La stretta di mano, i sorrisi accennati, le espressioni di stupore, la fronte corrucciata e gli occhi strizzati. Se vittoria è stata, per Kamala Harris a incidere in maniera determinante sull’esito del confronto con Donald Trump, è stata certamente la sua mimica facciale. Le parole contano, è chiaro, soprattutto in un dibattito politico, ma a volte i silenzi, accompagnati dalle eloquenti, inequivocabili reazioni del volto, possono pesare più di una battuta ficcante. Stoccate a scena muta, di quelle che fanno rumore senza aprire bocca e che magari generano ancora maggiore empatia nel pubblico. Ecco perché, nell’incontro-scontro televisivo andato in scena la scorsa notte, da Philadelphia al resto del mondo rimbalzano come meme impazziti le reazioni della Vice Presidente a ogni parola di Donald Trump. Una qualità della candidata democratica certamente favorita anche dalle modalità e dal regolamento di svolgimento del confronto: microfono spento mentre parla l’avversario ma in onda va il doppio schermo con bella mostra delle reazioni del contendente. Il corpo di Harris era spesso rivolto in direzione di Trump, lo ha incalzato con lo sguardo, ha scosso la testa per mostrare sdegno e disappunto, ha lanciato sorrisi beffardi quando ha compreso che l’avversario aveva travalicato i confini della realtà (vedi «cani e gatti mangiati dai migranti»). La strategia comunicativa di Trump, invece, è stata diametralmente opposta. Una costante poker face, faccia da poker imperscrutabile. Mai un segno di empatia, raramente ha staccato lo sguardo dalla telecamera, la testa girata al massimo di qualche grado quando c’era da attaccare l’avversaria. Dalla stretta di mano all’ultimo tema, 90 minuti di esercizio di stile e forse una lezione di comunicazione politica: per vincere non serve sempre la parola a effetto, basta ascoltare e lasciarsi tradire dalle emozioni.
Piero Bonito Oliva