Giovanni Cardone
Fino all’8 Dicembre 2025 si potrà ammirare la mostra al Complesso Monumentale normanno Guglielmo II Sala Novelli bene materiale Unesco Monreale ‘Da Picasso a Warhol. La ceramica dei grandi artisti’ a cura di Vincenzo Sanfo. L’esposizione è promossa dal Comune di Monreale attraverso l’Assessorato ai Beni Culturali in collaborazione con la società produttrice Renaissance srl è gode del patrocinio dell’ARS (Assemblea Regionale Siciliana). Tra le 46 città italiane riconosciute di antica ed affermata tradizione ceramica dal Consiglio Nazionale Ceramico del Mise, presenta questa mostra di circa 100 opere realizzate da 60 artisti, provenienti da collezioni private, in ceramica, terracotta e porcellana, che prendono la forma di piatti, brocche, tazze, sculture e oggetti decorativi. La rassegna si presenta come una antologica senza confini né geografici né stilistici, che ripercorre l’approdo della ceramica, tradizionalmente collocata nel campo dell’artigianalità, al campo dell’arte e della sperimentazione linguistica. Si parte dalla svolta impressa da Pablo Picasso a metà del 1900, quando iniziò a frequentare Vallauris in Francia, avvicinandosi alla produzione della ceramica del luogo. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle figure di Pablo Picasso e Andy Warhol apro il mio saggio dicendo : Pablo De Ruiz Picasso nacque la sera del 25 Ottobre 1881 a Malaga, in Andalusia, Spagna. Il cognome fu acquisito, non dal padre, ma secondo la legge spagnola, dalla madre Maria Picasso y Lopez, le cui origini sono testimoniate da ricerche che avviò l’artista stesso durante la sua vita e che conducono all’Italia. Il padre, insegnante nella locale scuola d’arte, lo avvia molto precocemente all’apprendistato artistico. Nel 1891 frequenta la Scuola D’Arti e Mestieri di La Coruna, in Galizia, ma già nel 1895 viene ammesso all’Accademia di Belle Arti di Barcellona. Il suo talento si rivela subito ed il giovanissimo Picasso ha modo di esprimersi attraverso l’esecuzione di opere secondo i canoni classi, in maniera eccellente. Due anni dopo frequenta anche la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando di Madrid. La sua iniziale produzione artistica sarà influenzata anche dalla visione e dallo studio dei grandi artisti spagnoli del passato, a cui si dedica in particolare durante la sua permanenza a Madrid, con una assidua frequentazione del Museo Del Prado. Diego Velàzquez e Francisco Goya sono i suoi pittori preferiti. La sua eredità artistica, tuttavia, non è da ricercare esclusivamente nei suoi compatrioti spagnoli, quanto piuttosto nei maestri della sua patria di adozione, la Francia, nella tradizione dei lontani Jean Auguste Dominique Ingres oppure di Nicolas Poussin. O meglio ancora, nei maestri di tali maestri, tra cui Leonardo Da Vinci, Raffaello Sanzio, Andrea Mantegna. Nell’ottobre del 1900, Picasso, non ancora ventenne, si reca per la prima volta a Parigi; vi ritornerà l’anno successivo per poi restarvi a lungo, più di cinquant’anni. Parigi rappresenta il cuore dell’Europa, dell’innovazione ed è la culla di grandi movimenti sia artistici che letterari. In ogni campo si sente la spinta della ricerca e voglia di allontanarsi da un passato che per quanto riguarda la pittura, è rappresentato dal Romanticismo. È in questo ambiente cosmopolita e fitto di incontri con intellettuali ed artisti fondamentali per la sua metamorfosi, che il giovane e talentuoso Picasso si immerge e troverà il suo humus intellettuale ed artistico. Inizialmente lo stile del giovane Picasso oscilla tra l’ammirazione per Cézanne e le generiche tematiche impressioniste e postimpressioniste, come ben si evidenzia nell’opera, Bevitrice di assenzio, 1901 . Opera nella quale sono ancora evidenti sia il riferimento a Degas, sia il tributo a certe figure di donne perdute, di ToulouseLautrec. Nell’autunno del 1901, il suo stile conosce una prima evidente evoluzione, conseguenza anche della forte emozione suscitata dalla morte del suo amico poeta Carlos Casagemas . Inizia per Picasso il cosiddetto “periodo blu”, che si protrarrà fino a tutto il 1904. Durante questo periodo, la sua produzione artistica sarà tutta incentrata sull’uso di colori freddi, quali il blu appunto, dal quale si è tratta la definizione e di altre tonalità derivate quali l’azzurro, il turchino, il grigio. È chiara la velatura di tristezza e melanconia che Picasso esprime in tutte le opere appartenenti a questo periodo. Tristezza e melanconia che ritroviamo anche nei temi e nei soggetti delle opere. I personaggi sono poveri ed emarginati, segnati dal dolore, sconfitti dalla vita. Poveri in riva al mare, noto anche come Tragedia, fu realizzato a Barcellona nel 1903, quando l’artista frequentava l’ambiente anarchico e socialisteggiante del cabaret Els Quatre Gats, (I Quattro Gatti), conducendo egli stesso una vita di grandi privazioni e ristrettezze economiche. I tre personaggi ritratti sulla sabbia della spiaggia, in riva al mare, sono scalzi ed infreddoliti, rappresentano la dolorosa metafora moderna della Sacra Famiglia. Il loro misero aspetto, tuttavia, non toglie loro dignità, anzi le figure austere acquisiscono un rilievo per la loro silenziosa monumentalità. La figura severa della madre, vista di spalle, riprende la solida volumetria di alcuni personaggi giotteschi. Inoltre nonostante l’uso della tavolozza quasi monocroma, l’artista riesce a differenziare marcatamente i tre elementi primigeni della natura e della filosofia antica: la terra, rappresentata dalla spiaggia, l’acqua dal mare e l’aria rappresentata dal cielo. Questi tre elementi sono presenti sullo sfondo, che viene suddiviso dall’artista in tre fasce orizzontali. Lo sfondo contrasta, con la sua geometrica uniformità, con i tre personaggi in primo piano, ottenendo il risultato di isolarli, creando una scena che sottolinea ulteriormente il loro dramma. I toni freddi e gli atteggiamenti dimessi e chiusi degli adulti, trasmettono con intensità la durezza delle emozioni e l’assenza di speranza. La freddezza della scena è tangibile. Per spirito di umanità, l’artista lascia un barlume di vita, di speranza, nel fanciullo, che con il gesto delle mani cerca, prima il padre, toccandolo, ma non provocando nessuna reazione. L’altra mano invece è rivolta verso la madre anch’essa chiusa ed isolata, ma è possibile pensare che questa mano sia rivolta verso altri, verso altro. I soggetti e l’impianto compositivo de la Tragedia, si ritrovano anche in tutte le altre opere del periodo, segnalando il periodo come riflesso di una predisposizione d’animo pessimista e malinconico. Quando nel 1905 Picasso dipinge la Famiglia di saltimbanchi, la sua ricerca lo ha progressivamente portato ad arricchire la propria tavolozza con l’uso di varie e delicate gradazioni di rossi, di rosa e di arancioni. La nuova tecnica coinvolge tutta la produzione pittorica di questa fase, che assume così caratteristiche di assoluta e immediata riconoscibilità. L’abbandono dei toni freddi del precedente periodo e l’inizio di quello rosa coincidono in parte anche con le vicende umane dell’artista, che a Parigi incomincia a riscuotere qualche successo e che, soprattutto, conosce Fernande Olivier , la prima donna veramente importante della sua vita. L’opera ripropone ancora una volta una famiglia, tema assai caro al Picasso precubista. I sei personaggi, tre adulti e tre bambini, sono colti in un momento di silenziosa attesa e la loro serietà pensosa ed un poco mesta stride con la variopinta stravaganza dei costumi di scena che ancora indossano. Picasso del resto, fu sempre particolarmente ispirato ed attratto dalla vita circense. Egli interpreta la dura quotidianità di clown, acrobati e giocolieri che con grande sensibilità e discrezione, mettendone in evidenza la misera vita di poveri girovaghi. L’arlecchino di spalle, nel quale possiamo vedere un autoritratto di Picasso, volge lo sguardo lontano, mentre tiene teneramente per mano la bimba con il tutù e le scarpette rosa, che tanto ricorda le eteree ballerine di Degas. Il paesaggio deserto e desolato contribuisce a sottolineare la solitudine dei personaggi, ognuno dei quali, nonostante la prossimità agli altri, è comunque solo con i propri pensieri, come in attesa del manifestarsi di qualche misterioso evento. La loro definizione pittorica non fu semplice: le indagini radioscopiche hanno svelato la presenza di vari pentimenti e correzioni, quasi che Picasso fosse giunto per gradi alla soluzione compositiva finale, senza averla presente fin dall’inizio. É nell’autunno del 1906 che Picasso incomincia a lavorare ad un dipinto di grandi dimensioni che sarà completato solo verso la fine dell’anno successivo, il 1907, dopo una lunga elaborazione, non priva di correzioni, cancellazioni e pentimenti. Il 1907 è la data quindi, che segnerà l’inizio di una nuova era nella storia dell’arte, dopo allora nulla fu più come prima: era nato il cubismo . L’opera nasce da una serie di numerosi schizzi preparatori, che evidenziano una prima stesura che prevedeva sette figure, ridotte poi a cinque. Le demoiselles rappresentate sono le prostitute all’interno di un bordello di Avignone: le geometrie dei corpi sono semplificate, pur mantenendo le solide volumetrie riprese da Cézanne e lo sfondo viene materializzato, nel senso che non viene interpretato come elemento di sfondo, in rapporto con le varie figure, ma diviene esso stesso oggetto, che viene scomposto e quindi rimaterializzato in piani geometrici e taglienti che si innestano anche sulle figure umane, eliminando quindi la netta definizione dei contorni, risultandone compenetrate. Alla stessa stregua viene rappresentato la natura morta sul tavolino, in centro ed in basso del dipinto, composta dal cesto di frutta e dal tovagliolo. Questo dettaglio è l’evocazione di un’altra natura morta assai nota e rappresentata nell’opera di Èdouard Manet, Colazione sull’erba, 1863. I volti delle figure femminili sono raffigurati seguendo due solchi diversi: quelli delle figure centrali vengono ripresi dalla scultura iberica, mentre le due figure sulla destra risentono dell’influsso delle maschere rituali dell’Africa nera. Per la prima volta, Picasso vuole rappresentare una scena secondo un nuovo punto di vista, fuori dal comune. Egli non intende creare una semplice espressione visiva, ma mentale e per far questo stravolge prima di tutto le regole della prospettiva, scomponendo i volumi della figura in diversi piani. In un piccolo acquerello su carta eseguito nella primavera del 1907, troviamo composto l’equilibrio distributivo che sarà poi riproposto nella grande tela. I personaggi sono già ridotti a cinque figure femminili. La tenda sulla sinistra, ha perso ogni volume e, così come il cesto di frutta in primo piano, appaiono allo stesso livello del gruppo delle demoiselles. Picasso continua a lavorare anche sullo studio dei dettagli delle singole posture e dei volti. A fronte di una forte geometrizzazione del volto, permane evidente la volontà di ricercare e mantenere un effetto volumetrico ottenuto con gli effetti del chiaroscuro, dal quale sembra non riuscire ad alienarsi. Di pari passo con la ricerca cubista, Picasso sviluppa anche le ricerche nella rappresentazione anatomica dei lineamenti dei volti. Picasso fece uno studio sul busto di donna nuda per le “Demoiselles d’Avignon”, 1907, si nota che il volto assume contorni molto più marcati e taglienti: è la rappresentazione del volto dal chiaro influsso delle maschere tribali africane. La volumetria del volto è ottenuta, con alcuni tratti lineari ed altri incrociati obliquamente, a rete, ottenendo un effetto tridimensionale, che imita la tecnica del chiaroscuro, esprimendola come una sorta di colta citazione dei canoni della pittura del passato. Anche nel piccolo acquerello di Testa di “demoiselle”, 1907. I temi cubisti emergono con sempre crescente evidenza. Il naso della fanciulla è rappresentato di profilo, mentre gli occhi e l’intero volto sono visti frontalmente. Anche in questo volto, Picasso non sembra ancora aver voluto abbandonare del tutto il chiaroscuro, che qui è ottenuto mediante successive accentuazioni di colore intorno agli occhi, sugli zigomi e sopra le arcate sopraccigliari. È possibile citare di Picasso, Il ritratto di Ambroise Vollard, 1909 1910 come l’opera più famosa appartenente al periodo del Cubismo analitico. La composizione è minuziosamente frastagliata, quasi esplosa e, sia il personaggio, che lo fondo, appaiono sullo stesso piano. Non vi è la ricerca fotografica del ritratto, tuttavia, attraverso pochi elementi, la figura del collezionista e mercante d’arte, Ambroise Vollard, viene rappresentata in modo riconoscibile. Si rileva subito la sua fronte ampia e calva, che sovrasta i marcati lineamenti, gli occhi sono dipinti con le palpebre abbassate ed il naso è corposo. Al centro, si nota il giornale reso con alcuni tratti taglienti e diagonali; in alto a sinistra, è rappresentata una bottiglia, che privata di connotazione prospettica, sembra fluttuare nella tela. Altri elementi sono distinguibili: un libro sullo scaffale, un bottone del panciotto, una manica della giacca. I piani della rivista e della giacca di sovrappongono e l’uno non cela l’altro. È subito chiaro che Picasso in quest’opera non mira alla rappresentazione di un ritratto realistico, ma è alla ricerca di un aspetto psicologico più profondo del soggetto, rifiutando nettamente di fermarsi alla conoscenza esteriore. Tra il 1912 ed il 1913 Georges Braque e Picasso indirizzano le loro ricerche verso una ricomposizione degli oggetti precedentemente frammentati in oggetti nuovi, a volte fantastici, che pur mantenendo una qualche analogia con i modelli originali, vivono di una loro realtà autonoma, caratterizzata anche dall’uso di colori brillanti e volutamente antinaturalistici e non verosimili. In questo delicato, ma significativo passaggio, acquisterà un ruolo tutt’altro che secondario, anche Juan Gris, il terzo grande artista cubista. Si avvia quindi la fase del Cubismo sintetico, nella quale si attua quella innovativa equivalenza tra pittura e natura di cui Picasso e Braque rivendicavano l’originalità rivoluzionaria. Infatti, l’artista giunge a creare forme s situazioni che non hanno più alcun rapporto con quelle già note, anche se di esse conservano a volte alcune caratteristiche distintive e sempre in qualche modo ben riconoscibili. Per sottolineare ulteriormente il diverso uso che è possibile fare dei frammenti di realtà derivati dalla scomposizione analitica, Braque inventa la tecnica dei papiers collés e Picasso quella dei collages, strumenti espressivi che verranno poi ripresi anche in ambito surrealista e successivamente, in varie esperienze artistiche del dopoguerra. Nel primo caso vengono applicati sulla tela dei ritagli di giornale e di carta da parati di varie qualità e colori, mentre nel secondo si utilizzano anche materiali eterogenei quali stoffa, paglia, gesso o legno. In questo modo i due artisti tentano di scindere la forma dal colore, utilizzando un ritaglio di stoffa, espressione di puro colore, per definire un oggetto di tutt’altra natura, espressione di pura forma. Con papiers collés e collages, in altre parole, si rende evidente che il colore, pur agendo simultaneamente alla forma che lo contiene, è assolutamente distinto da essa, che, a sua volta, esiste a prescindere dal primo. Nel 1914 ha inizio la Prima Guerra mondiale in Francia e Picasso si trova ad Avignone. Gli avvenimenti esterni vengono a spezzare l’evoluzione che si sta delineando nel suo stile pittorico e molti amici dell’artista, fra cui Braque, sono immediatamente chiamati alle armi. La grande stagione del Cubismo è bruscamente interrotta ed anche quando successivamente, nel 1916 Braque rientrerà a Parigi, i percorsi artistici dei due amici sono ormai divisi. Anche Picasso rientra a Parigi, ma è una Parigi sconvolta, nulla è come prima. É in questa atmosfera parigina cupa e tetra, che una nuova presenza entra nella vita dell’artista e ne muterà la direzione: si tratta di un giovane esile, dal viso stretto ed il corpo d’efebo: è Jean Cocteau. Incontrandolo nel 1916, Picasso gli chiese di posare per uno dei suoi quadri di Arlecchini, ma la struttura cubista dell’opera distrusse quanto del suo modello potesse essere passato. Da quel momento si instaurò subito un profondo rapporto di amicizia ed all’inizio del 1917 Picasso di trovò di fronte ad una proposta del tutto insolita. Jean Cocteau chiese a Picasso di realizzare i costumi e la scenografia di un balletto che sarà a tutti gli effetti, il primo balletto cubista. Picasso lo accompagnò a Roma nel febbraio del 1917, per incontrare la compagnia dei Balletti russi di Sergej Diaghilev e preparare le scene ed i costumi del balletto Parade di Jean Cocteau e Léonide Massine con musiche di Eric Satie. Qui conobbe la ballerina russa Olga Koklova, che faceva parte del corpo di ballo di Diaghilev e che, l’anno successivo, diventerà sua moglie. Mentre è in Italia, Picasso visita Napoli e Pompei. Il soggiorno in queste città ricche di testimonianze di arte antica classica, lascia un segno profondo nell’artista che nell’anno seguente realizzerà opere che testimoniano un chiaro ritorno al realismo. Visiterà anche Firenze e Milano, trascorrerà l’estate in Spagna con i Balletti russi e quindi rientrerà In Francia. L’estate del 1918, sarà a Biarritz dove dipingerà una serie di opere sul tema delle bagnanti. Nel 1919 Picasso parte per Londra in compagnia di Sergej Diaghilev e collabora alle scene ed ai costumi del balletto di Léonide Massine El sombrero de tres picos (Il cappello a tre punte) con musiche di Manuel de Falla. Nel 1920 continua a lavorare per Diaghilev e realizza le scene ed i costumi del balletto di Léonide Massime Pulcinella con musiche di Igor Stravinskij. É nel 1921 che Picasso si stabilisce a Fontainbleau dove dipinge le due versioni dei Trois musiciens(I tre musicisti) , ma prima, mentre era ancora a Parigi, ha il tempo di realizzare scene e costumi del balletto Cuadro Flamenco, suite di danze andaluse tradizionali rappresentato dai Balletti russi di Sergej Diaghilev. Nei Tre musici, Picasso riprende i temi del Cubismo sintetico ma utilizza un uso del colore del tutto nuovo, definito dai critici “fumettistico”. Il dipinto su tela di grandi dimensioni, raffigura due personaggi tipici della commedia dell’arte: un Pulcinella che suona il flauto ed un Arlecchino chitarrista che, insieme ad un monaco con uno spartito fra le mani, suonano un motivo musicale, mentre un grosso cane se ne sta accucciato sotto il tavolo. Sono stati abbandonati i cromatismi monocromi terrosi e grigi degli anni Dieci ed alle complesse frammentazioni della ricerca analitica, Picasso contrappone e distende colori più vivaci su piani ampi e piatti, in una visione rigorosamente frontale. Il senso di profondità viene negato ai personaggi, ma viene recuperato nello sfondo, costituito dalle pareti laterali e dal pavimento che lasciano intuire una stanza. La prospettiva tuttavia, è illusoria e alterata, in quanto la parete laterale di sinistra appare in maniera innaturale più lunga, suggerendo uno spazio sghembo, proprio come quello ricostruito nelle scenografie teatrali alle quali stava lavorando durante gli anni Venti. Nel 1920 inizia il periodo neoclassico: esegue nudi monumentali e contemporaneamente esegue composizioni cubiste. Infatti la ricerca cubista di Picasso negli anni Venti cede il passo alla ripresa di certi temi classici, ispirati fortemente dal suo soggiorno in Italia nel 1917, a Roma per la precisione, durante la sua permanenza in occasione della preparazione delle scenografie e costumi del balletto Parade. L’artista non è alieno allo stesso fascino che aveva coinvolto Renoir, successivamente alla sua permanenza in Italia nel 1881 e la conoscenza dal vivo delle opere di Raffaello e di Michelangelo. Il riavvicinamento al Classicismo di Picasso può essere messo in linea con lo stato d’animo che aleggiava in tutta Europa in questo periodo, con il cosiddetto richiamo all’ordine. La Grande bagnante, esprime il trionfo monumentale di giovinezza e carnalità sicuramente ispirate anche dalla recente gravidanza della moglie, la ballerina russa Olga Koklova. Il corpo sodo e severo del personaggio femminile, riempie con prepotenza tutto lo spazio disponibile, protendendosi verso l’osservatore con braccia e gambe che non obbediscono più ad alcuna logica proporzionale o prospettica. Tale elaborazione è la conseguenza anche delle ricerche cubiste, le cui innovazioni permangono anche in questa serie di ritratti, che vengono realizzati in uno spazio privo di riferimenti dimensionali. La figura recupera una volumetria massiccia e maestosa, liricamente addolcita dallo sguardo trasognato e senza tempo. Il riferimento al Classicismo viene accentuato dal panneggio che trattiene il senso monumentale dell’opera e giocato sugli stessi toni dello sfondo ed allude anch’esso ad un nuovo e più consapevole ritorno all’ordine, al cui interno, forme e colori ritrovano luminosità, compattezza ed emozioni. Nel 1922 Picasso dipinge lo scenario per il balletto L’apres-midi d’un faune con musiche di Claude Debussy. Cura la scenografia per l’Antigone di Jean Cocteau, presentato al Théatre de l’Atelier de Charles Dullin. Illustra Cravates de chauvre (Cravatte di canapa) di Pierre Reverdy. È nell’estate del 1922 che Picasso trascorre l’estate con la famiglia in Bretagna, dove dipinge Deux femmes courant sur la plage (Due donne che corrono sulla spiaggia) . Si tratta di una guache su compensato, dai colori brillanti e vivaci, nota anche semplicemente con il titolo La corsa. In essa sono rappresentate due giovani donne che corrono festose tenendosi per mano, con i capelli sciolti al vento. L’effetto d’insieme, di grande solidità ma anche di vivacità e dinamismo, rimanda l’immagine a due moderne menadi danzanti su di uno sfondo sospeso e senza tempo. Anche la linea dell’orizzonte, che taglia geometricamente in due il dipinto, ripropone con pacatezza il tema classicheggiante, dopo l’esuberanza dirompente della rivoluzione cubista. Nel 1924 Picasso dipinge il sipario, le scene ed i costumi per il balletto Mercure, musiche di Eric Satie, realizzato dal conte Etienne de Beaumont a favore degli immigrati russi. Lo spettacolo messo in scena a Parigi, al Théatre de la Cigale, viene aspramente criticato e non riscuote successo di pubblico. Realizza il sipario per il balletto Le train bleu per il quale viene impiegato l’ingrandimento del dipinto Due donne che corrono sulla spiaggia. La guerra civile spagnola ebbe inizio con un colpo di Stato militare il 17 luglio 1936. La notizia arrivò a Parigi il giorno dopo e già numerosi compatrioti bussarono alla porta di Picasso. Arrivarono da entrambe i campi avversi, ma Picasso all’istante, definì la sua posizione. La repubblica spagnola si assicurò la sua celebrità nominandolo Direttore del Prado mentre contemporaneamente si andavano sgombrando i capolavori da Madrid per metterli al sicuro. La guerra civile in Spagna lo toccò più che non abbia mai fatto un altro avvenimento mondiale. Forse attendeva, più o meno inconsciamente, qualcosa di più grande del suo travaglio d’artista, con cui potersi identificare oppure più naturalmente riaffiorava in lui la ricerca di una comunione con la sua terra perduta da tempo. La guerra civile si trascinò pesantemente per tre lunghi anni. Il 26 aprile 1937 la cittadina basca di Guernica venne distrutta dai bombardieri tedeschi: le vittime furono civili, donne e bambini, colti di sorpresa da una morte atroce, prima strage degli innocenti del nostro tempo. Picasso aveva ricevuto già da alcuni mesi l’incarico di realizzare una grande opera da esporre al Padiglione spagnolo per l’Esposizione Universale di Parigi del 1937, ma sino a quel momento non aveva ancor dato inizio a nessuna nuova tela. Quando ricevette la notizia del bombardamento di Guernica, rimase sconvolto e la sua risposta fu la realizzazione in soli due mesi, dell’enorme tela che intitolò Guernica . L’opera rappresentò, e rappresenta, un atto di accusa contro la guerra e la dittatura. La posizione politica dell’artista era già stata esplicitamente espressa, a favore della democrazia e contro il fascismo e nella Germania nazista le sue opere vennero bruciate in pubblico come esempio di arte degenerata. Insieme all’Italia fascista di Mussolini, la reazione all’esposizione di Guernica, fu derisoria, quando invece in tutto il mondo suscitò commozione. Guernica costituisce uno dei punti di sintesi più alta ed ispirata di tutta l’arte picassiana ed in questo dipinto egli riesce a superare e fondere Cubismo analitico e Cubismo sintetico. La gestazione dell’opera fu documentata dagli scatti fotografici di Dora Maar, permettendoci di venire in possesso delle fasi dello studio preparatorio della grande tela che già per le dimensioni importanti, poco meno di quattro metri di altezza e circa otto di lunghezza, agisce come manifesto ideologico e politico, realizzato per essere contemporaneamente osservato dal più alto numero di persone possibile. Il dipinto rappresenta esattamente il drammatico momento del bombardamento. La scelta del monocromo giunse per detrazione. Da uno degli scatti dei bozzetti preparatori, si nota che in una prima fase aggiunse colore e texture con ritagli di carta da parati, usando il rosso sangue per colorare le lacrime della donna in basso a destra. Più tardi rimosse tutti i colori. Nel periodo blu, infatti prese consapevolezza che l’uso di una tavolozza monocromatica poteva produrre immagini potenti e quindi eliminò il colore poiché sentiva che poteva distrarre, diminuendo l’impatto del quadro. La scelta cromatica si fissa quindi su una gamma di grigi e azzurri sul fondo antracite. Lo schema geometrico compositivo è costituito da tre fasce verticali, una più grande centrale nella quale sono concentrate la maggior parte delle figure e le due laterali, uguali, poste in maniera simmetrica. L’ambientazione è contemporaneamente interna ed esterna. La lampada accesa in alto, quasi al centro dell’opera lascia intuire un interno, mentre gli edifici in fiamme aprono lo scenario. Questo dualismo di visione non è solo espressamente cubista, ma intende anche significare lo squarcio di un edificio, che viene dilaniato da un crollo e che mostra gli intimi interni domestici di una casa che vengono così esposti allo sfregio della guerra. La lampada diviene anche il simbolo della tecnologia del ventesimo secolo che con la sua potenza terrificante ci può distruggere. Come spiega Tomàs Llorens Serra “in spagnolo il termine usato per lampadina elettrica “bombilla” è come il diminutivo di “bomba”. Quindi è una metafora poetica verbale per indicare la potenza terrificante della tecnologia che ci può distruggere”. La prima impressione allo sguardo è caos, ma l’opera sta già urlando e trasmette tutte le emozioni umane rappresentate: caos, terrore, strazio. La rappresentazione è molto dinamica ed il susseguirsi di luci, espresse con il colore bianco e le ombre in nero e grigio-azzurre, sottolinea il sinistro risultato delle esplosioni ed il divampare degli incendi. Le bocche spalancate e rivolte al cielo, di umani ed animali, rendono udibile lo strazio ed il dolore. Solo la grandezza del Picasso maturo è in grado di esprimere tutto ciò. Nel secondo dopoguerra Picasso intraprende una intensa attività di ceramista, creando piatti, vasi antropomorfi , statuette. Attività che continuerà per gli anni Cinquanta e Sessanta, alla quale affiancherà quella di grafico, di stampatore. A testimonianza di ciò numerose linoleografie, acqueforti, litografie, senza mai smettere di dipingere: nell’ultimo periodo della propria vita Picasso mostra una vitalità intellettuale che, unitamente alla volontà di sperimentare sempre nuove tecniche, ne fa un punto di riferimento obbligato per tutta l’arte del Novecento. Nel 1954 muore Henri Matisse, suo amico e storico rivale artistico e Picasso inizia un lungo studio sul tema del colore, tema nel quale egli stesso lo considerava superiore. Picasso trae diretta ispirazione dalle Odalische . dai colori sgargianti del suo amico Matisse ed allo stesso modo tenendo in considerazione il più grande maestro colorista che egli conoscesse, Eugène Delacroix. Picasso realizza in questo periodo quindici tele, sul tema delle Donne di Algeri ognuna contrassegnata da una lettera dell’alfabeto, dalla lettera “A” a “O”. Nell’ultimo e più completo dipinto della serie, un grande olio del 1955, Donne di Algeri “O”, 1955 , preceduto da una serie di schizzi preparatori, l’artista rappresenta quattro figure femminili all’interno di un fantasioso harem rutilante di colori, nel quale prevalgono tendaggi e tappeti, caratteristici di una rappresentazione orientaleggiante. In questo dipinto i tendaggi ed i tappeti sono rappresentati dalle superfici tratteggiate geometricamente nella metà destra dell’opera, mentre nella metà sinistra, è presente un personaggio che indossa un ricco costume tradizionale: si tratta di Jacqueline Roque, sua ultima moglie e musa ispiratrice. Le altre figure femminili nude rappresentate, due in piedi sullo sfondo ed una terza sdraiata sul tappeto con le gambe accavallate, si riallacciano stilisticamente all’esperienza cubista degli anni Dieci. L’ambientazione, nonostante sia immaginata fra le pareti di una stanza, appare nel complesso calda e vivace, risentendo degli influssi sia del luogo di realizzazione della Costa Azzurra, con i suoi ampi orizzonti, sia del contesto storico, in quanto in quegli anni era in corso la guerra di liberazione algerina dal predominio coloniale francese. Nel novembre del 1968 dipinge Nobiluomo con pipa 1968 , un vivacissimo olio, che rappresenta una sorta di giocoso autoritratto, nel quale Picasso schematizza la figura di un uomo che fuma vestito in costume di altri tempi. I pochi tratti elementari ed un uso violento e spregiudicato del colore individuano ogni particolare della scena: la parrucca riccioluta al colletto plissettato, i polsini ricamati, la lunga pipa dalla quale si levano morbide volute di fumo arancione, la poltrona con lo schienale che termina con una sfera decorativa, il vaso di fiori, che controbilancia e chiude verso sinistra tutta la composizione, sullo sfondo di un allegro tendaggio. Jacqueline Roque fu la seconda ed ultima moglie di Picasso, la donna con cui visse sino all’ultimo. Lei era una ceramista, orfana e già divorziata a 26 anni. Lui aveva 72 anni ed era già ormai molto famoso. La conquistò decorando con una grande colomba il muro della sua casa in Costa Azzurra, luogo in cui vissero insieme. Pablo Picasso morì a Mougins, l’8 aprile del 1973. La ceramica per Pablo Picasso è stato il mezzo artistico su cui la ricerca si è concentra con maggiore intensità negli anni della maturità e della vecchiaia. È affascinato dal processo di trasmutazione quasi magico subìto dai colori durante la cottura. Attraverso la ceramica, l’artista è artefice della metamorfosi, operata dal fuoco, dei supporti e dei colori che ha manipolato. Picasso concepisce la ceramica come un mezzo espressivo che gli consente di combinare pittura e scultura; si sente ammaliato dalle qualità volumetriche e dalla vivacità che acquisisce il colore attraverso il processo di cottura. La ceramica lo attrae per l’apparente semplicità che, celando invece una grande complessità, offre una gamma infinita di possibilità espressive. Questa complessità rappresenta uno stimolo costante, più che un ostacolo: Picasso riscontra forti analogie tra ceramica, incisione e disegno, come si nota nell’uso del colore o nelle opere monocrome, così come nelle tecniche e negli utensili scelti per realizzare l’incisione o la manipolazione dell’argilla. Alla sua mostra Picasso ha lasciato una collezione personale di ceramiche di oltre tremila esemplari, ma l’interesse per questo mezzo espressivo era sorto già durante l’infanzia a Malaga, quando aveva decorato alcuni pezzi: la città in cui è nato e ha vissuto fino ai dieci anni vanta infatti una lunga tradizione di ceramisti. Stabilire un legame con le origini dell’arte e della civiltà è uno degli aspetti più importanti del rapporto di Picasso con la ceramica: nel corso della sua carriera si era dedicato a più riprese a questa tecnica, ma solo nel 1947, all’età di 66 anni, avviò la produzione di opere in ceramica presso l’atelier Madoura dell’amica Suzanne Ramié, a Vallauris, sulle coste francesi del Mediterraneo. Com’era accaduto all’indomani della Prima guerra mondiale, anche dopo la Seconda, tra le ceneri della catastrofe, Picasso sperimenta un ritorno alle origini. Sulle sponde del Mediterraneo, rievoca gli albori dell’attività artistica e rituale dell’umanità, ricorrendo a un ricchissimo simbolismo archetipico. Ai piatti, vasi e tazze della produzione abituale di Madoura, Picasso aggiunge nuove forme e la creazione di nuove sculture. Il mese di novembre del 1948 segna uno spartiacque nella creazione ceramica contemporanea. Per la prima volta le ceramiche di Picasso vengono esposte a Parigi. Benché non avesse l’abitudine di presenziare alle sue mostre, per l’occasione l’artista viaggia con tutta la famiglia per occuparsi personalmente dell’allestimento. La mostra, ampiamente documentata dalla stampa, ha un impatto immediato su molti altri artisti: pittori, scultori e artigiani di tutto il mondo cominciano a interessarsi a questa antica arte, inclusi Braque, Léger, André Masson, Wifredo Lam, Lucio Fontana e Cocteau. Lo stesso Marc Chagall, poco dopo essere rientrato in Francia dal suo esilio statunitense, si reca all’atelier Madoura, ispirato da Picasso, per cominciare a lavorare la ceramica. Matisse frequenta lo stesso atelier e realizza alcune prove per i pannelli di ceramica di Vence. Lo scrittore Paul Éluard visita l’atelier nel 1952, scrivendo una poesia all’interno di un piatto, e anche Jean Cocteau creerà un piatto di ceramica nel 1953. In quel momento del dopoguerra, Picasso intende raggiungere un pubblico più ampio realizzando nuovamente una serie limitata di alcune sue creazioni, stavolta usando la terracotta. Si ripete la stessa situazione che si era creata dopo la Prima guerra mondiale con la litografia, tecnica artistica tornata in auge grazie all’interesse di Picasso, giacché, come riconosce Mourlot, molti pittori dell’epoca avevano deciso di seguirne l’esempio. Attraverso la ceramica, Picasso stabilisce una comunione con le forme di espressione più primitive della tradizione mediterranea, utilizzando allo scopo gli stessi materiali, tecniche e forme impiegati da uomini e donne delle civiltà che l’avevano preceduto. Ne sono un esempio i vasi che richiamano le figure rosse e nere della tradizione ateniese, “Yan bandeau noir” del 1963, come pure il Vaso condecorazioni pastello del 1953, in cui Picasso si avvicina a modalità arcaiche di rappresentazione umana. Numerosi volti circolari popolano l’enorme varietà e ricchezza espressiva dei suoi piatti, grazie a un uso magistrale del tratto e del colore, a cui si sommano i giochi di luci e ombre creati da rilievi e fenditure dell’argilla. In Volto di donna, appartenente alle ultime serie di ceramiche realizzate nel marzo del 1971, due anni prima di morire, Picasso vuole mettere in risalto la semplicità delle forme, l’assenza di pigmenti e l’applicazione di sigilli, caratteristica dell’ultima fase della sua produzione. Un ritorno alla trasmissione della conoscenza attraverso il riferimento alla “ceramica sigillata” dell’inizio della nostra era. Mentre Andy Warhol nome di battesimo Andrew Warhola, nasce a Pittsburgh da genitori immigrati dalla Rutenia in Slovacchia. La sua data di nascita però risulta incerta, nella letteratura, infatti, sono riportate molte date, tuttavia essa dovrebbe essere compresa tra il 1928 e il 1931. Risulta difficile scoprire la verità sulla vita Andy Warhol, in quanto, la contraddizione, l’offuscamento dei dati biografici, la sostituzione della sua figura tramite sosia e la riservatezza nei confronti dei giornalisti sono metodi vitali, utilizzati dal futuro artista per la creazione di un personaggio completamente nuovo: Andy Warhol come egli stesso si chiamò dal momento del suo trasferimento a New York . La sua figura alquanto contraddittoria, nonostante sia insofferente nei confronti delle interviste o per meglio dire dei giornalisti, lasciò una gran quantità di messaggi lungo il corso della sua carriera: frasi dal carattere aforistico e due libri autobiografici. Nel grande magazzino il giovane Warhol fece il suo primo incontro con il mondo del consumismo e della pubblicità, dove lavorava come aiutante nel periodo delle vacanze. L’ambiente di lavoro offriva a lui, nullatenente, una vasta gamma di oggetti. Durante l’anno, frequentava la facoltà del Carnegie Institute of Tecnology di Pittsburgh dove studiò arte grafica e pubblicitaria e dopo il conseguimento della laurea, si trasferì nella grande metropoli, New York, che non avrebbe mai pensato seriamente di raggiungere. Il sogno americano del futuro artista si stava pian piano realizzando, iniziò da subito a lavorare per Carmel Snow redattrice della rivista di moda Harper’s Bazaar esercitando inizialmente la professione di grafico pubblicitario. In breve tempo era riuscito a diventare un artista commerciale di grandissimo successo ma non era ciò a cui Warhol aspirava, malgrado la crescente fama nel mondo della pubblicità, egli voleva essere un artista di tipo molto diverso. Il suo, inizialmente, fu un percorso esitante, di certo non esplosivo, verso un’arte che ancora non esisteva e verso un’identità che né Warhol né nessuno della sua cerchia avrebbe saputo definire. Warhol si sforzava di essere riconosciuto come un vero artista, anche se, nei primi anni Cinquanta, era richiesto soprattutto come grafico pubblicitario; forse il capitolo più significativo della sua arte commerciale, fino all’inizio degli anni Sessanta, furono i disegni per calzature, nessuno aveva mai disegnato scarpe come fece Andy. Affermava la direttrice artistica di Glamour, per la quale il futuro artista disegnò ben cinquanta schizzi di scarpe . Le rappresentazioni delle scarpe e la loro estetica erano i nuovi soggetti che interessavano a Warhol all’epoca del suo primo approccio alla Pop Art, anche se utilizzava ancora la maniera dell’Espressionismo astratto nell’uso del colore. E’ difficile però immaginare che egli volesse diventare un membro dell’Espressionismo Astratto americano, movimento che aveva un monopolio incontestato negli anni Cinquanta; la filosofia di questa corrente si fondava sull’idea romantica dell’anima dell’artista: il pittore, infatti, attraverso i segni tracciati sulla tela doveva esprimere i segreti nascosti nel profondo del suo inconscio. Si capisce come alla base di una tale visione che valorizza il culto dell’interiorità ci sia un forte legame con il pigmento del colore che permette di esprimere, tramite le ampie pennellate, tutta l’istintività dell’animo. La concezione dell’arte dell’Espressionismo Astratto è assolutamente lontana dalla visione del movimento pop e dello stesso Warhol, il quale, se inizialmente utilizzò il colore alla maniera Espressionista lo fece semplicemente per muovere i primi passi all’interno dell’avanguardia. Credo che Andy Warhol rifiutava la concezione di base dell’Espressionismo astratto che non poteva esercitare su di lui nessun tipo di fascino . Sentiamo come si esprime l’artista nel suo tipico stile aforistico: se volete sapere tutto di Andy Warhol non avete che da guardare la superficie dei miei quadri, i miei film e me stesso. Eccomi. Nulla è nascosto. Non vi sono, dunque, nell’arte di Warhol segreti nascosti di cui lo spettatore non conosce l’esistenza, persiste un legame naturale tra l’artista e lo spettatore e, nel caso di Warhol, ciò contribuì al processo che lo trasformò in una icona . E fu a partire dagli anni Sessanta che l’arte di Warhol prese una svolta significativa, oltre a cambiare il suo repertorio tematico, iniziava ad abbandonare i disegni pubblicitari per riviste esclusive e ripulì l’estetica élitaria dei prodotti ricca di glamour ed esclusività rimpiazzandola con immagini semplici, concrete ed efficaci rappresentazioni proletarie . A parere di molti critici la svolta, considerata una vera e propria trasformazione da artista commerciale di grande successo a icona, si ebbe tra il 1959-1961. Sicuramente La nascita a cui si allude nel titolo non fa di certo riferimento all’effettiva data di nascita dell’artista, che per altro avvenne attorno al 1928 le parole sono estremamente importanti, perché inducono a capire che proprio nel periodo compreso tra il 1959-1961 Warhol iniziò la scalata verso l’enorme successo che lo condurrà a diventare una celebrità acclamata. Una delle opere che citiamo come rappresentazione della svolta della vita di Warhol è un dipinto del 1961, Before and After si tratta di una versione ingigantita in bianco e nero, disegnata e dipinta a mano dall’artista, ispirata all’immagine di un annuncio pubblicitario allora in voga che celebrava i vantaggi della chirurgia estetica. Egli attivò con Before and After una sorta di processo inverso: dall’arte élitaria a messaggi ottici della pubblicità di massa, privi di fronzoli decorativi ed eleganti dal gusto leggermente ordinario. La semplicità e la concretezza di immagini come Before and After, di cui Warhol dipinse numerose versioni, si adeguavano alla mediocrità dell’epoca e penetravano direttamente nell’ambiente culturale newyorchese che li accolse con grande entusiasmo. Questi grandi e banali disegni pubblicitari riprodotti da Warhol nel 1961 hanno come soggetto il profilo della stessa donna, come suggerisce il titolo, prima e dopo l’operazione chirurgica a cui si è sottoposta Warhol stesso si sottopose ad un’operazione al naso. Nel profilo sinistro, infatti, la donna ha un naso aquilino che vediamo scomparire nell’immagine di destra la quale presenta il medesimo profilo dopo o After, come suggerisce il titolo dell’opera l’intervento estetico che ne ha mutato l’aspetto, rendendola così più attraente. Before and After può essere considerato a tutti gli effetti un titolo programmatico, una sorta di metafora artistica che vuole andare a sottolineare la trasformazione della stessa figura di Warhol, perciò esso si può leggere anche come “Prima e Dopo Warhol”. Tanto quanto la signorina Nasona desiderava l’aspetto da cheerleader o da attricetta della signorina Nasino all’insù, non meno ardentemente Warhol desiderava una trasformazione che in quegli anni lo fece diventare un membro dell’avanguardia .Dobbiamo stare ben attenti al fatto che questo mutamento non avvenne semplicemente a livello di status personale dell’artista: ci fu una vera e propria transizione sociale e culturale. Il suo nuovo linguaggio condusse a una rivoluzione artistica che imporrà una svolta decisiva sulla frontiera dell’arte contemporanea, il cosiddetto mondo dell’arte dell’epoca fatto di curatori, mercanti, critici, collezionisti, artisti era pronto per questa innovazione, era pronto per Andy Warhol. Warhol cambiò per così dire il modo di intendere l’arte elevando un’immagine stereotipata, appartenente all’immaginario collettivo, a vera e propria opera d’arte ‘Before and After 1961’. La trasformazione risulta alquanto invisibile se consideriamo che l’artista non ha fatto altro che riproporre una semplice riproduzione notevolmente ingigantita dell’immagine originale. Certamente il momento in cui l’arte di Warhol si impose fu propizio perché, come abbiamo già detto precedentemente, le frontiere dell’arte erano pronte ad accettare il nuovo cambiamento tematico che attingeva ora a motivi più “bassi”, tratti direttamente dal nuovo spirito sociale dell’era consumista. Del resto, l’artista newyorchese, non fu il solo ad esprimersi attraverso questo nuovo linguaggio Pop, espressione adottata dal critico americano Lawrence Alloway, all’inizio degli anni Sessanta, per delineare un nuovo tipo di movimento d’avanguardia. Questa nuova corrente Pop era esclusivamente americana nello schieramento dei suoi protagonisti, perciò possiamo dedurre come Warhol non fu il solo ad essere impegnato in un progetto che elevava le immagini triviali della vita di tutti i giorni allo status di opere d’arte. Ma vi fu una svolta radicale in Andy Warhol e questa gli permise di essere percepito in modo differente rispetto agli altri artisti della Pop Art: diventò, già a partire dal 1965, l’artista per eccellenza, un vero e proprio divo della nuova cultura americana. A tutto questo possiamo aggiungere che entro la metà degli anni Sessanta Warhol modificò il suo aspetto esteriore. Il fatto non è da sottovalutare perché seguiva di pari passo i cambiamenti imposti dallo stesso mondo dell’arte, da cui era affascinato. L’immaginario artistico dell’epoca non era più quello degli anni Cinquanta, al quale egli si era esposto come artista commerciale; il suo look, quindi, doveva cambiare completamente, come nota David Bourdon, autore e critico d’arte, amico personale e conoscente di Andy Warhol: la sua trasformazione in un personaggio “pop” fu lungamente riflettuta e ben ponderata . L’artista diventò inoltre molto magro, indossava giacche di pelle e blue jeans, e anche il suo atteggiamento precedente venne sostituito: da uomo di mondo diventò un masticatore di gomma e apparentemente ingenuo, dedito alle forme più basse della cultura pop .L’anno cruciale per questo movimento è il 1960, arrivarono i primi segnali che qualcosa stava cambiando in campo artistico: un evidente distacco dall’Espressionismo astratto che aveva il pieno monopolio negli anni Cinquanta, dove dominava incontestato l’informale. Tuttavia gli artisti pop presero campo e reagirono all’impeto creativo e personale di artisti come Jackson Pollock, Franz Kline, Clyford Still, Mark Rothko e molti altri, la cui concezione dell’opera d’arte come azione vitale e liberatrice era realizzata attraverso tecniche pittoriche particolari. Quello della Pop Art non fu un vero e proprio movimento, ciò che accomunava questa nuova generazione di artisti, infatti, è il loro comune atteggiamento rivoluzionario che non può essere considerato semplicemente come una reazione allo spirito modernista, di cui l’Espressionismo astratto costituisce l’ultima grande espressione artistica. Fu così che a New York, in questi anni, si affermarono un certo numero di artisti che, senza alcun tipo di accordo e spesso sconosciuti gli uni agli altri, si videro impegnati in progetti simili. Nessuno se lo aspettava e invece, il pop colpì il mondo dell’arte tradizionale come un fulmine, una marea improvvisa . Un interesse comune di questi artisti verso la nuova realtà urbana e mediale lì condusse a dipingere, ciascuno per conto proprio, temi tratti dalla vita quotidiana, alla quale essi guardavano costantemente, ricavandone gli stimoli per realizzare un’integrazione completamente nuova di motivi che erano allo stesso tempo assolutamente familiari. La nascita della Pop Art non deve essere vista solamente come un’opposizione ai valori dell’idealismo e al soggettivismo dell’Espressionismo astratto; c’era qualcosa di veramente innovativo e radicale che ciascuno di questi artisti, individualmente, riuscì a percepire nello spirito dell’epoca . Coloro che potremmo indicare come il nuovo “gruppo” di artisti dell’avanguardia pop: Robert Rauschemberg, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Jim Dine, James Rosenquist e Tom Wesselmann, per indicarne alcuni contribuirono a creare uno stato profondo di agitazione che rivoluzionò il concetto di arte e pian piano penetrò nelle sfere culturali, fino ad invadere tutti gli aspetti della vita. Rispetto agli altri individui, questi artisti avevano capito una cosa fondamentale: il Modernismo era finito, ha perduto il suo profilo eroico, polemico e oltraggioso che ostentava nei suoi primi, aristocratici sostenitori. La società da cui essi dovevano attingere per la formazione delle loro immagini si presentava ora come un qualcosa di completamente nuovo: un universo del consumismo, basato sui mezzi di comunicazione di massa, sulla quantità e monotonia delle merci e sull’onnipresente industria pubblicitaria. Ponendo lo sguardo sulla società e sulla cultura americana, gli artisti pop si resero subito conto che questo non era nient’altro che un grande magazzino, ricco di merci e pannelli pubblicitari di cui “appropriarsi” e riutilizzare nelle loro opere . L’atteggiamento di base della Pop Art perciò appare assolutamente sfrontato: mette in campo una serie di immagini ordinarie di fronte alle quali nessuno si sarebbe mai chiesto che cosa fosse quello che aveva davanti agli occhi. Erano documentazioni pittoriche già viste da tutti perché riciclate dalle immagini televisive, dai mass media, dal cinema e in generale dal paesaggio urbano. Personaggi dei fumetti, loghi di prodotti di largo consumo, fotografie pubblicitarie di celebrità e stelle del cinema o di oggetti familiari a tutti gli americani, come gli hamburger e la Coca-Cola . Gli oggetti e le immagini della quotidianità americana, oltre a ritrovarle ogni giorno nelle pagine dei rotocalchi e impilati negli scaffali dei supermarket, ora si ritrovano anche in quadri e disegni proposti dalla nuova arte Pop. Le immagini vengono presentate così come sono, senza alcuna pretesa estetica e la scelta di dipingerle in maniera fredda e impersonale non è casuale se pensiamo ai nuovi valori che la società del consumismo propone. La Pop Art testimonia questi cambiamenti, esibisce un’arte che non da dà pensare, non penetra in profondità ma rimane legata all’apparenza, in linea con la nuova propaganda culturale americana. E’ così che i contenuti banali dei disegni pop, si prestano ad essere consumati velocemente come i prodotti e le ideologie a cui erano legati .Così facendo, i nuovi soggetti artistici non presentano più delle qualità estetiche e formali tali da potersi distinguere dai comuni oggetti triviali dell’epoca consumista. Le merci che circolano nel mondo ora sono riprodotte tali e quali nei quadri pop tranne alcuni cambiamenti legati al colore o alle dimensioni che vengono appesi alle pareti delle case, come fossero dei cartelloni pubblicitari. Questo atteggiamento che potremmo definire alquanto irriverente, fa capire che sta succedendo qualcosa di importante nel mondo dell’arte. E’ in atto un cambiamento sostanziale: una sfida per tentare di oltrepassare le barriere precedenti e rivoluzionare il concetto stesso di arte. All’inizio degli anni Sessanta i protagonisti della nuova scena artistica iniziarono a servirsi di qualsiasi soggetto, bello o brutto che sia, per realizzare le loro opere d’arte. Utilizzarono tutto ciò che c’è di banale e quotidiano per fare arte: immagini comuni e ordinarie, nulla veniva escluso dal repertorio artistico pop. Questa volontà di elevare un qualsiasi oggetto appartenente al vocabolario comune in opera d’arte, non è da intendersi come una critica nei confronti del consumismo dilagante. Lo spirito pop, infatti, non prende le mosse dagli intenti dissacratori e di denuncia sociale del Dadaismo, esso, piuttosto, mette in atto una sfida nei confronti delle barriere artistico culturali preesistenti, tentando di esplorare il limite oppure una linea di separazione tra l’arte e la vita sarebbe ancora possibile è una chela maggior parte degli artisti pop, come si vedrà in seguito, lavorerà in questa direzione, tentando di rispondere, attraverso il mezzo artistico, alla questione centrale che andava a modificare il significato dell’arte stessa. Il luogo prediletto dal nuovo artista, dunque, è il confine tra la vita e l’arte, qui egli decide di muoversi per abbattere la cultura pittorica precedente: mettere in mostra gli elementi della vita di tutti i giorni, facendoli diventare improvvisamente arte; questo è il punto di partenza nuovo e sfrontato la vera sfida dell’avanguardia pop, che divenne progressivamente il progetto essenziale degli anni Sessanta. Per questo si dice: La Pop Art fu uno degli elementi che contribuirono alla dissoluzione dello spirito del Modernismo e all’inizio dell’era postmoderna in cui ancora viviamo. Rauschenberg e Johns sono da considerarsi i capofila del movimento, irrompendo nel panorama newyorchese, a metà degli anni Cinquanta, nel momento in cui l’Espressionismo Astratto era considerato la rappresentazione artistica dominante. Costoro oltre a tenere la loro prima mostra personale nel 1958 alla Leo Castelli Gallery di New York,la galleria che si è aperta l’anno prima e che ora diviene il punto di riferimento della nuova generazione rappresentarono per Warhol dei modelli ideali e lo influenzarono profondamente . Il violento impeto proiettivo di Raushenberg fa incontrare oggetti reali e pittura, in modo da ricavarne i primi Combine-Paintings: immettere nel quadro i reperti del quotidiano e cospargerli di pittura, una sorta di assemblaggi tra elementi, immagini e frammenti diversi della realtà in cui l’artista stesso interviene con la pittura. Uno dei più famosi combine del 1955, Letto, è una vera struttura applicata sul telaio e appesa al muro con tanto di coperta e cuscino, intriso di magma pittorico applicato in modo da eliminare qualsiasi tentazione di dormirci dentro. Ciò a cui l’artista mira è creare un nuovo tipo di arte, legata al mondo esterno e non all’universo interiore, che mette in scena qualcosa che tutti quanti conoscono. Altro versante innovativo è il lavoro del collega di Raushenberg, Jaspers Johns, il quale, il più delle volte preferisce la pura pittura, in cui il ruolo centrale è dato allo strumento del pennello; bandiere e bersagli, lettere, cifre e mappe, sono gli stimoli che egli ricava direttamente dalla quotidianità, niente combine o assemblaggi: Johns preleva una sola immagine per volta che diventa il soggetto unico del quadro. Il suo lavoro, rispetto a quello del compagno di strada Rauschenberg, è decisamente più mentale, ciò che lo interessa è il problema del rapporto tra l’immagine (intesa come enunciato iconico) e il suo corrispondente oggetto (inteso come riferimento reale). In Tre bandiere , opera del 1958, Johns esegue alla lettera in proporzioni decrescenti tre bandiere americane, sovrapposte l’una all’altra. La tecnica pittorica usata dall’artista è prossima al trompe-l’oeil e, nonostante l’opera sia ben dipinta, non può essere scambiata per il suo corrispondente reale, essa rimane soltanto una rappresentazione di una bandiera dipinta. All’immagine riconosce tutti i diritti di priorità nel costituire l’oggetto in opera d’arte, nel senso che i suoi soggetti riuscivano a mantenere intatta l’identità con cui sono riconosciuti dal senso comune in un certo senso l’artista newyorchese riesce a superare la differenza fra realtà e rappresentazione. Sicuramente con le sue forti dichiarazioni e i suoi modi di intendere la scultura, da molti definita un caso a sé, Oldenburg tenta di farsi conoscere attirando l’attenzione dei media. Giunti alla metà degli anni Sessanta bisognava puntare a un tipo di arte che facesse parlare i mass media, i quali, erano parte fondamentale della nuova civiltà, definita anche mediatica. Lo stesso Warhol utilizzò questo procedimento, sapeva che poteva diventare una celebrità molto velocemente solo attraendo l’attenzione dei media . Nel 1961 Oldenburg compie una vera e propria parodia del sistema artistico commerciale: trasformò uno spazio nell’East Side di Manhattan in una sorta di “spaccio”, The Store. Qui si vendono le sue sculture che non hanno un aspetto reale ma sono realizzate in stoffa imbevuta di gesso, dai colori sgargianti e sgocciolanti; oggetti che prendono a modello soprattutto la produzione alimentare o igienica dell’industria di massa: coni gelato, hamburger, torte, lattine di bibite, ma anche giacche, calze, scarpe e camicie. L’artista, presso il suo The Store, divenne il negoziante che si occupava della vendita delle merci, da lui prodotte, e la gente comprava arte nello stesso modo in cui si comprano cibi e bevande o gli oggetti di tutti i giorni. Anche questo spazio ricreatoa Oldenburg era un altro modo geniale per mescolare la quotidianità alla materia artistica. Sicuramente Oldenburg con il suo allestimento, introduce una nota di ironia paradossale e di grottesco nei confronti della massificazione industriale, ma anche rispetto alla raffinatezza delle gallerie d’arte che, in una società così trasformata, non sono più plausibili. Il punto di riferimento per tutti questi artisti fu la galleria Castelli, specializzata per quanto riguarda l’arte d’avanguardia, di cui inizialmente facevano parte solo la coppia Robert Raushenberg e Jasper Johns. Attorno al 1960 vennero chiamati ad esporre anche altri artisti che dipingevano soggetti simili, ad esempio il giovane Roy Lichtenstein che trae le sue immagini dai fumetti e dalla pubblicità. Warhol tuttavia, all’epoca, non faceva ancora parte del gruppo di coloro che esponevano alla Castelli Gallery, anche se la visitava regolarmente e ne ammirava le opere d’arte. Ivan Karp, esperto d’arte e direttore della Galleria, era alla ricerca di nuovi pittori che lavoravano su immagini stereotipate e dopo una serie di visite allo studio di Warhol, ne percepì chiaramente un talento in quel tipo di estetica. Fu così a partire dal 1962 che l’opera di Warhol colpì profondamente Ivan Karp, tanto che i due iniziarono a collaborare e i nuovi soggetti ideati dall’artista gli permisero di acquisire il primo e indiscusso titolo di artista pop, senza che il termine avesse ancora un significato ben preciso. Nei primi anni Sessanta accanto alle immagini tratte dal mondo della pubblicità, costituite da singolari dipinti spesso trasportati su scala colossale e dipinte in bianco e nero, Warhol trova l’ispirazione nella lingua popolare dei fumetti. Nella società americana che al tempo stava vivendo una rinascita culturale e artistica, si era infatti sviluppata questa fresca, semplice e diretta cultura popolare del fumetto; i lettori del giornale quotidiano non si impegnavano più in una lettura di articoli e rubriche cervellotiche sull’attualità o sulla politica ma, diversamente da quanto propugnava una cultura élitaria, si dedicavano alla lettura dei fumetti. Lo stesso Warhol da ragazzo si era imbattuto nel mondo dei fumetti che appartenevano, in modo naturale, alla vita quotidiana di ogni adolescente americano. I nuovi soggetti dei suoi quadri, oltre a quelli pubblicitari quali Before and After, sono figure popolari tratte dai fumetti: Dick Tracy, Superman, Braccio di Ferro, Nancy o The Little King. Iniziando così a dipingere a colori dei particolari tratti da questa cultura figurativa, Warhol si stava avviando verso a quella che poteva essere considerata la tematica artistica centrale della sua opera, ricavata dai rotocalchi da quattro soldi, il nuovo universo da cui scavare . Quando Warhol si recò per le prime volte alla galleria di Karp si rese conto che aveva un concorrente e che quindi egli non era più il solo ad attingere dall’universo popolare del fumetto, al quale egli si ispirava per creare i suoi soggetti. Non appena l’artista vide i lavori di Lichtenstein decise di interrompere bruscamente le sue produzioni, nonostante i suoi fumetti perseguissero uno scopo completamente diverso dalle immagini meccaniche ed estetizzanti proposte da Lichtenstein. Il giovane pittore, infatti, era considerato un maestro nel suo campo, le sue immagini non sono inventate ma riproducono i modelli reali, esaltandone la grandezza dei particolari e applicando scrupolosamente il colore all’interno dei contorni. Warhol, al contrario, imprimeva il suo marchio di originalità anche in questo campo: egli non era meticoloso nella stesura del colore ma lo lasciava sgocciolare alla maniera dell’Espressionismo Astratto. Dobbiamo sottolineare però che l’artista, utilizzando questo tipo di pittura, non voleva perseguire lo stile Espressionista della stesura del colore ma senza alcun tipo di orientamento artistico ben preciso, egli voleva infondere la modernità nelle sue opere. Come si è potuto constatare, nonostante il metodo artistico sia visibilmente diverso da quello di Lichtenstein, Warhol dichiarò di voler smettere di dipingere fumetti, in quanto, a parer suo Roy li eseguiva fin troppo bene, perciò decise di cambiare rotta e indirizzare la sua arte verso nuove prospettive . Del resto Warhol si rese conto di dover cambiare strada perché il territorio era già stato occupato da Roy che, con questo tipo di soggetti, aveva già esposto prima di lui la sua personale alla Leo Castelli Gallery. La strategia adottata da Andy, in questo caso, era conforme al nuovo atteggiamento pop: a ognuno il suo soggetto e il suo stile, la sua riconoscibilità, i suoi “quindici minuti di gloria” . Warhol, quindi, non era ancora riuscito nei primi anni Sessanta a emergere come l’Artista decisivo dell’epoca, doveva ancora compiere il passo decisivo per la svolta desiderata. Egli era ben consapevole che per passare da artistucolo, per dirla con Danto, a personaggio-icona doveva intraprendere un nuovo percorso tematico e abbandonare, come abbiamo già visto, la strada già battuta dagli altri artisti suoi contemporanei. Nell’estate del 1960 avvenne una rottura radicale e la futura celebrità americana capì di che cosa doveva occuparsi per riscuotere velocemente successo e attirare su di sé i media, che gli avrebbero permesso di acquisire velocemente la notorietà. Come si è già detto in precedenza, Warhol percepiva questo forte desiderio di cambiamento in linea con il mondo che si stava muovendo verso una vera e propria rivoluzione sociale e culturale. Il nuovo spirito dell’epoca andò inevitabilmente ad influire sull’esistenza dell’uomo comune e dell’intero American Way of Life, perciò la nuova cultura artistica doveva trarre spunto dalle nuove proposte metropolitane se voleva cogliere a pieno l’interesse degli osservatori. E fu questa l’intuizione profonda di Warhol aiutato dall’esperto e fidato filmmaker De Antonio capì che la rivoluzione artistica doveva comprendere, in modo tangibile, qualcosa che simboleggiasse il nuovo modo di vivere americano. L’imperativo era dunque: dipingi quello che siamo . Le nuove “icone” della civiltà contemporanea sono ora riscontrabili negli articoli di massa del consumismo americano, le merci di largo consumo. E l’intuizione di Warhol fu quella di eleggere come nuovi soggetti della sua opera i marchi più popolari e le etichette dei beni di consumo più in voga, i quali, potevano essere definiti un’espressione culturale. Quello che Warhol mostrò a De Antonio nel 1960 apre il nuovo orizzonte dello spirito pop che vede l’artista newyorchese come l’unico primitivo rappresentante, anche se inizialmente il fatto era del tutto inconscio. Così esclamò il mentore di Warhol, De Antonio, quando fu invitato dall’artista stesso a casa sua per esprimere un giudizio sulla novità che egli stava cercando di apportare in campo artistico. De Antonio indicò a Andy in modo chiaro la direzione da intraprendere: la Coca-Cola è ciò che siamo; la superiorità della seconda opera, fatta a circa due anni di distanza dalla prima gigante Coca-Cola, risiede nella sua nudità. L’inconfondibile bottiglietta assieme alla grafia del marchio sono divenuti già di per sé un emblema del consumismo nella società americana e, a ragion di questo fatto, non hanno bisogno di altri orpelli decorativi per acquisire notorietà. Secondo i consigli di De Antonio, dunque, bisogna eliminare tutto ciò che rende il disegno espressionista,ovvero: la pennellata espressiva e la vivacità dei colori, per lasciare spazio all’immagine pura e semplice, dipinta in bianco e nero. E’ come se in questo modo si volesse dire: siamo pop, non siamo pittura. E da questo momento in poi il repertorio artistico di Warhol iniziò a proporre quasi ed esclusivamente immagini ordinarie che non avevano nulla di inventivo o creativo, erano dei semplici prodotti utilizzati dalla gente quotidianamente e che potevano esser considerati come uno specchio della coscienza collettiva. Le minestre in scatola Campbell, le bottiglie della Coca-Cola, della Pepsi e il ketchup di Heinz, divengono così i soggetti eletti per la sua arte che, in linea con l’atteggiamento degli altri protagonisti pop, vuole superare la barriera che la separa dalla vita. Dopo l’immagine delle bottiglie a misura d’uomo della Coca-Cola, è il momento dei famosi barattoli di zuppa Campbell, tutte espressioni tratte direttamente dall’industria alimentare. La strategia utilizzata da Warhol mostrava i più popolari prodotti di consumo americani, quelli che la gente trovava tutti i giorni negli scaffali dei supermercati e che ora venivano replicati artisticamente nelle gallerie d’arte. Nonostante i suoi disegni rivelino una consapevole impronta antiestetica, nella misura in cui l’artista pop americano le tradusse sulla tela “elevandole” artisticamente, le tramutò in una sorta di icone della cultura contemporanea. E’ a partire dal 1962, dunque, che le tematiche proposte da Warhol cambiano completamente direzione, la sua scelta fu quella di trarre ispirazione da formule dell’industria commerciale e così raggiunse la notorietà, grazie anche al suo approccio con i mass media; se nel 1962 si parlò di lui fu perché la sua opera era decisamente pop . Le scelte che spingono Warhol a dipingere taluni soggetti, ad esempio le Campbell’s Soup Cans , sono ben ponderate e consolidate dal fatto che spesso si faceva aiutare da terzi per prendere le decisioni sulle idee da mettere in opera. Non perché l’artista mancasse di creatività, ma perché voleva che i suoi lavori attirassero presto le attenzioni del pubblico, così che si parlasse di lui e magari della sua opera, senza nemmeno averla vista. E’ curioso esaminare il caso delle zuppe Campbell e anche se ci sono varie storie in circolazione di come egli sia arrivato all’idea prenderemo in considerazione quella esaminata da Danto, nel suo attuale saggio dedicato a Andy Warhol. La versione riportata da Danto racconta del fatto che Warhol chiese consiglio a Muriel Latow, un architetto di interni, sul fatto che egli cercava qualcosa che avesse “ un impatto forte, qualcosa di diverso da Lichtenstein e Rosenquist, che abbia l’aria di una cosa molto personale, che non faccia pensare che faccio esattamente quello che stanno facendo loro”. Allora Muriel Latow a sua volta gli suggerì di dipingere qualcosa che “tutti vedono ogni giorno, che tutti riconoscono , come un barattolo di zuppa” . L’aneddoto riportato testimonia il fatto che Warhol raccolse in continuazione impulsi che scaturivano da altri, così come faceva la raccolta dei giornali popolari, utilizzandoli a sua volta come prototipi . Prendo sempre le mie idee dalla gente. A volte non le cambio. Altre volte non uso subito un’idea, ma magari più tardi mi viene in mente e la utilizzo. Adoro le idee . Disse Warhol nel 1970 in una conversazione con il suo assistente, Gerard Malanga. Dobbiamo sfatare ogni interpretazione secondo la quale il suo successo è dovuto alle idee di altri, che senza dubbio contribuirono con i loro acuti consigli, ma non fecero venire a meno il suo spirito artistico pop, il quale, non rinunciò mai alla libertà personale. Ma il punto forte non è tanto la decisione di dipingere il soggetto suggeritogli da Muriel Latow, quanto il modo in cui Warhol decise di trasformarlo esteticamente sulla tela. Infatti egli passò dalla tecnica pittorica tradizionale, con pennello e colori, ad una tecnica che si adeguava meglio alle nuove tematiche proposte, la serigrafia. Questa nuova sperimentazione consente a Warhol di allineare perfettamente gli oggetti, utilizzando appunto il telaio serigrafico, in modo meccanico e senza alcuna apparente partecipazione personale. La presentazione dei barattoli è rigidamente frontale, una griglia costituita di otto dipinti disposti su quattro file, che rappresentavano ciascuna delle trentadue varietà di zuppe Campbell prodotte all’epoca. Warhol, prima di diventare il divo della pop art, era stato un grafico di grande successo, per questo motivo la tecnica serigrafica non doveva essergli del tutto estranea; uno dei principali vantaggi che egli riscontrò utilizzandola era il principio della ripetizione o riproducibilità che consentiva di creare un blocco uniforme di copie dello stesso soggetto. Dopo le prime immagini serigrafiche, che allineano le zuppe in scatola o le banconote americane altro soggetto, si dice, suggeritogli da Muriel Latow, Warhol passa alla serie dei ritratti: fotografie di divi come Elvis Presley o Elisabeth Taylor, Marilyn Monroe, Marlon Brando e successivamente di personaggi simbolo come John e Jackie Kennedy, o di celebri capolavori come la Gioconda. Egli con questi soggetti crea appunto serie di dipinti, i quali, seppure identici, presentano delle variazioni cromatiche; nel caso delle minestre in scatola Campbell queste vengono differenziate soltanto a seconda del contenuto, ad ognuna un nome diverso a seconda del tipo di zuppa. Tuttavia, nonostante queste minime differenze nei dettagli, i motivi figurativi della sua arte appaiono del tutto uguali come Warhol stesso voleva, per poter raggiungere sempre più un tipo di pittura anonima e definitivamente libera da qualsiasi valore soggettivo.
La sua arte doveva e voleva essere lo specchio della società americana in cui si trovava immersa, e la scelta della tecnica serigrafica favoriva sicuramente il sorgere di stereotipi figurativi, in opere che apparivano come semplici prodotti industriali, dei veri e propri articoli prodotti a catena. Nonostante l’apporto serigrafico non concedesse alcun tipo di lavoro manuale e Warhol volesse far vedere un atteggiamento di totale distacco nei confronti della sua arte, privilegiando l’aspetto meccanico della produzione di massa, egli dedicava loro una cura particolare. La sua meticolosa attenzione riguardava appunto quei minimi particolari di cui abbiamo parlato prima affinché, a composizione ultimata, le sue serie di dipinti si differenziassero l’uno dall’altro, anche se solo in termini di sfumature o di contenuto; in questo modo essi non permettono a una copia di essere identica a tutte le altre e non mettono in discussione il principio di unicità e originalità dell’opera d’arte che con l’avvento del contemporaneo è spesso venuto a mancare . L’estetica di Warhol a partire dal 1962, anno in cui realizzò circa 2000 quadri, raggiunse il suo compimento definitivo, tanto che la moltiplicazione mediante la ripetizione divenne il marchio per contraddistinguere la sua arte. Del resto, già a partire dagli anni Sessanta, aveva espresso l’intenzione di dover indirizzare la sua attività in un qualcosa di completamente diverso, dove io sarei stato il primo, per esempio: quantità e ripetizione bisogna considerare che la dichiarazione fatta da Warhol si riferisce all’epoca in cui i suoi lavori attingevano dalla cultura figurativa del fumetto ed erano simili a quelli di Lichtenstein. La ripetizione seriale divenne senza alcun dubbio il pezzo forte dei suoi lavori artistici: intensificare la presenza dell’immagine mediante la riproduzione essenzialmente identica della stessa, ne svuota i significati e rivela l’uniformità e il livellamento di un mondo consumista. E’ così che il telaio serigrafico allude allo schermo, all’immagine filmica, al succedersi degli eventi nella loro glaciale neutralità, atteggiamento che si confà al nuovo pubblico americano . Lo stesso volto della bellissima Marilyn Monroe, riprodotto da Warhol in un’interminabile serie di raffigurazioni analoghe utilizzando la tecnica serigrafica, diventa una maschera moltiplicabile all’infinito. L’artista produsse un’opera costituita da due insiemi di venticinque Marilyn, una sorta di dittico come sottolinea appunto il titolo, Marilyn Diptych. I due elementi che andavano a costituire un’unica unità, da un lato, per la precisione a sinistra, erano delle rappresentazioni vivacemente colorate del volto di Marilyn, a destra invece in bianco e nero. Il modo in cui Warhol propone il volto della famosa star, infatti, non rispecchia la realtà ma la tramuta in un’icona, la cui individualità è completamente assorbita dal modello ideale che lo stesso pubblico si aspetta di vedere. Il destino di Marilyn, come quello di tante altre celebrità riproposte dall’artista, non è così felice come in realtà i mass media ci vogliono far credere. D’altra parte, l’immagine proposta da Warhol non vuole scavare nel mondo privato dell’attrice, bensì farla diventare una maschera, una sorta di difesa, dietro la quale si potrebbero celare i desideri e i timori di una più ampia coscienza collettiva. Nella serie dei ritratti eseguiti egli fece di lei un simbolo di eterna giovinezza e bellezza, trascendendo, per così dire, la realtà oggettiva che veniva sostituita dall’immagine di superficie propagandata da riviste e televisioni. La maschera di superficie, di cui abbiamo fino ad ora parlato non è da confondersi con la superficialità, ma in Warhol equivale ad un’assenza di profondità, in linea con lo spirito dell’epoca. Come l’affermato artista ribadirà esplicitamente in varie interviste e occasioni, tutto è già nella bottiglietta, nella scatola, nella faccia, nell’immagine; non c’è niente sotto, dietro, dentro, è già tutto nella superficie. Vedendo esposti i dipinti di Marilyn Monroe alla Stable Gallery Michael Fried, uno dei migliori critici dell’epoca colto e sofisticato come pochi altri giornalisti, per definirlo con le parole di Danto, lì giudicò tra i migliori. Avvalorò Andy Warhol fra i più sinceri e più spettacolari pittori dell’arte dei suoi tempi e riscontrò, nella serie dedicata al volto di Marilyn, la capacità dell’artista newyorchese di percepire gli aspetti veramente umani e patetici di uno dei miti esemplari della nostra epoca . La ripetizione, come abbiamo visto, diviene dunque la modalità privilegiata delle sue manifestazioni artistiche, qualsiasi soggetto scelto ora veniva riportato in blocco e ciò andò a costituire l’essenza della sua Estetica. Questa nuova prassi ripetitiva non è da considerare solamente come dispositivo formale d’avanguardia ma era per Warhol un importante elemento che andava a scandire il suo modo di vivere e il suo atteggiamento. Essa rappresentava un’espressione della sua filosofia, poiché l’arte, secondo la sua concezione del tutto pop, doveva fondersi con la vita stessa. Si narra infatti che anche gli eventi della sua vita privata fossero scanditi dalla ripetizione, quotidianamente mangiava lo stesso lunch, le Campbell’s Soup Cans, porta per anni la stessa giacca, fino a che le tasche piene si strappano, ascolta sempre lo stesso disco e all’inizio degli anni settanta registrava ventiquattro ore al giorno in modo ossessivo. Andy voleva sempre che fosse tutto uguale, infatti, egli ammirava questo tipo di cultura commerciale e si trovava a proprio agio nella società del consumismo e dell’uniformità americana. Per giunta, la sua trasformazione radicale del concetto di arte non aveva alcun intento irrisorio, critico o di denuncia sociale ma esaltava una sorta di eguaglianza politica insita nella civiltà americana. Nel momento in cui egli decise di dipingere una Coca Cola o un barattolo di zuppa Campbell, e lo fece ossessivamente per tutta la sua carriera artistica, seguiva i consigli suggeritogli da de Antonio o dalla Latow: Dipingi la nostra società, ciò che siamo, qualcosa che accomuni tutti quanti e che tutti riconoscano facilmente. E nuovamente con questi soggetti portava in campo il principio della ripetizione estetica, al quale questa volta dava un valore politico. Un barattolo di zuppa di pomodoro Campbell è uguale a tutti gli altri barattoli. Chiunque tu sia, non potrai mai avere un barattolo di zuppa migliore degli altri. Nell’Era dell’industria e della massificazione, in cui ogni individuo tendeva a conformarsi con gli altri, vi era una sorta di livellamento sociale che l’artista newyorchese voleva trasferire anche nel mondo dell’arte. L’operazione compiuta da Warhol, quindi, poteva definirsi politica. Niente più distinzioni: le immagini popolari, tratte dall’ordinaria e banale sfera del quotidiano, dovevano essere innalzate ed entrare a far parte dell’universo dell’arte seria. Nella sua figura, più che in qualunque altra all’epoca, arte e vita si conciliavano perfettamente, elevandolo a una specie di modello, riconoscibile come Charlie Chaplin o Mickey Mouse. Un personaggio pubblico, conosciuto come l’artista pop per eccellenza. Possiamo dire infine che con Andy Warhol il concetto di arte viene trasformato come capitò con il Dadaismo e in particolar modo con Marcel Duchamp. Il percorso espositivo, suddiviso in sezioni, esplora temi come musica, moda, società dei consumi e altro:aspetti chiave che non solo hanno segnato l’opera di Warhol, ma che continuano a essere elementi portanti dell’arte contemporanea. Le serie iconiche Campbell’sSoup, Flowers e Marilyn, insieme a ritratti di personaggi celebri come Jackie Kennedy, Mohammed Alì, Grace Kelly e persino Superman e Mickey Mouse mostrano come l’artista abbia saputo trasformare la cultura di massa in icone senza tempo. Le opere esposte provengono da collezioni europee, oltre a numerose riviste degli anni ’50 e a un cospicuo numero della rivista Interview, decine di copertine di dischi in vinile, video e fotografie. Esposte inoltre due installazioni multimediali, nella sezione “musica”: il leggendario evento multimediale del 1966 “The Exploding Plastic Inevitable” con Nico e i Velvet Underground di Lou Reed e la suggestiva “Silver Clouds”, una sala popolata da cuscini argentati gonfiati a elio, che fluttuano nell’aria creando un’atmosfera ludica e interattiva, simbolo della genialità visionaria di Warhol. Un’esposizione che rivela il ruolo centrale di Warhol nel rendere la cultura popolare un tema artistico legittimo e influente, trasformando immagini iconiche e oggetti di consumo in opere di valore artistico. Warhol ha affrontato i simboli della società americana, come l’etichetta della Campbell’sSoupo il logo Coca-Cola, elevandoli a nuove forme d’arte, destinate a entrare nella quotidianità del pubblico e nelle gallerie d’arte, infrangendo le barriere tra arte alta e arte commerciale. Questo approccio ha fatto di Warhol un innovatore assoluto, capace di anticipare le dinamiche di una società sempre più orientata verso i media e il consumo. Analizzando o semplicemente osservando le opere di Andy Warhol, le soluzioni formali, la tecnica innovativa, i soggetti, il suo stile distintivo, il visitatore potrà percepire quanto la sua influenza si estenda ben oltre il suo tempo e il suo campo artistico, e quanto egli abbia ispirato generazioni successive di artisti, anche nella moda, la musica, la pubblicità, il cinema e persino lo stile di vita. “Andy Warhol. Beyond Borders” è un viaggio immersivo, pensato per offrire a ogni visitatore un’esperienza di grande impatto visivo ed emotivo, che travalica i confini del tempo e della cultura, e invita a esplorare il mondo con la stessa curiosità e apertura che ha caratterizzato Warhol stesso. Il progetto espositivo si apre con la grande produzione di ceramiche firmata da Picasso, per un totale di oltre tremila pezzi prodotti dalla fabbrica di Madoura in Costa Azzurra, influenzò, infatti, le generazioni successive di artisti abitualmente dediti ad altre forme di arte, come la pittura, quindi non ceramisti puri. Si va, così, dalle avanguardie storiche di Sonia Terk Delaunay e Marc Chagall e di Salvador Dalì con la rappresentazione del sogno surrealista trasferito nella ceramica. Tra i differenti approcci all’arte fittile e della ceramica d’autore, Salvatore Fiume, Luigi Mainolfi, Marco Lodola e Marco Nereo Rotelli rappresentano, in questa mostra, la complessità della ricerca plastica italiana, mentre le esperienze femminili di Marina Abramović, Yayoi Kusama, Louise Bourgeois, Paola Gandolfi e Jenny Holzer testimoniano un approccio radicale, preciso e consapevole all’arte della ceramica, con precise connotazioni personali. Diversi, in questa rassegna, gli artisti e le artiste che hanno conciliato la propria ricerca e il proprio stile con il radicamento territoriale, come espresso dai cinesi Ai Weiwei, Pan Lusheng, Zhang Hong Mei e Xu De Qi, ma anche dagli artisti sudamericani, come Nicolás Leiva, Darío Ortíz, Vik Muniz, che riattivano il mito e il simbolo nelle loro opere, rifacendosi alle antiche tradizioni Maya e Azteca, e Julio Le Parc che, invece, applica alla ceramica le sue ricerche sulla luce e percezione ottica. Originale ancora, infine, il contributo proposto dagli artisti del Nord America, Jean-Michel Basquiat, Keith Haring e Sol LeWitt, che affrontano il medium ceramico come spazio di traduzione di una poetica già consolidata, i primi due nella Street Art, e LeWitt nell’arte concettuale e nel movimento minimalista.
Complesso Monumentale normanno Guglielmo II Sala Novelli Monreale
Da Picasso a Warhol. La ceramica dei grandi artisti
dal 20 Giugno 2025 all’ 8 Dicembre 2025
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 9.00 alle ore 18.30
Sabato e Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Foto Allestimento della mostra Da Picasso a Warhol. La ceramica dei grandi artisti dal 20 Giugno 2025 all’ 8 Dicembre 2025 courtesy Complesso Monumentale normanno Guglielmo II Monreale