Per ricordare i suoi Vent’anni di Attività
Giovanni Cardone Luglio 2024
Fino al 30 Settembre 2024 si potrà ammirare alla Galleria Area24 Space Napoli la mostra dedicata per ricordare i suoi vent’anni di attività, fondata nel 1997 da Andrea Della Rossa, nasce come Galleria virtuale denominata “adrart-cyberspazio dell’arte contemporanea” con l’obiettivo di avvicinare all’arte contemporanea un pubblico sempre più vasto e soprattutto il giovane collezionismo. L’esposizione è curata da Andrea Della Rossa. In mostra opere di Little Angel, Nobuyoshi Akari, Robet Carrol, Franco Ciuti, Riccardo Dalisi, Lucio Del Pezzo, Thorsten Kirchhoff, H.H. Lim. Pino Pinelli, Cocetto Pozzati, Liu Ren, Mario Schifano, Daniel Spoerri, Noriaki Yokosuka , Michele Zaza. Tutti ricordiamo nel settembre 1999 il giornale “La Repubblica” realizza “Katalogo Internet Campania” – una bussola per non perdersi nella Rete, con il quale la riconosce come il primo Centro di promozione degli artisti online della Campania e tra i primi in Italia. Lungo il percorso della sua attività la Galleria Area24 Space ha proposto anche le ricerche dei seguenti artisti, la cui cifra stilistica è apprezzata sia dalla critica che dal collezionismo di alto profilo: Luigi Auriemma , Antonio Barbagallo, Prisco De Vivo, Pina Della Rossa, Giuseppe Di Guida , Vincenzo De Simone, Sandro Mele, Luigi Pagano, Enzo Palumbo, Felix Policastro, Jacopo Ricciardi e Stefania Sabatino. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle neoavanguardie e postavanguardie apro il mio saggio dicendo : La cultura postbellica europea e nordamericana è invasa da “neo” e “post”. Secondo molti critici le seconde avanguardie (o “neoavanguardie”) non furono altro che una ripetizione dei movimenti storici d’avanguardia, magari con la stessa volontà di rottura, ma indubbiamente con meno verve; dagli anni Sessanta in poi gli artisti cercarono di riannodare il filo che si era interrotto a causa delle due guerre, assimilando esperienze e pratiche già di successo. Riscoprirono alcuni degli espedienti delle avanguardie storiche, quali l’analisi costruttivista dell’oggetto, la pittura monocroma, l’immagine-fotomontaggio, il collage e la critica dei modelli espositivi tramite il ready made, inserendoli però in un contesto contemporaneo. Come ricorda Foster, «quella dei ritorni storici è una vecchia questione nella storia dell’arte; anzi, sotto forma di rinascimento dell’antichità classica, ne è uno dei fondamenti». Se gli anni Trenta simboleggiarono il momento culmine del modernismo, gli anni Sessanta segnarono invece l’epoca del postmodernismo. Postmoderno è ciò che segue il moderno e l’avanguardia storica, rappresenta un’epoca, un periodo di nuovo inizio dopo la fine della modernità; è la cultura di una società di consumatori, nella quale le merci hanno un’importanza fondamentale perché lo stesso mercato è divenuto un’autorità culturale in grado di legittimare o meno un autore. Storicamente il modernismo è stato identificato con le avanguardie storiche, a loro volta associate a un concetto di originalità e antagonismo con le poetiche precedenti dell’accademismo. Il loro programma era demolire l’arte e la sua tradizione: con essa e tramite essa è cambiata l’idea di opera, non più concepibile auraticamente. Il postmodernismo al contrario, non nega ciò che lo ha preceduto, ma lo assimila e lo rielabora nel proprio stile. Fin dal Rinascimento un’opera d’arte era apprezzata non tanto per la sua originalità, quanto per sua la capacità di fare riferimento alla tradizione. La storiografia rinascimentale stabilì un canone di valori e un modello di bellezza ideale, al quale le opere d’arte dovevano attenersi: per Vasari l’arte doveva proseguire verso un classicismo universale che rappresentava la misura per valutare le opere di epoche successive. L’innovazione era contemplata solo come conseguenza implicita del mutare delle condizioni del lavoro artistico e non come fine perseguibile. Di contro, nell’arte moderna l’essere legati a un contenuto particolare o a un determinato tipo di raffigurazione non è più obbligatorio e anzi costituisce un concetto superato, poiché l’arte è divenuta nel tempo uno strumento libero che l’artista utilizza anche con fini introspettivi. Mentre il modernismo simboleggiava una reazione e un tentativo di resistenza all’emergere dilagante della società di massa e della massificazione, il postmodernismo sembra essersi quasi rassegnato nei loro confronti, accettando di venire completamente inglobato nei loro meccanismi. Esso rappresenta una fase storica che occupa quasi tutta seconda metà del XX secolo, durante la quale vi sono state numerose riconfigurazioni materiali e soprattutto culturali, che appaiono come una perdita dei punti di riferimento, quasi in preparazione di una rivoluzione tecnologica. Il suo inizio va ricercato nell’acquisizione del potere rappresentativo: il movimento Concettuale è stato il momento di massima sublimazione ideologica, la prima corrente che si è opposta alle regole del moderno e che ha segnato un punto di non ritorno. In questi anni si è delineata una frattura fra l’ideologia dell’arte e il concetto di “arte per l’arte”; se nel moderno vi è stata la corrosione dell’estetica, nel postmoderno si passa all’esternazione dell’apparenza. Nella società degli anni Settanta l’arte continua a essere un manifesto di etica sociale, ma a seguito del fallimento di determinate ideologie politiche, assume forme e contenuti differenti. Le opere di Kosuth ispirarono intere generazioni di artisti e l’arte Concettuale divenne la rappresentante del portato teorico dell’arte. La pittura è una delle arti in cui il rapporto tra modernismo e postmodernismo assume una valenza chiarificatrice. Il modernismo cercava l’essenza dell’arte: in pittura ciò portò all’eliminazione della rappresentazione figurativa, accusata di eccessiva teatralità, a favore di un ambiente più introspettivo e autocritico. Al contrario il postmodernismo ritiene che l’arte non possa isolarsi dalla quotidianità ed evitare connessioni o scambi con il mondo reale: la teatralità, la rappresentazione e il racconto sono le modalità di articolazione del vissuto umano e quindi simboleggiano una materia che la pittura non può ignorare. A partire dall’architettura il postmodernismo si diffonderà in tutte le arti: in pittura vi sarà il recupero del figurativo, in letteratura l’abbandono degli sperimentalismi, il ritorno dei generi e la commistione tra arte colta e forme più popolari. Il comune denominatore di tutte queste tendenze sarà la rinuncia al dogma fondamentale dell’avanguardia, ovvero la necessità di essere innovatori ad ogni costo. Il postmodernismo abolisce la gerarchia delle avanguardie storiche, secondo la quale ciò che era nuovo doveva inevitabilmente sovrapporsi al passato, rendendolo di conseguenza inutilizzabile e svuotandolo di significato. All’ordinamento fondato sul tempo, tipico del modernismo, sostituisce la valorizzazione dello spazio, privilegiando la performance, che ora rappresenta una forma d’arte vera e propria. Come già ricordato, essa costituisce un evento determinato, che accade in un momento prestabilito, in una sorta di presente perpetuato; il luogo, i partecipanti, le condizioni ambientali in cui tutto avviene diventano le componenti caratterizzanti l’evento stesso. Nella cultura della postmodernità la produzione di linguaggi estetici si inserisce nella perdita di “valore d’uso” e nella riduzione radicale delle opere a “valore di scambio”, in una società votata verso l’esteriorità. Quando Duchamp presentò i suoi ready made negli anni Dieci del Novecento, pose la questione del valore estetico, di cosa contasse veramente nell’arte, suggerendo che in un contesto borghese il valore dipendesse dall’autonomia dell’oggetto, ovvero dalla possibilità di separarlo dal mondo che lo circondava. Da una parte l’opera viene definita secondo il suo valore di scambio (o per Benjamin, l’Austellungswert”, il valore di esponibilità), come accade per una merce; dall’altra essa è definita in termini di valore d’uso. Questo conflitto tra valori rappresenta il punto cruciale dell’ambiguità critica messa in gioco dai ready made. L’arte nel periodo postmoderno favorisce gli investimenti economici, inducendo gli artisti più “integralisti” a isolarsi per evitare compromissioni e perdite di significato causate dalla “contaminazione” con il mercato. Divenuta particolarmente interessante sotto il profilo economico, tanto da rappresentare un vero e proprio investimento monetario, l’arte postmoderna ha progressivamente liberato i propri dogmatismi alla ricerca del successo commerciale e verso la metà degli anni Settanta ha posto fine alle ideologie politiche, iniziando a puntare verso il mercato. L’ideologia sottesa all’azione dell’arte nelle avanguardie storiche e nelle neoavanguardie ha spinto il portato comunicativo verso una radicalizzazione dell’interventismo attivo del singolo individuo; l’arte postmoderna si è posta tra mercato e creazione, tra artista e fruitore, rimanendo però sempre saldamente ancorata al mercato. Il postmodernismo esaurì la propria carica come concetto egemone a livello culturale negli anni Novanta, e ora per indicare la contemporaneità si cercano nuove definizioni, come “era post-umano”, in riferimento ai progressi scientifici e tecnologici e all’intelligenza artificiale. Nel tempo nei confronti dell’avanguardia è stato perpetrato un esproprio di tecniche e linguaggi, ormai da tempo integrati (contro la loro natura) nei sistemi di comunicazione di massa, che ne abusano continuamente; come si vedrà in seguito, il destino di mercificazione e museificazione incombe sull’avanguardia.
Little Angel
Little Angel (New York, 1967).Angel Ortiz, anche conosciuto come Little Angel, è un artista newyorkese la cui arte risente, per un certo periodo, delll’influsso di Keith Haring, di cui diviene amico e collaboratore. Insieme lavorano alla creazione di numerose opere dal 1981 al 1984, tra cui enormi sculture e installazioni, nel 1994 partecipano alla Triennale di Milano con produzioni a due mani. Ortiz è principalmente un graffitista che utilizza una particolare calligrafia nata dalla scrittura ideogrammatica asiatica, peculiarità che ad Haring interessò molto. Singolarmente espone in importanti gallerie americane, inglesi ed italiane.
Nobuyoshi Araki
Araki nasce a Tokyo nel 1940. La sua passione per la fotografia e il cinema lo portano a studiare le due materie alla Chiba University, in cui si laurea nel 1963. Dopo aver concluso gli studi inizia a lavorare per la Dentsu, e incontra Yoko, sua futura moglie. I due si sposano e durante la luna di miele e i primi momenti della loro relazione, il fotografo giapponese scatta le celebri fotografie del Sentimental journey, che diventerà la raccolta che lo porterà alla fama internazionale. Intanto realizza diversi film, come High School Girl Fake Diary nel 1981, che però si rivela un fallimentoo. Conosce Björk, che diventa una sua grande ammiratrice tanto da posare per lui. Negli anni Ottanta concentra la sua produzione sulla zona a luci rosse di Shinjuku a Tokyo, che raccoglierà in Tokyo lucky hole del 1990. Collabora con Playboy, Déjà-Vu ed Erotic Housewives, e viene segnalato in più occasioni alle autorità giapponesi per oscenità. Anche Lady Gaga si fa fotografare dall’artista, che non smette di far parlare di sé: Nobuyoshi Araki perde la vista all’occhio destro nel 2013, esperienza che lo ha portato a realizzare l’esposizione Love on the left eye alla Taka Ishii Gallery di Tokyo. Ha ricevuto numerosi premi durante tutto l’arco della sua carriera, come il Premio Taiyō e il Premio Sun nel ‘64, il riconoscimento da parte della Photographic Society of Japan nel 1990 a cui segue il premio Higashikawa classificandosi alla settima posizione. Infine, nel 2008 ha ricevuto la decorazione austriaca per la scienza e l’arte.
Robert Carroll
Nato nel 1934 a Painesville (Ohio), da una famiglia per metà irlandese e per metà scozzese, si forma artisticamente al Cleveland Institute of Art e alla Western Reserve University, dove vince diverse borse di studio e consegue la laurea in Belle Arti nel 1957. Appena ventenne compie un avventuroso viaggio attraverso il Messico, che ne mette subito in risalto le doti di acuto osservatore della natura; l’anno seguente ottiene, infatti, il Premio Yale Norfolk Summer Art School. Dopo aver esposto le proprie opere in numerosissime personali in tutta Europa e negli Usa, Carroll, a metà degli anni Ottanta, sposta la sua attenzione verso la realizzazione di multivisioni – ciclopiche installazioni multimediali in cui immagini e suoni si intrecciano in un sincronismo assoluto – dedicate ai principali parchi naturali statunitensi, ripetendo l’esperienza anche in Italia a San Rossore, Caprarola, Massaciuccoli e nella riserva naturale del lago di Vico. Tutto questo senza perdere di vista la pittura, che rimane sempre la sua attività principale, alla quale affianca la realizzazione di importanti incisioni, come testimoniano le dieci stampe dedicate al Cantico delle Creature di S. Francesco e le altre due incisioni dedicate a S. Antonio da Padova, con la rappresentazione del giglio, simbolo di purezza, e dell’albero, luogo di gioco e spensieratezza.
Franco Ciuti
Franco Ciuti è nato a Roma il 20 luglio 1938. Ha frequentato l’Istituto d’Arte avendo per maestri Tericle Fazzini e Leoncillo. L’influenza di Leoncillo ha segnato le sue prime opere esposte al Falazzo delle Esposizioni in Roma nel 1961, alla terza Mostra Nazionale d’Arte dei giovani. Seguono una serie di mostre collettive a Tennoli e ad Avezzano, dove e in compagnia di artisti come Pascali e Kounellis. La sua prima grande mostra personale, presso la Galleria Lo Scorpio in Roma è del 1964. Seguono anni di intenso lavoro, in cui l’artista si è allontanato dalle influenze dei suoi primi maestri, alla ricerca di una sua poetica personale e non coinvolto dalle correnti concettualistiche del momento. Il suo interesse è rivolto alla organicità della materia, in special modo alla terracotta. Nel 1975 espone alla Galleria I Due Mondi grandi terrecotte e bronzi, che sono il risultato della sua, ricerca degli anni precedenti. La mostra è stata poi trasferita a Milano alla Galleria Ada Zunino e successivamente alla Galleria Argentario di Trento e alla Biennale di. Campione d’Italia. Le mostre di questi anni ( 1975 — 1977 ) sono state presentate dai critici: Cesare Vivaldi, Dario Micacchi, Vito Apuleo ed altri. Il concetto primario della sua arte, già precisato nelle sue opere, fin dagli anni ’70, diventa ora materia costante, con sempre rinnovata invenzione. Si tratta di un confronto, o meglio, della ricerca di un confronto tra forma organica e geometria essenziale, tra cui il quadrato e i1 cerchio, andando oltre, anche il duro e il molle, lo spigolo e la piega. Nel novembre dei 1985 espone a Palazzo Barberini in Roma e nel 1986 viene invitato ad esporre All’Istituto di Cultura di S. Francisco, Ca. col Patrocinio del Ministero degli Affari Esteri. Rimarrà negli Stati Uniti con una serie di mostre in gallerie private e in Musei pubblici. Tra di esse citiamo: Carnegie Art Museum in Oxnard — Los Angeles ( 1988 ), Cornejo Valley Museurn in Thousand Oaks California ( 1989 ), Hackman Gallery in Palm Springs California ( 1991 ), Lodi Art Gallery in Pasadena ( 1993 ). Ritornato in Italia espone una personale all’Associaíione Culturale Progetto in Roma ( 1995 ) presentata da Arcangelo Izzo. Nello stesso anno ha una personale alla Galleria Nader di Santo Domingo. Nel 1996 espone una serie di grandi bronzi alla Galleria Framart Studio in Napoli. Nello stesso anno la Galleria Luckman Fine Art di Los Angeles organizza una grande mostra personale dei suoi bronzi con attività di conferenze e seminari. Nel 1999 espone alla galleria Varart di Firenze nella personale: Varianze e Volute nei cerchi del Discobolo, presentata da Tommaso Trini. Le sue ultime opere degli anni ’90 si possono definire come » architetture imponderabili » in cui il peso materiale tende allo stato di leggerezza o levitazione.
Riccardo Dalisi
Nato a Potenza il primo maggio del 1931, fino al 2007 ha ricoperto la cattedra di Progettazione Architettonica presso la facoltà di Architettura dell’Università degli Studi Federico II di Napoli. Presso la stessa facoltà è stato direttore e docente della Scuola di Specializzazione in Disegno Industriale. Negli anni Settanta, assieme a Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Andrea Branzi e altri, è stato tra i fondatori della Global Tools, contro-scuola di architettura e design che riuniva i gruppi e le persone che in Italia coprivano l’area più avanzata della cosiddetta “architettura radicale” intorno alle riviste “Casabella” e “Spazio e società”. Le opere nate in quegli anni fanno oggi parte delle collezioni permanenti del Centre Pompidou di Parigi, del Frac Centre di Orléans e del museo Madre di Napoli. Da sempre impegnato nel sociale (resta fondamentale l’esperienza del lavoro di quartiere con i bambini del Rione Traiano, con gli anziani della Casa del Popolo di Ponticelli negli anni ’70 e, negli ultimi anni, l’impegno con i giovani del Rione Sanità di Napoli, del Centro territoriale Il Mammuth di Scampia e dell’Istituto penale per i minorenni di Nisida), ha unito ricerca e didattica nel campo dell’architettura e del design accostandosi sempre più all’espressione artistica come via regia della sua vita. Nella sua ricerca espressiva, che spazia nel mitico, nell’arcaico, nel sacro, i materiali poveri (ferro, rame, ottone) sono impiegati con amorevole manualità artigiana. Nel 1981 ha vinto il premio Compasso d’Oro per la ricerca sulla caffettiera napoletana. Negli ultimi trent’anni anni si è dedicato intensamente alla creazione di un rapporto sempre più articolato e fecondo tra la ricerca universitaria, l’architettura, il design, la scultura, la pittura, l’arte e l’artigianato, mantenendo al centro la finalità di uno sviluppo umano attraverso il dialogo e il potenziale di creatività che ne sprigiona. Nel 2009, dopo lunga ricerca preparatoria, ha presentato, in collaborazione con la Triennale di Milano e la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, la prima edizione del Premio Compasso di Latta, iniziativa per una nuova ricerca nel campo del design nel segno del sostegno umano, della eco-compatibilità e della decrescita. Nel 2014 ha vinto il secondo Compasso d’Oro per il suo impegno nel sociale. Mostre dedicate alla sua attività di architetto, di designer, di scultore e di pittore sono state allestite alla Biennale di Venezia, alla Triennale di Milano, al Museo di Denver, al MoMA di New York, alla Biennale di Chicago, al Museo di Copenaghen, al Museo di Arte Contemporanea di Salonicco, al Museo di Düsseldorf, alla Fondazione Cartier di Parigi, alla Pasinger Fabrik di Monaco, al Tabakmuseum di Vienna, alla Zitadelle Spandau di Berlino, a Palazzo Reale di Napoli, a Palazzo Pitti a Firenze, alla Basilica Palladiana di Vicenza, Galleria di Lucio Amelio Napoli, al Castel dell’Ovo di Napoli, al Chiostro monumentale di Santa Chiara a Napoli, alla Reggia di Caserta.
Lucio Del Pezzo
Lucio Del Pezzo si è formato presso l’Accademia di Belle Arti e l’Istituto d’Arti Applicate. Nel 1958 partecipa alla fondazione del Gruppo 58, d’impostazione neosurrealista e neodada, assieme ad artisti quali Guido Biasi, Bruno Di Bello, Sergio Fergola, Luca (Luigi Castellano) e Mario Persico. La storia del gruppo è strettamente legata al Manifesto nuclearista del 1952 redatto da Enrico Baj e Sergio Dangelo a Milano, del quale decidono di seguire le tracce, promuovendo un’arte che contenga una ripresa della tradizione iconologica locale rompendo però gli schemi figurativi tradizionali. Sotto la guida di Luca, il Gruppo 58 si dota della rivista Documento- Sud come mezzo di promozione del proprio lavoro ed espone a Napoli, Firenze, Roma e Milano. Del Pezzo inizia qui a elaborare il proprio linguaggio artistico, attraverso pitture-oggetto, assemblage in cui un tono ludico si contrappone con un sentire mistico, oltre a rapporti cromatici e formali. Il collage tra objet trouvè e stampe di provenienza popolare dà alle sue opere la valenza di pittura e scultura allo stesso tempo: nei suoi lavori i tratti pop, inseriti nel tempo presente – si mescolano con una temporalità metafisica e personale. Nel 1959 Del Pezzo firma il Manifeste de Naples , che raggruppa i componenti della neoavanguardia napoletana, di quella milanese e altri esponenti della cultura dell’epoca come Nanni Balestrini, Paolo Radaelli, Leo Paolazzi, Sandro Bajini, Edoardo Sanguineti, Luca, Bruno di Bello, Mario Persico, Guido Biasi, Giuseppe Alfano, Donato Grieco, Enrico Baj, Angelo Verga, Ettore Sordini, Recalcati e Sergio Fergola. Nel 1960 si trasferisce a Milano su invito di Enrico Baj e, nello stesso anno, Arturo Schwarz ospita una mostra personale dell’artista nell’omonima Galleria Schwarz. A contatto con le opere di Sironi, Carrà, Morandi e soprattutto di De Chirico, Del Pezzo tende ad ampliare in modo sempre più evidente la componente metafisica nel suo linguaggio, affiancandolo con forme geometriche decontestualizzate. Conia anche la definizione di “Visual Box”, per indicare i diversi piani sui quali si dispongono i propri lavori, a metà tra immagine e oggetto tridimensionale: il suo repertorio si distingue per i pannelli geometrici monocromi, sui quali sono inserite mensole o scavate concavità, che sostengono oggetti come birilli, uova di legno, bocce, manichini, talvolta molto colorati, con il consueto carattere ludico e metafisico. Intorno al 1965 l’artista si trasferisce a Parigi, dove occupa il vecchio studio di Max Ernst in rue Mathurin Régnier 58. Risale al 1968 la sua prima personale nella capitale francese. L’affermarsi della neoavanguardia Nouveau Rèalisme e del desiderio di “riappropriazione del reale” tanto divulgato lo influenza profondamente e lo induce a riflettere sull’elemento dello “scarto”, del rifiuto all’intero della nuova società di massa come dato poetico. Nel 1966 Del Pezzo si affianca ai maestri dell’astrattismo e concretismo italiano, in primis Eugenio Carmi, all’esperienza della Cooperativa del Deposito di Boccadasse , dove tiene una mostra personale. Nello stesso anno gli viene dedicata una sala personale alla XXXIII Biennale di Venezia e Del Pezzo inizia ad ottenere numerosi riconoscimenti nell’ambito artistico internazionale. Negli anni Settanta collabora in veste di grafico con l’azienda Olivetti e con il gruppo automobilistico Renault Italia. Nel 1970 Arturo Carlo Quintavalle cura un’importante antologica dedicata all’artista al Salone dei Contrafforti della Pilotta di Parma, seguita, nel 1974, da una retrospettiva alla Rotonda di via Besana a Milano curata da Guido Ballo. Nel 1979 Del Pezzo rientra definitivamente in Italia e si stabilisce a Milano, dove diventa professore per la cattedra di “ricerche sperimentali sulla pittura” alla nuova Accademia di Belle Arti di Milano al posto di Emilio Tadini. Stabilisce il suo studio sui Navigli di Milano, sua città di adozione. Il suo linguaggio artistico per tutto il suo percorso ha oscillato tra linguaggio pop, neorealista, dadaista e metafisico. Le sue opere, difficili da etichettare, sono delle “Visual Box” in cui l’elemento architettonico e scultoreo, racchiude pittura, collage e oggetti. Un linguaggio ludico e sognante sempre usato da Lucio Del Pezzo come lente di ingrandimento per analizzare e criticare la società di massa e il suo consumismo. Le sue opere, tra quelle di altri artisti, al momento fanno parte di un’iniziativa di beneficenza lanciata dalla Fondazione Pomodoro assieme allo Studio Marconi, e vengono donate a chi sostiene l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri nella lotta contro il Covid-19.
Thorsten Kirchhoff
Thorsten Kirchhoff è un’artista danese nato nel 1960 ma dal 1984 vive ed opera in Italia. Ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 1990 e 1993, alla Biennale di Valencia nel 2001 e alla Triennale di Milano nel 2011. Nel 2012 è stato invitato alla Biennale di Pechino. Ha esposto in numerosi musei in tutto il mondo, tra cui Graz, Lione, Copenaghen, Hanoi, Tel Aviv, Bolzano e Nuoro. Ha collaborato con varie gallerie italiane, tra cui Sperone, De Carlo e Alberto Peola. Il suo lavoro si basa sull’elaborazione di immagini cinematografiche per creare opere multimediali, quadri e opere sonore. Kirchhoff ha ricevuto recensioni positive da parte di critici d’arte come Angelo Capasso, Achille Bonito Oliva, Cristiana Perrella, Luca Beatrice e Tommaso Pincio.
H.H. Lim
H.H. Lim è nato a Kedah, Malaysia, nel 1954 e, dal 1976, vive Roma. Diplomato all’Accademia di Belle Arti, dopo i primi anni dedicati all’assimilazione della cultura occidentale, ha fatto della “resistenza” (e delle sfide) la chiave della sua intera produzione artistica. Con la fondazione dello spazio espositivo no-profit Edicola Notte (1990-2015), è stato tra i principali promotori culturali della capitale, realizzando progetti di importanti artisti italiani e internazionali. Combinando la propria cultura Orientale con quella Occidentale, la sua ricerca è fondamentalmente incentrata sull’inganno delle apparenze e sul valore della parola che, associata a delle immagini, in un illusorio nonsense, innesca spiazzanti cortocircuiti, attraverso i quali analizza la complessità, nonché le contraddizioni, anche socio-economiche, del presente.
Pino Pinelli
Pino Pinelli nasce a Catania nel 1938, dove compie gli studi artistici. Nel 1963 si trasferisce a Milano, dove tuttora vive e lavora, affascinato e attirato dal dibattito artistico di quegli anni, animato da figure quali Lucio Fontana, Piero Manzoni, Enrico Castellani. Partecipa ai premi San Fedele e nel 1968 tiene la sua prima mostra personale alla Galleria Bergamini. Nei primi anni ’70 Pinelli avvia una fase di riflessione e di ricerca, in cui tenta di mettere a fuoco l’imprescindibile nesso fra tradizione e innovazione, con particolare attenzione alla superficie pittorica, alle vibrazioni della pittura. Nascono così i cicli delle «Topologie» e quelli dei «Monocromi», la cui superficie comincia essere mossa da sottile inquietudine, quasi che l’artista volesse restituirci il respiro stesso della pittura. Queste esperienze lo fanno collocare nella tendenza che Filiberto Menna definì «pittura analitica», anche se dal 1976 Pinelli riduce drasticamente la dimensione delle sue opere, che si vanno collocando nello spazio, accostate l’una all’altra, quasi che una deflagazione avesse investito le sue grandi tele e avesse generato una disseminazione dei loro frammenti nello spazio: l’artista abbandona tela e telaio, attratto dal concetto stesso di pittura. Scrive Giovanni Maria Accade nella monografia Pino Pinelli, continuità e disseminazione (Lubrina, Bergamo 1991): «Su queste pelli di daino naufraga, per Pinelli, la concezione di una pittura che riconosce come propria sede l’area delimitata del quadro. Si apre al contrario la prospettiva di una pittura in perenne migrazione, nell’intermediabile spazialità fenomenica. Un’uscita dal quadro che non è negazione della pittura, ma una sua differente concezione. Diversamente inseguita ed essa stessa inseguitrice di uno spazio sempre assorbente e mai compiuto, la pittura si contrae per espandersi, sembra negarsi ma per potersi ancor più affermare». Al di là delle etichette di «pittura analitica», le opere di Pinelli affascinano: corpi inquieti di pittura in cammino nello spazio, fluttanti e migranti in piccole o grandi formazioni, fatte di materiali che recano impressi i segni di un’ansiosa duttilità, e che esaltano la fisicità tattile e la felicità visiva di un colore pulsante di vibrazioni luminose.
Concetto Pozzati
Nasce nel 1935 a Vò di Padova. Nel 1949 si trasferisce a Bologna, dove compie gli studi artistici e da dove inizia, fin dal 1955, una lunga e intensa carriera di mostre, happening, pubblicazioni, docenze, ottenendo numerosi premi e riconoscimenti. Tiene personali a Bologna, Milano, Roma, Genova, Napoli, Firenze, Brescia, Padova, Venezia, Bari, Pesaro, Trieste, udine, Ascoli, Modena, Mantova, Messina, Torino, Livorno, Fano, Dusseldorf, Belgrado, Zagabria, Graz, Lubiana, New York, Friburgo, Johannesburg, Brema, Parigi, Basilea, Bruxelles, Amsterdam, Tokio, Francoforte, ulm, Bonn, Copenaghen, San Paolo del Brasile, Rio de Janeiro, Brasilia, Valencia. Tra le mostre antologiche più significative a lui dedicate si segnalano: Pozzati 1958-1968 presso il Palazzo della Pilotta di Parma (1968); Palazzo Grassi, Venezia (1974); Palazzo delle Esposizioni, Roma (1976); Palazzo Forti, Verona (1986); San Paolo del Brasile (1987); Istituto Italiano di Cultura, Parigi (1989); GAM, Bologna e Museo Civico di Modena (1991); Galrija Tivoli, Lubiana (1992); Palazzo Massari, Ferrara (1997); Realizza infine numerose cartelle personali di grafica, libri d’autore con grafiche originali e altre cartelle insieme a vari autori. Partecipa alle Biennali di Venezia del ‘64, ‘72, ‘82, 2007, 2009. Vive e lavora a Bologna. Una lunghissima carriera quella di Pozzati: dagli inizi, con la produzione informale della seconda metà degli anni ’50, passa poi a indiscusso protagonista della Pop Art italiana (anni ’60) sperimentando i più svariati materiali (dalla plastica al neon, dal cuoio allo specchio, da sagome in legno e metallo a reperti naturali, ecc…) e investigando via via linguaggi e storie della pittura con ironia, dissacrazione e profonda criticità, in una poetica fatta di continue contaminazioni e incroci culturali, citazioni e figurazioni che col tempo divengono sempre più personali e riconoscibili. Temi a lui cari sono la memoria, la libertà, la natura e la riflessione sia sull’antico sia sul contemporaneo; temi che creano una vasta iconografica incredibile, quasi un archivio dove trovare tutte le tematiche, i modi espressivi, i meccanismi percettivi e i sentimenti degli uomini. Proprio questa vastità fa emergere un’altra caratteristica dell’artista: “l’organizzazione” della sua produzione in “temi” e “cicli” che vanno e tornano in epoche diverse, perché vengono continuamente scoperti. Ecco quindi A che punto siamo con i fiori, La pelle dei burattini, Torture, Biblioteca dei segni – Travestimenti. Citando lo stesso maestro: “Memoria, ri-memoria, storia, ri-storia. Sono i quadri che ti guardano e che hanno gli occhi, oltre una loro oralità, anche dietro la nuca. Sono loro che si confrontano, si scelgono o si isolano individuando però il perché di quell’occhio sempre spalancato”.
LIU Ren
LIU Ren (nato nel 1983) si è laureato presso il Dipartimento di Stampa presso il Fine Art College della Shanghai University nel 2007 e ora vive e lavora a Shanghai. La pratica artistica di LIU comprende principalmente pittura, scultura e installazione. Trae spesso ispirazione dai materiali quotidiani che lo circondano e nasconde sentimenti accumulati e testi analitici dietro le forme visive pulite, ordinate e pulite. Si concentra sul passare del tempo, sul consumo della vita e sullo stato degli esseri umani, dove informazioni frammentate e materiali banali vengono trasformati. Le mostre personali di LIU Ren includono «Yesterday Once More» (Don Gallery, Shanghai, 2021), «Times» (Don Gallery, Shanghai, 2018), «Spring, River, Flowers, Moon, Night» (Don Gallery, Shanghai, 2016), «FILTRATE» (White Space, Pechino, 2013), «Youth: Everything in Between – Liu Ren & Su Chang» (Don Gallery, Shanghai, 2012), «2008102020091112..8:35…» (Don Gallery, Shanghai, 2009) ecc. Il suo lavoro è stato ampiamente esposto anche presso ASE Foundation (Shanghai, 2023), 798 CUBE (Pechino, 2023), By Art Matters (Hangzhou, 2022), Art Basel (Hong Kong, 2021), K11 Art Museum (Shanghai, 2021), Sinan Mansions (Shanghai, 2020), West Bund Art Centre-Ceramic House (Shanghai, 2019), UNArt Center (Shanghai, 2019), Frank F. Yang Art and Education Foundation (Shenzhen, 2018), Yuz Museum (Shanghai, 2017), chi K11 art museum (Shanghai, 2016), Shanghai Minsheng Art Museum (Shanghai, 2016), Shanghai 21st Century Minsheng Art Museum (Shanghai, 2015), CAFA Art Museum (Pechino, 2015) e Shanghai Himalayas Museum (Shanghai, 2014), ecc.
Mario Schifano
Lo stile pittorico di Mario Schifano, durante i primi anni della sua carriera, fu influenzato dall’arte Informale e le sue opere furono quindi contraddistinte dal rifiuto della forma e dalla dominazione della matericità sulla tela. Dopo questo primo periodo, la pittura di Mario si concentrò verso una via monocromatica, da cui si allontanò ben presto rinnegandola. Anni dopo l’artista dichiarò infatti: “Pensavo che dipingere significasse partire da qualcosa di assolutamente primario. I primi quadri soltanto gialli con dentro niente, immagini vuote, non volevano dir nulla. Andavano di là, o di qua, di qualsiasi intenzione culturale. Volevano essere loro stessi. Fare un quadro giallo era fare un quadro giallo e basta.” Con i suoi primi dipinti monocromatici in cui applicava lettere o carte incollate, l’artista raggiunse rapidamente l’affermazione e la fama. Prima di arrivare al successo internazionale fu di particolare interesse la serie dedicata ai paesaggi anemici dove attuò sperimentazioni radicali decostruendo l’immagine paesaggistica. Durante la fine degli anni sessanta si avvicinò a mondi distanti dalla pittura come il cinema, producendo pellicole indipendenti, o come la musica, fondando il gruppo musicale “Le stelle di Mario Schifano”. Anni dopo portò in Italia la Pop Art lavorando ad opere quali cartelloni, scritte e loghi pubblicitari come quelli di Coca Cola o di Esso. Fu proprio in questo periodo che l’artista si affacciò a nuovi strumenti innovativi. La serigrafia gli consentì la produzione di parecchie opere in poco tempo, con ottimi risultati anche economici. Tra le opere più celebri del pittore è importante ricordare le tele emulsionate (Paesaggi-TV),in cui riproponeva immagini televisive di uso quotidiano rielaborando la scena solo con il colore. La sua passione verso l’arte e il suo talento versatile lo portarono a compiere numerosi esperimenti artistici. Per tracciare un possibile percorso nell’arte di Mario Schifano, si potrebbe partire da Paesaggio Anemico I, una delle prime tele della serie omonima dell’artista, in cui viene abbandonata la pittura monocromatica per passare a temi legati al paesaggio. L’opera fu esposta per la prima volta alla trentaduesima Biennale di Venezia del 1964: il dipinto rappresenta in sintesi la decostruzione di una tipica rappresentazione paesaggistica. La tela, principalmente ricoperta da una tonalità azzurra che simboleggia il cielo sereno, è coperta da macchie bianche che corrispondono a nuvole. In aggiunta aggiunge sulla tela elementi geometrici di colore rosso che enfatizzano la meccanicità del dipinto. Commentando l’opera Mario dichiarò: “Ho cercato di lavorare con immagini che ciascuno vede o ha visto, mettendo in luce la loro essenza, affinché possano emergere le loro possibilità germinali e primarie. Guardare è la prima azione, poi ci si sofferma”. Più avanti, Influenzato dalla Pop Art americana, con cui entrò in contatto nel suo viaggio negli Stati Uniti, conoscendo e frequentando di persona Andy Warhol, Mario tornò in Italia e a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta producendo una serie di dipinti di carattere Pop. Un esempio tra tutti è Segno di Energia (1977-1980), dove il pittore rappresenta il logo dell’importantissima società petrolifera Esso, iniziando cosi una riproduzione in serie di opere simili tra loro. Andy Warhol, suo ispiratore e padre della Pop Art, in America anni prima aveva proposto riproduzioni in serie e in più versione della zuppa Campbell’s: tra i loghi prediletti e rappresentati sulle tele di Mario Schifano troviamo il marchio della Esso e quello della Coca Cola. Tra le opere tarde di Mario Schifano troviamo anche i celebri Paesaggi TV. Nell’ultimo periodo della sua vita venne in contatto con il mondo della televisione da cui si ispirò per la creazione di queste sue tele. Mario si interessò così alla multimedialità e ai nuovi media. La serie presenta in ogni dipinto la stessa impostazione: l’ingombro di un televisore inquadra le scene dei diversi dipinti, dove ogni opera cattura precisamente un fermo immagine di una scena immortalandola come se fosse una fotografia o un fotogramma di un film. Al bianco e nero viene contrapposta e aggiunta una pittura dai colori sgargianti e psichedelici che dona alle tele un maggior senso di disturbo e irrealtà. Meritano in fine un cenno i film sperimentali dell’artista, tra cui Umano non Umano, del 1971, che di queste pellicole è sicuramente quella più popolare e iconica. Come anticipato, il film fa parte della Trilogia per un massacro: Il lungometraggio partecipò alla trentesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografia di Venezia. Il film, prodotto nel 1969, fu ripresentato alla sessantaseiesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografia di Venezia grazie al restauro della pellicola avvenuto nel 2009 a cura della Cineteca Nazionale. Umano non Umano pone l’accento sull’incomunicabilità del mondo contemporaneo rappresentando una fotografia dell’Italia degli anni Settanta. Il film vede difatti il contrapporsi di salotti borghesi con rivolte operaie.
Daniel Spoerri
Daniel Spoerri, nato Daniel Feinstein (Galaţi, 27 marzo 1930), è un danzatore, pittore e coreografo rumeno naturalizzato svizzero. È nato in Romania, da Isaac Feinstein, missionario della chiesa luterana norvegese, e da Lydia Feinstein-Spoerri, dal cui nome da ragazza trarrà il proprio nome d’arte. Durante la guerra, nel 1942, il padre viene trucidato dai nazisti in Romania e la famiglia è costretta a rifugiarsi in Svizzera, a Zurigo, dove il piccolo Daniel vive presso lo zio materno, Theophil Spoerri, rettore dell’Università di Zurigo. Nella città svizzera inizia a studiare danza, nel 1949, presso la Zürcher Theatertanzschule. A Zurigo incontrò con André Thomkins, Serge Stauffer, esperto e traduttore di Marcel Duchamp. Tra il 1952 e il 1954 frequenta corsi di danza classica a Parigi e tra il 1954 e il 1957 è stato danseur-étoile presso il Berner Stadttheater. Stringe allora legami di amicizia con Dieter Roth, Bernhard Luginbühl, Claus Bremer, André Thomkins e Meret Oppenheim. Nel frattempo inizia l’attività di coreografo (Ballet en couleurs – 1955), di poeta, con la serie dei Poemi concreti e di regista . In ambito registico a Berna mette in scena Il desiderio acchiappato per la coda di Picasso, nel 1956 e le prime assolute in lingua tedesca di La cantatrice calva di Ionesco e di La sonata e i tre signori di Jean Tardieu. Tra il 1957 e il 1959 è aiuto-regista presso il Teatro di Darmstadt e prosegue la sua attività di poeta concreto, mentre conosce e collabora con Emmett Williams. Trasferitosi nel 1959 a Parigi, entra in rapporto con numerosi artisti che operano nella città tra cui Pol Bury, Jesús Rafael Soto, Marcel Duchamp, Man Ray e Robert Filliou. Sempre a Parigi, fonda la casa editrice MAT (Multiplication d’art transformable) e inizia la sua opera di artista figurativo: inventa i tableaux-pièges (Quadri-trappola), incollando su tavole gli oggetti quotidiani ammassati nella sua stanza d’albergo (la camera 13 dell’ Hôtel Carcassonne, a Rue Mouffetard), che acquistano una presenza insolita nel passaggio dal piano orizzontale a quello verticale. Nel 1960 elabora, con altri, il Manifesto del Nouveau Réalisme. A questo proposito dichiara: « Io non faccio che mettere un po’ di colla su degli oggetti; non mi permetto alcuna creatività[1] » La sua prima mostra individuale 1961 si svolge a Milano, curata da Arturo Schwarz. L’anno dopo, il 1962, è segnato dalla pubblicazione di Topographie anecdotée du hasard, nel quadro di un’esposizione alla Galerie Lawrence di Parigi. Si tratta della descrizione minuziosa di oggetti presenti sulla tavola della sua camera ed evocazione di ciò che suggeriscono. Prosegue in questa ricerca di trasformazione del reale con i suoi Détrompe-l’œil, del 1963, nei quali gli oggetti della quotidianità stravolgono e mettono in discussione l’immagine alla quale sono connessi: per esempio in La Douche fissa una rubinetteria da stanza da bagno su un quadro che rappresenta un torrente di montagna. Intraprende ora un’altra linea di ricerca, che lo condurrà alla Eat Art: colleziona pasti alla Galerie J. Con Robert Filliou, propone nel 1964 dei Pièges a parole, montaggi visivi che materializzano luoghi comuni e frasi fatte. Nello stesso anno vive a New York e prende contatto con gli artisti del gruppo di Fluxus. Dopo due anni di ritiro nell’isoletta greca di Symi (nell’Egeo), apre a Düsseldorf il ristorante Spoerri (18 giugno 1968) nel quale serve cibo preparato da lui stesso. Nel 1970 apre, nei locali sovrastanti il ristorante, la Eat Art Galerie, che è anche l’editrice di numerose pubblicazioni sue e di altri artisti. Intraprende anche a praticare la scultura: la prima opera (un bronzo) si intitola Santo Grappa. Altre forme d’arte derivate dal ristorante sono i quadri realizzati incollando sulla tavola i resti e i piatti sporchi, così come li hanno lasciati i clienti, le collezioni di ricette di cucina e stravaganti riti gastronomici che diventano performance. Evoluzione della Eat Art è, agli inizi degli anni settanta, la creazione di Nature morte in senso letterale: carcasse di animali messi in mostra a indicare l’ambiguità della sua arte della conservazione in rapporto alla morte. Le opere degli anni precedenti sono in mostra in due retrospettive degli anni 1971-1972, ad Amsterdam, a Zurigo e a Parigi (Centre national d’art contemporain). Nel 1978 è chiamato ad insegnare nella «Fachhochschule für Kunst und Gestaltung» di Colonia. La scultura lo impegna negli anni ottanta, che iniziano con la mostra interamente dedicata alla Eat Art: «Eat Art Festival», presso la Maison de la Culture di Chalon-sur-Saône. Inizia ad assemblare strumenti da cappellaio, attrezzature ortopediche e da macellaio in forma di idoli da parodia, alcuni dei quali sono poi fusi in bronzo. È la fase che egli definisce degli «oggetti etnosincretistici», che riuniscono maschere primitive, oggetti da mercato delle pulci e simboli religiosi occidentali, per deridere ogni fede e ogni convenzione artistica. Nel 1983 è nominato Professore d’arte all’Ecole des Beaux-Arts di Brest e professore alla Kunstakademie di Monaco, dove organizza una serie di conferenze dal titolo «Spoerri presents …» a cui invita Christo, L. Fischer, K. Gerstner, B. Luginbühl, H. Nitsch, F. Schwegler, O. Wiener, J. Tinguely, R. Topor. La carriera accademica prosegue e nel 1987 è Professore esterno alla «Hochschule für Angewandte Kunst» di Vienna, ma nel 1989 abbandona la cattedra di Monaco per dedicarsi completamente alla propria creatività. Dal 1989 vive frequentemente in Italia, prima ad Arcidosso e poi a Seggiano (in provincia di Grosseto), dove comincia a costruire un parco-museo dove raccoglie opere proprie e di suoi amici artisti: «Il Giardino di Daniel Spoerri». Dal 1997 il Giardino è sotto l’egida della Fondazione «Hic terminus haeret – Il Giardino di Daniel Spoerri». L’artista lascia Parigi per vivere stabilmente nel paese toscano. Ancora nell’ambito della Eat Art si colloca, nel 1992 l’ideazione del ristorante che costituisce il centro del Padiglione della Svizzera all’Esposizione universale di Siviglia. Nel 1993 la Francia lo insignisce del «Grand Prix National de la Sculpture». Egli va ancora oltre nel concetto di abbandono di ogni creatività, facendo realizzare alcune delle sue opere da parte di terzi (ivi compreso un bambino di 11 anni): i quadri realizzati da questi intermediari recavano sul retro un’etichetta con la firma dell’artista e la data. Questa modalità artistica è stata al centro di una complessa e curiosa vertenza giudiziaria[2]. Ci si può interrogare in merito alla natura obsoleta di questa posizione, se si considera l’erosione della nozione di opera d’arte iniziata soprattutto da Marcel Duchamp (si pensi dei suoi ready-made e soprattutto al destino di Fountain ad una mostra) sembra aver raggiunto un punto di svolta irreversibile. Nel 1972, il Centro Nazionale d’Arte Contemporanea di Parigi gli ha dedicato una retrospettiva.
Noriaki Yokosuka
Mentre era ancora iscritto al Dipartimento di Fotografia del Nihon University College of Art, Noriaki Yokosuka, insieme allo staff creativo di Shiseido, attirò l’attenzione con il suo stile innovativo e contemporaneo di immagini pubblicitarie. Subito dopo la laurea (nel 1961), Yokosuka iniziò a lavorare come fotografo freelance e da oltre 40 anni è attivo in tutto il mondo come figura di spicco nel campo della fotografia pubblicitaria. Le sue fotografie pubblicitarie sono oggi note come opere immortali di grande importanza nella pubblicità giapponese dell’era Showa (anni ’20-’80). Yokosuka vinse un Japan Advertising Artists Club Encouragement Prize, un Art Director’s Club (ADC) Special Prize e un Mainichi Advertising Design Award per una campagna pubblicitaria Shiseido nel 1963. Continuò a pubblicare una serie di fotografie pubblicitarie, come «Make-up Tokyo» con l’art director Makoto Nakamura nel 1964 e nel 1966, «Taiyo ni aisareyo», una collaborazione con il graphic designer Eiko Ishioka, che inaugurò una nuova era nel mondo della pubblicità. Nel 1983, Yokosuka espanse le sue attività su scala internazionale, quando divenne il primo giapponese a lavorare come fotografo freelance per le edizioni italiana e francese di Vogue. Inoltre, nel 1975, il suo spot televisivo per il whisky Suntory (con Sammy Davis Jr.) vinse il Gran Premio per la pubblicità a Cannes e un altro Premio di Bronzo nella categoria pubblicità del festival del 1981. Oltre al suo lavoro come fotografo pubblicitario, anche la produzione di Yokosuka come artista fotografico è piuttosto ampia. Nel 1963, ha ricevuto i Newcomer Awards dalla Photographic Society of Japan e dalla Japan Photo Critics Association rispettivamente per «Mode-in» e «Kuro». Altri lavori svelati negli anni ’60 e ’70 includono «Shafts», «Nude», «Optics» e «Cave», seguiti negli anni ’80 da «Sayoko» e «Luna», due serie di fotografie della modella Sayoko Yamaguchi vincitrici del Kodansha Publication Culture Award. Nel 1989, «A Case of Exposure» ha ricevuto un Ina Nobuo Award. Negli anni ’90, Yokosuka ha pubblicato «Jikan no niwa», una serie di fotografie a colori solarizzate che catturano scene dal pezzo di danza «Triadic Ballet» del maestro del Bauhaus acclamato a livello internazionale Oskar Schlemmer; «Eros no heya», che impiega la tecnica di stampa al platino dei primi del XX secolo; e «Enantiomer», che attinge da tutte le tecniche fotografiche disponibili. Le opere inedite includono la serie «Homage to Man Ray» di fotografie di oggetti d’arte creati in origine.
Michele Zaza
Si è diplomato in scultura con Marino Marini all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano nel 1971, ma è difficile definire i confini della sua arte che è pittura, scultura video e fotografia. Negli anni della formazione accademica Zaza entra in contatto con l’ambiente artistico milanese interessandosi agli sviluppi dell’arte cinetica e minimal. Comincia a utilizzare la fotografia già nel 1970 per registrare le azioni provocatorie messe in atto nel suo paese e la sua prima personale nel 1972 alla Galleria Il Diaframma di Milano, Cristologia , è fatta di immagini fotografiche. Il suo lavoro però non si limita allo scatto o all’inquadratura: parte dall’idea, alla quale segue spesso un progetto, poi la costruzione di un set e infine l’esecuzione della foto che, sin dall’inizio, era scattata dall’artista, da un familiare o da un amico fotografo. Questo ruolo era ed è tutt’ora interscambiabile. Nel 1973, nella personalealla Galleria Marilena Bonomo di Bari, nell’opera Dissidenza ignota, i genitori per la prima volta diventano soggetti delle sue immagini e lui stesso è presente come attore o regista. Nei lavori successivi trovano posto gli altri affetti quotidiani, come sua moglie o sua figlia, ma si vedono anche alcuni oggetti (la pistola, la televisione, le lampadine) o dei materiali in forma di piccole sculture (il pane, l’ovatta, la carta) che diventano – tutti – elementi significativi di un linguaggio scelto e codificato con rigore per trasfigurare la quotidianità. La ricerca di Zaza parte dall’idea che “l’arte non offre possibilità alternative alla condizione umana, ma è al contrario la risultante di questa condizione”. Quindi i corpi immobili e ieratici, in piedi, capovolti o seduti diventano il materiale plastico attraverso cui percepire e rendere esistente il mondo. Ma è il volto il luogo delle rivelazione assoluta. Frontale, di profilo, dipinto di bianco nero o blu catalizza l’attenzione dello spettatore nelle installazioni più recenti dell’artista che si arricchiscono del rapporto con la scultura e con lo spazio. Tutto il lavoro di Zaza ha una radice antropologica e una suggestione metafisica e si distingue tra le ricerche degli ultimi 50 anni per la sua singolare coerenza. Tra le numerose mostre collettive Zaza ha partecipato alla Biennale dei giovani di Parigi nel 1975, alla Biennale di san Paolo e Documenta di Kassel nel 1977 e alla Biennale di Venezia nel 1980 con una sala personale. Ha lavorato con gallerie italiane e straniere da Luciano Inga Pin a Milano, Ugo Ferranti a Roma, Lucio Amelio a Napoli, Marilena Bonomo a Bari a Yvon Lambert a Parigi, Annamarie Verna a Zurigo, Leo Castelli a New York, e più recentemente con Persano a Torino e Bianconi a Milano. Dopo il 2000 ha esposto il suo lavoro al Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea di Roma e al MAMCO Musée d’Art Moderne et Contemporain di Ginevra. Le sue opere sono conservate presso varie collezioni pubbliche, tra cui: Fondation Emanuel Hoffmann, Öffentliche Kunstsammlung (Basilea); Hamburger Bahnhof-Museum für Gegenwart (Berlino); Walker Art Center (Minneapolis); Centre Georges Pompidou Musée national d’art moderne (Parigi); Musée d’art moderne de la Ville de Paris (Parigi); Staatsgalerie (Stoccarda); Museum of contemporary art (Téhéran); Kunsthaos (Zurigo). La mostra “Project room 3.0” costituita da ventisei opere di vario formato ed eseguite con tecniche diverse, sarà corredata, come sempre, da alcuni interventi di Docenti di Storia dell’Arte che illustreranno tutte le opere esposte.
Galleria Area 24space di Napoli
Project room 3.0 – Per ricordare i primi vent’anni di attività
Solo per appuntamento. Festivi chiuso
Tel. 3396495904
Per tutte le foto opere, credit ©Pina Della Rossa, Courtesy Galleria Area24Space – Napoli