Per ripercorre il Primo Novecento
Giovanni Cardone
Fino al 7 Aprile 2024 si potrà ammarare al Palazzo Blu di Pisa la mostra Le Avanguardie. Capolavori dal Philadelphia Museum of Art a cura di Matthew Affron curatore del Philadelphia Museum of Art con la consulenza scientifica dello storico dell’arte Stefano Zuffi. L’esposizione prodotta e organizzata da Fondazione Palazzo Blu e MondoMostre, con il contributo di Fondazione Pisa. E’ un’occasione unica per ammirare alcuni punti di riferimento assoluti dell’arte europea dei primi decenni del ‘900: sono infatti esposte nelle sale di Palazzo Blu opere di Chagall, Dalì, Duchamp, Kandinsky, Mirò e Picasso. A questi si aggiungono anche opere straordinarie di Matisse, Mondrian, Klee, Ernst e Gris, artisti che non sono mai stati esposti nel palazzo d’arte che si affaccia sul Lungarno. Sarà una grande occasione per ripercorrere alcuni dei momenti salienti del “secolo breve”. Il Philadelphia Museum of Art che domina dall’alto la Benjamin Franklin Parkway è un riferimento d’eccellenza per l’arte, che vanta collezioni prestigiose di fama mondiale e mostre riconosciute a livello internazionale. Pur nella straordinaria ricchezza e varietà delle raccolte, le opere delle Avanguardie europee sono una presenza particolarmente densa e significativa. Grande merito va riconosciuto ai collezionisti, grazie ai cui lasciti il Philadelphia Museum of Art ha continuato a crescere durante tutto il XX secolo, soprattutto durante la trentennale direzione di Fiske Kimball. Lo stesso Marcel Duchamp, incaricato di un sopralluogo nei principali musei nordamericani per individuare la migliore collocazione per l’arte del Novecento, ha indicato il Philadelphia Museum come la sede più opportuna. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle Avanguardie apro il mio saggio dicendo : Volendo effettuare una ricostruzione semantica del concetto di avanguardia, si può notare come il termine derivi dal linguaggio militare (dal francese avantgarde, “prima della guardia”), usato in origine per rappresentare la parte di esercito composta dai soldati più coraggiosi, che procedevano in posizione avanzata rispetto al resto delle truppe, per aprire loro un varco tra i nemici nel campo di battaglia. Hans Magnus Enzensberger nel suo saggio “Le aporie dell’avanguardia” (1962) fa un ampio approfondimento etimologico, trattando l’ambiguità semantica e metaforica del concetto di avanguardia, i suoi condizionamenti storici e sociali e le vane pretese ideologiche che lui stesso definisce “aporie” (ovvero contraddizioni, contrasti la cui qualità dialettica è ancora incerta). Enzensberger fa riferimento alla definizione data dal dizionario tedesco Brockhaus nella sua quattordicesima edizione del 1894, nel quale l’avanguardia è identificata come termine militare che rimanda a un gruppo di soldati che rappresentano la truppa principale e che avanzano a una certa distanza; essa si divide in elementi sempre più piccoli fino alla cima che marcia completamente avanti. Ogni elemento deve assicurare ai seguenti una più grande sicurezza e dare loro tempo… Gli elementi più piccoli mandati avanti devono regolare la loro marcia sugli elementi più importanti che li seguono. Enzensberger è probabilmente uno dei primi teorici dell’avanguardia in grado di dimostrare le numerose relazioni che questa stabilisce con il tempo, lo spazio, l’ideologia, la tradizione e soprattutto il futuro. Egli insiste sulla metaforicità del termine in quanto generato da una diade, una composizione di concetti: la particella avant che nell’espressione tecnica militare è presa nel senso spaziale, ritrova nella metafora il suo senso iniziale temporale e vi aggiunge dei significati socioeconomici. Inoltre dato che il territorio su cui agisce l’avanguardia è la storia, si può facilmente notare come le arti rapidamente “avanzino” e come esse siano “costantemente avanti”. É evidente come lo sviluppo della coscienza storica preluda al processo di museificazione e conservazione della memoria, ma anche a una compulsione al superamento; così facendo si impone all’artista la necessità di essere sempre “avanti con i tempi”, per non rischiare di perdersi nella storia. Il capitalismo imperante sfrutta quella tendenza, traducendo la volontà anticipatrice in speculazione economica sulla novità artistica. La prima aporia dell’avanguardia sorge però proprio nell’obbligo di essere avanti: nonostante sia possibile definire con precisione quali siano le retroguardie artistiche o letterarie, non è invece possibile individuare unanimemente che cosa sia l’avanguardia. «L’unica cosa che possiamo definire con precisione è chi era avanti, però non chi è avanti. L’avanti dell’avanguardia porta in sé una contraddizione: si può constatarlo solo a posteriori». Il primo dei due termini che compongono il vocabolo segnala quindi un’imperfezione nella posizione critica, rendendo difficile la comprensione del fenomeno. Gli attributi sociali dell’avanguardia risultano legati alla natura del secondo elemento che compone il sostantivo. Per Enzensberger la “guardia” individua una collettività anticipatrice del singolo, in cui ognuno è partecipe del processo storico mantenendo però individualità e responsabilità; è un gruppo che trova la sua ragione di essere non nella produzione ma nel conflitto e nella militanza, orientati essenzialmente verso una retroguardia, costituente lo strato conservatore che frena l’avanzata verso il progresso. Enzensberger non vuole salvaguardare l’uso indiscriminato e spesso improprio della definizione, utilizzata da «chiunque metta nero su bianco o dia il colore a una tela». Egli sostiene che il concetto di avanguardia deve il proprio pathos all’idea che la posizione di testa del processo sia privilegiata e che conferisca all’opera che la occupa una qualità che alle altre non spetta. Non si tratta qui di un semplice raffronto tra la produzione presente con quella passata. Indubbiamente la metafora avanguardia non esclude l’idea stantia che si debba gettare il passato tra i ferri vecchi. Eppure essa non può essere ridotta alla volgare adorazione della novità. L’en avant dell’avanguardia vorrebbe, in certo senso, realizzare il futuro nel presente, precorrere il corso della storia. Attraverso un paragone quasi obbligato, l’autore dichiara efficace l’azione dell’avanguardia storica, uscita non sconfitta dal confronto con una società ormai ostile verso l’arte moderna, in un contesto generale di violente condizioni storiche. La neoavanguardia che verrà in seguito (e che avrà la base nell’avanguardia storica) invece invertirà la tendenza, poiché «il suo movimento è regressione» e la via di fuga prefigurata dal sostegno delle dottrine e dei gruppi diventerà «un anacronismo» quello che verrà visto come il suo fallimento risiederà semplicemente nello scollamento del materiale espressivo dal sistema socio-produttivo. L’analisi di Enzensberger è quindi nel complesso negativa e sovverte completamente la stessa raison d’être dell’avanguardia. Seguendo la sua argomentazione, va riconosciuto che aporeticamente l’avanguardia non è né rivoluzionaria, né innovativa, né sperimentale. Essa non può rivendicare alcuna leadership estetica, politica o sociale, in sostanza si tratta di un “bluff permanente”. «L’avanguardia si è trasformata nel suo contrario, cioè è diventata un anacronismo». Tornando all’origine del termine “avanguardia”, si può notare come questo passi dal linguaggio strategico-militare a quello politico intorno al 1830, iniziando a rappresentare il nuovo compito assegnato agli intellettuali, prevalentemente di sinistra, come guide morali nelle battaglie politiche del liberalismo imperante.
Gli artisti e i letterati dovevano poter anticipare le azioni e gli atteggiamenti culturali, riuscendo a prefigurarsi il futuro; avrebbero potuto beneficiare dell’unione con le forze politiche, in grado di intuire come sarebbero andate le cose, facendo sì che l’arte riuscisse ad amplificare un’idea di futuro elaborata in precedenza da altri. Cronologicamente è difficile ritrovare termini e concetti di tale contenuto anteriori al Preromanticismo, considerato come un’epoca di crisi, transizione e fermento che precede il dissolvimento della tradizione del classico moderno. Come ricorda Hans Belting Dopo che i romantici avevano invocato per l’ultima volta l’arte storica come esempio, gli storici e gli artisti divisero le loro strade. Gli storici non trovarono più spazio nella tradizione per gli artisti della loro epoca. Questi, dal canto loro, non si fecero più indirizzare dai capolavori, voltandosi piuttosto a una nuova «mitologia», la missione dell’avanguardia che loro stessi si assegnarono. A partire dalla fine del XIX secolo, la nozione di avanguardia oscillerà costantemente tra applicazioni politiche ed artistiche, venendo utilizzata più comunemente in ambito culturale per caratterizzare i movimenti letterari ed artistici che volevano essere più “avanti” rispetto ai contemporanei; all’epoca era considerato un atteggiamento à la page rompere con la tradizione e criticare chi imitava i classici. L’avanguardia artistica e letteraria mantiene lo spirito di gruppo, ma identifica il nemico non come qualcosa che sta davanti, ma alla spalle: il passato, la storia, le opere degli autori della tradizione. Volendo osservare il concetto ancora una volta sotto il profilo linguistico, si può notare come la formula “arte d’avanguardia” nasca come patrimonio terminologico quasi esclusivo delle lingue e delle culture neolatine, diffondendosi poi marginalmente anche in altre culture, principalmente di derivazione anglosassone. Facendo una breve comparazione geografica, si può vedere come a livello europeo il termine sia riuscito inizialmente a radicarsi meglio in paesi come la Francia e l’Italia, grazie a tradizioni culturali particolarmente consapevoli della problematica letteraria ed estetica del XIX e XX secolo. Alle stesse ragioni è dovuta probabilmente la latinità linguistica del concetto, che ha generato una sorta di difficoltà o resistenza a svilupparsi in Germania o nei paesi tedescofoni, dove invece hanno avuto più fortuna termini come “modernismo” o “stile moderno”, privi però della potenza concettuale che invece permea il concetto di avanguardia. In Russia il termine e il concetto originario ebbero una notevole diffusione, tuttavia la tendenza dello spirito critico russo a tradurre i fatti culturali in miti religiosi o politici ne impedì una corretta formulazione, facendolo rimanere continuamente accostato a un’ideologista estremista persino all’interno del movimento modernistico ed estetizzante del XIX secolo. Un’ostilità programmatica è percepibile anche tra i seguaci della scuola radicale, sociologica e marxista, che, consci del fascino che l’immagine d’avanguardia esercitava sulla retorica radicale, tendevano a evitarne l’uso, preferendo termini come “bohême borghese”. In ambito anglo-americano uno dei fraintendimenti di buona parte della critica nel trattare la cultura del Novecento è quello di identificare l’avanguardia come un qualunque movimento che abbia tentato un rinnovamento dei linguaggi e delle forme estetiche, svincolando l’arte da qualsiasi rapporto con la società e la politica. Al termine stesso “avanguardia” si è sempre preferito “modernismo”, che, come per la cultura tedesca, non individua un movimento specifico, quanto piuttosto un periodo o un’epoca storica e culturale. I due vocaboli sono usati indistintamente come se fossero sinonimi, mentre invece rappresentano strategie estetiche diverse e soprattutto differenti atteggiamenti socio-politici. Tale confusione è dovuta principalmente al fatto che il modernismo, contraddistinto da un classicismo culturalmente elitario e conservatore, occupò una posizione piuttosto eccentrica nella cultura inglese ed americana, la stessa che in altre nazioni era invece ricoperta dall’avanguardia. Diventa quindi particolarmente significativo il fatto che il concetto abbia avuto non poche difficoltà a inserirsi nella cultura anglo-americana, dove si utilizzano delle varianti del vocabolo, ora il francese avant-garde, ora l’inglese vanguard o advance-guarde, rendendo a volte persino necessaria l’integrazione di supplementi esplicativi e qualificativi come “the literary” o “the artistic”. L’espressione completa “l’art d’avant-garde” è invece usata sempre e solo nella forma originale francese, con specifici accorgimenti grafici quali le virgolette o il corsivo, quasi a sottolineare la diversità lessicale e semantica e la pretesa eccezionalità del concetto. Tutto questo non significa che nella cultura americana e inglese non abbia avuto luogo il fenomeno dell’avanguardia, ma solo che in esse è radicata una tradizione classica meno rigida, che ha reso meno acuto il senso dell’eccezione, della novità e della sorpresa. Sia il modernismo che l’avanguardia sono il risultato di un’estraneazione dai valori della cultura borghese, esito di una crisi etica, estetica e ontologica del moderno e del disagio esistenziale degli artisti. Tuttavia il modernismo può essere visto anche come una profonda riflessione sulla crisi dell’uomo moderno, con la conseguente esaltazione dell’arte come valore supremo e sfiducia nelle trasformazioni sociali. L’appello modernista al rinnovamento è diverso da quello dell’avanguardia, che propone il nuovo non come semplice emancipazione delle forme espressive e dei modi di rappresentazione, ma come profonda rottura con la tradizione e la società nel suo complesso. L’avanguardia indica un possibile futuro e si propone come punto di partenza; rimanda al desiderio di realizzare il futuro nel presente, «precorrendo il corso della storia e sottolineando la non contemporaneità del contemporaneo». La formula “arte d’avanguardia” sembra quasi far riferimento a un’invenzione, più che a una scoperta, anzi il vocabolo stesso può essere considerato la scoperta di un quid non pre-esistente, come avviene in campo culturale, dove talvolta la realtà oggettiva coincide con la coscienza soggettiva di quella stessa realtà. L’arte d’avanguardia era storicamente impossibile prima dell’elaborazione della sua nozione: un’autentica avanguardia può emergere solo con la maturazione del concetto attuale, avvenuta in epoca recente sulla scia dell’esperienza romantica. Come ricorda Poggioli, «nel campo della cultura la scoperta è creazione, la coscienza è esistenza»; ne consegue l’affermazione del principio epistemologico “est cogitatum, ergo est”. Il termine “avanguardia” prima di essere applicato in senso figurato all’arte e alla letteratura, designò innanzitutto l’avanguardia sociale e politica, rivoluzionaria e radicale. È abbastanza raro ritrovare il concetto nella letteratura non politica anteriore al 1880, dato che originariamente l’immagine “d’avanguardia” rimase subordinata anche nella sfera artistica agli ideali di un radicalismo non culturale ma politico. A questo proposito sono significative le parole di Gabriel-Désiré Laverdant, un fourierista poco noto che nel 1845, solo tre anni prima della Rivoluzione, in un testo intitolato “De la mission de l’art et du rôle des artistes” scriveva: L’Arte, espressione della Società, manifesta, nel suo slancio più alto, le tendenze sociali più avanzate; essa è precorritrice e rivelatrice. Ora, per sapere se l’arte adempia degnamente alla propria missione d’iniziatrice, se l’artista sia davvero all’avanguardia, è necessario sapere dove va l’Umanità, qual è il destino della specie… Accanto all’inno alla felicità, il canto doloroso e disperato. Mettete a nudo con pennello brutale tutte le bruttezze, tutte le lordure che sono al fondo della nostra società. Va ricordato che l’arte moderna non è nata direttamente per via evolutiva dell’arte dell’Ottocento, ma al contrario è cresciuta dalla rottura dei valori di questo secolo, dalla protesta e dalla rivolta esplosa all’interno della sua supposta unità spirituale e culturale. L’arte d’avanguardia e buona parte del pensiero contemporaneo si sono formati dalla “crisi” dell’unità storica, politica, culturale delle forze borghesi-popolari intorno al 1848. Il XIX secolo ha visto una tendenza di fondo attorno alla quale si sono organizzati il pensiero filosofico, politico, letterario, la produzione artistica e l’azione degli intellettuali. Questo è accaduto in particolar modo nel trentennio che ha preceduto il 1848, quando le idee che si erano affermate nel corso della Prima Rivoluzione francese riuscirono a raggiungere finalmente la maturità. In questo periodo prese consistenza la moderna nozione di popolo e i concetti di libertà e progresso acquistarono nuova forza; le idee liberali, anarchiche, socialiste spinsero gli intellettuali a battersi non soltanto con le opere, ma anche con le armi, mentre la pressione delle forze popolari venne avvertita come un elemento decisivo della storia moderna. La chiarezza, l’evidenza e l’impegno sociale costituirono il carattere fondamentale a cui l’arte doveva ispirarsi. Solo qualche anno dopo il 1870 l’espressione “d’avanguardia” assunse un nuovo significato figurativo, cominciando a delineare l’avanguardia artistica e letteraria, senza però cessare di continuare a rappresentare anche quella sociale e politica. Nei primi sogni unitari le avanguardie politiche ed estetiche erano programmaticamente legate fra loro, ma all’atto pratico l’autonomia artistica e l’anarchia politica entrarono in conflitto. Era chiaro che le due avanguardie erano qualcosa di ben distinto, anche se non mancavano punti di connessione e temi comuni; per un momento parvero marciare insieme, rinnovando la tradizione romantica che si era stabilita nel corso della generazione racchiusa fra le due Rivoluzioni del ’30 e del ’48. La neonata alleanza tra radicalismo politico e radicalismo artistico sopravvisse in modo differente nei vari stati: in Francia ad esempio resistette fino alla comparsa della prima delle riviste del movimento letterario moderno, significativamente intitolata “La Revue indépendante”, che venne fondata verso il 1880 e fu forse l’ultimo organo che raccogliesse sotto la stessa egida i ribelli della politica e dell’arte, rappresentanti delle opinioni nelle sfere del pensiero sociale e artistico. Negli stessi anni il filosofo russo Petr Kropotkin fu capo redattore di una rivista anarchica a esclusivo contenuto politico, “L’Avant-garde”, pubblicata in Svizzera dal 1876 al 1878, anno in cui fu soppressa a seguito di un intervento di polizia. Kropotkin nutriva un profondo interesse per le arti e la sua rivista ebbe larga influenza sugli artisti del periodo, come i pittori neoimpressionisti Seurat, Signac e Pissarro, che si proclamavano anarchici per rivoluzionare le tendenze critiche e artistiche del loro tempo. L’avanguardia ottenne notevole risonanza persino in Messico, dove venne pubblicata una rivista chiamata “La Vanguardia”, la cui redazione era a cura dei pittori muralisti Siqueiros e Orozco, fondatori della rivoluzione artistica locale. A questo proposito va ricordato che le riviste svolsero fin dall’inizio un ruolo fondamentale nella diffusione di idee e concetti innovativi, diventando dei veri e propri strumenti di informazione, organi di riflessione teorica e promozione artistica. Esse avevano una funzione strategica all’interno del sistema artistico e attraverso le riviste di punta era possibile proporre manifesti e programmi teorici, sviluppare analisi e critiche (a volte anche violente) nei confronti dell’arte tradizionale e informare sulle differenti iniziative proposte dai gruppi emergenti. Poggioli fornisce una buona definizione delle riviste d’avanguardia: Il periodico d’avanguardia opera come un’unità militare indipendente e isolata, completamente e nettamente staccata dal grosso, pronta ad agire per conto proprio non solo nel senso dell’esplorazione, ma anche della battaglia, delle conquista, dell’avventura. Da questo punto di vista la rivista d’avanguardia si oppone diametralmente alla stampa periodica popolare e commerciale, che invece di guidare l’opinione pubblica, soddisfa le passioni della folla e ne è ricompensata mediante un’immensa circolazione e un notevole successo economico. D’altra parte è proprio il trionfo del giornalismo di massa che motiva e giustifica l’esistenza della rivista d’avanguardia, strumento d’una reazione, tanto naturale quanto necessaria, contro la volgarizzazione della cultura. La frattura fra i due significati, avanguardia artistica e avanguardia politica, che corrisponde anche alla netta divisione fra le due avanguardie, avvenne poco prima della fine del XIX secolo e corrispose a uno dei fenomeni più importanti legati al concetto. Grazie alla comparsa di gruppi e riviste di differente spirito, nacquero espressioni come “arte e letteratura d’avanguardia”, che entrarono ben presto a far parte del patrimonio linguistico e culturale dell’epoca. Quello che era stato fino ad allora il senso figurato secondario divenne il senso primario, anzi l’unico possibile: come afferma sempre Poggioli l’immagine isolata e il termine abbreviato avanguardia divennero senz’altro sinonimo d’avanguardia artistica, mentre la nozione politica mantenne funzione quasi soltanto retorica, e decadde a termine d’uso esclusivo da parte dei fedeli all’ideale rivoluzionario e sovversivo. Va comunque sottolineato che ciò non comporterà una frattura permanente: la relazione fra avanguardia artistica e avanguardia politica verrà in seguito a ristabilirsi, ma solo parzialmente e soprattutto in modo più teorico che concreto. Secondo De Micheli esiste un’anima rivoluzionaria dell’avanguardia (ed è poi la sua anima vera) che non si può in nessun modo liquidare. L’esistenza di quest’anima rivoluzionaria apparirà evidente ogni qualvolta un vero artista d’avanguardia incontrerà con le proprie radici un terreno storico nuovamente propizio, tale cioè da ridare la fiducia che non nella evasione, ma nella presenza attiva dentro la realtà è l’unica salvezza. Contro l’entusiasmo dell’arte sociale si schierarono in seguito molti artisti borghesi sostenitori del movimento de “l’Art pour l’art”, tra cui i nomi spiccava quello di Oscar Wilde, dandy per antonomasia. Essi vedevano nel valore estetico, nella bellezza, lo scopo primario di un’opera e puntavano all’espansione delle frontiere dell’esperienza estetica piuttosto che allo sviluppo di riforme sociali, in un utopico tentativo di reintegrare arte e vita. Il socialista Saint–Arman Bazard, sansimoniamo convinto, nonché fondatore della Carboneria francese, sosteneva che «le belle arti, in quanto espressione di un sentimento, costituiscono il linguaggio dell’umanità e condizionano gli uomini rispetto all’agire sociale». Negli anni l’impegno sociale degli artisti si fece gradatamente sempre più formale. Nella Parigi di fine Ottocento-inizio Novecento essi preferirono assumere atteggiamenti progressisti più che impegnarsi realmente nel sociale; proclamandosi beniamini delle potenti élite economiche, loro mecenati, si adoperarono per costruirsi un’immagine di personaggi, grazie soprattutto a eventi e occasioni mondane. Fu così che si dissolse il sogno utopico e l’alta concezione dell’arte di Saint-Simon, che aveva sempre considerato l’artista come l’unico in grado di forgiare un’idea di progresso culturale civile, capace di dare un contributo vitale per favorire la maturazione culturale e spirituale delle masse. Il solipsismo teorizzato dal movimento dell’arte per l’arte si sarebbe manifestato nelle forme nichiliste dell’avanguardia solo cinquant’anni dopo; la realtà del momento era data da un artista osannato dalla borghesia, che si finge maudit per compiacerla e per meglio fare i propri interessi, fornendo un alibi alla depravazione borghese imperante. I nuovi ricchi erano abili nel coniugare prestigio sociale e mecenatismo, generando una vera e propria speculazione economica mascherata da amore per le arti. Come già accennato, l’idea di avanguardia nel campo dell’arte è da attribuire a Claude-Henri de Saint-Simon, che per la prima volta associò questo termine al romanticismo utopico nel suo saggio “Opinions littéraires, philosophiques et industrielles” (1825), riallacciandosi al pensiero di Rousseau e dei razionalisti dell’Illuminismo. Grande ammiratore di Isaac Newton, risentì dell’influenza delle sue teorie nell’elaborazione di una concezione moderna di progresso storico, attribuendo forte importanza alle rivoluzioni sociali; egli sosteneva, in collegamento con le teorie hegeliane poi riprese da Marx, che la grande arte potesse svilupparsi solo nei periodi in cui l’individuo fosse indipendente dallo stato. Per Saint-Simon l’artista era un maestro di morale, un “homme à imagination” che possedeva una maggiore sensibilità artistica: doveva giocare un ruolo decisivo nella comunicazione delle nuove idee ed erigersi a guida morale e “avanguardia” nella costruzione di un’ideale società borghese fondata sul progresso industriale, scientifico e tecnologico. Nelle “Opinions” Saint-Simon immagina un dialogo tra un artista, uno scienziato e un “industriale”, ovvero una persona coinvolta nel processo industriale di produzione, che potrebbe essere visto sia come un proprietario che come un operaio. Nell’ottica dell’utopia sansimoniana i tre discutono sul modo migliore per organizzare la società a beneficio collettivo; in particolare l’artista afferma: noi [artisti] saremo la vostra avanguardia. Il potere delle arti è, in effetti, quello più immediato e rapido. Abbiamo ogni sorta di armi. Quando vogliamo diffondere nuove idee fra gli uomini, le iscriviamo sul marmo o sulla tela; le rendiamo popolari sotto forma di poesie o canzoni; usiamo, a seconda dei casi, la lira o il tamburino, l’ode o la ballata, la storia o il racconto; la composizione drammatica ci è dischiusa e, servendoci soprattutto di essa, siamo in grado di esercitare un’influenza elettrizzante e vittoriosa. Ci rivolgiamo all’immaginazione ed ai sentimenti dell’uomo e, quindi, otteniamo sempre l’effetto più acuto e decisivo. È la prima volta che viene utilizzata una simile espressione e infatti SaintSimon è tra i primi a definire il rapporto tra gli artisti e l’idea di progresso che caratterizza l’avanguardia. Era convinto di poter generare un impulso grazie al quale «l’egoismo, frutto bastardo della civiltà, sarà vinto lasciando libero lo spirito creativo di solidarietà». Le sue idee verranno riprese da altri movimenti utopistici, in particolare da quelli che seguiranno il socialista utopista Fourier. Nel corso dei suoi ultimi anni egli volse il proprio interesse verso gli aspetti spirituali e religiosi dell’uomo e della società; riteneva che gli artisti, da lui definiti “sacerdoti di nuovo tipo” fossero idonei a far progredire l’umanità, riuscendo ad agire sugli aspetti più profondi. Mentre nel corso dei primi anni, quando era ancora presente una forte influenza meccanicistica, Saint-Simon limitava il compito dell’artista alla pura divulgazione delle idee introdotte dagli scienziati, nelle “Opinions” egli poneva gli artisti al vertice di una piramide sociale elitaria composta anche da scienziati e artigianiindustriali, in quanto la potenza delle arti era più rapida e immediata. Tuttavia l’egoismo tanto osteggiato avrà poi il sopravvento e la progettualità utopica e il rinnovamento culturale si scontreranno presto con la necessità della borghesia di avere una legittimazione culturale; la spinta anarchica di alcuni pensatori dell’epoca (come Fourier) le alienarono i favori della borghesia capitalista, che anzi ne approfittò per spingere la cosiddetta avanguardia ai margini del proprio modello di società, in ragione di una potenziale forza disgregatrice. Da sempre l’avanguardia è stata intesa come un movimento di gruppo: le avanguardie per essere definite tali necessitano di una linea o di una tendenza ovvero l’ideologia dell’avanguardia stessa), indicata dagli artisti o dai letterati impegnati a seguirla. I primi germi dello spirito d’avanguardia incominciarono a emergere in rapporto al Romanticismo: già a livello semantico è possibile notare come sia venuta a crearsi un’opposizione fra l’arte accademica e le nuove forme d’arte indipendente, in quanto storicamente ai raggruppamenti artistici e letterari è stato dato il nome generico di “scuole”, mentre per i raggruppamenti moderni si tende a utilizzare “movimenti”. Il Romanticismo sarà la prima manifestazione artistica e culturale di rilievo a perdere la connotazione di “scuola”: trascendendo i confini della letteratura e dell’arte, riuscì a estendersi in tutte le sfere della vita culturale dell’epoca, aspirando a quella che potrebbe essere oggi definita una generale “Weltanschauung”. Secondo Poggioli vi è un’importante differenza tra i due gruppi semantici: il concetto di scuola rimanda a qualcosa di statico e classico, mentre il concetto di movimento è dinamico, aperto all’evoluzione continua e romantico nella sua vera essenza. La scuola presuppone un maestro, un metodo e dei modelli precisi di riferimento; in generale il criterio osservato è quello della continuità con la tradizione e dell’accettazione del principio di autorità, sia sul piano culturale che su quello linguistico. Al contrario la nozione di movimento si collega a una visione dinamica della creatività, a processi di sviluppo ed evoluzione della ricerca artistica. Il movimento opera in funzione di un fine contingente al movimento stesso e concepisce la cultura come creazione, centro di attività e fonte di energia. “Movimento” diventa per la prima volta un termine tecnico, usato dagli stessi protagonisti della storia e non solo dai suoi osservatori o dai critici. Va ricordato per completezza che oltre a queste due tipologie, esistono anche delle manifestazioni culturali più vaste, a cui si applica la generica etichetta di “corrente”; questo termine, preferito dalla critica sociologica e positivistica, fa riferimento più alle tendenze che ai gruppi e si limita a indicare orientamenti generici e poco stabili. Poggioli compie un’attenta analisi dei movimenti che potrebbe essere definita storico-fenomenologica: l’avanguardia viene trattata come un organismo indipendente che investe la sua energia nei vari stadi di attività, un fenomeno ciclico fatalmente condannato a svanire. Gli elementi che egli definisce “antagonismo” (azione contro qualcosa o qualcuno), “nichilismo” (annullo dei valori tradizionali), “attivismo” (fascino dell’avventura, gratuità del fine) e “agonismo”, si ripetono in tutte le cosiddette avanguardie storiche. Solitamente un movimento si costituisce per uno scopo ben preciso: affermare un ideale o diffondere un pensiero. Nella storia dell’arte e della letteratura si è invece spesso assistito alla formazione di un movimento solo per il fine del movimento medesimo: secondo Poggioli questi episodi possono essere ricondotti in quello che sarà definito “attivismo” o “momento attivistico”. Vi sono inoltre movimenti che nascono per agire parzialmente o totalmente contro qualcosa o qualcuno, come ad esempio l’accademismo o la tradizione. Come sottolinea sempre Poggioli, “attivismo” e “antagonismo” sono attitudini intrinseche al concetto stesso di movimento, ma vi sono altre caratteristiche che pur derivando dallo stesso concetto, finiscono per trascenderlo. Il gusto per l’agire e il dinamismo insito nella stessa nozione di movimento possono indurre a tralasciare qualsiasi riserva o scrupolo, generando una specie di antagonismo trascendentale definito “nichilismo”, la cui essenza è basata sul raggiungimento della non-azione attraverso l’azione. Vi è anche un atteggiamento tipico della volontà di procedere oltre, definito “movimento agonistico” o “agonismo”. L’atteggiamento nichilistico rappresenterà il punto di estrema tensione raggiunto dalla posizione antagonistica nei confronti del pubblico e della tradizione: il suo vero significato è dato dalla ribellione da parte dell’artista moderno contro l’ambiente spirituale e sociale in cui è destinato a crescere e operare e dalla reazione contro l’abbassamento moderno della funzione dell’arte a cultura di massa. In nessun movimento la tensione nichilista avanguardista sarà forte e variabile come nel Dadaismo, che l’aveva ricevuta in eredità dal Futurismo e che a sua volta la tramanderà al Surrealismo. Come afferma Massimo Bontempelli «lo stesso spirito dei movimenti di avanguardia è di autosacrificio e autoconsacrazione a quelli che seguiranno». Poggioli sostiene che i primi due elementi, antagonismo e nichilismo, rappresentino l’ideologia dell’avanguardia, poiché ne stabiliscono metodi e fini d’azione, mentre il concetto generale di movimento e la stessa idea di avanguardia sembrano rappresentarne la mitologia. Egli fa notare inoltre che è al momento attivistico che fa riferimento maggiormente la metafora di avanguardia, con la quale, pur mantenendo il contenuto militare dell’immagine, si intende non tanto un’avanzata contro il nemico, quanto piuttosto una ricognizione di un terreno sconosciuto. Riguardo all’antagonismo si può notare come esso sia l’atteggiamento più noto e vistoso dell’avanguardismo e come si crei una distinzione fra antagonismo verso il pubblico (opposizione all’ordine sociale) e antagonismo verso la tradizione o, come verrà poi meglio definito, antipassatismo (opposizione all’ordine storico). Tra i caratteri comuni ai vari movimenti artistici d’avanguardia vi è l’opposizione al Naturalismo e al Decadentismo: ad un’arte intesa come rispecchiamento oggettivo della realtà, tipica del Naturalismo, si oppone l’arte come visione soggettiva ed espressione dell’inconscio dell’uomo; all’arte come pura e semplice contemplazione, manifestazione del Sublime e tipica del periodo decadente, si oppone l’arte come produzione attiva e come tecnica materiale o come gesto, azione e provocazione. Essa diventando azione diretta, trasformandosi in oggetto e in prodotto, entrando in contatto con la tecnologia, rinuncia non solo alla sua autonomia, ma alla sua stessa esistenza distinta. Spesso l’avanguardia usa l’attività estetica in modo politico, rendendola uno strumento anarchico di rivolta o di rivoluzione legata ai movimenti politici. Ne deriva di conseguenza la subordinazione del prodotto estetico al processo di liberazione delle nuove forze artistiche: l’arte diventa attività totale fino alla sua stessa negazione, alla sua dissacrazione (e in casi limite come quello del movimento futurista si giunge persino, in un impeto dissacratorio, alla proposta di distruggere i templi dell’arte, i musei). L’attività artistica dei movimenti d’avanguardia diventa internazionale e interartistica, si estende a tutti i paesi, coinvolge tutte le forme d’arte (pittura, cinema, teatro, letteratura, ecc.) e sperimenta tutte le tecniche, con vari interscambi culturali. Secondo Peter Bürger il generale stato di crisi che con le proteste dell’avanguardia investe e travolge l’arte come istituzione, riflette per la prima volta la volontà di svincolarsi dalle differenti categorie estetiche. Con il riconoscimento della separazione delle opere dai fondamenti dell’arte è possibile fornire una diversa interpretazione al suo sviluppo storico nella società borghese. «L’arte viene pensata come quel campo sociale che si differenzia dalla quotidianità borghese ordinata secondo scopi razionali e che per questa ragione è in grado di criticarla». Vi è una differenza temporale nel processo di autonomizzazione dell’arte dovuta agli scarti tra il divenire autonomo dell’istituzione arte rispetto alla prassi vivente, di cui si è fatto portavoce l’esteticismo della seconda metà dell’Ottocento, e l’autonomizzarsi delle opere nei loro contenuti verso la fine del XVIII secolo, parallelamente al costituirsi dell’individualità borghese. Il pieno dispiegarsi del fenomeno arte nei suoi differenti aspetti si raggiunge nella società borghese solo con l’estetismo, al quale rispondono i movimenti storici d’avanguardia. Il mezzo artistico è la categoria più universale di cui si dispone per descrivere un’opera d’arte; tuttavia i singoli procedimenti possono essere riconosciuti come mezzi artistici solo a partire dalla avanguardie, ovvero da quando si perviene alla totale disponibilità dei mezzi in quanto tali. Fino a questo momento il loro impiego era limitato dallo stile dell’epoca, da un insieme precostituito di procedimenti solo in parte trasgredibili. Bürger sostiene che un segno caratteristico dei movimenti d’avanguardia sia proprio quello di non aver sviluppato alcuno stile preciso. Essi hanno piuttosto liquidato la possibilità di possedere uno stile legato all’epoca, elevando a principio generico la totale padronanza dei mezzi artistici delle epoche precedenti: solo la completa disponibilità rende universale la categoria del mezzo artistico. Va fatta una precisazione: la possibilità di riconoscere le categorie dell’opera d’arte nella loro validità universale non è creata ex nihilo dalla prassi artistica delle avanguardie, ma ha i suoi presupposti storici nello sviluppo dell’arte nella società borghese. A partire dalla metà del XIX secolo, ovvero dal periodo che coincide con il consolidamento del pensiero politico della borghesia, lo sviluppo avviene in modo tale che la dialettica forma-contenuto del prodotto artistico sia sempre più sbilanciata a favore della forma. L’aspetto contenutistico dell’opera d’arte (il suo messaggio) lascia spazio a quello formale, che viene evidenziato come elemento estetico in senso stretto. Per Adorno «la chiave di ogni contenuto artistico sta nella sua tecnica». I movimenti europei d’avanguardia vennero considerati come un attacco allo status dell’arte nella società borghese. Essi non negarono una precedente impronta dell’arte o uno stile, quanto piuttosto la stessa istituzione arte come qualcosa di separato dalla vita concreta dell’uomo comune. Quando gli artisti e gli autori d’avanguardia chiesero che l’arte ridivenisse prassi, non volevano che il contenuto delle opere avesse un significato sociale, ma si rivolgevano al funzionamento dell’arte all’interno della società, ai modi che influenzavano sia l’effetto delle opere che il loro specifico contenuto. Il distacco dell’arte dalla vita concreta venne visto come una caratteristica prevalente nella società borghese: una delle ragioni che lo resero possibile fu l’estetismo, che trasformò gli elementi che definiscono l’arte come istituzione nel contenuto essenziale dell’opera. Le avanguardie volevano un superamento dell’arte, che non doveva semplicemente essere distrutta, ma trasposta nella vita quotidiana del singolo individuo. L’estetismo aveva fatto della distanza dalla vita pratica (intesa come routine borghese ordinata secondo fini razionali) il contenuto delle opere d’arte; i movimenti artistici d’avanguardia condividevano il rifiuto di un mondo ordinato, ma ciò che differenziava l’estetismo dall’avanguardia era il tentativo di organizzare una nuova prassi vivente partendo dall’arte. Nel suo testo Bürger rimanda alla teoria di Herbert Marcuse, che nel saggio “Über den affirmativen Charakter der Kultur” (1937) fornisce una definizione globale della funzione dell’arte nella società borghese. Dato che l’arte è separata dalla vita concreta, in essa possono trovare sfogo quei bisogni il cui soddisfacimento è impossibile nella vita quotidiana a causa del principio di concorrenza che domina tutti i campi dell’esistenza. I valori come l’umanità, la verità, la gioia, la solidarietà vengono estromessi dalla vita reale e conservati nell’arte. La relativa libertà dell’arte nei confronti della vita pratica è allo stesso tempo la condizione di possibilità di una conoscenza critica della realtà. All’epoca dei movimenti d’avanguardia il tentativo di superare la distanza tra arte e vita pratica possedeva ancora il pathos del progressismo storico; con la creazione di quella che sarà definita l’“industria culturale” si verificherà un falso superamento del distacco tra arte e vita, rendendo l’impresa avanguardistica di per sé contraddittoria. L’attacco condotto dall’avanguardia nei confronti dell’istituzione “arte” svelerà la sua inefficacia nella società borghese: di fronte a quest’evidenza l’arte può rassegnarsi al proprio status autonomo o organizzare manifestazioni per rompere questa condizione, ma non può rinunciare a una pretesa di verità. Con le avanguardie la categoria di opera d’arte non verrà distrutta, ma subirà una trasformazione totale. All’interno dei movimenti verranno sviluppate forme di attività che non sarà più possibile racchiudere sotto un’unica categoria, come le manifestazioni dadaiste, che avevano come scopo la provocazione del pubblico presente in sala. Le avanguardie agiranno in modo autenticamente rivoluzionario, distruggendo il tradizionale concetto di arte organica e sostituendolo con uno nuovo; esse tenderanno non solo a una rottura del sistema di rappresentazione che per anni è stato tramandato, ma soprattutto al superamento dell’arte come istituzione. Il ripudio del passato e della tradizione fu un fenomeno contemporaneo alla formazione delle prime avanguardie e si manifestò nella convinzione che tutta l’arte precedente fosse stata inutile. Con l’avanguardia il novum si legittimava come taglio netto con il passato e ne divenne il valore fondante. L’arte tradizionale fu vista come il corollario del potere, un orpello ornamentale adatto solo alla sua legittimazione e dal quale riceve legittimazione, rappresentazione della società e del sistema politico in cui è inserita. L’avanguardia al contrario si pose come volontà di creazione e trasformazione della realtà stessa, facendo sì che essa divenisse invisa al potere dominante. I primi a contestare l’arte del passato furono i Romantici, che si opposero a tutta la tradizione classica, dall’arte greca a quella romana, dal Rinascimento italiano fino all’Illuminismo francese. Nessuno fu però polemico come i futuristi italiani: il Futurismo fu l’unico movimento d’avanguardia nel senso stretto del termine (ovvero gruppo organizzato che sviluppa programmi artistici coerenti sulla base di manifesti teorici) in cui vi furono numerose manifestazioni, non solo verbali, contro la tradizione, l’accademia e ciò che le simboleggiava, tra tutti i musei e le biblioteche come custodi della tradizione e dei valori del passato. Nel Futurismo il sovversivismo piccolo-borghese degli intellettuali si realizzò pienamente: esaltando la macchina, la tecnologia, la grande industria e la velocità, i futuristi volevano dare una nuova interpretazione al progresso meccanico e alla modernità della civiltà industriale. La nuova arte doveva partire dal presente e cancellare i legami con la storia e il passato. Ogni movimento d’avanguardia si è sforzato di affermare la propria originalità, nel tentativo di imporsi come unica e autentica espressione del moderno, momento di rottura storica e superamento estetico. Questo ha portato le avanguardie a succedersi una con l’altra in un continuo rinnovamento estetico, con una proliferazione di “ismi” che cercava di soddisfare la volontà di anticipare la storia fondata sul senso di inadeguatezza del presente e di inutilità del passato. Il rischio di questa infinita attitudine alla sperimentazione è però quello di innescare una rincorsa alla novità che potrebbe culminare in una routinizzazione che esaurisce la spinta innovativa dell’avanguardia. Se le avanguardie da un lato sono l’espressione più forte del moderno, dall’altro ne sono anche la negazione, estremizzando ed esaurendo la nozione stessa di progresso. L’arte d’avanguardia è vista come la «novità che pone fine a tutte le novità, è la trasgressione della norma che diviene normatività della trasgressione, è l’inizio di un processo di dissoluzione del moderno mediante una radicalizzazione delle sue stesse tendenze». In campo artistico e letterario, il concetto di avanguardia è tipicamente moderno: presuppone la coscienza della mercificazione e della museificazione dell’arte, ovvero la consapevolezza che questa viene venduta sul mercato come qualsiasi altra merce. Il fatto di essere destinata all’esposizione in un museo la neutralizza, cancellandone gli intenti polemici e demistificatori e vanificandone il messaggio di protesta e rottura, indirizzandola verso la pura contemplazione estetica. Inoltre questo implica la perdita dell’“aureola” da parte degli artisti e dell’“aura”, ovvero del carattere di sacralità, da parte dell’opera d’arte. Walter Benjamin nel testo “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1955) afferma che le opere classiche vengono guardate da una distanza reverenziale per far emergere l’aura e per impedirne la dissacrazione. Di fronte all’arte del passato l’atteggiamento che lo spettatore assume è quello del mago guaritore di fronte al malato: egli impone le mani ma non vi è contatto con il corpo sofferente, viene mantenuta la distanza tra sé e ciò che è l’oggetto della rappresentazione. Con le opere d’arte moderna il pubblico diventa invece come i chirurghi, che affondando il bisturi nella realtà, la penetrano dall’interno operativamente, frammentando e scomponendo le immagini, e ridefinendone la sequenza. L’arte non tende più a distinguersi e allontanarsi dal mondo reale per collocarsi in una sfera autonoma, ma attinge alla realtà pragmatica e cerca di reinserirsi in essa. Desublimare l’arte portandola al livello della quotidianità diventa un imperativo per le avanguardie. Avvicinando l’arte alla vita, l’avanguardia intendeva sovvertire il modo in cui veniva percepito il ruolo e lo status dell’arte nella società borghese, attaccare il carattere istituzionale dei prodotti culturali e negare il concetto di autonomia dell’arte. L’arte come prassi non indica che il contenuto delle opere debba avere un significato sociale, ma che ogni realizzazione artistica deve andare contro i modi di funzionamento dell’arte all’interno della società, che influenzano sia l’effetto delle opere, sia il loro contenuto. Questo atteggiamento genera una condizione di marginalità e di estraneità dell’intellettuale, che porta alla ribellione dei movimenti di avanguardia: gli artisti si uniscono per combattere la mercificazione delle loro opere, mantenendo degli atteggiamenti di sfida, provocazione e polemica contro un pubblico ancora legato al passato e alla tradizione e quindi di conseguenza arretrato. L’avanguardia e i movimenti d’avanguardia si schierano contro il pubblico e le convenzioni che lo caratterizzano, contro le istituzioni che ne rappresentano il gusto: l’individuo medio viene definito borghese, filisteo e beota, i suoi valori vengono visti come qualcosa da sradicare.
Vi è una frattura tra il mondo della cultura e la massa: gli intellettuali d’avanguardia non devono più misurarsi con un pubblico d’élite, capace di cogliere ogni messaggio degli autori, ma con un insieme di persone poco acculturate e soprattutto insensibili alle novità. Per incontrare il loro favore, gli artisti e gli autori sono costretti a realizzare un prodotto sempre più stereotipato, riproducibile in serie a causa di uguali tematiche, stessi schemi strutturali e linguaggi privi di autenticità e originalità. Gli intellettuali tenteranno in tutti i modi di recuperare un ruolo autonomo, respingendo l’asservimento all’industria che li appiattisce e li degrada a comuni operai che producono oggetti in serie. Nonostante il rifiuto della mercificazione della letteratura, fatalmente destinata a trasformarsi in mero prodotto editoriale, e dell’arte, ormai entrata pienamente nell’era della perfetta riproducibilità tecnica grazi alla fotografia e al cinema, non va dimenticato che sono gli artisti stessi i produttori delle opere d’arte, avviate verso la commercializzazione e la neutralizzazione da parte del mercato e del museo. L’avanguardia tende quindi paradossalmente a criticare la propria stessa produzione, tramite forme di contestazione che mirano a porre in discussione l’arte stessa. Attraverso i manifesti i movimenti d’avanguardia esprimono la rottura con i canoni dominanti e proclamano con forza un programma artistico alternativo. Nel corso dei primi anni del Novecento esplode la rivolta, quando la mercificazione e la standardizzazione dell’arte giungono ormai al culmine. L’effetto di questo violento rifiuto è lo sperimentalismo: gli intellettuali sperimentano forme nuove, il più delle volte ardite e sconcertanti, utilizzano linguaggi mai usati prima, in grado di sconvolgere sino quasi a risultare incomprensibili, oltre i limiti della stravaganza o di una calcolata follia. Gli iniziatori di un movimento d’avanguardia sono i precursori dell’arte futura, sperimentando forme originali ed elaborando nuove poetiche; si servono dei manifesti per esplicitare le loro teorie non tanto al pubblico dell’epoca, quanto piuttosto alle generazioni future, le sole probabilmente in grado di comprendere il vero significato delle loro opere. Come ricorda Bontempelli «le avanguardie avrebbero la funzione di creare quella condizione di primitività o meglio primordialità da cui poi nasca il creatore che si trovi al principio della nuova serie». La nuova generazione di artisti si oppone alla precedente, all’accademia e alla tradizione: è necessario un sovvertimento integrale del codice di comportamento convenzionale, delle regole del galateo e delle buone maniere; eccentricità ed esibizionismo diventano forme di antagonismo fino a sfociare nella provocazione o nello scandalo, in un atteggiamento generale di sfida. Nel testo “La disumanizzazione dell’arte” (1925) Ortega y Gasset mette in evidenza il divario che si è venuto a creare tra il mondo culturale e la sfera sociale. «Tutta l’arte giovane è impopolare anzi antipopolare», in un atteggiamento che rifiuta l’appiattimento spirituale, puntando invece a un rinnovamento della cultura. Il processo di quella che viene definita “disumanizzazione” genera la dicotomia tra la maggioranza e la minoranza, portatrice di nuovi valori etici e sociali e in contatto con la realtà. La fine dell’Ottocento sembra essere un periodo di grande prosperità e generale soddisfazione, come ricorda la stessa definizione di “Belle époche”. In realtà, vuoto e senso di ambiguità pervadono gli anni di transizione dalla vecchia borghesia ottocentesca all’affermazione, sulla scena politica e sociale, delle masse popolari. Quest’epoca si caratterizza per una crisi di valori che coinvolge tutti gli ambiti del sapere: dalle scienze esatte a quelle umane, dall’arte alla filosofia, emergono nuove teorie che superano la visione ingenua dello scientismo positivista. Viene criticata la nozione dogmatica di scienza, propria appunto del positivismo, posta al centro del dibattito scientifico; la definizione del concetto di materia viene messa in discussione, diventando meno assoluta, meno dogmatica e meno statica. Edmund Husserl, nella seconda fase del suo pensiero, parla di una crisi d’identità delle scienze, che non riguarda le scienze in quanto tali, i loro fondamenti epistemologici e le scoperte scientifiche, ma il significato che esse hanno per l’esistenza umana: è una crisi di valori etici e morali, una crisi di senso, il sapere non porta più alcuna ispirazione etica . La cultura europea, all’inizio del Novecento, è quindi pervasa da un profondo senso di crisi, in cui cadono tutte le certezze circa la possibilità di cogliere la realtà attraverso una conoscenza piena e immediata dei suoi molteplici aspetti. Lo sviluppo industriale, legato al progresso tecnologico e alle invenzioni delle macchine, già dalla fine del Settecento comporta un cambiamento radicale del modo di vivere, che tuttavia si traduce in un senso di alienazione e distacco dell’uomo dalla propria natura. Il tema dell’alienazione, già al centro del pensiero di Marx, esprime bene l’unità culturale e spirituale dell’Ottocento, caratterizzata da una tendenza rivoluzionaria di fondo. Come ricorda De Micheli, non bisogna mai dimenticare lo spirito rivoluzionario che pervade tutto l’Ottocento, perché la frattura che avviene nell’arte con le avanguardie artistiche europee non si spiega solo sul piano estetico, facendo riferimento semplicemente ai mutamenti del gusto, ma va invece analizzata prendendo in considerazione le ragioni storiche che hanno portato verso la crisi dell’unità di fondo della cultura borghese. Secondo De Micheli essa non è altro che la vocazione rivoluzionaria della borghesia intellettuale, fondata sugli ideali di libertà, uguaglianza e progresso, che viene messa in crisi dalle forze reazionarie. Il rapporto tra arte e società, arte e politica rimane sempre alla base delle nuove poetiche; attraverso l’arte si possono cogliere aspetti e sfumature della realtà che le sole conoscenze intellettuali e razionali non riuscirebbero a mettere in luce. Il periodo che va dalla fine del XX secolo alla prima guerra mondiale è caratterizzato da una rapida evoluzione del sistema industriale. Il rilancio della produzione, favorito anche da una politica di protezionismo doganale e da una progressiva indipendenza tra Stato ed economia finanziaria, fu reso possibile dalla trasformazione radicale del modello economico, che vedeva sempre più pressante l’esigenza di allargamento dei mercati. In questi anni avvengono le grandi rivoluzioni epistemologiche della contemporaneità quali la relatività, la psicanalisi, la teoria dell’atomo. Tra i tratti distintivi del pensiero filosofico dell’epoca vi furono il vitalismo, inteso come attenzione ai valori istintivi, lo spiritualismo, contrapposizione di una dimensione mentale a una materiale e accentuazione del ruolo della coscienza nella percezione del mondo esterno, e il relativismo, in cui si afferma il carattere prospettico della nostra esperienza del mondo. Le ricerche delle avanguardie storiche rappresentarono l’espressione del clima politico, culturale e sociale del tempo. La nascita delle avanguardie scaturì dalla crisi che investì tutti i valori della società civile europea agli inizi del XXI secolo: fu la sensibilità degli artisti a permettere di percepire i primi crolli nelle certezze che per anni avevano rappresentato dei capisaldi nella vita dei singoli individui. Ora grazie all’arte questa stessa crisi si trasforma in una ribellione, in un rifiuto sempre più fermo di ogni tradizione culturale: antichi dogmi e antiche credenze vengono posti in discussione. Tutto il secolo fu caratterizzato da una continua sperimentazione artistica: movimenti e stili si succedettero nel tempo con differenti modalità e forme espressive, rimanendo però accomunati da una forte volontà di rottura con il passato, sorta di fil rouge per l’evoluzione culturale dell’epoca. Nel Novecento l’arte scompone, decostruisce, altera la realtà, ricercandone allo stesso tempo una raffigurazione fedele, che rappresenti la premessa per quella che dovrebbe essere l’azione politica. I prodotti culturali devono essere interpretati: nelle opere ottocentesche è ancora presente un soggetto riconoscibile, le forme sono armoniose, i soggetti gradevoli alla vista. Nel corso del Novecento invece le regole del gusto e i canoni estetici convenzionali mutano radicalmente, i linguaggi delle opere si fanno sconcertanti. Guerre, rivoluzioni, scoperte scientifiche e tecnologiche divennero fattori in grado di sovvertire tradizioni che a lungo avevano provveduto a fornire un’identità stabile all’umanità. I vari cambiamenti si rifletterono nell’arte, nell’ambito della quale iniziò l’esplorazione della realtà attraverso la dissoluzione della figura, la creazione di forme e segni che non avevano più alcun rapporto con il mondo che le circondava. L’arte divenne un fenomeno di massa: iniziò a essere considerata come un valore prezioso da tutelare, si aprirono musei e raccolte, le opere uscirono dalle collezioni private e dalle chiese, per essere mostrate a un pubblico sempre più ricettivo, coinvolto e interessato.
Dal punto di vista storico, il fenomeno dell’avanguardia ha attraversato tre fasi principali in ambito artistico: prime avanguardie o avanguardie storiche, sviluppatesi nella prima metà del Novecento e caratterizzate da movimenti culturali e manifesti artistici, con ampi riferimenti anche all’attivismo politico; • seconde avanguardie o neoavanguardie, sviluppatesi negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, caratterizzate dal dibattito critico e dal confronto con la crescente società di massa; • le terze avanguardie, sorte alla fine del XXI secolo e tuttora non completamente definite, caratterizzate dallo scontro con il postmoderno e dalla ripresa dei linguaggi del passato. La differenza sostanziale tra i diversi stadi di sviluppo è legata ai differenti scopi che si prefiggevano gli artisti e i letterati: nella prima fase l’accento è da porre soprattutto sulla rivolta contro la tradizione, mentre nella seconda fase si mira piuttosto a effettuare una sintesi delle esperienze precedenti, ampliandone le caratteristiche con nuove idee, sviluppando tecniche più avanzate e adottando tecnologie innovative. Si punta più a rivoluzionare il presente che a distruggere il passato, cercando di avviare una fase costruttiva; vi è una spinta al continuo rinnovamento, alla ricerca della novità come superamento delle tendenze precedenti, ora però anche in funzione delle dinamiche sempre più accelerate del mercato artistico e del sistema della moda. Spesso quando si parla di avanguardia si tende automaticamente ad associare il termine al solo periodo delle avanguardie storiche di inizio Novecento: su di esse ci si soffermerà poi in particolare, descrivendone brevemente i caratteri principali che le hanno caratterizzate. Come si vedrà, i movimenti e le correnti che seguiranno le avanguardie storiche si riallacceranno ad esse per molti aspetti, poiché queste rappresentarono il primo vero momento in cui il fenomeno assunse una dimensione e una portata internazionale. Per alcuni studiosi l’inizio dell’arte d’avanguardia si fa risalire addirittura agli impressionisti, che con le novità tematiche della pittura segnarono un punto di svolta rispetto alle pratiche artistiche dell’epoca. Scrive Poli citando Fitzgerald: Gli impressionisti non determinarono semplicemente una rottura con le norme estetiche dell’accademia. Sarebbero forse rimasti poco noti come erano verso il 1870. Accoppiando la loro nuova estetica con la fondazione di un sistema commerciale e critico di supporto alla loro arte, essi non solo crearono il movimento dell’Impressionismo, ma anche le condizioni materiali per lo sviluppo dei movimenti moderni che avrebbero dominato l’arte del XX secolo. Dall’esperienza degli impressionisti nacque un nuovo modo di dipingere, un gusto estetico che si fondava sulle divisioni tonali, sulle giustapposizioni di macchie di colori complementari, sull’analisi della luce e sugli effetti che essa aveva sulla visione e sulla retina; con essi nacque però anche un nuovo modo di considerare l’artista moderno, che dipingeva scene di vita borghese en plein air, cogliendo la realtà come appariva nell’attimo. Egli non voleva fissare sulla tela l’oggetto, ma la sensazione immediata che si aveva di esso, così come accadeva nella percezione visiva del quotidiano. La poetica degli impressionisti non provocò una vera e propria frattura delle esperienze precedenti, ma portò alle estreme conseguenze il naturalismo e il realismo dei pittori della generazione precedente. La cesura che condurrà alle avanguardie vere e proprie sarà attuata prima da Van Gogh, per quanto riguarda il versante espressionista, e poi da Cézanne, la cui opera sarà paragonata a un’analisi fenomenologica del mondo esteriore, così come esso si rende percepibile e visibile nella natura stessa delle cose. Altri studiosi come Brandi considerano invece già il Romanticismo la prima avanguardia, perché di questa ne riprende tre caratteri essenziali: la volontà di segnare una frattura con l’arte precedente, la necessità da parte dell’artista di sentirsi parte di un gruppo costituito e il bisogno di orientare la propria azione verso un programma teorico preciso. Il Romanticismo effettivamente determinò una rottura con il passato e fissò indelebilmente nel tempo tutto quanto lo precedette; con esso si elaborò un concetto di avanguardia come progresso e processo dialettico della realtà umana. Secondo Brandi l’imperativo della novità deve essere salvaguardato: questo obbliga l’avanguardia a una continua rincorsa dell’azzeramento del passato. Non bisogna confondere per avanguardia la scabrosità del soggetto o qualsiasi orientamento nuovo di gusto o pensiero. Per fare avanguardia necessita in primo luogo volontà di avanguardia; bisogna contrapporsi a qualcosa e rivendicare una tecnica nuova o anche un contenuto nuovo, purché sempre in funzione di distacco da quello che precede e di diretto accaparramento del futuro. Dal punto di vista storico le avanguardie sono maggiormente legate all’arte e alle espressioni artistiche tipiche dell’Ottocento, rappresentandone contemporaneamente una continuità ideale e un’aperta contrapposizione all’eredità simbolista. Esse hanno come fattore comune una volontà di rifiuto e aperto contrasto verso le concezioni artistiche, scientifiche, filosofiche e socioeconomiche vigenti. Il loro spazio temporale di sviluppo coincide con gli anni a cavallo della prima guerra mondiale, ovvero indicativamente tra il 1905, anno in cui nasce l’Espressionismo, e il 1924, anno in cui si afferma il Surrealismo. In un cinquantennio che viene sconvolto da due conflitti mondiali e che vede la modifica sostanziale del proprio tessuto produttivo e sociale, passando dalla rivoluzione industriale al post-fordismo e dalla società di classi a quella dei consumi e mediatica, le avanguardie rappresentano inevitabilmente un punto di rottura. Si differenziarono dai movimenti tardo ottocenteschi che si limitavano a essere delle aggregazioni di artisti con intenti e gusti complementari; elaborarono poetiche e manifesti, ponendosi in posizione di rottura e anticipando tendenze in ambiti differenti. Si estesero in diversi settori e si servirono di tecniche figurative non più tradizionali, affiancando alla pittura nuovi linguaggi e mezzi innovativi (fotografia, cinema, ecc.) e sperimentando in territori fin ad allora poco battuti dagli artisti (propaganda e impegno politico, teatro come forma di espressione, stampa come mezzo di comunicazione e divulgazione di massa). Consapevole del cambiamento, l’artista si sente spinto verso l’innovazione continua; rifiuta le leggi della prospettiva tradizionale, abolisce la pittura narrativa e descrittiva, preferisce il brutto e l’incompiuto, fa uso di materiali e strumenti estranei alla tradizione estetica. L’arte nuova cerca la propria ispirazione nel presente immediato o nel passato remoto vissuto dai popoli arcaici: così facendo possono dirsi definitivamente conclusi quattro secoli di tradizione pittorica occidentale e di abitudini visive di carattere referenziale e realista. La successione di movimenti e tendenze d’avanguardia fu vertiginosa e ben poco rimase dell’arte tradizionale, poiché una nuova “Weltanschauung” si espresse in una multiforme fenomenologia di manifestazioni artistiche. Ogni movimento sembrava proclamare in modo dogmatico una verità assoluta: lo scopo era quello di reintegrare l’arte nella vita di tutti i giorni, ma non in senso modernista, ovvero modellando la propria vita sulla base dell’arte. Al contrario, le avanguardie puntavano a includere l’arte nella quotidianità, dato che questa sembrava essere sufficientemente autonoma. L’atto creativo divenne una trasgressione nei confronti di una società che lo respingeva, vedendolo come generazione di valori nuovi e progresso. L’esigenza di eversività, di sovversione nei confronti di strutture ritenute ormai passate, di distruzione come base per ogni rinnovamento, condusse gli artisti a gesti spesso clamorosi. Per la prima volta rifiutarono il loro pubblico: cessarono di adularlo, di agire quasi esclusivamente in sua funzione e iniziarono invece a insultarlo e a scandalizzarlo, ponendolo di fronte a oggetti incomprensibili, opere illeggibili, permeate da un’irrefrenabile soggettività, in cui dominava soltanto l’esigenza individuale di esprimersi. Il fenomeno delle avanguardie storiche ebbe una portata europea: Parigi fu la città perno intorno alla quale ruotarono tutte le esperienze continentali. Da Laforgue a Jarri, attraverso Mallarmè, Apollinaire e Bréton, anche la letteratura dell’epoca iniziò a condurre la sua battaglia accanto alle arti figurative. L’Italia sarà tuttavia isolata rispetto al resto dell’Europa: l’unico movimento attivo è il Divisionismo, i cui autori si richiamano al verismo, alle lotte contadine e al socialismo. In esso compiranno le prime esperienze pittori come Boccioni, Russolo, Balla, Severini e Carrà, che poi aderiranno al Futurismo. Il fattore comune alle differenti avanguardie storiche è l’avversione nei confronti dell’Impressionismo, che rifiuta il carattere sensorio che si affida esclusivamente alle sensazioni immediate e alla vista. Mentre l’impressione è vista come un’azione che va dall’esterno all’interno (a cui corrisponde necessariamente un atteggiamento passivo poiché l’unica realtà è quella esterna che s’imprime nella coscienza del soggetto), l’espressione è invece un’azione che va dall’interno all’esterno ed è il soggetto che imprime di sé l’oggetto. Con l’apertura del Novecento ai nuovi «canoni» artistici si parlerà di struttura funzionale dell’opera d’arte, che permette di cogliere una diversa temporalizzazione e spazializzazione della realtà. L’arte d’avanguardia diviene il luogo dove si mostra una nuova struttura del reale, costituita da un doppio movimento che va dal positivo al negativo, dalla pura presenza all’assenza, dall’essere in sé e l’essere per sé. La realtà non è solo in sé, ma è qualcosa che si origina nell’atto stesso della percezione: l’arte è il luogo dove ciò accade. Eravamo esaltati. Nei caffè, nella strade e sulle piazze, negli atelier, di giorno e di notte, eravamo “in marcia”, in continuo movimento, per scrutare l’imperscrutabile e insieme, poeti, pittori, musicisti, lavoravamo per creare “l’arte del secolo”, un’arte incomparabile, fuori dal tempo, sovrastante tutte le arti di tutti i secoli passati . Dalle parole del poeta Johannes R. Becher si percepisce l’entusiasmo che caratterizzava l’atmosfera artistica del primo Novecento. Il primo movimento artistico nel quale si manifestò una tendenza consapevole all’avanguardia fu l’Espressionismo, che perseguiva un’esasperazione dei contenuti espressivi dell’immagine. Intorno al 1905 si coagulò in due gruppi distinti: Die Brücke («il ponte»), che si diffuse in Germania (prima a Dresda e poi a Berlino) e nei paesi dell’Europa del Nord, e i Fauves («le belve») che sorsero invece in Francia. Comune ai due nuclei fu l’esigenza di esprimere attraverso la pittura stati d’animo più che fenomeni della visione. Anche l’Espressionismo si propose in antitesi all’Impressionismo: gli artisti riuscirono a trasferire sulla tela non soltanto i dati della propria percezione, ma anche il proprio modo di intendere la realtà, generando una visione del presente filtrata dalla emozioni. Per i Fauves è il colore puro il protagonista dell’immagine, che ne ritma la composizione e struttura il dipinto, senza gradazioni, sfumature o effetti, sulla scia di Van Gogh e Gauguin, che rifiutarono la pittura tonale tradizionale, ispirandosi invece all’arte primitiva, considerata più istintiva e vitale. Il rifiuto delle leggi prospettiche, del volume e del chiaroscuro tradizionali, la semplificazione delle forme e l’uso di una marcata linea di contorno, furono gli altri principali aspetti comuni agli esponenti del gruppo. Essi si differenziarono dagli artisti tedeschi per una minore angoscia esistenziale e un minore intento critico nei confronti della società: l’importante non era più il significato dell’opera, ma la forma, il colore e l’immediatezza del gesto, che dovevano rappresentare i sentimenti e coinvolgere emotivamente lo spettatore. Servendosi di suggestioni e stimoli sempre nuovi ricercavano un modo espressivo innovativo, basato sull’autonomia dell’opera: il rapporto con la realtà si fondava sulla ricerca utopica di un luogo magico dell’istinto e della felicità dell’animo. Anche gli artisti della Brücke seguivano un orientamento ideologico preciso, fedeli a un programma scritto in cui si autodefinivano parte di un movimento realista e rivoluzionario. L’apprezzamento per le espressioni d’arte popolare diventò la manifestazione di un aperto dissenso nei confronti della società borghese e conservatrice del tempo. I loro soggetti furono tratti dalla realtà quotidiana: paesaggi urbani, gente di strada, emarginati, zingari, sono rappresentati con linee aspre e colori corposi, quasi come se la materia pittorica volesse trasmetterne la bruttezza e il disagio. Come i Fauves, anch’essi si ispirarono all’arte dei primitivi, recuperando materiali e tecniche legati alla tradizione popolare tedesca come la xilografia, che consentiva di realizzare una linearità angolosa e tormentata, con forti contrasti tra luce e ombra. Rispetto ai francesi però, Die Brücke rivelava una derivazione romantica che si sarebbe manifestata poi in senso più tragico e talvolta persino mistico. Con l’Espressionismo si assisterà a un nuovo realismo, non più ingenuo come nel primo positivismo, che risolve tutta la realtà nella ragione e nella razionalità, ma un realismo fenomenologico in cui la realtà non è più un’entità autonoma ed esterna al soggetto. Nella poetica espressionista sarà implicito il tema dell’esistenza: gli stati artistici che portano alla creatività e al nuovo non sono altro che volontà di potenza, volontà di volontà, un tendere al-di-là-di-sé, oltre se stessi. Anche per gli espressionisti il tempo e lo spazio non sono uniformi, ma deformati dal desiderio e dai sensi. Gli artisti caricano il colore, marcano i tratti e deformano la realtà perché vogliono mettere in luce, attraverso la deformazione del visibile, la struttura autonoma del quadro. Negli stessi anni (1906-07) a Parigi, nel momento in cui il Fauvismo volgeva al termine, la meditazione sull’esperienza artistica di Cézanne portò Picasso e Braque verso una nuova spazialità, il Cubismo, che accentuava la sintesi plastica delle forme e insieme ne moltiplicava i punti di vista, giungendo a frantumare l’oggetto nella compenetrazione dei piani e delle linee. Il nome della corrente deriva da due episodi distinti: nel 1908 Matisse criticò alcune opere di Braque composte da quelli che sembravano essere dei «piccoli cubi», e in seguito il critico Vauxcelles scrisse in un articolo «Braque maltratta le forme, riduce tutto, luoghi, figure, case, a schemi geometrici, a cubi». I cubisti partirono dallo studio delle realtà, ma la scomposero, la frantumarono, la esplorarono per poi ricrearla, modificata, sulla tela, annullando la distinzione tra oggetti e spazio; ogni soggetto venne rappresentato in più vedute e da differenti angolazioni, generando una totalità delle percezioni. Alla realtà-vista sostituirono la realtà-pensata e la realtà-creata. La visione prospettica, già modificata dalla ricerca degli impressionisti, tende a dare sempre più importanza al soggetto rappresentato; mediante la scomposizione dei piani l’oggetto acquista una totale autonomia e può essere capito nella sua essenza, indipendentemente dall’ambiente circostante. Oltre allo studio dell’espressione della realtà, i cubisti svilupparono anche una serie di tecniche che ne riportarono la percezione materica: utilizzando prevalentemente un colore denso, a volte mescolato alla sabbia, realizzarono collage e papier collé con carta e fogli di giornale, legno, stoffe, lettere tipografiche, carte da gioco, riuscendo a trasmettere sensazioni tattili e visive. Una forte influenza deriverà anche dalla scoperta dell’arte iberica e della scultura negra, priva di ogni accademismo e ricca invece di forme schematizzate e geometriche. I cubisti aspiravano a una purezza delle forme, una visione sintetica che potesse essere interpretata anche come reazione all’atteggiamento descrittivistico e all’inclinazione naturalistica della tradizione ottocentesca e decadente. Tentando di introdurre la quarta dimensione (dimensione temporale) attraverso il movimento, modificando i rapporti reciproci tra le parti in un oggetto, il Cubismo pose fine alla concezione spaziale del Rinascimento. Il fondo si rovesciava sulla superficie, esterno e interno si compenetravano, mentre lo spazio si modificava attorno all’oggetto. Il Cubismo destò un notevole interesse nell’arte del tempo: è da esso che Mondrian, uno tra i massimi esponenti dell’Astrattismo, trasse lo spunto per creare le sue forme pure della geometria che divennero la caratteristica principale del Neoplasticismo. Anche il Futurismo, avanguardia italiana per eccellenza, partì da Parigi: qui infatti nel 1909 il letterato Filippo Tommaso Marinetti pubblicò sul quotidiano “Le Figaro” il “Manifesto del Futurismo”, a cui seguiranno poi il “Manifesto dei pittori futuristi”, il “Manifesto tecnico della pittura futurista” entrambi del 1910, e il “Manifesto dell’architettura futurista” del 1914. La Francia diverrà il punto di riferimento per i pittori futuristi, influenzati soprattutto dalle idee e dalle tecniche usate dai cubisti. Il merito del movimento consistette nel riconoscere per la prima volta in modo radicale, l’inadeguatezza dei linguaggi tradizionali e la necessità di liberarsi da una cultura accademica ormai fossilizzata. I futuristi puntavano a smuovere le coscienze tramite la provocazione e la violenza del messaggio: gli artisti riuscirono a trasmettere alle loro opere la tensione dinamica e progressista che caratterizzava lo spirito del secolo. Essi esaltavano la civiltà della macchina, sognando una rivoluzione in grado di distruggere il patrimonio storico e artistico, considerato passatista e obsoleto. L’uomo moderno doveva solo guardare al progresso e al futuro, rinnovandosi di continuo e abbandonando le regole della tradizione. Il movimento divenne il tema dominante delle opere futuriste: le linee compositive, i colori e le luci furono strutturati secondo ritmi crescenti, con l’intento di stupire e dare scandalo, scardinando le convenzioni. Marinetti riuscì a proporre un’ideologia e un programma che servirono da modello o da punto di riferimento per altri movimenti. Cubismo e Futurismo produssero influenze notevoli sia in Inghilterra, dove nacque il Vorticismo, che in Russia, dove sorsero movimenti come il Cubofuturismo, il Suprematismo, il Raggismo e il Costruttivismo. Anche la seconda avanguardia italiana di quegli anni, la Metafisica, nacque a Parigi, dove Giorgio De Chirico, suo massimo esponente, svolse parte della sua attività giovanile. In contrapposizione al Futurismo, che ricercava un modo per rappresentare il movimento e la velocità, simboli della modernità, la Metafisica voleva rappresentare una realtà dove ogni cosa appariva immobile, statica, sospesa nel tempo. De Chirico costruì con grande abilità tecnica immagini di città che sembrano disabitate, nelle quali, al posto di essere viventi, popolano lo spazio manichini senza volto. Su tutto sembra regnare una calma assoluta, senza che vi sia un legame diretto con la realtà (perciò si tratta di arte metafisica, ovvero che prescinde dalla realtà della natura e della storia e che è priva di ambizioni riconoscitive). Le forme del mondo naturale e gli oggetti appaiono quasi senza peso, pure forme geometriche nello spazio. Una cesura notevole nello sviluppo delle avanguardie fu lo scoppio, nel 1914, della prima guerra mondiale. Questo evento inciderà pesantemente sulla fase creativa e propulsiva dei movimenti, interrompendo molte ricerche e rendendo difficili i contatti tra gli artisti; se la guerra non concluse del tutto alcune delle parabole espressive artistiche, di certo ne accentuò l’aspetto meno soggettivistico. Gli artisti iniziarono a porsi degli interrogativi sul destino dell’uomo e sul ruolo della cultura. A Zurigo, nella neutrale Svizzera in cui si rifugiarono numerosi artisti e intellettuali, nacque nel 1916 quello che viene considerato il movimento di maggior rottura tra le avanguardie storiche: il Dadaismo. Sorto in tempo di guerra, era un movimento contro la guerra e contro tutta la cultura che l’aveva generata, comprese le avanguardie precedenti; esso giunse al rifiuto dell’arte in modo anarchico e provocatorio, proponendo un atteggiamento più oggettivo e impersonale nei confronti dell’espressione. Ricorda Hans Arp, «mentre i cannoni tuonavano in lontananza, noi dipingevamo, recitavamo, componevamo versi e cantavamo con tutta l’anima. Eravamo alla ricerca di un’arte elementare, capace di salvare l’umanità dalla follia dell’epoca» . La teorizzazione del caso, dell’imprevisto, la spontaneità caotica della produzione divengono il linguaggio con il quale Dada negò le forme dell’arte accademica consolidata, cercando di riscattare l’umanità dalla follia che l’aveva portata alla guerra. Dada era anti-arte: per ogni cosa che l’arte sosteneva, Dada sceglieva l’opposto, ignorando l’estetica, rifiutando la cultura tradizionale, eliminando qualsiasi forma di messaggio da convogliare tramite le opere e azzerando tutte le ideologie e tutti i valori. Lo stessa parola “dada” è priva di significato: Tristan Tzara, tra i fondatori del movimento, nel “Manifesto Dada” del 1918 dichiarò che «Dada non significa nulla. È solo un suono prodotto della bocca». I dadaisti attaccarono le convenzioni e le regole della società borghese, mirando a scandalizzare il pubblico tramite la negazione del passato: le opere dovevano esprimere la ribellione, dovevano nascere dall’assemblaggio fortuito dei materiali più disparati, sostituendo opere “pronte” alla pratica artigianale. Il ripudio di ogni concettualizzazione formale o di una qualsiasi coerenza stilistica si fondava su una casualità ostentata: i dadaisti non creavano oggetti ma li fabbricavano. Essi rifiutarono il decorativismo e le tecniche artistiche convenzionali, sperimentando invece materiali e strumenti inconsueti, privilegiando la tecnica del collage, del ready made (letteralmente “pronto all’uso”) e delle “macchine inutili”. L’artista organizzava i diversi materiali: vennero proposti come opere d’arte degli oggetti qualsiasi, dato che tutto può essere arte se firmato ed esposto in una mostra. L’idea di gruppo nelle avanguardie è fondamentale: Dada differisce dagli altri perché è il movimento negativo, l’antitesi nella dialettica dell’avanguardia storica. È formato da tanti “sottogruppi”, dislocati in varie città (Zurigo, New York, Berlino, Parigi, Colonia), gli artisti si spostano, creano nuovi centri culturali, diventano messaggeri della rivolta artistica, facendo sì che i movimenti travalichino l’arte e si immettano nella sfera sociale. Negli stessi anni, pur non potendo essere considerato un movimento omogeneo e compatto, nacque un altro fenomeno di grande novità per l’arte del Novecento: l’Astrattismo. Caratterizzato dall’abbandono definitivo della mimesi naturalistica e della concezione dell’arte come rispecchiamento oggettivo della realtà, esso si sviluppò intorno al 1910, grazie soprattutto a Vassilij Kandinskij, artista di origine russa che operava a Monaco di Baviera. La sua formazione artistica fu di matrice espressionistica, tanto che l’Astrattismo, nella sua fase iniziale, può essere quasi considerato un’appendice finale dell’Espressionismo. Il distacco totale dalla realtà esterna divenne il tema centrale del gruppo Der Blaue Reiter («Il Cavaliere Azzurro»), da lui fondato nel 1911. Secondo Kandinskij l’immagine è una forma di comunicazione che non ha bisogno di rappresentare la natura, gli oggetti o le figure umane; ciò che riesce veramente a suscitare sensazioni/emozioni è l’insieme dei colori, delle linee e delle luci, indipendentemente dal loro significato. Occorre distruggere la natura per cercare non le apparenze, ma le leggi che essa nasconde; bisogna dipingere la forma ideale, originaria ed essenziale delle cose. Le sue basi teoriche si riallacciavano al pensiero del filosofo francese Henri Bergson, all’intuizionismo e alle teorie sul concetto di tempo inteso come processo fluido; egli sentiva un forte richiamo verso un universo simbolico, nel quale ogni nesso con il reale era sorpassato e dove l’ispirazione pittorica veniva ricondotta a puri impulsi spirituali. Kandinskij esplorò l’espressività degli elementi fondamentali del linguaggio visuale: l’immagine comunicava un proprio mondo interiore e l’arte divenne un’elaborazione autonoma delle mente. Punti, linee, colori e luci sono solo segni che non vogliono suggerire nulla di reale, spingendo lo spettatore in un substrato immaginativo che l’artista era in grado di trasformare in sistema. Una forma particolare di Astrattismo è il Neoplasticismo o De Stijl, che si affermò in Olanda nel 1917. I suoi esponenti più significativi, Théo Van Doesburg e Piet Mondrian fondarono la rivista omonima e attraverso manifesti e dibattiti culturali affrontarono il tema della costruzione dell’opera d’arte. La loro ricerca partì da forme geometriche semplici, che riescono ad evidenziare con chiarezza i criteri di aggregazione scelti dall’autore. Ne derivava una pittura come costruzione rigorosa dello spazio del dipinto, fatta di sole linee unite a piani di colore compatto. L’Astrattismo di Mondrian è molto diverso da quello di Kandinskij: egli vuole eliminare ogni tipo di interpretazione soggettiva dell’immagine. Per Mondrian l’arte è la realizzazione di un progetto, non il frutto di una sensazione: l’armonia dell’insieme e l’equilibrio compositivo sono legati a calcoli precisi, che servono a determinare l’ampiezza di ogni superficie, la sua forma, il suo colore. L’arte deve porsi oltre la realtà, perché questa è in opposizione allo spirito; l’artista deve rappresentare un’immagine del mondo purificata dalle forme dell’apparenza e filtrata dalla coscienza. Mondrian ribadisce la necessità di trovare mezzi nuovi per esprimere nello spazio il «ritmo dinamico delle relazioni fra le cose», intuibile solo attraverso un atto intellettivo. Egli afferma: «Lo spirito nuovo distrugge la forma delimitata nell’espressione estetica, e ricostruisce una apparenza equivalente del soggettivo e dell’oggettivo, del contenuto e del contenente». Ecco quindi che per ottenere questa visione, definita neoplastica, la forma viene soppressa. Dal Dadaismo e in parte dalla Metafisica, nel 1924 nacque quella che può essere considerata l’ultima delle avanguardie storiche, il Surrealismo, che soprattutto dai Dada ereditò l’esigenza di un atteggiamento dissacrante e provocatorio. Nel “Manifesto del Surrealismo” (sempre del 1924) verrà data forma organica alle tematiche del movimento, che puntava a recuperare nel contempo una concezione dell’arte come produzione di opere e dell’atto creativo come disciplina formale. Il Surrealismo venne fortemente influenzato dal metodo freudiano: in questi anni si stava sviluppando la psicoanalisi, teoria che studia l’influenza esercitata sul comportamento umano da parte dei desideri e degli impulsi istintivi, i quali spesso si manifestano a livello inconscio tramite i sogni. L’arte allo stesso modo deve riuscire a far emergere i contenuti dell’inconscio e liberare l’immaginazione dalla parte razionale della mente. Il Surrealismo riprese e sviluppò la ricerca iniziata dal Simbolismo alla fine dell’Ottocento, che vedeva nell’immagine non tanto la raffigurazione della realtà, ma la rivelazione di ciò che sfugge al controllo razionale. Le opere surrealiste furono composizioni di frammenti di immagini reali, disposti senza ordine logico; essi generavano un mondo nuovo, fantastico, quasi una fusione tra sogno e realtà.
I surrealisti intendevano rappresentare infatti non la realtà esterna, ma la realtà interiore dell’uomo, quella più nascosta e segreta; così facendo gli artisti e di conseguenza gli uomini si sentivano più liberi di esprimersi, senza le costrizioni e le convenzioni imposte dalla società, dalla tradizione, dalla morale e dalla logica. La materia divenne la fonte stessa dell’immagine e l’artista non era più tanto creatore quanto piuttosto spettatore stesso del farsi dell’opera, del suo acquisire significato. L’esperienza della prima guerra mondiale, la disgregazione delle istituzioni di tradizione ottocentesca e le grandi trasformazioni sociali e politiche genereranno nel ventennio tra le due guerre mondiali un forte distacco dal passato non solo in campo storico e sociale, ma anche in quello culturale e artistico. Il critico francese Maurice Raynal coniò un’espressione per definire il fenomeno: “ritorno all’ordine”, a significare il generale recupero del realismo e della figuratività tradizionale e l’abbandono di tecniche sperimentali80 . Semplificazione, rigore plastico e precisione divennero i nuovi valori guida. La necessità di un ritorno alla chiarezza razionale assunse una portata europea e investì tutte le attività artistiche. Nel campo della pittura (fatta eccezione per il Surrealismo) si manifestò una diffusa esigenza di figuratività, di ritorno alla forma e alla tradizione, nell’intento di verificare le tecniche e le capacità compositive. Con il boom economico favorito dai grandi investimenti per la ricostruzione postbellica il mercato dell’arte conobbe un momento di grande vitalità: la borghesia chiedeva dipinti e ritratti da appendere nei salotti, gli impresari teatrali commissionavano scenografie e costumi. La produzione si fece più figurativa e conservatrice: in tutta Europa, seppure in forme estremamente diverse, si diffuse una comune volontà di ricostruzione, razionalizzazione e concretezza. Gli artefici del cambiamento furono spesso gli stessi protagonisti delle avanguardie, come accadde per i futuristi Boccioni, Carrà e Soffici, che manifestarono un ripensamento critico della propria esperienza artistica, richiamandosi alla storia e alla realtà nelle nuove opere. Le avanguardie storiche riuscirono a modificare totalmente il concetto di arte visiva. Gli artisti scoprirono nuove strade, nuovi modi e nuovi mezzi sia nel campo della tecnica che dell’espressione. Il fenomeno si spense gradualmente intorno agli anni Trenta, quando la forza rinnovatrice esaurì la propria carica rivoluzionaria. A questo periodo di stasi artistica corrispose l’affermazione in campo politico di regimi totalitari e reazionari: fascismo in Italia e nazismo in Germania divennero fautori di un ritrovato indirizzo artistico di stampo tradizionalistico e accademico, in funzione prettamente propagandistica. Entrambi si schierarono apertamente contro i nuovi stili artistici, arrivando a definire le opere “oggetti di arte degenerata”, da eliminare al più presto da musei e collezioni statali. Episodi analoghi si ebbero anche in Russia dove, sotto il regime di Stalin, si affermò il “Realismo socialista”, un indirizzo artistico che rifiutava la sperimentazione in favore di un’arte di matrice popolare con forti contenuti ideologici. Molti artisti furono costretti a emigrare negli Stati Uniti, dove trasferirono molte delle novità culturali prodotte in Europa. Dopo il 1945 il luogo dove si svilupparono le tendenze più interessanti e si portarono avanti le esperienze più nuove divenne l’America, che fino ad allora si era limitata a seguire gli andamenti dell’arte europea. L’eredità delle prime avanguardie si rifletterà in diversi ambiti. Dopo di esse si diffonderà un nuovo modo di porsi di fronte al prodotto artistico, non più inteso come semplice depositario di valori assoluti o di verità rivelate, ma come qualcosa di strettamente connesso col suo creatore e con il suo fruitore. Ad aprire il percorso espositivo a Palazzo Blu, sarà un Autoritratto (1906) di Picasso venticinquenne. Il giovane pittore imbraccia la tavolozza e, letteralmente, si rimbocca le maniche: è il primo, consapevole passo per diventare il grande protagonista della vicenda artistica di un intero secolo. Poi il percorso prosegue come una intensa “linea del tempo” in cui le opere sono accompagnate da installazioni visive, sonore e multimediali, per collocarle nella sequenza degli eventi storici e culturali dalla fine della “Belle Époque” fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il baricentro dell’arte, all’inizio del Novecento, è senza dubbio Parigi. Il gruppo delle opere anteriori alla Prima Guerra Mondiale mostra una varietà di temi e approcci, accomunati dal desiderio di dare volto a un tempo nuovo, che rompe con il passato accademico. Insieme all’amico Braque, arroccato sulla collina di Montmartre, Picasso elabora il cubismo e l’Uomo con il violino (1911-1912) ne è una prova esemplare, Robert Delaunay evoca atmosfere suggestive, Saint Severin (1909) lo dimostra, mentre l’irriverente e geniale Marcel Duchamp provoca e sorprende il pubblico con dipinti fuori da ogni precedente, in netto anticipo sul surrealismo, come lo straordinario Macinacaffé (1913). Poi l’Europa è scossa dalla lunga tragedia collettiva della Prima Guerra Mondiale: una Natura morta con scacchiera, bicchiere e piatto di Juan Gris (1917) sembra la silenziosa metafora di una situazione delicata, in cui la partita non è affatto decisa. La Guerra apre anche nuovi scenari e allarga i confini dell’arte: emerge la figura poetica di Marc Chagall, che con la sua Festa di Purim (1916-17) sembra contrapporre la rassicurante, millenaria tradizione religiosa e popolare delle comunità ebraiche dell’Europa Orientale all’incalzare scomposto degli eventi bellici. Con la fine del conflitto e la controversa Pace di Versailles (1919) prende avvio una fase di difficile ricostruzione sociale e culturale. Su fronti diversi ma paralleli troviamo l’impegno “costruttivista” di Fernand Léger con Paesaggio animato (1923) e un’opera memorabile di Vassily Kandinsky, Cerchi nel cerchio (1923). Il dipinto si colloca nel cuore dell’esperienza del Bauhaus, movimento artistico, scuola di formazione, progetto globale di architettura, design, arti applicate nel segno del rigore geometrico, della rinuncia alla decorazione. Un’esperienza che coincide, in Germania, con gli anni della Repubblica di Weimar, verrà condivisa da altri artisti presenti in mostra, come Paul Klee e Alexey Jawlensky, e si interromperà bruscamente con la salita al potere del nazionalsocialismo. Gli anni Venti sono molto ben rappresentati e mostrano il generale orientamento internazionale verso la ricerca di nuovi orizzonti, alternativi alla realtà. Marie Laurencin esplora i territori del mito e della fiaba, Klee e Mirò guardano al mondo del circo e della magia, Max Ernst (Foresta, 1923) è tra i fondatori del surrealismo. Un grande protagonista è Henri Matisse, nella piena maturità della sua arte raffinata, piena di sentimento e di sensazioni legate al colore: la Donna seduta in poltrona (1920) e la Natura morta su una tavola (1925) comunicano un desiderio di pace, di affettuosa intimità. Con il Cane che abbaia alla luna (1926) il catalano Joan Mirò sembra ironizzare con simpatia sulle “parole al vento” della propaganda e sulle crescenti spinte autoritarie (come negare una certa somiglianza tra il cane del dipinto e il profilo di Mussolini?). Sono gli anni del surrealismo, condiviso dallo stesso Picasso e lo vediamo in Bagnante (1928). Di grande raffinatezza è la Tempesta (1926), solitario, oscuro paesaggio di Yves Tanguy. Dalla salita al potere di Hitler l’Europa scivola su un piano inclinato sempre più ripido verso una nuova ecatombe. Se ne rende subito conto Salvador Dalì, che contrappone un misterioso Simbolo agonistico (1932) alla eloquenza esibita delle bandiere di partito. Le rigorose composizioni geometriche di Piet Mondrian acquistano, in questo clima, un senso di rigore morale, di fiducia nella geometria più pura e rarefatta, di ordine di fronte al caos montante. Un sentimento condiviso anche dalle forme semplici delle sculture di Hans Arp. Dopo un’ultima, struggente tela di Klee, la mostra si chiude con un’opera di fortissima suggestione e di alto valore simbolico: la Crocifissione dipinta da Chagall nel 1940. Con l’Europa inchiodata a una nuova croce, e ancora con l’arte a farsi interprete e testimone della storia.
Palazzo Blu Pisa
Le Avanguardie. Capolavori dal Philadelphia Museum of Art
dal 28 Settembre 2023 al 7 Aprile 2024
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00