Giovanni Cardone
Fino al 27 Ottobre 2024 si potrà ammirare al Polo Museale – Castello Conti Acquaviva D’Aragona di Conversano Bari la mostra dedicata Chagall. Sogno d’amore: oltre 100 bellissime opere attraverso cui viene raccontata tutta la vita e l’opera di uno degli artisti universalmente più noti e amati: Marc Chagall, a cura di Dolores Durán Úcar con la divulgazione scientifica di Francesca Villanti. L’esposizione promossa e sostenuta dal Comune di Conversano Città d’Arte e Museco – Musei in Conversano e Regione Puglia, con il patrocinio della Città Metropolitana di Bari e di Puglia è prodotta e organizzata da Arthemisia . Questa mostra rappresenta una straordinaria opportunità per ammirare oltre 100 opere tra dipinti, disegni, acquerelli e incisioni dell’artista; un nucleo di opere rare e straordinarie, certificate e autorizzate dalla Fondation Chagall, provenienti da collezioni private e quindi di difficile accesso per il grande pubblico che consentono di ripercorrere la traiettoria artistica del pittore dal 1925 fino alla morte. L’Amore è il fil rouge che unisce tutta la produzione di Chagall: amore per la religione, per la patria, per la moglie, per il mondo delle favole, per l’arte. La mostra, dal forte impatto emotivo, racconta un mondo tutto suo, intriso di stupore e meraviglia. Nelle opere coesistono ricordi d’infanzia, fiabe, poesia, religione ed esodo, un universo di sogni dai colori vivaci, di sfumature intense che danno vita a paesaggi popolati da personaggi, reali o immaginari, che si affollano nella fantasia dell’artista: un immaginario onirico in cui è difficile discernere il confine tra realtà e sogno. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Marc Chagall apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che Chagall ha rivelato fin dall’inizio nella sua pittura un’essenza fantasiosa profondamente radicata, non solo tematicamente, nella tradizione poetica e religiosa ebraica russa. Attento alle ricerche dell’avanguardia fauvismo, cubismo, surrealismo, non ne è mai stato condizionato, considerandole piuttosto un possibile arricchimento espressivo della propria visione poetica che ignora colore naturalistico, leggi di gravità, modi tradizionali di trattare lo spazio. Allievo di L. Bakst a Pietroburgo, nel 1910 Chagall si recò a Parigi, dove si stabilì a La Ruche, un casamento popolare costruito per gli artisti che contava ospiti come Trotzky, Soutine, Archipenko, Léger. Tornato in Russia allo scoppio della prima guerra mondiale, aderì con entusiasmo alla rivoluzione: nominato commissario del popolo per le arti a Vitebsk, vi fondò una scuola d’arte; dal 1919 lavorò per il teatro ebraico di Mosca. Lasciata la Russia nel 1922, dopo un breve soggiorno a Berlino, si stabilì nuovamente in Francia: eseguì mirabili serie d’incisioni per la sua autobiografia, per le Anime Morte di Gogol, ecc., nei dipinti, accanto ai temi prediletti, un repertorio d’immagini che fonde figure umane, animali, oggetti, paesaggi, si affiancarono motivi legati al mondo biblico nel 1931 compì un viaggio in Palestina per ritrovarne impressioni, atmosfere e dal 1935 il motivo simbolico della crocefissione. Nel 1941, su invito del Museum of Modern Art di New York, si recò negli Stati Uniti. Tornato in Francia nel 1947, dal 1950 si stabilì a Vence, e si dedicò anche alla scultura e alla ceramica. Accanto alla ricca produzione pittorica e grafica, a notevoli contributi per il teatro, Chagall realizzò numerose opere monumentali: pitture murali per il foyer del Watergate Theater di Londra nel 1949, per l’Opera di Parigi tra il 1963 e il 1964, per il Metropolitan di New York nel 1966, vetrate per la cattedrale di Metz nel 1959 al 1968 per la sinagoga dell’ospedale Haddash a Gerusalemme nel 1960, per la cattedrale di Reims nel 1974, mosaici per il nuovo parlamento di Gerusalemme nel 1966, per l’università di Nizza nel 1968. Nel 1973 fu inaugurato a Nizza il Musée national du message biblique Marc Chagall, costituito dalla donazione dell’artista di oltre trecento opere tra pitture, disegni, incisioni e sculture. Di fronte a un’opera d’arte, che si tratti di un quadro o una sinfonia di musica classica, una poesia o una cattedrale di splendide forme, normalmente non si rimane indifferenti. Anche spiriti non formati alla perfezione, o in attesa di essere sgrezzati, reagiscono con sentimenti di stupore e iniziano a porre attenzione a quel che si para sotto i loro sensi. Aspettiamo che qualcuno ci dica il segreto di tanta bellezza. Rubiamo a qualche esperto le risposte che sembrano più urgenti e necessarie. In tanti prima di noi hanno sentito che l’uomo ha un cuore e un mistero in esso racchiuso, che lo trascendono: «Abyssus abyssum invocat». Spiega così il mistico Angelo Silesio: «L’abisso del mio spirito non cessa d’invocare con grida l’abisso di Dio: di’, quale è il più profondo?». A ridosso della Seconda guerra mondiale, H. de Lubac crede sia ottimo partire esattamente di qui per una riflessione sulla conoscenza di Dio, poi ampliata e divenuta nel 1956 il suo denso saggio Sur les chemins de Dieu. Le vie di Dio sono quelle che dall’alto egli percorre, per andare incontro ai bisogni umani nella linea della storia della salvezza, dunque della synkatàbasis, la condiscendenza divina. Ma possono essere anche le strade che l’uomo prova a intraprendere, per incrociare la volontà di Dio e imparare a discernerla e realizzarla, quando il suo cuore resta umile. Nell’arte pittorica del Novecento è rimasta molto forte l’impronta di Marc Chagall pittore russo naturalizzato francese.
Non si finisce di stupirsi di lui e delle sue peculiari caratteristiche di uomo a contatto con esperienze diverse, paesi lontani, culture e fedi di enorme valore e precise esigenze morali. Pare davvero che dalle profondità del suo animo e dalla bellezza del suo tratto chiunque possa risalire al mistero divino scritto nella propria esistenza. In questo senso proviamo a descrivere i colori spirituali che Chagall ha saputo adoperare meglio, unendoli fra loro in capolavori senza tempo. Ci riferiamo ai colori dell’attenzione amorosa verso gli altri e l’Altro, verso l’equilibro sempre in crisi della natura e dell’universo, ricercato anche nelle avventure degli ultimi. Nell’espressione pratica egli ha anticipato di alcuni anni il surrealismo, senza aver mai aderito a nessuna corrente artistica specifica e lasciando un’impronta riconoscibile ovunque abbia lavorato. Non conviene descrivere le tecniche, meglio sarebbe provare a raccontare le emozioni. Viviamo nel tempo, ma destinati al cielo: questo si evince dalla sua arte. Si nota facilmente che vi confluiscono elementi di paesaggio, umanità feriale, storia, liturgia, sogno e altri circuiti, che ognuno potrebbe visitare, entrando in dialogo con le sue opere. In Italia si tengono frequenti mostre d’arte, capaci di richiamare in contenitori culturali, durante tutto il corso dell’anno, folle di persone appassionate e intenditrici, oppure anche solamente spinte da curiosità e dalle cronache diffuse attraverso i media. Sono stati vari gli annunci adottati per pubblicizzare l’iniziativa, ma si faceva leva anche su alcuni capolavori di Chagall presenti per i visitatori e naturalmente su parole scritte da lui, assai evocative: «La rivoluzione mi ha scosso con tutta la sua forza, impadronendosi della personalità, di un singolo uomo, del suo essere, traboccando dai confini dell’immaginazione e irrompendo nel mondo sentimentale delle immagini, che diventano a loro volta parte della rivoluzione». Allo scoppio della rivoluzione, con l’abdicazione di Nicola II e l’insurrezione bolscevica, le interdizioni contro gli ebrei furono abolite e Chagall divenne un cittadino libero. Mark Zacharovič Šagal nome poi francesizzato era nato a Vitebsk, nell’attuale Bielorussia, città metà ebrea e metà russa, il 7 luglio 1887, in una famiglia di religione ebraica, non abbiente e di costumi tradizionali. Con una legge del 1795 e un’altra risalente al 1835, in Russia era stata creata una zona speciale di residenza ebraica (in russo Čertá osédlosti, in ebraico Th.um HaMosháv). Ad esempio, dati rilevati nel 1897 affermano che «5 milioni di ebrei vivevano nella Zona di Residenza e 320.000 fuori, di cui 100.000 vivevano in Siberia, 80.000 nelle Province baltiche, 50.000 nel Caucaso, 10.000 nell’Asia centrale russa e 10.000 nell’Astrakan e nella regione di Terek» Vasilij Grossman, uno dei più noti scrittori del realismo socialista, annota nel suo romanzo Tutto scorre: La rivoluzione aveva abolito la «quota percentuale», il «censo patrimoniale» e i privilegi nobiliari, aveva spazzato via la zona di residenza obbligata, e centinaia di migliaia di persone contadini, operai, artigiani, studenti, gioventù delle campagne di Vologda e dei sobborghi ebraici erano diventati dirigenti di comitati rivoluzionari, di commissioni straordinarie distrettuali e provinciali, di comitati di distretto del partito, di consigli economici, dei servizi combustibili, dei comitati di approvvigionamento, di sezioni d’istruzione pubblica, di kombinat. Era cominciata la costruzione di un nuovo Stato, mai visto prima al mondo. Pagine molto significative dell’infanzia furono scritte dallo stesso Chagall nel suo famoso resoconto autobiografico, in lingua russa, negli anni 1921-22, un po’ prima di lasciare definitivamente Mosca, dopo l’esperienza di entusiasmo e sofferenza della rivoluzione. Bella Rosenfeld, incontrata a Vitebsk nel 1909, sua moglie dal 25 luglio 1915, tradusse quell’opera in francese (Ma vie; La mia vita) e la diede alle stampe a Parigi nel 1931, presso la Librairie Stock. Venne poi ristampata nel 1957 con piccole modifiche e integrazioni dell’artista. Ricordando la madre defunta, scriveva: Ah, mamma. Non so più pregare e piango sempre più di rado. Ma la mia anima pensa a te, a me, e il mio pensiero si consuma nel dispiacere. Non ti chiedo di pregare per me. Tu lo sai quante pene ho. Dimmi, piccola madre: nell’altro mondo, in paradiso, nelle nuvole, là dove sei, ti consola il mio amore? Potrò con le mie parole filare per te un po’ di tenera, carezzevole dolcezza? L’artista, come chiunque altro al suo posto, evidenziando i sentimenti racchiusi nel profondo del cuore, sembra voler offrire consolazione, quando invece più di tutto ha bisogno di essere consolato proprio per la mancanza della sua mamma. Nelle speranze del protagonista la carica di amore ricevuto fin da piccolo non dovrebbe esaurirsi, ma riuscire a trovare una fonte rinnovabile e duratura. Soltanto così gli verrebbe assicurata quell’energia fondamentale, che mantiene le persone in vita. Anche un incendio a Vitebsk lascia un ricordo indelebile nella memoria del maestro: Sono solo nel fiume. Faccio il bagno. Increspo appena l’acqua. Intorno, la città tranquilla. Il cielo lattiginoso, blu-nero, è un po’ più blu a sinistra e più in alto risplende una felicità celeste. D’un tratto, dalla riva opposta, da sotto il tetto della sinagoga si leva del fumo. È come se si udissero le grida dei rotoli della Torah in fiamme e dell’altare. I vetri si infrangono. Presto, fuori dall’acqua! Tutto nudo, corro sulle tavole a prendere i miei vestiti. Amo tanto gli incendi! Il fuoco zampilla da tutte le parti. Già la metà del cielo è piena di fumo. Si riflette nell’acqua. Le botteghe si chiudono. Tutto si agita uomini, cavalli, mobili. Grida, richiami, capitomboli. Più cara, più commovente è diventata per me la casa natia. Corro verso di lei, per vederla e dirle addio. Sul tetto già piombano i carboni ardenti, le ombre, i riflessi del fuoco. È come svenuta. Mio padre, io, i vicini la innaffiamo, la inondiamo; è salva. Verso sera salgo sul tetto per osservar meglio la città bruciata. Tutto fuma, si screpola, crolla. Rientro, triste e stanco, a casa. Nella Russia ebraica del primo Novecento, il ripetersi di incendi non è certamente avulso dalla storia o frutto di pura coincidenza. Basterebbe qui ricordare il caso emblematico di Odessa. In quella città sulle rive del Mar Nero esisteva il ghetto ebraico di Moldavjanka, ove si svolgono le storie immortalate in Gente di Odessa da Isaak Babel’. Lo scrittore sopravvisse al pogrom del 1905 grazie all’aiuto di vicini di casa cristiani, che nascosero la sua famiglia. E in molti altri casi si ebbero vere e proprie distruzioni a tappeto di interi quartieri ebraici con conseguenze gravissime per gli abitanti. In Bulgaria si verificò un evento con caratteristiche simili, raccontato da Elias Canetti nel suo La lingua salvata. Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981 era nato a Rustschuk da una famiglia ebraica di lingua spagnola. Sentiva un’attrazione innata verso l’arte, in particolare per l’opera di Bruegel il Giovane (o Bruegel degli Inferi, 1564-1638). Lo spiega a proposito di un incendio a cui assistette nella sua infanzia: Un bel giorno il giardino si riempì di fumo, alcune delle nostre ragazze corsero fuori sulla strada e subito ritornarono eccitatissime, con la notizia che stava bruciando una casa del vicinato. Provai una certa paura a trovarmi tutto solo in quel modo, e poi l’idea di andare a vedere il fuoco attraeva anche me e così per la prima volta in vita mia vidi una casa in fiamme . Quella scena, che non ho mai dimenticato, mi è più tardi riapparsa nei quadri di un pittore, così che ora non potrei dire che cosa ci fosse in origine e che cosa si sia aggiunto in seguito grazie a quei quadri. Avevo diciannove anni quando a Vienna mi trovai davanti ai quadri di Bruegel. Riconobbi immediatamente le molte minuscole figure dell’incendio della mia infanzia.
Così Bruegel è diventato per me il pittore più importante di tutti, ma non l’ho acquisito, come tante altre cose più tardi, con la contemplazione o la riflessione. L’ho ritrovato dentro di me, come se mi avesse aspettato già da molto tempo, sicuro che un giorno sarei arrivato a lui. Nel 1940 Chagall realizzò guazzi su carta, tra cui L’incendio nella neve e Il villaggio in fiamme, dove si trovano insieme case, genitori, figli piccoli, animali, tutti minacciati dal fuoco. L’ebreo che tiene strette fra le braccia i Sefarim, le sacre pergamene, salvandole dalle fiamme, era già divenuto un motivo costante nei dipinti di Chagall. Le tematiche di queste opere erano destinate a rimanere di tristissima e angosciante attualità, per quello che i campi di concentramento nazisti diventarono dopo la cosiddetta «soluzione finale». Pochi anni dopo scriveva Jules Isaac, pioniere delle Amicizie ebraico-cristiane in Francia, nell’opera Jésus et Israël (1948), alla fine del ventunesimo e ultimo argomento: A questo sforzo di rinnovamento, di purificazione, a questo severo esame di coscienza, io invito i veri cristiani e anche i veri israeliti. È questo il fine che mi sono proposto. È questa la lezione più importante che si sprigiona dalla «meditazione di Auschwitz», dalla quale io non so distaccarmi, dalla quale nessun uomo di cuore dovrebbe astenersi. Il bagliore del forno crematorio di Auschwitz è il faro che rischiara, che orienta ogni mio pensiero. O fratelli miei ebrei, e voi pure, miei fratelli cristiani, non pensate che quel bagliore si confonde con un’altra luce, quella della croce? Che Jules Isaac non riuscisse a dimenticare la lezione di Auschwitz era esattamente comprensibile, visto che là aveva perso i suoi parenti più intimi. Con gli strumenti della ricerca storica in cui era provetto, dopo la fine della Seconda guerra mondiale ebbe l’unico obiettivo di far conoscere meglio Israele ai cristiani e il cristianesimo agli ebrei. Tornando al nostro artista, Orlando Figes afferma nel suo saggio sulla storia della cultura russa in epoca contemporanea: Gli ebrei israeliani non riuscivano a capire come Chagall potesse essere tanto nostalgico della vita in Russia. Non era il paese dei pogrom? Ma Vitebsk era una città in cui gli ebrei non solo erano coesistiti con i russi, ma dove avevano anche beneficiato della cultura russa. Come Mandel’štam, un ebreo russo-polacco, Chagall si era identificato con la tradizione russa: essa era stata lo strumento per entrare nella cultura e nei valori dell’Europa. La Russia, prima del 1917, era una grande civiltà cosmopolita. Aveva pienamente assorbito la cultura occidentale, proprio come l’ebreo Chagall aveva assorbito la cultura della Russia. La Russia aveva liberato gli ebrei come Chagall dagli atteggiamenti provinciali delle loro città natie e li aveva messi in contatto col più vasto mondo. Solo la Russia poteva ispirare simili sentimenti. Nessun’altra civiltà dell’Europa orientale era abbastanza ampia da poter offrire agli ebrei una patria culturale. Cosmopolitismo, apertura culturale, tradizione che, rinnovandosi, persiste. Queste considerazioni si legano primariamente al contesto e alle suggestioni che l’«anima russa» era già riuscita a generare, muovendo dagli spazi letterari del romanzo d’Ottocento, che aveva avuto grande fortuna e conosciuto presto traduzioni in tanti Paesi del mondo. Dopo aver inquadrato gli anni della prima giovinezza, conviene avviare un percorso lungo delle piste che Chagall sicuramente teneva intrecciate fra loro. Sembravano offrirgli continuamente spunti per i suoi sogni fuori e dentro la tela: l’amore tra uomo e donna, quello per i derelitti, l’amore di Dio per l’umanità, l’esaltazione dello Shalom. Il pio israelita, e anche quello non religioso, conosce bene l’insegnamento dello Zohar, il testo classico della Cabbalà, ancor oggi considerato sacro nei circoli mistici, al pari della Bibbia e del Talmud. Esso dice che quando un uomo e una donna giacciono insieme, i cieli si rallegrano, giacché è proprio l’amore il motore che muove il mondo e fa nascere un’attiva solidarietà universale. Furono esattamente tre le donne che Chagall amò in maniera particolare. Dunque dovremmo pensare a un uomo che non sapeva non amare. La depressione in seguito alla morte della prima moglie Bella fu superata grazie al nascere di un nuovo sentimento verso Virginia Haggard, dopo esser tornato in Europa alla fine del conflitto mondiale e aver scelto di vivere in Provenza. Nel 1952 si sposò una seconda volta con Valentina Brodsky, anch’ella ebrea di origine russa. Aveva scritto ne La mia vita: «E io, chi bacerò? Devo trovare qualcuno. Non posso d’altra parte baciare una vecchia, o un uomo barbuto. Cerco una bellezza qualsiasi». Grazie alla rappresentazione dell’amore umano l’arte, lungi dall’apparire un artificio o un rifugio per evadere dalla realtà, torna a parlare il linguaggio della creazione. L’amore fra le creature è a immagine e somiglianza di quello che Dio nutre verso l’umanità. In tante opere si evince la forza e la spontaneità dell’amore di coppia. Alla fase cubista appartiene Adamo ed Eva (1912): «Chagall rilegge il fosco episodio della “tentazione” dal gioioso punto di vista del Cantico dei cantici: impulso sessuale e desiderio sono per lui inscritti positivamente nel vasto piano della creazione». Al secondo periodo francese si deve legare, per esempio, La coppia di sposi con la torre Eiffel (1934). La scena pare far emergere tutti i sentimenti del maestro. Gli sposi felicemente e letteralmente sono convolati, come si suol dire; dietro di loro un gallo è simbolo del nuovo giorno, che reca una luce capace di vincere sul buio del lato destro. Nella tradizione ebraica il gallo rappresenta il sole, la nascita, l’oriente.16 Il sole con due cerchi concentrici dona calore ed energia; il bambino violinista è presagio della fresca vita che scaturirà presto dall’amore scambiato. Il villaggio in basso è figura di una società migliore, perché può contare sulla bellezza e giovinezza di quella nuova coppia. Nella mistica chassidica, di cui Chagall è erede e ammiratore, tutti gli aspetti della vita quotidiana assurgono a manifestazione del divino. La fantasia del pittore supera ogni logica e aderenza al reale, per cui non debbono troppo stupire un candeliere e il suo portatore capovolti, gli animali umanizzati che paiono musicisti. Annalisa Caputo si è soffermata su tale aspetto, instaurando un paragone armonico fra il De anima di Aristotele, la teologia del mosaico di Monreale e Chagall: «In questo livello fisico/vitale non c’è alcuna differenza tra uomo e animale: entrambi sono “esseri viventi”, hanno un’anima/nefesh che li rende vivi; hanno dei bisogni vitali che devono soddisfare, altrimenti muoiono». Chiunque contempli gli sposi con lo sfondo della torre Eiffel possedendo un minimo bagaglio biblico, non può non ricordare passi ben precisi dal Primo e dal Nuovo Testamento. Valgano per tutti la profezia di Is 61,10–62,5 (Gerusalemme amata dal Signore, «come un giovane sposa una vergine») e l’annuncio della nuova Gerusalemme («pronta come una sposa adorna per il suo sposo») in Ap 21,2. In questi esempi concreti si profila la teologia visiva tipica di Chagall, che conserva la sua originalità e il suo valore nel panorama dell’arte contemporanea e dei temi religiosi pure in essa scritti. Siano temi ebraici o cristiani, occidentali o asiatici, primitivi o d’avanguardia, si rimane comunque attenti, recettivi, dialogici. Il frutto maturo è rappresentato dal loro meraviglioso, attualissimo intrecciarsi. Anche la teologia ha bisogno di ricorrere a linguaggi nuovi, accattivanti, per dire Dio e le sue verità. Si potrebbero fare molti esempi tendenti a ricavare ed elaborare interesse dall’elaborazione teologica delle opere di Chagall. Di seguito, in estrema sintesi, un caso molto generico, legato ai codici fede/incredulità e vista/cecità, onde evidenziare la propedeutica divina. Nel racconto dell’evangelista Luca l’intendimento finale di Maria annunciata è esattamente quello di compiere un passo necessario oltre la realtà veduta. A Nazaret si realizza la discesa da una parola ascoltata al Verbo accolto, interiorizzato, impiantato e, dunque, dalla visione alla fede e di qui alla carne. Perciò Elisabetta, con espressioni dello Spirito, può testimoniare la preminenza della fede nell’animo della sua parente (cf. Lc 1,45). Ad Ain-Karim Maria è chiamata beata, prima di averne piena consapevolezza (cf. Lc 1,48b). Passando per l’altra beatitudine di Lc 10,23b («beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete»), tutto funge da preparazione all’insegnamento di Gesù risorto a Tommaso: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29). Chiaramente il discepolato post-pasquale è dinamico, ma compreso sempre in tale movimento oscillatorio fra incredulità e credenza: corsi e ricorsi dell’apostolo e delle comunità ecclesiali. Questo atteggiamento pare abbia il suo valore fondamentale anche nel metodo della ricerca scientifica. È celebre un aforisma di Galileo Galilei: «Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono». I dipinti di Chagall ci mettono nella condizione di mantenere uno sguardo appuntito, rivolto verso l’alto, sicuramente teologico. E contemporaneamente lo spirito aperto a tutte le avventure umane, soprattutto quella dell’amore feriale con le altre più tipiche manifestazioni divine. Maurice Merleau-Ponty che ha riflettuto molto sul primato della percezione, scrive: «L’esistenza è principalmente ed essenzialmente visiva; non si potrebbe fare un mondo con profumi e suoni». E D. Le Breton precisa in La Saveur du Monde: «La vista colma la distanza e cerca lontano le sue percezioni. Contrariamente all’orecchio, imprigionato nel suono, l’occhio è attivo, mobile, selettivo, esplora il paesaggio visivo, si dispiega liberamente per andare a cercare lontano un particolare o ritornare nelle immediate vicinanze». Dunque, di fronte alle opere di Chagall è giusto sperare in letture di fede, non difficili e neppure impossibili, ma naturali, auspicabili, feconde. La festa degli sguardi dovrebbe indurre non solo a «visioni oltre» (meta-visioni) oppure «attraverso» (dia-visioni) e conseguenti riflessioni, ma a una ricerca sincera dei significati profondi della vita (intra-visioni), una curva verso la gioia, anche dove sofferenza e morte si fossero fatte presenti in modo sconcertante. Fede, speranza e amore sono magistralmente inscritti da Chagall in un circolo artistico virtuoso. Con mano decisa e tele sognanti egli rimane permanentemente nel novero dei «visionari», proprio quello degli artisti e talvolta dei mistici, spingendo i suoi estimatori a entrare, se possibile, nella stessa categoria. Così bisognerebbe iniziare a vedere con occhi diversi anche la scatola di colori che ognuno porta in sé, la dotazione di carismi che natura e sovranatura gli hanno affidato. Paradossalmente succede che anche i cecuzienti vedano in senso profondo, al di là delle cose e delle persone che li circondano. È un po’ come nella locuzione ebraica «dall’occhio chiuso», applicata al mago Balaam in Nm 24,3, che significa in realtà «dall’occhio penetrante», dallo sguardo straordinario. E tutti potrebbero diventar profeti (cf. Gl 3,1-2, un annuncio ripreso dall’apostolo Pietro nella predicazione di Pentecoste), alla stessa stregua dell’artista inspirato. Parlare di teologia visiva avvicina naturalmente all’espressione estetica teologica, formulata per la prima volta da Hans Urs von Balthasar, il teologo di Basilea con interessi in vari campi dello scibile umano. Da sempre fede delle Chiese e teologia tentano di pensare la bellezza. Molte risposte convincenti sono giunte nel tempo, sino ai giorni nostri. Come e in compagnia di chi percorrere la via pulchritudinis per arrivare a Dio? Queste risposte hanno forti implicanze nel campo del dialogo ecumenico e interreligioso. Nel panorama attuale della teologia italiana si può ricordare la proposta di P. Sequeri, che dedica la sua riflessione specialmente alla musica. Nel succedersi degli anni sono stati consumati fiumi d’inchiostro, per illustrare la consistente ricchezza della cosiddetta «anima russa». Essa ha avuto esponenti in tutti i campi delle arti, vivendo stagioni molto varie, trasportata da venti impetuosi, implacabili, o magari leggeri e silenziosi come quelli della poesia. Ha viaggiato, in pratica, in Paesi tra loro distanti, anche per effetto dell’esilio di tanti uomini e donne di cultura. Una delle caratteristiche più tipiche di quel sentire è la cura amorevole verso i diseredati, i poveri e gli esclusi. Per citare un esempio di rilievo, spinto dalla stessa sensibilità, anche Clemente Rebora (1885- 1957), intellettuale rosminiano, studiò la lingua russa con Lydia Natus, per poi tradurre le novelle di Andréef, Tolstoj per Prezzolini e il conosciutissimo Cappotto di Gogol. Chagall ha mostrato, in ogni tappa del suo viaggio per il mondo, lungo quasi un secolo, questa speciale attenzione nei confronti degli ultimi. Nei suoi quadri si evidenziano continuamente l’amicizia verso il prossimo meno fortunato, la povertà dello shtetl e degli ebrei russi, le differenze macroscopiche fra ebrei nell’est e nell’ovest Europa. Isaac Deutscher (1907-1967), storico ebreo polacco, biografo di Stalin e Trotskij, ad agosto 1965 diede un programma alla BBC di Londra su Chagall. E disse di lui: Dipinge non lo Shtetl delle classi borghesi bensì quello dei taglialegna, dei manovali. Suo padre, divenutoci familiare grazie ai tanti dipinti che lo raffigurano, visse l’esistenza sfiancante del facchino, tirando carrette per i mercati di aringhe. Le variopinte apparizioni che popolano il mondo surrealistico di Chagall sono mendici e macellai, mercanti di bestiame e soldati, piccoli negozianti, predicatori e musicisti ambulanti. Talvolta ritrae ebrei così ammantati di maestosa dignità, da farli sembrare i discendenti dei rabbini di Rembrandt; ma come egli stesso dice, erano mendicanti a cui metteva addosso lo scialle della preghiera e i filatteri di suo padre. Voglia Dio che spunti l’alba di un giorno nuovo, in cui gli uomini si mostrino e vivano da sinceri cercatori di senso, mendicanti di Dio, orientati in modo deciso verso la contemplazione dell’essenziale, la preghiera, la condivisione coi poveri. E questo anche grazie alla pittura socialmente densa e impellente di Chagall, che aveva colpito – tra i tanti – uno dei più autorevoli esponenti della storiografia marxista. L’amore verso gli ultimi non sarebbe certo potuto sorgere ex abrupto nel cuore dell’artista come dell’ebreo osservante. Qui converrebbe ripercorrere una concezione assai bene descritta da Hannah Arendt filosofa ebrea e teorica della politica, una delle interpreti più originali della condizione umana – ed ebraica in particolare nel secolo XX. Già la Arendt si era spostata dalla Germania alla Francia per colpa delle persecuzioni del regime nazista. Nel 1941, da rifugiata stricto sensu, lasciò l’Europa per raggiungere gli Stati Uniti, come successe allo stesso Chagall, ai Maritain, a Stravinskij, a Nabokov e a tantissimi esponenti del mondo dell’arte e della cultura ebraico-russe. In un saggio del 1944 la Arendt intendeva offrire un ritratto alternativo della condizione ebraica nella modernità, cogliendo aspetti salienti delle figure di H. Heine, B. Lazare, C. Chaplin e F. Kafka. E si soffermava a evidenziare per sé e per i suoi lettori la tradizione nascosta dell’ebraicità paria. Quest’ultima categoria era desunta dall’analisi di Max Weber, che rifletteva sulla realtà dei paria, poveri più o meno consapevoli, contenti di restare tali piuttosto che diventare dei nuovi ricchi, integrati e assimilati in tutto alle regole della società. Così la Arendt: Il semplice fatto che il Sole splenda su tutti allo stesso modo offre ogni giorno al paria la prova che tutti gli uomini sono essenzialmente uguali. Alla presenza di simili elementi universali, come il sole, la musica, gli alberi e i bambini – che Rahel Varnhagen chiamava «le vere realtà», proprio perché sono apprezzate maggiormente da quanti non hanno spazio nel mondo politico e sociale – le futili istituzioni umane che creano e mantengono la diseguaglianza devono sembrare ridicole. Lo stesso Gesù nei vangeli fa ricorso a questo tipo di considerazioni, per mostrare la bontà misericordiosa del Padre (cf. Mt 5,45; Lc 6,35). La realtà che ci sorprende positivamente è che nei dipinti chagalliani tutti quegli elementi della natura sono compresi ed esaltati, frutto della sensibilità artistica, ma anche della vicinanza del maestro alla gente più umile, sofferente, vittima della storia quotidiana e spesso di autentici soprusi. Approfondendo la visione dell’ebreo come paria, in riferimento a tematiche kafkiane, la Arendt poco oltre scrive di una strada particolare, scelta da molti dei migliori ebrei ostracizzati dalla società, che conduceva a un eccessivo occuparsi del mondo della bellezza, sia esso il mondo della natura, in cui tutti gli esseri umani sarebbero uguali sotto un sole eterno, o il regno dell’arte, dove chiunque sappia apprezzare il genio eterno sarebbe il benvenuto. Natura e arte furono a lungo considerate, infatti, come aree della vita al sicuro da attacchi sociali o politici, e pertanto il paria vi trovò rifugio come in mondi dove avrebbe potuto dimorare senza essere disturbato. L’avventura umana e spirituale di Chagall ha sicuramente qualcosa da insegnare anche nel campo della teoria dell’arte e dell’artista. Recentemente Paolo Di Paolo ha rilanciato i contenuti di un conosciutissimo, breve romanzo giovanile di Thomas Mann, Tonio Kröger, scritto nel 1903. Le vicende di Tonio sembrano un tentativo di autobiografia, che prende le mosse e si sviluppa negli stessi luoghi frequentati da Mann, tra Lubecca, città anseatica nel nord della Germania, e Monaco di Baviera. Emerge il contrasto fra arte e malattia, che segnano ineluttabilmente l’animo dell’artista, e il binomio borghesia/normalità, che rappresenta l’altro stato felice dell’uomo. È qui il sostrato poetico della letteratura di Mann, che riflette abbondantemente e con una certa originalità su nausea, maledizione, sterilità e paralisi indotte dalla conoscenza. Sicuramente anche alla luce di ciò il protagonista spiega alla sua amica Lisaveta Ivànovna: Il paese della nostra nostalgia è proprio la normalità, il decoro, l’amabilità, la vita nella sua seducente banalità! È ben lontano, mia cara, dall’essere artista chi prova un entusiasmo estremo e profondo per il raffinato, l’eccentrico e il satanico, chi non conosce la nostalgia per le cose ingenue, semplici e vive, per un po’ di amicizia, di abbandono, di confidenza e di felicità umana la furtiva e struggente nostalgia per l’incanto delle cose comuni, Lisaveta! Come non pensare all’arte di Chagall, leggendo queste considerazioni? In verità, qui Thomas Mann fa riferimento alla letteratura e alla poesia, ma alcuni canoni artistici restano comunque sempre validi, al di là della differente espressione formale che ispirano, manifestata nel l’opera finale. Chagall ha così tanta passione per la normalità, esaltata e trasformata dal suo tocco di fantasia, da esser considerato per alcuni versi epigono di Henri Rousseau e dei primitivi moderni, che si erano espressi secondo certe caratteristiche di arte naïf. Chagall ritrae la realtà come fosse una favola, dunque una non-realtà, ricca di elementi decorativi, dettagli, colori brillanti. In buona sostanza, una pittura non colta, di taglio anche infantile, a volte ingenua e popolare. Il paragone con Tonio Kröger e la descrizione che alla fine del racconto fa di se stesso potrebbe ancor meglio delinearsi: C’è un modo di essere artisti così profondo, così determinato alle origini e dal destino che nessun ideale gli appare più dolce e più degno di essere posseduto di quello avente per oggetto le gioie della vita ordinaria. Mi sembra quasi che sia quell’amore stesso del quale sta scritto che si possono parlare tutte le lingue degli uomini e degli angeli, ma chi ne fosse privo non sarebbe altro che un bronzo risonante e un sonaglio tintinnante.43 Mann si mostra sensibile alla lezione paolina di 1Cor 13,1, specialmente in opposizione ai colleghi che esaltavano il culto dionisiaco della vita, sulle orme di una bellezza spregiudicata. Infatti, come san Paolo nell’inno alla carità, anche Tonio Kröger in tanti punti assume un impeto lirico. A dimostrazione del fatto che un romanzo può procedere avanti con movenze poetiche, così come un quadro può nascere e comporsi di soggetti, atmosfere e colori di sogno. Scriveva Fausto Cercignani, al compiersi dei cento anni dalla prima pubblicazione del racconto: La concatenazione dei vari episodi e l’andamento narrativo giustificano dunque, almeno in parte, l’espressione «ballata in prosa» usata una volta dallo stesso Mann, quasi che al Tonio Kröger potesse essere assegnato un nuovo e più ampio sottotitolo: non già «Novella», bensì «Ballata di un artista». Come è facile intuire, a causa dei soggetti biblici scelti e delle amicizie spirituali coltivate, Chagall potrebbe essere considerato un apripista nel campo del dialogo fra ebraismo e cristianesimo. Si è già visto che gli sfondi dell’amore e dello Shalom lo avvicinarono molto alle opere d’arte d’ispirazione o sapore cristiano. Quel che abitò in lui, nel senso di una ricerca sincera, appassionata e sofferta del sacro, nella fattispecie raffigurando scene dalle pagine del grande codice biblico, si può evidenziare grazie allo scambio epistolare avuto con André Chouraqui , giurista, scrittore e politico, vissuto tra Gerusalemme e Parigi. È rinomata la sua traduzione con commenti in francese di Bibbia ebraica, Nuovo Testamento e Corano, dei quali ha sottolineato le comuni radici. Franz Meyer spiegava nella succitata monografia: La Costa Azzurra, soprattutto il tratto fra Cannes e Nizza, col suo retroterra, era divenuta nel dopoguerra un centro artistico di fama mondiale. Matisse, che aveva abitato dal 1943 al 1948 a Vence, ora viveva a Cimiez, sopra Nizza; Picasso era a Vallauris. Chagall era in contatto con l’uno e l’altro, con poeti e scrittori e molti altri membri della «comunità artistica mediterranea» A Vence, città d’arte nell’entroterra dietro Nizza, c’erano delle cappelle, che nei primi anni ’50 Chagall era stato invitato caldamente a decorare con storie bibliche. Egli, però, se n’era fatto un problema di coscienza, soprattutto per il divieto della religione ebraica di raffigurare immagini di Dio. È noto, infatti, il dettato della Legge: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo» (Es 20,4; Dt 5,8). Chouraqui scriveva in una lettera, il 26 marzo 1954: L’Antico Testamento che è la radice della fede cristiana offre una varietà quasi infinita di temi decorativi che saranno validi tanto per un ebreo quanto per qualsiasi uomo che conserva al fondo della propria anima il senso delle realtà spirituali. Dalla creazione del mondo fino al compimento delle profezie, la Bibbia dipinge il destino dell’umanità intera e sarà per tutti una gioia e un conforto vedere queste visioni rese dal pennello di Chagall. È interessante notare come Chouraqui, da conoscitore e traduttore della Bibbia nei due differenti Testamenti, la consideri un meraviglioso spettacolo, un quadro dipinto dall’autore che nessuno mai potrebbe eguagliare. Chagall avrebbe dovuto soltanto farsi tramite, prestando la sua mano e il suo animo per una nuova interpretazione della Legge e dei profeti. L’artista veniva incoraggiato a diventare un ermeneuta delle sante Scritture e conseguentemente un artigiano del dialogo ancor grezzo fra le due religioni. I tempi per un incontro rispettoso e chiarificatore fra ebraismo e cristianesimo non erano sicuramente maturi. Però in Francia l’ambiente era segnato profondamente dalle riflessioni di Jacques Maritain e sua moglie Raïssa, Edmond Fleg, Paul Claudel col suo libro Une voix sur Israël, il poeta Claude Vigée, lo stesso André Chouraqui, il rabbino André Zaoui e altri. Si trattava di istanze, proposte, ripensamenti, come gli affluenti di un unico fiume, finiti nell’Amicizia ebraico-cristiana di Francia (AJCF), fondata nel 1948 dal prof. Jules Isaac. Alla fine Chagall accettò di decorare la cappella di Vence, anche se oggi i quadri monumentali con gli episodi dell’Antico Testamento si trovano a Nizza, al Museo nazionale Message biblique Marc Chagall. Solo grazie a un cammino faticoso e a tentativi ripetuti da parte di studiosi di buona volontà si giunse alla formulazione della dichiarazione Nostra aetate. Fu promulgata dai padri del concilio Vaticano II il 28 ottobre 1965, per definire le relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane, con una parola chiara sull’ebraismo nel capitolo IV, soprattutto per metter fine alla questione spinosa del deicidio. In L’enseignement du mépris (1962), citando l’altro suo saggio, il prof. Isaac aveva spiegato: «In Jésus et Israël, la IV parte – più di duecento pagine – è consacrata a questa terrificante accusa, “Il delitto di deicidio”, e se la riscrivessi oggi dopo una quindicina d’anni, l’argomentazione sarebbe ancora più nutrita, più serrata, più convincente». Infine, Isaac Deutscher intervenne sul tema delle immagini sacre e dell’idolatria nella menzionata conversazione riguardante Marc Chagall, registrata dalla BBC. L’ostilità giudaica per le arti visive è notoria: applicando rigorosamente il comandamento: «Non traccerai immagini», l’ortodossia rabbinica impedì lo sviluppo delle arti figurative ancor più spietatamente di quanto non fece il calvinismo. Chagall può essere considerato come uno dei pionieri. Dipingere, per un ebreo, significava ribellarsi, compiere un atto di emancipazione. La ribellione era rivolta contro l’oscurantismo clericale ebraico, e contro l’oppressione zarista. In Chagall, e con Chagall, l’immaginazione visiva dell’ebreo, così a lungo repressa, esplose in una miriade di arcobaleni, come un vulcano. Attento a non ripetere definizioni stereotipate o apprezzamenti gratuiti verso il mondo ebraico, Deutscher era stato sollecitato proprio dagli effetti dell’immaginazione dell’artista. E si cimentava nel tentativo di identificare i tratti più generali dell’immaginazione ebraica, sicuro che vi fosse racchiuso il segreto dell’incomparabile arte di Chagall. Per finire, una curiosità. Intorno a Natale 1957, von Balthasar diede alle stampe una monografia sul filosofo della religione Martin Buber , che aveva formulato il principio dialogico. Già agli inizi Chagall era posto fra quelli che avevano «tradotto l’ebraismo non adulterato e annacquato in un linguaggio chiaro e comprensibile per l’uomo occidentale», a volte così distante dalla mentalità semitica. Perciò siamo tutti debitori a Chagall, il pittore che amava riconoscersi russo, ma non aveva messo radici da nessuna parte. A lui il merito non solo di aver rivelato il compito che l’artista riveste nell’ambiente culturale ebraico, ma anche di aver innescato una riflessione importante sul ruolo dell’ebraismo nel mondo contemporaneo. Grazie a lui e ai suoi quadri molti sono riusciti finalmente a passare da un diffuso, iterato rimbalzo sul destino d’Israele all’urgente necessità di amore e Shalom, gioia e leggerezza, poesia e sogno, a cui ciascun vivente in maniera inesorabile è chiamato. Un orizzonte di eternità che attende e sospinge ogni mortale, chiedendogli di vivere con i piedi sollevati da terra, sempre pronto a volare in cielo, abitando felice in «un mondo senza gravità», come di recente è stata definita l’opera chagalliana.
La mostra è suddivisa in cinque sezioni :
Prima sezione – Opere uniche
Marc Chagall sviluppa una pittura espressiva e coloratissima, traendo ispirazione da un vissuto che si fonde con la fantasia creando universi magici. In questa sezione è riunito un importante gruppo di opere – oli, gouache e disegni – attraverso il quale è possibile ripercorrere tutte le fasi creative della carriera dell’artista e individuare le sue tematiche chiave.
Viaggiamo insieme a lui tra realtà e fantasia, immersi in un’atmosfera onirica in cui il divino e l’umano si intrecciano e si sovrappongono. Marc Chagall nacque nel 1887 nella città di Vitebsk, nell’allora Impero russo. Questa città per metà ebraica e per metà russa, situata al confine tra Russia e Bielorussia, ha avuto un’influenza decisiva sull’infanzia di Chagall; l’atmosfera e i costumi di Vitebsk gli hanno lasciato ricordi e influenze culturali profondamente radicati. Questo periodo della sua vita è segnato dalla vita familiare, dal lavoro manuale del padre, dalle preghiere e dalle visite alla sinagoga, dalla frequenza scolastica, dai giochi dei bambini, dai sogni, dallo yiddish…; esperienze di un’infanzia che alimentano il suo profondo interesse per la natura, la vita quotidiana, le leggende popolari e le credenze ebraiche. Fin da giovane fu sedotto dal messaggio dei testi biblici. Nel 1931 viaggia in Egitto, Siria e Palestina. L’eterno esiliato, l’ebreo errante, scopre le sue radici, la sua terra d’origine. L’esperienza significa per l’artista un ritorno alla tradizione del giudaismo, una profonda riflessione sulla propria identità e una comunione con la natura. I suoi ricordi d’infanzia e la sua amata Vitebsk, così come le tradizioni russe e le scene bibliche, sono un elemento costante nel suo lavoro durante tutta la sua carriera.
Seconda sezione – La storia dell’Esodo
L’esistenza di Marc Chagall è segnata dalla guerra e dallo sradicamento. L’autore raffigura l’esodo biblico come un’allegoria della persecuzione patita dagli ebrei in seguito all’invasione nazista della Francia durante la Seconda Guerra Mondiale: una minaccia che aveva costretto l’artista a scappare da Parigi per trovare rifugio negli Stati Uniti. Egli rappresenta attraverso ventiquattro scene l’avventura del popolo ebraico che, con l’aiuto di Dio e la guida di Mosè, fugge dalla schiavitù in Egitto per raggiungere la Terra Promessa. Gli ebrei, liberi dall’oppressione, si convertono in una comunità dotata di una propria identità, indipendente, rispettosa delle leggi espresse nei Dieci Comandamenti rivelati da Jaweh al profeta sul Monte Sinai. Buona parte delle incisioni di questa serie riproduce o si ispira direttamente alle gouache realizzate sullo stesso tema da Chagall nel 1931. Il testo biblico aveva sempre attratto il pittore, che attraverso di esso rientrava in contatto con le sue radici più profonde e con l’infanzia trascorsa nella comunità ebraica di Vitebsk. Riesce ad amalgamare il sentimento dell’amore e della fratellanza con il suo senso di sradicamento. In questa serie di litografie Chagall si rivela una volta di più un vero maestro della composizione e del colore.
Terza sezione – Favole
Nel 1927 il gallerista ed editore Ambroise Vollard commissiona a Chagall l’illustrazione delle Favole di La Fontaine che saranno pubblicate da Tériade nel 1952. La Fontaine, vissuto nel Seicento, è ritenuto uno dei più importanti autori di questo genere narrativo e le sue Favole sono considerate un capolavoro della letteratura francese. Nell’illustrare questi racconti moraleggianti Chagall si rifà alla tradizione russa, alle icone e ai lubki, le colorate stampe popolari accompagnate da una semplice didascalia, tradizionalmente usate per istruire e informare il popolino e gli analfabeti. Gli animali, d’altra parte, lo hanno sempre affascinato. È cresciuto in un villaggio in cui gli animali erano parte integrante della vita di tutti. Nelle acqueforti ispirate alle favole di La Fontaine tratteggia vitelli, mucche, maiali, rane, volpi, galli, formiche… Un immaginario incantato pienamente all’altezza della fantasia e ironia dello scrittore francese. Nonostante la loro distanza nel tempo, La Fontaine e Chagall hanno aspetti in comune: il gusto per le tradizioni popolari, la capacità di penetrare il comportamento umano e un’immaginazione sconfinata. In questo libro illustrato si crea una profonda simbiosi tra il tema, il testo e le illustrazioni.
Quarta sezione – Poesie
“Un poeta con le ali di un pittore”, così Henry Miller definì Marc Chagall. La letteratura era una delle grandi passioni dell’artista. Poco dopo essersi stabilito a Parigi nel 1911, Chagall fece amicizia con alcuni tra i più innovativi poeti d’avanguardia, autori che capivano istintivamente il mondo magico e metaforico dei suoi dipinti e incoraggiavano e sostenevano il giovane pittore. Nel corso della vita Chagall coltivò sempre i rapporti con i maggiori scrittori del suo tempo e illustrò i testi di molti di essi. Blaise Cendrars, André Breton, Guillaume Apollinaire, André Salmon, Paul Éluard, Max Jacob e André Malraux, per citarne solo alcuni, erano suoi amici e ammiratori ricambiati. Ma Chagall non si limitò a illustrare le opere altrui e si cimentò con la scrittura traducendo in parole il complesso universo dei suoi dipinti. Pubblicherà due libri, il primo dei quali – Ma vie [La mia vita], scritto in russo e tradotto dalla moglie Bella – sarà presentato a Parigi nel 1931. L’artista vi racconta gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e quelli della formazione, accompagnando il testo con semplici disegni. Nel 1975 a Ginevra uscirà il suo secondo libro, Poèmes, una raccolta delle liriche composte dal pittore tra il 1909 e il 1965. L’editore è Gérald Cramer, l’amico che già nel 1968 aveva dato alle stampe una serie d’incisioni dell’artista intitolata anch’essa Poèmes: 24 xilografie raffiguranti un mondo onirico, pervaso dai ricordi e dalle ossessioni di Chagall, il poeta pittore.
Quinta sezione – Derrière le miroir.
Parigi Derrière le miroir è una raccolta di litografie, pubblicata da Aimé Maeght nel 1954, che Marc Chagall dedicò a Parigi, la sua amata città. Tramite immagini coloratissime ne rappresentò gli elementi architettonici più distintivi, come la torre Eiffel, il Pantheon, Notre Dame… e, fluttuanti tra gli edifici, i suoi personaggi fantastici. Chagall si trasferì per la prima volta a Parigi nel 1910, dove aprì uno studio nel quartiere di Montparnasse. Non c’è da sorprendersi della sua decisione: la metropoli francese si era convertita nel centro nevralgico del mondo dell’arte, attraendo schiere di giovani appassionati di cultura e trasformandosi nella capitale delle avanguardie, dove erano confluiti tutti gli artisti affascinati dalle realtà bohème, dai caffè cosmopoliti, dalla possibilità di formarsi presso le accademie e i musei e, soprattutto, dai numerosi Saloni che mettevano a disposizione i propri spazi per esibirne le opere. Parigi, che così tante volte gli diede il benvenuto e lo accolse, fu una delle sue principali fonti d’ispirazione. Le rese frequentemente omaggio nelle sue creazioni, rappresentando la torre Eiffel, quale simbolo della città e della sua storia, Notre Dame, suo monumento culturale insostituibile, Le Pont Neuf, La Ópera, oppure Le Carrousel du Louvre… Attraverso le sue opere grafiche Chagall celebrò questa città che, nelle sue parole, «illuminò il mio mondo oscuro, come se fosse stata il sole». La mostra Chagall. Sogno d’amore è accompagnato dal catalogo edito da Skira editore.
Polo Museale – Castello Conti Acquaviva D’Aragona di Conversano Bari
Chagall- Sogno d’amore
dal 20 Aprile 2024 al 27 Ottobre 2024
Dal martedì al venerdì dalle ore 10.00 alle ore 13.30 e dalle ore 15.30 alle ore 19.00
Sabato e domenica dalle ore 10.00 alle ore 13.30 e dalle ore 15.30 alle ore 20.30
Lunedì Chiuso