verve non indifferente», abbia lavorato con Emmer, Mastrocinque e Mattoli, dati reali che però non vengono apprezzati dai registi emergenti, i quali sembrano piuttosto alla ricerca di attori con «drammi interiori». Anche il personaggio di Galeazzo, così come i casi analizzati nelle pagine precedenti, vive il presente con una vena nostalgica, ripropone instancabilmente vecchie gag e giochi di parole figli di una precisa epoca storica e cinematografica. Il personaggio di Galeazzo, che dagli esordi non ha mutato in alcun modo il proprio repertorio, intende rispolverare il personaggio del gagà, ruolo nel quale fu realmente imprigionato, al fine di farlo conoscere alle nuove generazioni. È dunque viva anche in lui la visione di un cinema profondamente sedimentato, in grado di alimentarsi, a distanza di trent’anni, dallo stesso catalogo di volti e personaggi che era venuto delineandosi nel dopoguerra. Tali considerazioni, come visto nelle pagine precedenti, tornano anche in Ginger e Fred e nella critica alla televisione berlusconiana degli anni Ottanta. Una televisione basata appunto sul continuo riciclaggio di immagini. Galeazzo è però l’unico personaggio del film ad uscire dalla scena, l’unico che tenta in qualche modo di abbandonare i panni che gli sono stati a lungo cuciti addosso per trovarne di nuovi e più adatti. Enigmatica e al contempo risolutrice è la frase finale pronunciata dall’uomo prima di lasciare definitivamente la terrazza: «quanto a voi, restate così come siete». È da notare in questa sequenza anche la scelta stilistica di mantenere dentro al quadro i quattro protagonisti della vicenda, tenendo al di fuori gli altri invitati e i personaggi secondari. Luigi, Enrico, Amedeo e Mario sono infatti ripresi di spalle – come spesso avviene nel corso del film – e sembrano essere gli interlocutori principali e i diretti interessati dell’invettiva di Galeazzo. La mostra intitolata “Ieri, Oggi, Sempre” in omaggio ad uno dei film più famosi di Mastroianni, la mostra offre un viaggio visivo nella storia del cinema italiano attraverso l’obiettivo di celebri fotografi che hanno catturato momenti intimi e pubblici del divo 100 foto per 100 anni, in un viaggio unico e affascinante attraverso i momenti più iconici e significativi della vita di Marcello Mastroianni che è stato un ambasciatore del cinema italiano nel mondo. La sua eleganza, la sua ironia e la sua capacità di dare vita a personaggi complessi e affascinanti lo hanno reso una leggenda. Le immagini esposte esploreranno le molteplici sfumature dell’attore, non solo nei suoi ruoli cinematografici più celebri, ma anche nella sua dimensione privata, lontano dai riflettori cercando di svelare anche i meccanismi dietro le quinte attraverso un percorso coinvolgente ed interattivo. Il percorso espositivo si snoda su due temi fondamentali: uno on set con focus su alcuni momenti durante gli spettacoli o le riprese, ed uno off set che rivela al visitatore l’uomo Marcello Mastroianni, approfondendone il personaggio e raccontando la sua storia.
Biografia di Marcello Mastrianni
Marcello Mastroianni (nome completo all’anagrafe Marcello Domenico Vincenzo) nasce a Fontana Liri, provincia di Terra di lavoro (oggi provincia di Frosinone), il 28 settembre 1924 da Ottorino, impiegato presso il laboratorio chimico del locale Polverificio Militare, e da Ida Irolle, ex impiegata della Banca d’Italia. La famiglia Mastroianni, originaria della vicina Arpino, è una famiglia di falegnami, di artigiani-artisti, che ha scelto di vivere a Fontana Liri perché il nonno di Marcello, Vincenzo, padre di dieci figli (tra cui Umberto, che diverrà scultore di fama internazionale), aveva qui un laboratorio di falegnameria e contemporaneamente lavorava come capo-modellista presso il Polverificio Militare da poco impiantato in paese. Nel 1926 il nonno Vincenzo viene trasferito dal Ministero della Guerra, da cui dipendeva il Polverificio, all’Arsenale di Torino e in pochi anni porta con sé tutta la numerosa famiglia, fra cui Marcello, all’età di quattro anni, con la mamma. Ottorino cura ancora per qualche tempo gli interessi a Fontana Liri, visitando di tanto in tanto la famiglia a Torino e raggiungendola definitivamente nel 1930, dopo la nascita, il 7 novembre 1929, del secondo figlio, Ruggero (che diverrà uno dei più famosi montatori cinematografici italiani).
Gli anni di Torino si rivelano per la famiglia Mastroianni anni difficili, di grandi difficoltà economiche, dovute sia alla mancanza di lavoro, sia ai problemi di salute di Ottorino. Così, quando Marcello frequenta ancora le prime classi delle elementari, nel 1933, la famiglia si trasferisce di nuovo, questa volta a Roma, nel quartiere Tuscolano, dove il padre di Marcello apre insieme al nonno Vincenzo una bottega di falegname. Marcello conclude le elementari presso l’Istituto A. Diaz in Piazza Lodi e si iscrive all’Istituto di Avviamento professionale Duca d’Aosta in Via Taranto, che a quel tempo ospitava una sezione del Centro Sperimentale di cinematografia. Mentre è ancora studente, mosso dalla passione per la recitazione, manifestata già dall’infanzia, inizia quasi per gioco a recitare negli spettacoli allestiti nell’Oratorio della parrocchia dei Santi Fabriano e Venanzio e poi in una Filodrammatica del suo quartiere. Il sogno di fare l’attore lo porta ben presto a frequentare gli Studi di Cinecittà e, tramite i “buoni” per fare le comparse offertigli da amici che gestivano un ristorante all’interno della struttura (la famiglia Di Mauro), nel 1938 partecipa come comparsa in Marionette di Carmine Gallone, con Beniamino Gigli e Carla Rust e nel ’40 in Tosca, diretto da Jean Renoir e Carl Koch, assistente Luchino Visconti. Viene poi scritturato da Alessandro Blasetti per una parte ne La corona di ferro (1941) e da Mario Camerini in Una storia d’amore (1942). A Cinecittà, durante le pause delle riprese, cerca insistentemente di farsi presentare a Vittorio De Sica, già regista affermato, tramite segnalazioni della sorella del regista, ex collega di sua madre presso la Banca d’Italia. Dopo varie insistenze e vari dinieghi, riesce ad ottenere di partecipare come comparsa nel film I bambini ci guardano (1943). Nel 1943 consegue il diploma di perito edile presso l’Istituto Tecnico-Industriale Carlo Grella, oggi Galileo Galilei, e quindi si iscrive alla facoltà di Economia e Commercio, non tanto per conseguire la laurea, quanto con l’obiettivo di entrare nel C.U.T. (Centro Universitario Teatrale presso l’Università di Roma Studium Urbis), frequentato a quel tempo da registi e attori fra più prestigiosi del momento. È questa l’unica possibilità per lui di recitare in teatro. Per mantenersi agli studi trova lavoro come disegnatore presso il Comune di Roma e nello stesso anno, per evitare la chiamata alle armi, partecipa a un concorso presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze e viene assunto come cartografo. Dopo gli eventi dell’8 settembre 1943 l’Istituto viene assorbito dall’Organizzazione Todt e spostato dai Tedeschi a Dobbiaco, per poi essere trasferito in Germania. Marcello lascia l’Istituto e, con un falso lasciapassare, insieme al pittore Remo Brindisi, fugge a Venezia, dove i due sbarcano il lunario vendendo ai turisti i disegni dei monumenti veneziani. Dopo la Liberazione Marcello raggiunge di nuovo la famiglia a Roma e trova un impiego di contabile presso la casa di distribuzione cinematografica Eagle Lion Films. Nell’immediato dopoguerra continua a recitare in vari teatri di Roma ( il Quirino, il Teatro delle arti, il teatro dell’Ateneo, il Teatro di via XX Settembre e di Via Piacenza) con vari registi: Lucio Chiavarelli (Liebelei, di Schnitzler, Vestire gli ignudi di Pirandello, Tutti i figli di Dio hanno le ali di O’ Neal); Mario Landi (Gli Indifferenti di Moravia); Anna Maria Rimoaldi (I dieci piccoli negretti da un racconto di Agatha Christie). Interpreta, è vero, piccoli ruoli, ma tali che comunque gli danno la possibilità manifestare il suo talento e di acquistare visibilità nell’ambiente dei teatri romani. Nel 1947 interpreta la parte di un giovane rivoluzionario, un vero e proprio ruolo, anche se secondario, nel film I Miserabili di Riccardo Freda: è con questo film che inizia la lunga, ricca, filmografia di Marcello Mastroianni. Ma la sua vera attività di attore inizia in teatro, al CUT, dove era stato ammesso nel ’46 per interessamento di Giulietta Masina, e dove nel 1948 ottiene il ruolo di Orlando, accanto a lei, Angelica, nella commedia Angelica di Leo Ferrero. L’interpretazione di Mastroianni, anche se la sua è una parte secondaria, è molto apprezzata dal regista, dal pubblico e dalla critica e così egli viene scritturato nella Compagnia di Nino Besozzi. Silvio D’Amico, presente a una rappresentazione, scrive che Marcello mostra un’entusiastica inesperienza.
In una replica della commedia viene notato da Emilio Amendola, amministratore della compagnia di Luchino Visconti, che andava alla ricerca di un giovane attore per una parte in Rosalinda o Come vi piace di W. Shakespeare. Presentato al regista e al suo assistente Franco Zeffirelli, Marcello è messo alla prova e quindi scritturato per la prima volta regolarmente: il debutto è al teatro Eliseo, il 26 novembre dello stesso anno. Da questo momento, fino al 1956, Marcello fa stabilmente parte della compagnia Morelli-Stoppa-Visconti ottenendo ruoli sempre più importanti. Il sodalizio con Luchino Visconti è fondamentale per la sua carriera artistica: lui, che non aveva mai frequentato né scuole di recitazione né accademie, capisce che con tale Maestro, severo ed esigente, a volte anche ingiurioso, può realizzare quell’esperienza che gli manca e che poi si rivelerà preziosa per la sua carriera di attore, non solo teatrale ma soprattutto cinematografico. «Certo, nel teatro, entrai dalla porta d’oro.- così dichiarerà Marcello- La compagnia diretta da Visconti era probabilmente la più importante di quegli anni: c’erano Rina Morelli, Paolo Stoppa, Vittorio Gassman […].Quelli furono certamente gli anni che mi hanno formato. La disciplina di Visconti, la sua grande esigenza, il suo perfezionismo (ma da artista!); i consigli ricevuti dai miei colleghi, specie da Rina Morelli, che mi proteggeva come una mammina: se so fare qualcosa, credo che lo devo molto a loro» (Marcello Mastroianni, Mi ricordo, sì, io mi ricordo, a cura di Francesco Tatò, Ed.Baldini & Castoldi, 1997, p. 47). Tullio Kezich dirà che Mastroianni fu tirato su dal conte Visconti, ex allenatore di cavalli, con le durezze riservate a un purosangue. Con Visconti Marcello muove i primi passi da attore e consegue i primi successi in teatro recitando, dopo Rosalinda, in altri nove spettacoli teatrali: Un tram che si chiama desiderio, di Tennessee Williams (in due edizioni , la prima all’Eliseo a Roma, nel 1949 e la seconda al Teatro Nuovo di Milano, nel 1951); Oreste di V. Alfieri (al teatro Quirino nel 1949); Troilo e Cressida di Shakespeare (al Giardino Boboli per il Maggio Musicale Fiorentino nel 1949); Morte di un commesso viaggiatore di A. Miller (al Teatro Eliseo nel 1951); La locandiera di C. Goldoni (in due edizioni, nel 1951 al Teatro La Fenice di Venezia e nel 1956 a Parigi per il Festival delle Nazioni), Le tre sorelle (1952) e Zio Vanja di Čechov (1955) al Teatro Eliseo. Il 12 agosto 1950 sposa Flora Carabella, figlia del musicista Ezio Carabella, anche lei attrice, collega nell’opera Un tram che si chiama desiderio. Il 2 dicembre del 1951 nasce la prima figlia Barbara. Nel frattempo, mentre si afferma sul palcoscenico e acquista sempre più visibilità e successo, Marcello è sempre più attratto dal cinema e continua a frequentare gli studi di Cinecittà lavorando in maniera febbrile e con interpretazioni sempre più importanti (spesso di giorno partecipa alle riprese e di sera recita in teatro). Il suo grande talento, sostenuto dalla sua bellezza latina, umilmente smagliante, e dalla sorprendente fotogenia, emerge con una serie di interpretazioni nella parte del giovanotto simpatico, ingenuo e gioviale, corteggiato da ragazze maliziose, nei film di Luciano Emmer (Una domenica d’agosto del 1950, Parigi è sempre Parigi del 1951, Le ragazze di Piazza di Spagna del 1952, Il bigamo1956); di Claudio Gora ( Febbre di vivere del 1953); di Carlo Lizzani (Cronache di poveri amanti del 1954); di Giuseppe De Santis (Giorni d’amore del 1954). Ricordando quest’ultimo film, in cui interpreta un giovane contadino ciociaro, così si esprime l’attore in un’intervista a Matilde Hochkofler: «Sono stato contento di fare questo contadinello simpatico nel film di De Santis, e poi c’ era il ritorno un po’ a certe origini perché si svolgeva in Ciociaria e io sono ciociaro. Fu un piccolo viaggio sentimentale in questa terra , è un film di cui conservo un bel ricordo». Gli anni Cinquanta decretano il suo successo di attore cinematografico: in dieci anni gira quasi 40 film, con interpretazioni di livello sempre più elevato che lo portano a conquistare i primi riconoscimenti importanti e l’ammirazione del pubblico di tutte le età. Tra i film più apprezzati di questa prima fase sono da ricordare : Peccato che sia una canaglia (1954) di Alessandro Blasetti (premiato con la Grolla d’oro) e Giorni d’amore (premiato con il Nastro d’argento del 1954 e con il Gran Premio per il miglior film al festival di San Sebastian nel 1955). Vanno anche ricordati, come film significativi di questo periodo, I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, Un ettaro di cielo di Glauco Casadio (1959), Adua e le compagne (1960) e Fantasmi a Roma, (1961) di Antonio Pietrangeli. Nel 1957 è di nuovo diretto da Luchino Visconti, questa volta al cinema, in Le notti bianche, da F.M. Dostoevskij: è un’esperienza importante, nuova, che gli permette di sperimentare un diverso modo di fare regia da parte di Visconti e la diversa tecnica di recitazione tra teatro e cinema. Lavorerà di nuovo sotto la direzione di Visconti nel 1967 nel film Lo straniero, tratto dal romanzo omonimo di Camus e prodotto dalla Master Film, la casa produttrice fondata dallo stesso Mastroianni che aveva già prodotto Spara forte, più forte…non capisco! (1966) di Eduardo De Filippo, tratta dalla commedia Le voci di dentro dello stesso autore. Dopo la produzione di questi due film la Master Film chiuderà i battenti. Gli anni cinquanta vedono nascere il sodalizio artistico, ma anche l’affettuosa amicizia, con Vittorio De Sica (per il quale Marcello ha avuto fin dai primi anni un’ammirazione particolare) e Sofia Loren: soprattutto sotto la direzione di De Sica Marcello e Sofia realizzano un’intesa perfetta che consentirà loro di girare nell’arco di quaranta anni, con diversi registi, ben undici film, undici veri capolavori: Tempi nostri -Zibaldone n. 2,1954 di Blasetti; La bella mugnaia,1955 di Mario Camerini; La fortuna di essere donna, 1956 di Alessandro Blasetti; Ieri, oggi, domani,1963 di Vittorio De Sica; Matrimonio all’italiana ,1964 di Vittorio De Sica; La moglie del prete, 1970 di Dino Risi; I girasoli, 1970 di Vittorio De Sica; Una giornata particolare,1977 di Ettore Scola; Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova.Si sospettano moventi politici, 1978 di Lina Wertmüller;Prêt-à-Porter,1994 di Robert Altman. In quest’ultimo film Altman ripropone dopo molti anni, in chiave ironica, la scena famosa dello spogliarello di Sofia. Lo stesso Marcello definisce questo periodo forse il momento più bello non solo della mia vita di attore ma della mia vita di uomo. E il lavoro di attore lo definisce il lavoro più bello del mondo perché` non si cresce mai, si viene accuditi, truccati, guidati, si può fare eternamente i bambinoni, interpretare i propri sogni…”. Ma il momento felice della vita artistica di Marcello deve ancora arrivare! Esso si realizza con l’incontro con Federico Fellini, che nel 1960 gli propone di interpretare il ruolo del protagonista ne La dolce vita e con il suo metodo di lavoro, creativo e giocoso, fa emergere tutte le potenzialità dell’attore, gli fa vivere quella che egli stesso definisce “l’avventura meravigliosa, l’esperienza più esaltante della mia carriera e della mia vita, in senso assoluto…. Sin da quando iniziammo a girare, ebbi l’impressione che avrei preso parte a un evento eccezionale, e così fu, anzi a quella prima impressione corrispose una stupefazione sempre maggiore. Fu qualcosa di irripetibile…”. Marcello vive un momento di grande tensione, prova il brivido del cambiamento, prende coscienza delle sue straordinarie capacità e della sua maturazione artistica, spicca il volo e da attore italiano diventa divo internazionale: da questo momento aggiunge fascino alla sua immagine, è capace di affrontare qualsiasi ruolo, si afferma come l’attore più rappresentativo del cinema italiano del dopoguerra, diventa l’attore italiano più riconoscibile nel mondo, il più imitato, il non ancora uguagliato. L’incontro con Fellini, il successo de La dolce vita, con il prestigioso Nastro d’argento, lo avvicinano sempre di più a un lavoro maggiormente creativo e personale. Con Fellini raggiunge un’intesa perfetta e un’amicizia fraterna che gli consente di incarnare le insoddisfazioni, le carenze, le debolezze che mettono in crisi l’artista e di divenire il suo alter ego in Otto e mezzo (1963), il film più complesso e impegnativo, ma anche il più estasiante della sua carriera artistica, della carriera artistica di Federico Fellini e, si può dire, del cinema italiano. Con Fellini realizza altri tre capolavori: La città delle donne (1980), Ginger e Fred (1986) e Intervista (1987). A partire dagli anni Sessanta il nostro attore perde la sua aria provinciale, interpreta ruoli sempre più diversi, frutto di uno studio accorto e puntuale: così passa man mano dal semplice contadinello ciociaro di De Santis, dal tassista bello e simpatico e dai ruoli stereotipati dei primi film, al “cittadino”, all’intellettuale, al giornalista, al professore, all’uomo di mondo, rappresentando con la stessa disinvoltura il bello, il brutto, il ridicolo, il giovane, il vecchio, perfino l’omosessuale o l’uomo incinto.
Subito dopo La dolce vita diventa l’attore italiano più ricercato e più amato nel mondo: nel 1962 è sulla rivista americana Time con un servizio speciale dedicato all’attore straniero più apprezzato e ammirato, viene premiato al Festival di Mosca e viene invitato a presentare con Fellini 8 1/2 al Festival Theatre di New York. È la prima volta che si reca in America, dove visita le città più importanti, incontra tanti attori, si reca a Hollywood e a Los Angeles e ottiene un successo eccezionale da parte del pubblico e dei cineasti americani. Ma non si lascia sedurre dal cinema americano e rifiuta qualsiasi proposta di lavoro. Nel ’65 a Roma si trasferisce in una villa lussuosa, in via di porta S. Sebastiano. Ora è preso da un’attività cinematografica febbrile: poliedrico e fantasioso, è ricercato dai registi più importanti e impegnati, già conosciuti o nuovi, dai quali si lascia dirigere per film di qualsiasi genere, per personaggi più disparati, indimenticabili. Con molti registi instaura rapporti di profonda stima e affettuosa amicizia, che renderanno il suo lavoro più piacevole e creativo e che dureranno anche fuori dal set , per tutta la vita. Così nascono i suoi capolavori con Mauro Bolognini (Il bell’Antonio, 1960; Per le antiche scale, 1975); Michelangelo Antonioni (La notte, 1961); Elio Petri (L’assassino, 1961; La decima vittima, 1965; Todo modo, 1976); Pietro Germi (Divorzio all’italiana,1961); Valerio Zurlini (Cronaca familiare, 1962); Mario Monicelli (Vita da cani,1950 di Monicelli e Steno;Il medico e lo stregone, 1957; Padri e figli, 1957; I soliti ignoti, 1958; I compagni, 1963; Casanova ’70, 1965; Le due vite di Mattia Pascal, 1985); Vittorio De Sica (Ieri, oggi, domani, 1963; Matrimonio all’italiana, 1964; Amanti, 1968; I girasoli, 1970); Dino Risi (Il viale della speranza, 1953; La moglie del prete, 1971; Mordi e fuggi, 1973; Fantasma d’amore, 1981); Marco Ferreri (L’uomo dei cinque palloni, 1965; Break-up, riedizione integrale dell’episodio di Oggi, domani e dopodomani, 1965; La cagna, 1972; La grande abbuffata, 1973; Non toccare la donna bianca, 1974; Ciao maschio, 1978; Storia di Piera, 1983); Luigi Comencini (La valigia dei sogni, 1953; La donna della domenica, 1975; L’ingorgo – Una storia impossibile, 1978); Lina Wertmüller (Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova, si sospettano moventi politici, 1978); Ettore Scola (Dramma della gelosia – tutti i particolari in cronaca, 1970; Permette? Rocco Papaleo, 1971; Una giornata particolare, 1977; La terrazza, 1980; Il mondo nuovo, 1982; Maccheroni,1985; Splendor,1989; Che ora è?,1989; Paolo e Vittorio Taviani (Allonsanfan, 1974); Francesca Archibugi (Verso sera, 1990); Liliana Cavani (La pelle, 1981; Oltre la porta, 1982); Marco Bellocchio (Enrico IV, 1984); Giuseppe Tornatore (Stanno tutti bene, 1990). Nel 1966 Marcello decide di tornare al teatro con un genere nuovo per lui, la commedia musicale: per circa tre mesi canta e balla al Sistina interpretando con la regia di Garinei e Giovannini il ruolo di Rodolfo Valentino in Ciao Rudy, lavoro che però non conclude, pagando un’alta penale, perché chiamato di nuovo da Fellini per girare Il viaggio di G. Mastorna. Sfortunatamente questo film non verrà realizzato e Mastroianni, per recuperare la somma pagata, accetta di girare Il papavero è anche un fiore di Terence Young. Nel 1968 sul set di Amanti di Vittorio De Sica incontra Faye Dunaway, la protagonista femminile, con la quale avrà una storia sentimentale. Dal ’68 al ’70 è spesso negli USA e a Londra; qui gira Diamanti a colazione (Diamonds for breakfast), diretto da Christopher Morahan e Leone l’ultimo di John Boorman . Nel 1971 gira con la regia di Luigi Magni Scipione detto anche l’Africano, film in cui per la prima e l’unica volta recita come attore il fratello Ruggero, il montatore cinematografico, nelle vesti di Scipione Emiliano: fratelli anche nel film i due Mastroianni vivono un’esperienza singolare, molto divertente insieme a Silvana Mangano, amica e amore giovanile di Marcello. Dal 1971 al 1974 Marcello si trasferisce a Parigi, città che lo conquista fino a diventare la sua patria d’elezione, dove ha una relazione con l’attrice Catherine Deneuve, dalla quale il 28 maggio del 1972 nascerà la figlia Chiara, che diventerà anch’essa attrice. Con la Deneuve interpreta: Tempo d’amore (Ça n’arrive qu’aux autres) di Nadine Marquand Trintignant (1972), e La cagna (girato in Italia nel 1972), La grande abbuffata (La grande bouffe),1973 e Touche pas à la famme blanche (Non toccare la donna bianca), 1974, tutti e tre diretti da Marco Ferreri.
A Parigi Marcello, a suo agio per l’ambiente culturale e la compagnia degli amici, ma anche per la lontanza dai clamori giornalistici, risiederà per periodi più o meno lunghi, anche dopo che il rapporto con Catherine Deneuve si interrompe, vivendo anche un’intensa attività cinematografica e teatrale. In Francia Marcello interpreta ancora Che? di Roman Polanski nel 1972, Salute l’artiste (L’idolo della città) di Yves Robert 1973, L’evenement le plus importante depuis que l’hommea marché sur la Lune (Niente di grave, suo marito è incinto), 1973 di Jacques Demy. Ormai Marcello è attore internazionale: il suo carattere docile e le sue notevoli capacità espressive gli consentono di entrare in sintonia anche con molti prestigiosi registi stranieri che lo vogliono protagonista nei loro film, nei quali egli si sforza di doppiare se stesso anche in lingue che non conosce, come l’inglese, il russo o il greco. Tra i registi internazionali, alcuni conosciuti già negli anni Cinquanta, oltre ai già citati registi francesi, non si possono non ricordare per la qualità e il successo dei film Jules Dassin,(La legge 1959); Louis Malle (Vita privata, 1961); Bruno Barreto (Gabriela, 1983); Pál Sándor Miss Arizona, 1987); Christian de Chalonge (Il ladro di ragazzi, 1991); Roman Polanski (Che?, 1972); George Pan Cosmatos (Rappresaglia, 1973); Theo Angelopulos (Il volo, 1986, Il passo sospeso della cicogna,1991); Nikita Mikhalkov (Oci ciornie, 1987); Gene Saks (Cin Cin, 1990); Maria Luisa Bemberg (Di questo non si parla, 1992); Beeban Kidron (La vedova americana (Used People),1992); Bertrand Blier (Uno, due, tre, stella!, 1993); Robert Altman (Prêt-à-porter, 1994); Raul Ruiz (Tre vite e una sola morte, 1996); Manoel de Oliveira (Viaggio al principio del mondo, 1997). Nel 1978 debutta con successo nello sceneggiato televisivo Le mani sporche, dall’omonimo dramma teatrale di Jean-Paul Sartre, prodotto dalla Rai in tre puntate con la regia di Elio Petri, che ne cura anche la traduzione dal francese e l’adattamento televisivo. Di nuovo gira per la televisione italiana nell’84 Le due vite di Mattia Pascal, con la regia di Mario Monicelli, sceneggiato liberamente tratto dal romanzo Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, realizzato in tre puntate per la TV, in seguito ridotto per un film. Se il nome di Marcello Mastroianni è strettamente legato con il cinema, con il miglior cinema italiano, non bisogna dimenticare che nella sua vita artistica un ruolo fondamentale lo riveste il teatro, e non soltanto agli esordi, con Luchino Visconti, ma anche in seguito. Nonostante i pressanti impegni cinematografici egli spesso torna alla dieta teatrale, come lui stesso la definisce, perché sente il bisogno di fare un po’ di pulizia nel suo modo di recitare. «Questo è un mestiere meraviglioso: ti pagano per giocare. E tutti ti battono le mani. Sì, se hai un minimo di qualità. Ma che si vuole di più?……. Il cinema, nella sua generosità, non pretende molto dall’attore. Qualche volta fa troppo freddo o troppo caldo e le difficoltà finiscono lì. Magari è interessante, ma il rigore del teatro è un’altra cosa. Quando entri in questo tempio dove non c’è mai il sole, dove ogni virgola diventa importante, dove se sbagli hai sbagliato e non puoi rifare niente […].Entro e esco dal mondo del teatro perché correre dei rischi fa bene, soprattutto a una certa età. Perché il teatro ti dà di nuovo voglia di divertirti. È il gioco più bello del mondo (Napoli – “Il Mattino” del 18 marzo 1996). Nel 1983 da una grande prova di recitazione nel film di Luciano Tovoli Il generale dell’armata morta. Nel 1984, dopo diciotto anni da Ciao, Rudy, Mastroianni recita a Parigi, in francese, in Cin Cin di Billetdoux, con la regia di Peter Brook, che gli offre l’opportunità di sperimentare un nuovo modo di lavorare in teatro, per lui più congeniale e molto entusiasmante. Con l’interpretazione di Mastroianni Cin Cin viene considerato a Parigi l’evento teatrale dell’anno. Nel 1987 torna di nuovo in teatro per realizzare un sogno accarezzato trent’anni prima: interpretare Čechov, l’autore più amato e a lui più congeniale, con Partitura incompiuta per pianola meccanica, liberamente tratto dal Platonov e altri racconti cechoviani. La riduzione teatrale e la regia sono di Michalkov, un regista considerato dai più (e dallo stesso Mastroianni) un “genio”. Lo spettacolo, indimenticabile, realizzato al Teatro Argentina di Roma con un allestimento costosissimo, rappresenta un vero e proprio successo.
Nel 1988 torna in Ciociaria, ad Arpino, paese di origine dei suoi nonni, per girare Splendor, con la regia di Ettore Scola. È in questa occasione che torna a Fontana Liri, per un doveroso omaggio al suo paese natale, da cui è stato sempre lontano per motivi contingenti, ma che più volte ha ricordato nelle interviste e nei racconti di vicende familiari, rievocando il mestiere del nonno e del padre, la casa, le pietanze, il dialetto, gli aspetti più folkloristici. Nel 1995 subisce un intervento presso l’American Hospital di Neuilly-sur-Seine per un tumore al pancreas ma, nonostante la gravità della malattia, non si abbatte. In breve tempo torna sul set per girare Sostiene Pereira di Roberto Faenza, Cento e una notte di Agnès Varda, Al di là delle nuvole di Michelangelo Antonioni e Wim Wenders. Nel 1996 gira Tre vite e una sola morte, di Raùl Ruiz e Viaggio all’inizio del mondo, di Manoel de Oliveira. In Portogallo, durante le pause delle riprese di quest’ultimo film, Marcello, pur tra evidenti segni di stanchezza e sofferenza per la malattia, realizza con la regia di Anna Maria Tatò, la sua compagna degli ultimi anni, il film-documentario Mi ricordo, sì, io mi ricordo, ripercorrendo come in una confessione autobiografica, in maniera appassionata e giocosa, a volte ironica, i momenti più significativi della sua vita e della sua carriera artistica. L’ultima pagina della sua carriera di attore Mastroianni la scrive con la rappresentazione teatrale de Le ultime lune, una commedia inedita di Furio Bordon, per la regia di Giulio Bosetti. Lo spettacolo, portato avanti per due stagioni in molte città italiane (1995-96), spesso interrotto per la crudele malattia che lo stava consumando, vede Marcello “rappresentare se stesso” nelle vesti di un ex professore ottantenne che riflette con lucidità sull’emarginazione e sulla solitudine degli anziani mentre il tempo della vita si abbrevia sempre più. Il successo di questo spettacolo è travolgente. L’ultima rappresentazione, “eroica“ per le sue condizioni di salute, la tiene a Napoli il 1° Novembre 1996: è stremato nel fisico e nell’animo tanto da dover recitare seduto e spesso è vinto dalla commozione per l’argomento che lo tocca molto da vicino, ma realizza una rappresentazione sublime, unica, conclusa fra applausi interminabili che accompagnano il sipario che cala per l’ultimo atto della commedia e della sua vita. Marcello muore a Parigi il 19 dicembre 1996. A Roma, in segno di lutto, la Fontana di Trevi, simbolo del film La dolce vita e indubbia icona del cinema italiano, resta chiusa per un giorno, silenziosa, listata a lutto con dei lunghi drappi neri per volere dell’Amministrazione comunale, mentre un’infinita sequenza di ammiratori rende omaggio alla salma, traslata nella capitale italiana ed esposta nella camera ardente allestita in Campidoglio, prima di essere tumulata al cimitero del Verano.
Premi e riconoscimenti
Durante la sua carriera artistica, e in particolare negli ultimi venti anni, Marcello Mastroianni ha ricevuto notevoli premi e riconoscimenti prestigiosi: 3 Nomination all’ Oscar come miglior attore: 1963 per Divorzio all’italiana , 1978 per Una giornata particolare, 1988 per Oci ciornie); Festival di Cannes :nel 1970 per Dramma della gelosia -tutti i particolari in cronaca e nel 1987 per Oči čërnye (Oci ciornie) ; sei David di Donatello: 1964 Ieri, oggi e domani; 1965 – Matrimonio all’italiana; 1983, Nomination Miglior attore protagonista per Il mondo nuovo; 1986, Ginger e Fred; 1988, Oci ciornie; 1995, Sostiene Pereira; 8 Nastri d’argento: 1955 Giorni d’amore,1958 – Le notti bianche,1961 La dolce vita,1962 Divorzio all’italiana,1986 Ginger e Fred,1988 Oci ciornie,1991 Verso sera, 1997 – Nastro d’argento speciale (postumo) 12 Nomination per il Nastro d’argento: 1957 La fortuna di essere donna,1959 Racconti d’estate,1961 Il bell’Antonio,1963 Cronaca familiare,1964 8½,1965 Matrimonio all’italiana,1966 La decima vittima,1971 Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca),1983 Il mondo nuovo,1986 Maccheroni,1990 Che ora è?,1996 Sostiene Pereira; Globo d’oro per Miglior attore:1976, La donna della domenica, Per le antiche scale e Todo modo;1977, Una giornata particolare; 1984, Enrico IV; 1986, Ginger e Fred e Maccheroni; 1991, Verso sera; Ciak d’oro: 1988, Miglior attore protagonista per Oci ciornie
BAFTA: 1963, Miglior attore internazionale per Divorzio all’italiana;1964, Miglior attore internazionale per Ieri,oggi e domani. Golden Globe(miglior attore) 1963 Divorzio all’italiana 1965 – Henrietta Award 1965 – Nomination Matrimonio all’italiana 1978 – Nomination Una giornata particolare 1993 – Nomination La vedova americana Mostra del cinema di Venezia -Coppa Volpi: 1989, Che ora è?;1993, Uno, due, tre, stella! Premio Felix alla carriera: 1988
Significativi il Leone d’oro alla carriera (1990), il Premio David di Donatello Speciale alla carriera nel 1983 e nel 1997( in memoriam), la medaglia d’oro del Comune di Roma (1986) e le onorificenze: Commendatore al merito della Repubblica (1967), Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana ( 27 aprile 1987) e Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana (Roma, 16 marzo 1994) . Una grande testimonianza di affetto per Marcello Mastroianni arriva anche, a distanza di cinque anni dalla scomparsa, dal suo paese natale, Fontana Liri, dove l’Amministrazione comunale, con lo scopo di onorare l’attore e mantenere viva la sua immagine soprattutto presso le giovani generazioni, promuove la costituzione del Centro Studi ricerche e documentazione Marcello Mastroianni, attore (associazione legalmente riconosciuta il 29 gennaio 2000) che annualmente organizza manifestazioni di Omaggio a Marcello Mastroianni e promuove iniziative culturali ed artistiche. Il Consiglio Regionale del Lazio, con legge regionale n. 37 del 19 dicembre 2001, istituisce per il Comune di Fontana Liri il Premio annuale Marcello Mastroianni al Cinema italiano, «finalizzato a valorizzare i giovani attori italiani», premio realizzato in sole due edizioni (2002 e 2003).
Castel Sant’ Angelo Roma
dal 12 Ottobre 2024 al 12 Gennaio 2025
Mastroianni. Ieri, Oggi, Sempre
dal Martedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.30
Lunedì Chiuso
La città delle donne © Reporters Associati & Archivi-Cineteca di Bologna Foto dell’allestimento, © FMantova