O bianco o nero, o di qua o di là: abbiamo costruito un mondo così complesso da aver bisogno di un’Intelligenza artificiale per tentare di governarlo, eppure il nostro pensiero è sempre più tentato dalla semplificazione. Inevitabile allora un atteggiamento da tifoseria che dal mondo del calcio si estende a tutti gli aspetti della realtà. «Una mentalità duale e non inclusiva rivela tutto il suo limite e, in definitiva, la sua non fondatezza», scrive il sacerdote e teologo Hubertus Blaumeiser, direttore della rivista del Gruppo editoriale di Città Nuova «Ekklesía» in un numero tutto dedicato al tema delle polarizzazioni. «Il fatto che a tutti i livelli – prosegue Blaumeiser – da quelli più macroscopici come la politica e la visione di Chiesa ai rapporti nel quotidiano, continuiamo a non intenderci e spesso a polarizzarci, mostra che non abbiamo ancora compreso che siamo fatti per accogliere e custodire dentro di noi l’altro nella sua diversità, per lasciarcene lavorare e arricchire». Blaumeiser cita Papa Francesco che invita continuamente ad aprirsi alla pluriformità del reale, sapendo che eventuali conflitti e tensioni possono diventare generativi. Un esempio: l’11 ottobre 2022, in occasione 60.mo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II, Papa Francesco disse tra l’altro: «Non cediamo alla tentazione della polarizzazione. Quante volte si è preferito essere ‘tifosi del proprio gruppo’ anziché servi di tutti, progressisti e conservatori piuttosto che fratelli e sorelle, ‘di destra’ o ‘di sinistra’ più che di Gesù.» Matteo Corradini ebraista e scrittore, si occupa di didattica della Memoria e fa ricerca sulla Shoah. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni tradotte anche in Germania e in Francia. Tra i riconoscimenti ricevuti il Premio Andersen nel 2018 e nel 2024. L’ultima sua iniziativa è una newsletter settimanale in cui propone riflessioni sul presente e sul passato intitolata «Noi siamo Memoria». Al centro della sua intervista ai media vaticani, le conseguenze delle polarizzazioni e l’importanza del principio di umanità per leggere le vicende del mondo:
Matteo Corradini, a proposito di una forma mentale attualmente diffusa che tende a semplificare, lei parla di «pigrizia binaria». Che cosa vuol dire?
Anzitutto starei sulla parola pigrizia. La nostra pigrizia oggi ci spinge a guardare il mondo con occhi molto superficiali e gli occhi superficiali non ci permettono di approfondire, di scendere oltre la superficie delle cose e di andare al cuore dei problemi, al cuore delle persone e delle parole. La pigrizia oggi è questa: è una pigrizia che non ci spinge all’ozio, ma spesso ci spinge all’odio, per fare un gioco di parole. Ed è una pigrizia un po’ binaria, cioè tendiamo a inscatolare il mondo in argomenti che ci piacciono e in argomenti che non ci piacciono, in persone che ci piacciono e in persone che non ci piacciono. E di fronte ad ogni argomento prendiamo una parte come se ogni argomento fosse una partita di pallone. Questo è un modo pigro di pensare. Quando invece si scende sotto la superficie, s’incontrano le sfumature delle persone, dei problemi e allora lì sì ci vengono dei «mal di testa», però noi siamo, credo, su questo pianeta per farci venire dei mal di testa, non per starcene tranquillamente al sole.
Non solo le persone comuni pensano in modo binario, spesso lo fanno anche certi politici, certi intellettuali. Ma che cosa produce questo genere di pensiero?
Se a pensare in modo binario lo facciamo noi, siamo persone oziose, se lo fa un politico credo la cosa sia più grave perché la nostra pigrizia ci fa guadagnare una sorta di serenità, una vita più leggera. Il politico invece ci guadagna, ci guadagna consenso spesso, e sa che una parte del suo consenso viene da questa lettura superficiale delle cose. Questo genere di pensiero, ahimè, in certe situazioni genera l’impossibilità di dialogare e genera di fondo anche quello che noi chiamiamo «guerra». Pensiamo a un luogo oggi che è dilaniato dal conflitto, come la Striscia di Gaza. Troppo spesso l’idea è di pendere per una parte o per l’altra, per cui se si empatizza, per esempio, per gli israeliani che sono stati colpiti così duramente negli attacchi del 7 ottobre, sembra quasi che in automatico si debba per forza odiare il popolo palestinese, come se le due cose, avere a cuore tutte due le parti, per forza non potessero andare a braccetto, come se l’empatia per le persone che sentiamo più vicine non ci insegnasse in fondo l’empatia anche per le persone che sentiamo lontane. L’empatia per chi abbiamo vicino non ci deve spingere a odiare chi è più lontano, invece purtroppo questo accade.
Ma che differenza c’è tra accettare la complessità del mondo e fare invece un po’ un esercizio di equilibrismo? Che differenza c’è tra superare la mentalità duale, binaria, e il non prendere posizione? Perché è importante anche distinguere tra il bene e il male…
Questo certamente, ma la distinzione più autentica che noi possiamo fare tra bene e male è sapere che questo bene e questo male risiedono in ognuno di noi. E ogni volta che invece dividiamo il mondo in bene o male, è come se dicessimo che c’è una parte che rappresenta in toto il bene, e c’è una parte che rappresenta in toto il male. E invece conoscere le sfumature, ci permette di trovare dell’empatia anche per le persone che apparentemente sono dall’altra parte. Quello che conta spesso – e lo vedo anche nel mio lavoro nelle scuole – è l’umanità. Se noi guardiamo la realtà a volo di uccello dall’alto, inevitabilmente ci troviamo davanti a persone che hanno delle idee geopolitiche chiarissime – restando sull’esempio di Gaza, tutti siamo diventati degli esperti di Hamas, degli esperti di politica israeliana – invece se scendiamo nelle storie delle persone, questa divisione così forte quando si parla di geopolitica quasi scompare perché entrano in gioco le persone, l’umanità delle persone. Purtroppo quando si guarda questi eventi dal di sopra, si tende a giustificare la violenza e questo non va mai bene.
Lei sottolinea l’importanza dell’empatia, di sentire il dolore degli altri. Ma spesso le vittime per noi non contano allo stesso modo…
La divisione pigra del mondo in buoni e cattivi ci fa considerare anche le vittime come buone o cattive. Ma le vittime di per sé, quando non sono morte per cause legate alle loro azioni, in quanto vittime sono tutte buone. Questa cosa non ce la dobbiamo mai dimenticare, perché anche di fronte ai morti di Gaza, ai morti del 7 ottobre, agli uccisi dal terrorismo, siamo spinti ancora una volta a mettere queste vittime sulla bilancia e questo credo sia un ragionamento che dovrebbe stare fuori dai nostri discorsi.
Lei è scrittore ed ebraista, quello che lei fa è un grande lavoro sulla Memoria della Shoah. Come ha vissuto e che cosa è cambiato per lei, per il suo impegno, dopo la tragedia del 7 ottobre scorso in Israele?
Sono cambiate tante cose: è stato un duro colpo, e non solo dal punto di vista umano. È stato un duro colpo per tutti noi che da tanti anni facciamo memoria e crediamo che la memoria del passato possa incidere sul presente. Quelle domande su quanto la storia possa insegnare al presente – su quanto la memoria di quella storia può cambiare il presente – di solito un po’ troppo teoriche, dopo il 7 ottobre sono diventate di colpo argomenti pragmatici. Il 7 ottobre ha messo davanti a tutti la realtà e questo bagno di realtà oggi ci spinge a fare memoria per certi versi in un modo diverso, ossia a potenziare ancora di più quelle domande che erano rimaste forse un po’ sopite. Che cosa cambia in noi la conoscenza della storia? Che cosa significa costruire una comunità che è parte di quella storia? In Israele ci hanno pensato e sono nati gruppi di israeliani e palestinesi che dialogano tra loro. Sono gruppi che esistevano prima del 7 ottobre e che, per fortuna, hanno continuato a esistere dopo. Faccio solo un esempio: c’è un gruppo che si chiama «Parents Circle» e nasce dall’idea che dietro ogni lutto personale, familiare, ci sia la possibilità di una pace e non ci sia la possibilità di una vendetta. Il problema è che in certe zone in Israele tutti o quasi hanno un una persona che è stata uccisa dall’altra parte e questo lutto familiare genera spesso altri lutti, genera odio e rivalsa. Ecco, questo gruppo da tanti anni cerca di mettere insieme israeliani e palestinesi per dialogare. È nato da due padri, uno palestinese e l’altro israeliano, che avevano entrambi una figlia uccisa in modo violento dalla parte opposta. Ecco che cosa significa per loro fare memoria, significa che la tua storia, che nel loro caso è molto dolorosa, non genera violenza e fa nascere una generazione nuova nella quale la violenza non è contemplata.
Purtroppo in questi mesi stiamo assistendo a una crescita dell’antisemitismo un po’ dappertutto. Lei che ne pensa?
Di sicuro l’antisemitismo non è mai morto. Dopo il 7 ottobre è aumentato e vediamo che è aumentato in particolare l’antisemitismo nel web, nei social. E questo antisemitismo parlato, fatto di comunicazione, non è secondario perché è la base sulla quale si struttura poi l’antisemitismo più fisico. Scrivere messaggi antisemiti nel web significa essere in fondo i mandanti morali di quello che poi accade fuori dal computer, fuori dalle tastiere. E questo sì che è preoccupante. Capita che all’aumentare dell’antisemitismo parlato aumenti anche l’antisemitismo fisico, perché spesso la violenza fisica si basa sulle parole: chi fa violenza ha bisogno di questo «conforto», ha bisogno di non sentirsi solo, ha bisogno di sentire che c’è un entourage di persone violente come lui che approva la sua violenza. Ecco, dobbiamo smettere di approvare la violenza per non dare nessun tipo di respiro a chi è violento.
Lei è in contatto spesso con i giovani: con loro in particolare che cosa significa fare memoria?
I giovani, credo, hanno di sicuro un rapporto distaccato con la storia, la storia per loro è qualcosa di lontano. Quella della Shoah che si è conclusa ormai ottant’anni fa, è già lontana per noi e lo è ancora di più per la generazione che viene dopo di noi. Ma io non credo sia lontana l’idea di poter fare di questa storia, e delle storie dentro di essa, una memoria personale e collettiva. Noto cioè nei giovani molto interesse quando, per esempio, racconto la storia dei loro coetanei di 80 anni fa, perché quei coetanei di ottant’anni fa erano meno lontani da loro di quello che noi pensiamo, quindi dobbiamo trovare il modo che la storia possa diventare memoria in un modo saggio, educativo, in un modo bello e, mi passi la parola, in un modo «simpatico», un modo che ti tocca dentro.
Lei dice di essere uscito a un certo punto dai social, luogo privilegiato spesso di aggressività e di ogni tipo di polarizzazione, scegliendo di offrire delle riflessioni attraverso quelle che lei chiama «letterine». Una newsletter settimanale che ha intitolato «Noi siamo Memoria». Qual è l’obiettivo e l’idea di fondo di questa iniziativa?
Da tempo meditavo di uscire dai social. Anni fa ne avevo diversi, li usavo come vetrina per le mie iniziative, per i miei libri, però dopo un po’ mi sono stancato di usarli anche come vetrina. E allora, da un giorno all’altro, ho chiuso tutto e sto meglio perché quelli sono luoghi dove la pigrizia regna. E allora ho aperto una newsletter che diventa un blog e una volta a settimana spedisco delle riflessioni – che io chiamo «letterine» per mantenere il contatto con la concretezza delle cose – sulla Memoria. Una volta alla settimana ho questo spazio nel quale racconto una cosa che mi preme raccontare.
Adriana Masotti