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In mostra a Villa Campolieto Dall’uovo alle mele. La civiltà del cibo e i piaceri della tavola ovvero: Un Incontro tra Passato e Presente

Gazzettino Italiano Patagónico by Gazzettino Italiano Patagónico
18 de abril de 2025
in Arte, Giovanni Cardone 
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In mostra a Villa Campolieto Dall’uovo alle mele. La civiltà del cibo e i piaceri della tavola ovvero: Un Incontro tra Passato e Presente

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Giovanni Cardone

Fino al 31 Dicembre 2025 si potrà ammirare a Villa Campolieto Ercolano la mostra Dall’uovo alle mele. La civiltà del cibo e i piaceri della tavola a cura di Francesco Sirano e Mariacarmen Pepe. La nuova esposizione del Parco Archeologico di Ercolano organizzata in collaborazione con la Fondazione Ente Ville Vesuviane. I visitatori saranno immersi in un viaggio nell’epoca romana alla scoperta di quella che possiamo definire una vera e propria civiltà del cibo. Il cibo è un filo rosso che lega il presente al passato non solo per le elementari necessità biologiche. Mai come ad Ercolano emerge con chiarezza un rapporto con il cibo che guarda non solo alla qualità e varietà dei prodotti, ma anche alla cura della preparazione e al risultato gastronomico. Il progetto prevede in esposizione circa 230 reperti che offrono un quadro variegato dell’alimentazione degli abitanti di Ercolano. E’ il poeta Orazio che afferma ‘Ab ovo usque ad mala’, – un pasto completo nell’antica Roma solitamente iniziava con le uova e terminava con i frutti – e come su un vassoio d’argento l’antica Ercolano ci consegna una grande quantità e varietà di reperti organici in eccezionali condizioni di conservazione, a dimostrazione di un assortimento invidiabile di cibi e alimenti. Materia prima e frutto di una sorprendente arte culinaria, il cibo di questa città romana si mostra attraverso i resti carbonizzati di pane, cereali, legumi, frutta, uova, formaggio, frutti di mare, ci sembra quasi di sentirne i profumi; oltre a vasellame, pentole, utensili, oggetti di uso quotidiano e di lusso, che restituiscono preziose informazioni sui principali aspetti dell’alimentazione degli antichi Ercolanesi: dalla produzione al consumo e allo smaltimento del cibo. Nel viaggio che molte volte ho fatto negli Scavi di Ercolano meraviglia della nostra terra e che danno risalto ha tutto il Miglio d’Oro ho sempre pensato che guardando, lungo il cardo V dell’antica Ercolano si erge un alto caseggiato che occupa un intero isolato della città, convenzionalmente denominato Insula Orientalis II. Si tratta di un tipo di caseggiato plurifamiliare con abitazioni a buon mercato ben noto dall’edilizia ostiense, ma con precedenti in età repubblicana, con botteghe e luoghi di produzione artigianale prospicienti sulla strada, provvisti di mezzanini (pergulae) e con uno o due piani superiori con funzioni esclusivamente abitative. In linea generale le botteghe erano collegate mediante una scala interna di legno al piano ammezzato, comprendente una o più stanze di abitazione e di deposito, mentre una scala a due rampe, ricavata in un apposito vano-scala, conduceva agli alloggi del piano superiore, disimpegnati da un ballatoio che probabilmente correva lungo tutta la facciata. L’Insula Ortientalis II, con le sue botteghe, gli impianti produttivi e i modesti alloggi, rivela nell’estrema coerenza strutturale e nell’intima integrazione degli spazi l’esistenza di un progetto urbanistico unitario realizzato nei decenni centrali del I sec. d.C. in concomitanza con l’ampliamento della cd. Palestra o Campus che si sviluppa alle spalle delle botteghe. Recenti indagini archeologiche eseguite nell’ambito dell’Herculaneum Conservation Project hanno infatti fra l’altro dimostrato che il sistema delle botteghe e l’ampliamento della cd. Palestra sono strettamente connessi al condotto fognario che, per 85 metri di lunghezza e a circa 3 metri di profondità, corre parallelo al cardo V e il cui muro perimetrale occidentale non è altro che il muro di facciata del caseggiato dell’Insula Orientalis II. Già in fase costruttiva, inoltre, per raccogliere gli scarichi delle latrine e delle cucine esistenti nei tre piani sovrapposti, erano stati previsti sia la posizione delle latrine nell’angolo destro dopo l’ingresso di ogni bottega, sia l’inserimento di tubuli di terracotta nello spessore dei muri. Non è escluso che queste latrine potessero essere usate oltre che dai proprietari delle botteghe anche dagli avventori. Al civico n. 8 di questo particolarissimo isolato, ove si concentra la maggior parte delle 55 installazioni commerciali e artigianali identificate in città, si apre un panificio scavato fra il 1933 e il 1936 e appartenuto al fornaio (pistor) Sextus Patulcius Felix, di probabili origini puteolane e trasferitosi a Ercolano negli ultimi anni di vita della città. Il suo anello con sigillo di bronzo (Sex. Patulci. Felicis, inv. 1033/76310), utilizzato per suggellare documenti e atti del possessore, fu rinvenuto nel mezzanino. Al piano terra, su una superficie di circa 83 metri quadrati, si sviluppano tutti gli ambienti collegati alla produzione del pane e, nell’angusto sottoscala, la latrina, del tipo a piccolo box con pavimento di tegole inclinato per consentire il deflusso dell’acqua scaricata con un secchio verso il condotto di scarico e quindi verso la sottostante fossa settica. Il primo ambiente, accessibile dalla strada, è uno spazio aperto in cui sono installate due macine granarie di lava trachitica; come di consueto (86 esempi noti a Pompei e 4 a Ercolano), esse sono costituite da una parte inferiore fissa (meta), di forma cilindrica e con la sommità conica, inserita su un bancone circolare in muratura, e da una parte superiore mobile (catillus) a forma di clessidra e in cui erano inseriti gli elementi lignei che, trainati da una bestia da soma, solitamente un asino, servivano a farla ruotare. Il grano veniva introdotto nell’imbuto del catillus e la molitura avveniva per effetto della rotazione della parte inferiore del catillus contro i fianchi della meta. Alle spalle di questo spazio è il retrobottega, mentre sulla sinistra è l’ambiente in cui è installato il vero e proprio forno; quest’ultimo, costruito in muratura, poggia su un ampio basamento dal piano rivestito di tegole, che prosegue all’interno della bocca del forno, e ha una copertura a volta che forma un’autentica cupola in cui il condotto di aerazione è costituito da un collo di anfora; sul paramento esterno della cupola, in cui sono evidenti i segni di riparazione, sono due falli apotropaici per proteggere la struttura dal malocchio. Nel corso degli scavi, il 19 agosto 1936, nella stanza del piano ammezzato furono recuperate 25 teglie di bronzo di forma circolare e di varie dimensioni, utilizzate per infornare le focacce (placentae), 18 delle quali sono esposte in mostra (cat. 00). Una foto d’archivio del 1937 restituisce una veduta d’insieme del forno del civico n. 8 con le strutture e gli apprestamenti restaurati e le teglie di bronzo “musealizzate” nel retrobottega, secondo quello stile proprio di Amedeo Maiuri, che nello scavo e restauro dell’antica Ercolano concretizzò mirabilmente la sua idea di museo all’aperto, animando con particolari anche minuti della vita quotidiana luoghi e strutture già di per sé stupefacenti. Posso affermare che lo scavo ad Ercolano è stato un fenomeno culturale anomalo. All’inizio si configura come un lavoro di miniera: pericoloso, massacrante. Eseguito nel Settecento a grande profondità nelle tenebre di cunicoli scarsamente illuminati dalla luce di fiaccole e lanterne, fra i miasmi della mofèta, è un’impresa disordinata, spesso distruttiva. Esplode a livello europeo quando dal ventre della terra vengono fuori opere di straordinaria bellezza. I primi ritrovamenti sembrano casuali, determinati dalla cronica carenza d’acqua a Resìna, all’epoca poco più di un villaggio, che solo nel 1967 prenderà il nome della città antica. Per raggiungere la falda si scavavano pozzi sempre più profondi. Si racconta che un bel giorno un contadino soprannominato Enzecchetta abbia visto affiorare dall’acqua pezzi di marmo e alabastro. Non sapendo che farsene li vende a un marmoraro. Nella bottega li nota un gentiluomo di origini francesi, Maurizio Emanuele di Lorena principe d’Elboeuf. Comandava la cavalleria dell’esercito austriaco che a Napoli, dopo aver sgominato al Garigliano le truppe avversarie nell’estate del 1707, aveva posto fine a due secoli di dominazione spagnola. Poiché stava per sposarsi con una fanciulla della nobiltà napoletana, cercava elementi di pregio per abbellire una residenza estiva che si stava facendo costruire al Granatello presso il mare di Portici. Avendo capito che provenivano da un edificio antico compra il campo di Enzecchetta. Nel 1709, raccolta un po’ di manovalanza, si mette a scavare cominciando dal profondo del pozzo. Dopo poco becca, sia pure inconsapevolmente, il Teatro di Ercolano. Raccontata così sembrerebbe una favoletta. E infatti la storia è un po’ più complessa. Anzitutto pare che le esplorazioni compiute dal d’Elboeuf non siano state le prime. Si hanno testimonianze di cunicoli asfittici risalenti al Seicento. Poi forse il principe, almeno all’inizio, non cercava pezzi antichi da riutilizzare ma solo per farli ridurre in polvere allo scopo di ricavarne una specie di stucco che una volta induritosi si trasformava in belle superfici lucide. Ma chi era questo principe, descritto da alcuni come munifico protettore di artisti, da altri come un filibustiere? Indubbiamente si trattava di una persona colta. Gli fu dedicata una commedia, La Carlotta, pubblicata a Venezia nel 1708 e più volte rappresentata. Il palazzo che abitò a Napoli al largo San Giovanni a Carbonara era un cenacolo di artisti, aperto anche al teatro. È curioso apprendere come l’aveva ottenuto. Dopo essere entrato in città con due generali – uno diventò subito viceré – e aver assistito a un solenne Te Deum in cattedrale  che nella capitale del Sud non si è mai negato ai vincitori fu nominato dall’arciduca e futuro re Carlo d’Austria che risiedeva a Barcellona “Grande di Spagna di prima classe” oltre che generale. In tale qualità ottenne una facoltà definita ayuda de costa, cioè la possibilità di potersi risarcire. Non era davvero il tipo da fare complimenti. Fra i beni che furono sequestrati al principe di Santobuono si impossessò non solo del succitato palazzo assai vicino alla sede del comando delle truppe di cavalleria ma anche di una residenza a Portici dove trascorreva l’estate organizzando scorribande lungo le coste. L’ayuda, cioè, la interpretava a suo piacimento. Il posto gli piacque tanto che decise di costruirvi una villa o “casino”, che allora aveva per lo più l’aspetto di un palazzo con grande parco. Scelse un’area adiacente all’approdo del Granatello che era stata «una macchiozza tutta di spine e siepi» dove dei padri devoti a San Pietro d’Alcantara, francescani di stretta osservanza detti alcantarini, avevano costruito una chiesa e una piccola dimora. Fece buttar giù ciò che apparteneva ai padri, risarcendoli con una “limosina” di 50 ducati al mese perché si costruissero un nuovo convento di clausura più in là. E chiamò più di un progettista. Non solo il regio ingegnere e maggiore Cristofaro Schor ma anche il celebre architetto napoletano Ferdinando Sanfelice amante delle forme tardo-barocche, che gli progettò una bellissima scala di accesso alla facciata verso il mare. È opportuno dire che il rudere a più piani che si vede oggi è lontano anni luce dal progetto originario. Ma ciò che più conta nel nostro discorso è che il principe per valorizzare il suo casino abbia cercato di realizzare grandi opere nel “tenimento” di Portici, fra cui un lungo acquedotto. Per cui è possibile che sforacchiando qua e là, cominciando da una grotta che si fece regalare dai padri, abbia ammassato nella sua residenza e disperso per l’Europa molte più testimonianze dell’antichità di quanto comunemente si creda. Oltre tutto il convento dei padri agostiniani scalzi spesso tirato in ballo perché ritenuto adiacente al fondo di Resina dove operava il contadino Enzecchetta pare che all’epoca non esistesse. Quindi sarebbe pressoché leggenda l’acquisto del campo e del relativo pozzo da parte del principe così come tradizionalmente riportato. Probabilmente si è confuso con un altro pozzo situato in un altro convento, quello già degli alcantarini dal quale d’Elboeuf attinse acqua per le sue fontane, quello dal quale ebbe inizio l’esplorazione della Villa dei papiri. A complicare ancora le cose un visitatore straniero afferma di aver avuto nel 1783 l’accesso ai cunicoli stretti, bassi e sudici che portavano al Teatro attraverso «la botola di una casa di Portici». C’è evidentemente confusione nel ricordo di alcuni testimoni, che potrebbero aver riportato anche notizie di seconda mano, poiché consta che un afflusso abbastanza regolare di visitatori al Teatro è avvenuto fin dal 1750, quando si sistemarono delle stanze da cui cominciava una rampa che portava direttamente giù. C’è poi perfino chi ritiene che Ercolano fosse il cosiddetto Museo Ercolanese che in quegli anni si stava allestendo nella Reggia di Portici. È certo che l’illustre viaggiatore francese Charles de Brosses nel 1739, quasi all’indomani dell’inizio delle esplorazioni a Ercolano per conto del re, per accedere al profondo di “un largo pozzo” si era servito di una fune e un verricello, una specie di rudimentale ascensore. Afferma che l’oggetto principale delle ricerche era «un anfiteatro… o forse piuttosto un teatro». Per lui sarebbe stata una follia immaginare che lo scavo potesse restituire testi antichi, anche se era consapevole dell’illusione che si potessero trovare testi di Diodoro, Tito Livio, Sallustio e altri. Intanto progettava di scrivere personalmente i libri mancanti di Sallustio. Comunque siano andate le cose i risultati non mancarono. Dallo scavo del principe vennero fuori una miriade di frammenti, poi colonne intere, statue di marmo più o meno danneggiate, una grande lastra con un’iscrizione. Mentre fra gli eruditi napoletani, informati per vie misteriose, si accendevano strampalate discussioni sui rinvenimenti, dal fango pietrificato dell’eruzione vesuviana del 79 d.C. si estrassero tre statue femminili in marmo pressoché intatte. Rappresentavano una matrona e due ragazze, presumibilmente sue figlie, in seguito denominate Grande Ercolanese e Piccole Ercolanesi. Il principe non le tiene per sé. Ambizioso com’è, pensa di ingraziarsi un lontano cugino, Eugenio di Savoia Soissons, presidente del consiglio imperiale a Vienna, che l’aveva fatto arruolare nel 1706 nella cavalleria imperiale. Entrambi fuorusciti, condannati in contumacia dal “Re Sole” Luigi XIV come nemici della Francia, se avessero tentato di rientrare in patria avrebbero rischiato la vita. Fa restaurare clandestinamente le statue nella Roma dei papi, poi di nascosto le fa imbarcare ad Ancona e via Trieste le fa pervenire in regalo al presunto benefattore nella sua residenza al castello del Belvedere. Restano qui fino alla morte di Eugenio. Quando gran parte dei suoi beni vanno all’asta le compra Augusto III elettore di Sassonia e futuro re di Polonia, che le fa sistemare in un padiglione del suo palazzo a Dresda. Da questa città nel 1738 parte per Napoli la figlia non ancora quindicenne dell’elettore Maria Amalia Cristina dopo aver sposato per procura, previa dispensa papale per la minore età, il re di Napoli Carlo di Borbone che aveva circa 22 anni, essendo nato nel 1716. Primogenito di Filippo V re di Spagna, era stato messo sul trono già da alcuni anni per volontà della madre Elisabetta Farnese di Parma, seconda moglie di Filippo, che aveva favorito questo matrimonio a discapito di una precedente ipotesi di fargli sposare una sorella di Maria Teresa d’Austria. In un complesso rapporto diplomatico con le maggiori potenze europee Elisabetta, d’intesa con Filippo, aveva prima fatto riconoscere Carlo signore di Parma e Piacenza, poi nel 1734 gli aveva fatto conquistare il reame di Napoli e Sicilia con l’impiego di un forte contingente di truppe spagnole. I patti erano che la corona di Spagna sarebbe rimasta per sempre separata da quella di Napoli. Ciò favorì la costituzione nel Sud di un regno indipendente aperto all’Europa, molto diverso dai precedenti assetti di viceregno. Si crede che grazie a Carlo di Borbone si sia diffusa in Europa la conoscenza di Ercolano. In realtà, come si è accennato, il principe d’Elboeuf fece ampiamente la sua parte. Spregiudicato, imbarcava al Granatello tutto ciò che poteva vendere, soprattutto fuori d’Italia. Le prime notizie in proposito le pubblica a Venezia nel 1711 il “Giornale de’ letterati d’Italia”: «Nel casale di Resina con l’occasione di racconciare una cisterna s’incontrarono alcuni marmi, il che diede impulso al Sig. Principe d’Elboeuf di farvi cavare a sue spese; e si crede esservi stato un tempio della antica città detta Herculaneum, mentovata da Plinio, Cicerone e Strabone». C’era dunque la consapevolezza che si trattasse di Ercolano. In quanto all’ipotesi di un tempio fu sostenuta a lungo, finché non fu smentita dall’antiquario cortonese Marcello Venuti, al soldo del re di Napoli, in uno scritto edito a Firenze nel 1748. Stranamente a Parigi notizie aggiornatissime sulla scoperta di una ville souterraine erano state pubblicate l’anno prima, ma pare che in Italia pochi se ne fossero accorti. A Venezia, però, proprio nel 1747 era stato pubblicato un libretto anonimo dal titolo Notizie curiose intorno allo scoprimento della città d’Ercolano vicino a Napoli. Tornando al principe, fece pervenire al suo luogo natio, Saint-Étienne di Elboeuf-sur-Seine in Alta Normandia, splendidi marmi ercolanesi perché decorassero l’altare maggiore della locale chiesa cinquecentesca. Nessuno sa se a pagamento o come munifico dono. Carlo è considerato un sovrano illuminato. Ma c’è chi lo descrive, specialmente all’inizio del suo regno che durò venticinque anni, come una figura scialba, bigotta, dedito soprattutto alla caccia e alla pesca. Non aveva pietà per i bracconieri. Chi nell’ambito dei siti reali era trovato in possesso di penne di fagiano non se la passava liscia. Le strade che fece costruire sembravano adatte per raggiungere con maggiore facilità i luoghi di caccia: fino a Venafro, Persano. Ebbe la mania del grandioso, che l’indusse a commissionare opere imponenti. Come la Reggia di Caserta progettata da Luigi Vanvitelli, con le scenografiche cascate alimentate da acqua portata su maestosi ponti dal Taburno superando un percorso di quaranta chilometri. E il Palazzo di Capodimonte, di cui si iniziò la costruzione su progetto di Giovanni Antonio Medrano in una zona isolata mal collegata col centro cittadino, che sarebbe diventata più accessibile con la realizzazione del ponte della Sanità in epoca napoleonica. Il Reale Albergo dei poveri iniziato da Ferdinando Fuga, che nella forma attuale è solo la quinta parte di quanto progettato, avrebbe dovuto ospitare i poveracci privi di mezzi di sostentamento: un’utopia, se si considera che all’epoca dovevano essere una miriade. Protesse artisti, incisori, promosse la costruzione dello splendido teatro San Carlo, il risanamento di interi quartieri, l’istituzione a Capodimonte di una fabbrica di porcellane. Tuttavia la fama maggiore, in Europa, gli venne dagli scavi di Ercolano e Pompei. Quelli di Ercolano cominciarono nell’anno in cui si sposò, quelli di Pompei dieci anni più tardi, nel 1748. È bene dire subito che si tratta di due imprese completamente diverse. Ercolano, quasi in verticale sotto al Vesuvio, era stata sepolta da un’enorme alluvione fangosa che collassando rovinosamente dal vulcano fece retrocedere la costa di mezzo chilometro ingoiando l’abitato. Sigillò persone e cose, ma preservò tutti i materiali deperibili fino al pane, al guscio d’uovo. Se ne perse presto la memoria. Pompei era stata invece coperta da strati alterni di cenere e lapilli, attraverso i quali penetravano gli agenti atmosferici col loro potenziale distruttivo. I miasmi soffocarono gli abitanti, ma della civita non si perse mai la memoria. Presto cominciarono le incursioni degli effossores, i cercatori di tesori. Le suggestive immagini delle vittime, persone e animali, nonché gli infissi delle abitazioni, parti di alberi o di piante sono calchi, eseguiti secondo un ingegnoso metodo inventato dall’archeologo Giuseppe Fiorelli. C’è anche da ricordare un fattore spesso sottovalutato. Tutta la Campania aveva subito nel 62 uno spaventoso terremoto. L’opera di ricostruzione, ove più ove meno, era in corso quando sopravvenne l’eruzione del Vesuvio. Si ritiene che la regina, memore delle tre “Ercolanesi” viste a Dresda, abbia favorito gli scavi di Ercolano. Ciò appare verosimile, anche perché la residenza di d’Elboeuf ricca ancora di molte testimonianze archeologiche – si sa che finché fu del principe contenne statue e colonne e ben 177 busti, forse non tutti da Ercolano – dopo parecchi passaggi di mano era stata annessa ai siti reali. Il principe l’aveva venduta, stabilendosi definitivamente in Francia quando le mutate condizioni politiche glielo avevano consentito. Dal 1742 fece parte dei possedimenti adiacenti al Palazzo di Portici, al quale fecero subito corona molte fastose abitazioni della nobiltà e dell’establishment napoletano, come è testimoniato da una Istoria del Reame di Napoli pubblicata nel 1749. Nacque così il primo nucleo delle ville vesuviane del “Miglio d’oro”, estesosi poi verso Torre del Greco e i centri limitrofi. Occorre anche ricordare che Carlo era diventato erede di una grande collezione di antichità lasciatagli dalla madre, prima dispersa fra Parma e Roma, che comprendeva fra varie sculture opere colossali. Stupendo il gruppo del Toro farnese, che restò a lungo nella Villa Reale di Chiaia prima di passare nel 1826 al Museo di Napoli. Gli scavi reali cominciarono dove si ritiene che nel 1716 si sia fermato d’Elboeuf, il quale avrebbe raggiunto la cavea e la scena del Teatro a quasi trenta metri di profondità senza rendersi conto della natura dell’edificio. I lavori erano diretti dal capitano spagnolo del genio ingegnere Rocco Gioacchino d’Alcubierre, che si occupava contemporaneamente della costruzione della Reggia. Dopo trentuno anni si sarebbe vantato di essere stato proprio lui a segnalare al ministro Bernardo Tanucci che da alcuni pozzi si poteva accedere a una “antica città”. Avrebbe appreso la notizia quando stava eseguendo, a seguito di un ordine ricevuto il 3 agosto 1738, una pianta dettagliata di boschi, terreni e fabbricati che dovevano costituire l’area del Palazzo. Anche se la notizia della città potrebbe essere stata influenzata da vicende ulteriori è senz’altro credibile che abbia fatto calare con delle funi un operaio nella profondità di un pozzo, da cui era risalito mostrando un cofano con «piccole pietre di vari diaspri, pezzetti di metallo e altro». Grazie all’interessamento del primo ministro marchese José Joaquín di Montealegre, che Elisabetta aveva messo alle costole del giovane sovrano, aveva avuto l’assenso a poter servirsi per le ricerche di quattro dei settecento operai impegnati a Portici. Invitato dopo pochi giorni a “levar mano” per l’irrisione di alcuni personaggi della corte l’Alcubierre sarebbe riuscito in seguito a convincere definitivamente il re. La manovalanza che adoperò era raccogliticcia. Comprendeva ergastolani e schiavi turchi. Ciò non deve meravigliare. Nella costruzione della Reggia di Caserta fu impiegata una legione di galeotti e schiavi musulmani che erano stati razziati lungo le coste africane. Si procedette esclusivamente per cunicoli, creando pozzi di luce e di aerazione. Vennero fuori pezzi di colonne, di statue, marmi, frammenti di iscrizioni. Finalmente proprio da un’iscrizione ricostituita dal Venuti – che era stato chiamato da Cortona a Napoli per occuparsi originariamente della biblioteca e delle collezioni farnesiane – si ebbe la certezza che l’edificio in parte esplorato e sistematicamente spogliato era il Theatrum Herculanense,del quale un certo Lucio Annio Mammiano Rufo aveva finanziato la costruzione. È difficile immaginare cosa sarebbe potuto essere il Teatro di Ercolano, costruito per circa millecinquecento spettatori, se non fosse stato completamente spogliato come una cava di opere antiche: intatto, con tutte le sculture al loro posto o a breve distanza dalla collocazione originaria per l’impatto con la marea del fango. Da godere cominciando dal prospetto esterno con doppio ordine di arcate e poi dalla summa all’ima cavea con le gradinate, l’orchestra, il tavolato del palcoscenico, l’imponente frontescena (scaenae frons) alto due piani, rivestito di marmi policromi e spartito da colonne marmoree e nicchie per le statue, fra cui le tre “Ercolanesi”. Avanzando alla cieca ci si accostò inconsapevolmente al centro cittadino. Si cercavano tesori. Non solo statue ma suppellettili, mosaici, pitture. Poiché le pitture erano decorazione di pareti, quando staccate e accuratamente incassate non passavano per i cunicoli venivano fatte a pezzi. Più o meno lo stesso per i pavimenti a mosaico, sottratti alle abitazioni antiche anche in più pezzi per reimpiegarli come pavimenti della Reggia. In superficie era issato, con grande fatica, solo ciò che si riteneva avesse valore. Il resto era considerato rifiuto. A mano a mano che si procedeva, spappolando la massa tufacea a colpi di piccone e anche con qualche mina, i cunicoli che erano stati esplorati erano riempiti di nuovo e qualche volta riesplorati per sbaglio. Si trascuravano i frammenti. Grandi pezzi di statue bronzee che una volta recuperati non si riusciva a connettere venivano fusi. Diventavano candelabri, medaglioni con l’effige dei sovrani, immagini sacre. Di una grandiosa quadriga di bronzo con auriga che forse rappresentava Augusto divinizzato  secondo alcuni studiosi Vespasiano – si recuperò intatta solo la testa di un cavallo. Un altro cavallo, intero, fu ricomposto da più di cento pezzi eterogenei. Qualcuno si vantava che fossero stati anche più di duecento. L’Alcubierre diresse gli scavi per circa un quarantennio. Nei primi tre anni tenne un minuzioso diario, nel quale elencava con precisione gli oggetti che giorno per giorno venivano in luce: «diversos pedazos de marmol… una estatua de metal… un rayo de la rueda del Carro Triunphal». L’ultima data è 31 maggio 1741, prima che abbandonasse provvisoriamente ogni attività a seguito di una malattia agli occhi. Riprese a lavorare dal 1745 redigendo altri diari, rimasti a lungo manoscritti. Da questi documenti apprendiamo quanto fosse severo il re nei confronti di chi commetteva furti di oggetti archeologici. Si parlava di sparizione di monete d’oro. Nel settembre 1740 tre uomini e due donne di Resina furono incolpati della sottrazione di alcuni recipienti di bronzo, tre lucerne di terracotta, due corniole y otras cosas menudas. Gli uomini subirono l’umiliazione della fustigazione e furono condannati da due a tre anni di carcere, alle donne fu inflitto il confino. In seguito un avviso ben visibile nel cantiere minacciava un minimo di sette anni di carcere per gli operai, la galera a vita a Malta per gli schiavi e gli ergastolani. Non si sa se c’è riferimento con quei galeotti napoletani che Napoleone nel 1798 liberò quando occupò l’isola per impiegarli come combattenti contro gli inglesi. In questo primo scavo reale destarono ammirazione grandi pitture del ciclo di Teseo e di Eracle. Decoravano le nicchie absidate in fondo a un imponente edificio rettangolare con un’area scoperta e ampi porticati laterali, ritenuto a lungo Basilica, cioè luogo di discussione di vertenze civili e commerciali. Oggi si crede, più verosimilmente, che debba trattarsi di un Augusteum, cioè di un edificio destinato al culto imperiale, situato proprio di fronte a un Sacello degli Augustali scoperto negli anni Cinquanta e avente col decumano massimo funzione non di foro, come si è creduto fino a poco fa, ma di luogo pubblico adiacente a uno spazio più grande che doveva essere il foro vero e proprio. C’è un altro edificio chiamato Basilica noniana all’incrocio fra il cardo III e il decumano massimo, sul lato occidentale del cardo. Scavato solo in parte, è un complesso imponente, forse spartito in tre navate, con ingresso principale sul decumano. Da qui provengono la maggior parte delle sculture della famiglia dominante di Marco Nonio Balbo, proconsole per la provincia romana di Creta e Cirenaica, una sorta di “galleria di famiglia”. Oltre a un ritratto del proconsole posto probabilmente per errore, dopo il ritrovamento, su una statua di togato la “galleria” conteneva un’analoga statua di suo padre che si chiamava esattamente come lui e statue di sua madre Viciria, della moglie Volasennia e di due splendide ragazze che dovevano essere sue figlie. Non dovrebbero invece provenire da qui le due statue equestri di Marco Nonio Balbo che furono trovate nel porticus post scenam del Teatro – da collocare certamente in un’area centrale sulla quale gli studiosi non hanno finora trovato un accordo – né una terza statua equestre in bronzo dello stesso proconsole trovata pure nell’area del Teatro. Nell’area del foro c’erano certamente, fra gli edifici pubblici, un macellum (mercato coperto) e una mensa ponderaria, noti da iscrizioni.  Nello stesso periodo vennero in luce splendidi dipinti su marmo, veri e propri “quadri”, fra cui le famose Giocatrici di astràgali, da intendere come parte del mito di Niobe punita da Apollo e Diana con l’uccisione della prole per essersi vantata con Latona di essere più prolifica di lei. L’esplorazione raggiunse la Palestra verso il limite orientale della città e molte abitazioni fino all’estremo sud. Dal primo edificio furono staccate finissime pitture come L’attore re (1761) e la sovrabbondante decorazione prospettica detta Scenografia teatrale (1743), mentre dalla meridionale Casa dei cervi il bottino fu, pare, di oltre novanta pitture. Proprio qui fu scoperto un pezzo di pane con la “marca” dello schiavo Celer, come annotò scrupolosamente l’Alcubierre sotto la data del 5 ottobre 1748. La scoperta più clamorosa avvenne però nei pressi del litorale verso Napoli. Nel 1750 fu individuata la grandiosa villa di cui si è accennato innanzi, coperta oltre che dal fango solidificato del 79 dalla lava dell’eruzione del 1631, proprio quella che creò il Granatello. Probabilmente era appartenuta a Lucio Calpurnio Pisone Cesonino suocero di Cesare e per questo detta “dei Pisoni”, anche se la discussione sul proprietario resta aperta. Più appropriata la denominazione di Villa dei papiri per la biblioteca di oltre mille scritti sulla delicata membrana del papiro lì trovati nel 1752, di prevalente contenuto filosofico in lingua greca. Si è scoperto in seguito che non mancavano opere latine di Lucrezio, di Ennio suo maestro, di Cicerone. L’autore più rappresentato era il filosofo epicureo Filodemo di Gàdara – città della Siria – amico di Lucio Calpurnio Pisone. Era uno dei tanti maestri di cultura greca venuti a Roma in un periodo nel quale la filosofia consolatoria dell’epicureismo era assai di moda. Poi doveva essersi trasferito come ospite a Ercolano proprio nella villa. Accuratamente arrotolati, i papiri furono scambiati all’inizio per pezzi di legno carbonizzati, perfino per stoffe e reti. Un patrizio colto dell’epoca di Augusto aveva creato nella sua fastosa dimora una specie di cenacolo letterario frequentato, pare, anche da Virgilio e altri della scuola napoletana di Sirone a Posillipo. La villa era piena di opere d’arte. Oltre alle pitture parietali e ai mosaici vi si rinvennero quasi mille sculture, fra cui grandi bronzi come il Fauno ebbro, le cosiddette Danzatrici, la coppia di Corridori, ora tutti al Museo archeologico di Napoli insieme con ritratti in bronzo e marmo di strateghi, dinasti, filosofi, poeti, oratori, infiniti bronzetti. Della villa redasse un’accurata pianta l’ingegnere militare svizzero Karl Weber, subentrato all’Alcubierre nella direzione dei lavori dopo esserne stato collaboratore, mentre di tutto l’abitato esplorato per cunicoli ci resta una precisa pianta eseguita a seguito di accurati rilievi dell’ufficiale del genio spagnolo e architetto Francesco La Vega, che subentrò come direttore alla morte del Weber nel 1763. Col Weber si era avuto un grande salto di qualità nella documentazione degli scavi. Redasse anche un progetto per mettere completamente in luce il Teatro. Ma i costi, cinque milioni di ducati napoletani, sembrarono proibitivi e il progetto, ritenuto “una pazzia”, fu subito archiviato. Personaggio da non sottovalutare La Vega, per molti decenni anche direttore di Pompei, dove fu innovatore nel restauro degli edifici e protagonista di grandi scoperte fra cui il Tempio d’Iside.

Il rinvenimento dei papiri fu un grande avvenimento culturale di cui all’inizio non ci si rese conto, anche perché molti volumina oltre che essere carbonizzati erano stati schiacciati dalla pressione degli scaffali, anch’essi carbonizzati, precipitati uno sull’altro. Si trattava della prima grande biblioteca antica venuta in luce. Quando si capì che i rotoli contenevano degli scritti si tentò invano di aprirli. Al minimo contatto si riducevano in polvere. Si cimentò inutilmente con un trattamento chimico l’alchimista Raimondo di Sangro, principe di Sansevero. Finalmente il padre scolopio Antonio Piaggio, un genovese che aveva lavorato alla Biblioteca Vaticana, mise a punto una macchina di sua invenzione che riusciva a srotolarli con estrema lentezza, dandovi consistenza con una sostanza collosa e strisce di pelle ricavate da vesciche di animali. Lavorò molti anni, stipendiato da Carlo di Borbone, con la collaborazione di un solo aiutante. Oggi le tecniche di svolgimento sono molto diverse, fra cui quelle messe a punto dalla scuola di papirologia di Bergen in Norvegia diretta da Knut Kleve che hanno consentito, tra l’altro, la lettura di nuovi testi latini. I papiri e l’ingegnosa macchina di padre Piaggio, già nel Museo Ercolanese annesso alla Reggia di Portici e poi trasferiti nel Museo Borbonico di Napoli, si trovano ora in una apposita sezione della Biblioteca Nazionale detta “Officina dei papiri”. Trattandosi di iniziativa reale, occorreva una speciale autorizzazione per accedere agli scavi e alla galleria d’arte annessa al Palazzo poi chiamata Museo Ercolanese, affidato dal 1751 alla responsabilità del pittore romano Camillo Paderni. Quelli che riuscivano a ottenerla non erano molti, fra cui i rampolli del “Grand Tour” che quasi tutti scalavano il Vesuvio. Le testimonianze in proposito sono per lo più sconfortanti. A parte l’angustia delle gallerie dove si rischiava di soffocare per il fumo delle torce secondo la testimonianza del de Brosses del 1739, si riteneva che gli scavi fossero eseguiti da persone ignoranti: people of no taste or erudition, con allusione agli spagnoli. La testimonianza è di Thomas Gray che nel 1740 visitò il cantiere con Horace Walpole, figlio del primo ministro britannico. Eppure il re pagava una legione di restauratori, incisori, autori di acquerelli, alcuni reclutati a Firenze e Roma. In ciò si avvalse dell’intelligente collaborazione del marchese Bernardo Tanucci, già docente universitario a Pisa, che diventerà reggente alla sua partenza da Napoli dando nuovo impulso alla ricerca archeologica. Anche lui non sarebbe stato tenero con quegli sterratori che fossero stati sorpresi a sottrarre oggetti dagli scavi: pure questi fustigati a sangue e spediti nelle galere. L’opera di Tanucci nel periodo di Carlo e ancor più in quello del figlio Ferdinando non va assolutamente sottovalutata. Autorevole e riformatrice, durò circa quarant’anni. Per niente apprezzata dalla regina Carolina d’Austria moglie di Ferdinando perché considerata pregiudizialmente filospagnola, fu improntata a grande austerità e alla buona amministrazione. Portò a una notevole limitazione degli abusi ecclesiastici, all’esproprio delle proprietà della Compagnia di Gesù e a un’organizzazione laica dell’istruzione, con la fondazione di collegi e scuole di arti e mestieri. Nel quarantennio in cui Tanucci a Napoli fece il bello e il cattivo tempo i rapporti culturali con la Toscana furono intensi e fecondi. Dopo l’inizio degli scavi a Pompei – dove lavorando di badile si mettevano in luce con relativa facilità strade, edifici, sepolcri – a Resina si continuò a cercare. Il Satiro dormente e la quinta Danzatrice furono infatti trovati nel 1756, il Mercurio in riposo poco dopo, nel 1758. Le scoperte furono pubblicizzate – come si è accennato – da un volumetto di Marcello Venuti. E anche da un prolisso inventario del Museo di Portici redatto da Ottavio Antonio Bayardi, un monsignore nativo di Parma. Ben protetto a corte perché nipote del ministro marchese Giovanni Fogliani Sforza d’Aragona, fu l’istigatore della confisca di un precedente scritto del Venuti. Le cose andarono così: il Venuti, fattosi calare nel pozzo, grazie a uno scavo mirato dimostrò grande acume nel riconoscere sia l’edificio del Teatro che la sua appartenenza alla città di Ercolano, che molti ritenevano ubicata dov’è Torre del Greco. Ciò non piacque al Bayardi, che stava redigendo il suo straripante inventario: un progetto di sette volumi di Prodromi delle antichità d’Ercolano, di cui cinque con ampie digressioni sui miti di fondazione della città furono pubblicati dalla Regia Stamperia. Da qui la grande ostilità nei confronti del Venuti, avversato anche perché ritenuto responsabile dell’arbitraria diffusione dei risultati di un’iniziativa reale. Ottenne un tardivo riconoscimento quando fu nominato dal re Carlo marchese di Cuma prima che se ne tornasse a Cortona. Pare non per sua volontà. Continuarono a far notizia, negli anni seguenti, gli scempi negli scavi e nei restauri. A Firenze circolò perfino la voce che la pubblicità fatta intorno a Ercolano fosse «una gigantesca bolla di sapone e una truffa alla napoletana». Sembrò una svolta, nel 1755, la fondazione della Regia Accademia Ercolanese, fortemente voluta dal Tanucci, che doveva riunire quindici eruditi del tempo allo scopo di pubblicare in esclusiva le scoperte. La finalità dell’iniziativa era, soprattutto, la glorificazione della monarchia spagnola. Nel 1757 apparve, edito sempre dalla Regia Stamperia, il primo di una serie di grandi tomi ricchi di incisioni. Il piano editoriale era di quaranta volumi. Ne uscirono otto fino al 1792 sotto il titolo Le antichità di Ercolano esposte, ben oltre la partenza di Carlo da Napoli: cinque sulle pitture, due sui bronzi, uno sulle lucerne, lanterne e candelabri, tutti prolissi di erudizione. Non erano in vendita, ma costituivano un munifico dono del sovrano. La loro diffusione favorì notevolmente la moda del neoclassicismo. Prima in Europa, poi anche oltreoceano: Thomas Jefferson era orgoglioso di esibirne una copia nella sua biblioteca privata. Malgrado la decisa avversione della corte borbonica in molti paesi europei apparvero ben presto libri che descrivevano gli scavi di Ercolano, corredati anche di tavole. Particolarmente diffuso un volume pubblicato nel 1753 a Londra dall’architetto Charles Bellicard, che fu ripubblicato in seconda edizione nel 1756 e l’anno dopo ebbe un’edizione in francese. I disegni erano di Charles Nicolas Cochin, che nel 1751 aveva pubblicato per conto suo una Lettre sur les antiquités d’Herculanum, aujourd’hui Portici. Interessante la sua testimonianza su operai che, lavorando per la residenza di Portici del principe d’Elboeuf, erano giunti a «une voûte sous laquelle ils trouvèrent des statues». Un colpo di grazia alla credibilità delle iniziative reali a Ercolano sembrò darlo l’abate tedesco Johann Johachim Winckelmann, considerato il fondatore dell’archeologia intesa come scienza dell’antichità. Figlio di un ciabattino, venne quattro volte a Napoli. La prima escursione la fece agli inizi del 1758 proveniente da Roma, dove era approdato con una borsa di studio ottenuta grazie anche all’interessamento del nunzio apostolico a Dresda Alberico Archinto. Munito di varie lettere di presentazione, pensava di essere ricevuto con riguardo a corte. Particolarmente dalla regina, sorella del principe ereditario di Sassonia Federico Cristiano, che l’anno prima aveva visitato lo scavo di Ercolano accompagnato da Marcello Venuti. Ma non fu così. Dovette aspettare a lungo, benché fosse diventato amico di padre Piaggio, del quale fu anche ospite. Quando finalmente poté accedere al Teatro e al Museo fu guardato a vista, con l’assoluto divieto di prendere appunti e fare disegni, come avveniva per qualsiasi visitatore. Se ne vendicò pubblicando presso un libraio di Dresda due lettere feroci, che ebbero vasta eco. Se la prese in particolare con l’Alcubierre che, disse, non avrebbe avuto a che fare con le antichità più della luna coi gamberi… In seguito i contrasti si appianarono. Grazie a Tanucci fu ricevuto a corte, ebbe in dono una copia delle Antichità e poté visitare anche gli scavi in corso a Pompei, su cui pubblicò un resoconto a Zurigo. Da Napoli nel 1767 ebbe modo di osservare una violenta eruzione del Vesuvio, che fece affluire la gente nelle chiese per implorare l’intervento di San Gennaro contro la lava. Un suo biografo descrive la sua ascesa al Vesuvio, attingendo alle lettere dello stesso Winckelmann. Con due amici giunge al cratere dopo ore di cammino mentre masse di cenere offuscavano l’aria. Scendendo verso Resina dove avevano lasciato il calesse si dissetano con due fiaschi di Lacrima Christi. Tornato in Italia nel 1769, Winckelmann trovò tragica morte a Trieste. Nell’ottobre del 1759 Carlo lasciò il trono di Napoli per quello di Spagna. La demenza del primogenito Filippo l’aveva costretto a trasferire la successione a Ferdinando, un bambino di appena otto anni. Un consiglio di reggenza presieduto dal ministro Tanucci ne avrebbe tutelato i diritti finché non avesse compiuto sedici anni. La partenza di Carlo fu napoletanamente festosa. La folla dal molo, dalla spiaggia di Chiaia, dalle terrazze delle case volle vedere la sua nave allontanarsi. Lasciava una capitale ricca di monumenti, ben diversa dalla città ereditata dai viceré austriaci e spagnoli. Tutto il patrimonio archeologico venuto fuori dagli scavi rimaneva qui, così come le ricche collezioni farnesiane ereditate dalla madre. Volle lasciare perfino un anello che portava al dito, proveniente dagli scavi di Pompei. Dalla Spagna avrebbe continuato a vigilare su Napoli fino alla morte, affidandosi prevalentemente al fido Tanucci. Il 1765 è la data tradizionalmente riportata per la fine dello scavo di miniera a Ercolano, mentre faceva sempre più notizia Pompei, dove fra altre meraviglie era stato scoperto intatto l’Odeon, il teatro coperto. Fu un peccato, perché da minuziose relazioni all’Alcubierre di Karl Weber e Francesco La Vega recentemente pubblicate si deduce che il 1764 era ancora un anno ricco di promesse per Ercolano. Sotto alla masseria del marchese De Bisogno – da cui, dopo una lunga stasi, lo scavo riprenderà all’aperto nel 1828 – e nelle immediate vicinanze venivano in luce oggetti d’indubbio interesse. Fra cui un Priapo di bronzo “in guisa di animale alato”, fornito di due campanelli. A conclusione di quanto ho detto è opportuna qualche riflessione. Una è quella che fu fatta anche in occasione del Convegno internazionale del 1988 per celebrare i 250 anni dall’inizio ufficiale dell’impresa archeologica a Ercolano, ritenendosi abusiva ogni ricerca antecedente al 1738. Bisogna anzitutto sgombrare il campo dalle “leggende archeologiche”. Non esiste una corte entusiasta per lo studio delle antichità, un re instaurator artis che acquisisce una proprietà perché vicina agli scavi e fa dotte discussioni con Tanucci, definito da uno studioso suo “ministro archeologo”. Potrebbe anche essere leggenda, come si è accennato, l’interesse della giovane principessa che viene da Dresda sognando scoperte. Anche se è vero che più dei sovrani – quelli di casa Borbone tristemente bigotti – furono le regine venute da fuori a promuovere cultura nelle corti napoletane. Dopo Maria Carolina, sorella di Maria Antonietta ghigliottinata a Parigi, assai entusiasta della ricerca archeologica fu Carolina Bonaparte, moglie dell’infelice Gioacchino Murat. Il motivo ispiratore di molte iniziative dei sovrani borbonici fu indubbiamente politico. Ciò vale per Carlo e ancor più per il re “lazzarone” Ferdinando, che represse nel sangue ogni richiesta di modernità e nel 1803 inviò in regalo a Napoleone, per ingraziarselo, pezzi archeologici e rotoli di papiri. Mediante la cultura si voleva legittimare la monarchia con le sue folli spese in un mondo che stava rapidamente cambiando, mentre alla gente mancava il pane. Di ciò erano consapevoli gli intellettuali aperti all’illuminismo come Antonio Genovesi e Ferdinando Galiani, antesignani di quelli che numerosi finiranno sul patibolo dopo la tragica esperienza della Repubblica Partenopea. Anche se il giudizio sui re borbonici può essere inquinato dalla retorica risorgimentale – ad esempio, quel Ferdinando che all’inizio del regno affida al Tanucci un timbro con la sua firma per non avere il fastidio di autografare i documenti è anche il sovrano che fa immettere nel Real Museo Borbonico nuove collezioni, consentendo che l’istituto divenga “proprietà allodiale”, cioè estranea ai beni della corona – non si può non riconoscere la differenza di qualità quando alla corte di Napoli bazzicano regine provenienti da culture ben diverse rispetto a quella locale. Talvolta, come nel caso di Maria Carolina moglie di Ferdinando, sacrificate alla ragion di Stato. La madre Maria Teresa ne era tanto consapevole che convinse il figlio Giuseppe II d’Asburgo a recarsi nell’aprile del 1769 a Napoli per verificare come stavano effettivamente le cose. In tale occasione l’imperatore andò con vasto seguito prima a Portici poi a Pompei, dove – alla presenza di Ferdinando, Tanucci, La Vega – l’attendeva la fittizia scoperta di una casa con scheletro già precedentemente scavata. Una riflessione va fatta anche per le pitture e i mosaici. Si è tanto sparlato di chi li ha staccati dal loro contesto originario per esporli come quadri o pavimenti prima nel Reale Museo Ercolanese e poi in quello che attualmente è il Museo archeologico di Napoli. Ma se quei distacchi non fossero avvenuti gran parte del patrimonio decorativo antico – e non solo delle città vesuviane – oggi sarebbe perduto. A causa degli agenti atmosferici e ancor più dell’incuria di chi, a ogni livello e in diversi momenti storici, ha avuto la responsabilità della gestione dei beni culturali nel nostro Paese.

Le scoperte di Amedeo Maiuri dal 1927, che appaiono come un miracolo per la vastità dell’area messa in luce, sono favorite – come le precedenti, particolarmente dopo l’Unità d’Italia – da precise finalità politiche. Lo studioso era stato catapultato da Rodi a Napoli nel 1924 dal fascismo, che per espressa volontà di Mussolini aveva silurato il liberale Vittorio Spinazzola, legato al conterraneo e grande meridionalista Francesco Saverio Nitti. Chi era Spinazzola? Figlio di un patriota, Nicola, entrato a Napoli al seguito di Garibaldi, era uno studioso schietto, sanguigno, senza pregiudizi. Diventato soprintendente nel 1911 dopo aver diretto il Museo di San Martino, aveva tenuto alcuni anni con sé Maiuri come giovane ispettore. Era approdato all’archeologia dalla storia dell’arte, ma una volta a contatto di Pompei aveva affinato le precedenti tecniche inaugurate da Giuseppe Fiorelli. Scavando a Via dell’Abbondanza aveva imposto l’attenta e rigorosa conservazione di qualsiasi dettaglio, salvaguardando ogni traccia di trasformazione delle case, che si presentavano così nel loro sviluppo storico dalle sopraelevazioni ai frazionamenti, alle aperture di vani di luce. Due suoi volumi ricchissimi di dati, di acute osservazioni, di planimetrie furono pubblicati postumi dopo la caduta del fascismo, nel 1953, dal genero Salvatore Aurigemma. Fu anche autore – come si è accennato – di un rivoluzionario riordinamento del Museo di Napoli. Sistemò al muro, come un grande quadro, il mosaico della battaglia d’Isso fra Alessandro e il “gran re” persiano Dario, proveniente dalla Casa del Fauno di Pompei. Amico di Benedetto Croce, di Michelangelo Schipa e un po’ di tutta l’intellighenzia napoletana di quel periodo, ingoiò l’ingiustizia con apparente serenità. Maiuri non era fascista, ma per sua natura ossequioso verso i potenti. Senza l’obbedienza alle gerarchie militari non avrebbe potuto creare dal nulla uno splendido museo a Rodi, riempiendolo delle sue scoperte in un decennio nel Dodecaneso e anche dei tanti oggetti che era riuscito a strappare al mercato nero. Fu proiettato a Napoli nel 1924 soprattutto perché ritenuto elemento duttile a una dittatura bramosa di colpire la fantasia degli italiani con la retorica della romanità. Ercolano e Capri sembrarono strumenti adatti per tale finalità, da gestire con procedure straordinarie tramite l’Alto Commissariato istituito per Napoli e provincia nel 1925, al cui vertice c’era il prefetto Michele Castelli. Si allestì per il 18 maggio, seguendo un copione ormai collaudato, il solito palco per le autorità, ma questa volta era molto più grandioso. Si trattava di una vasta tribuna in stile neoclassico con cupola torreggiante al centro fra pennoni e orifiamme, sistemata in alto sulla scarpata drasticamente spianata per l’accesso degli invitati dal vico Mare, con colonne allineate a quelle ancora in vista della Casa d’Argo. Si costruì pure una lunga scalinata che, coperta da un tappeto rosso, portava giù all’antico piano di calpestio. Il re Vittorio Emanuele III volle essere più raffinato dei suoi predecessori, dando il via ai lavori con una piccozza che era un’opera d’arte, sulla quale era stata incisa la frase Herculaneum effodiendum est. Pronunciò l’orazione ufficiale il direttore generale Arduino Colasanti. Mussolini non partecipò alla cerimonia, ma in seguito visitò gli scavi. Ed è a lui che – tramite il ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele – Maiuri fa riferimento quando teme che i lavori possano arrestarsi per carenza di finanziamenti. Ricorda che «per bocca del Duce se ne era annunziata e promessa solennemente la continuità». Il commissario Castelli non lesinò mezzi e supporto tecnico per gli espropri. La pianta di Ercolano ormai era nota. Quella di Francesco La Vega del 1797 – che pare non mostrasse tutta l’area esplorata nel Settecento  era stata messa in rapporto con l’abitato di Resina nel celebre volume Campanien del tedesco Julius Beloch, pubblicato in prima edizione a Berlino nel 1879 quando l’autore aveva solo 25 anni e subito diventato strumento fondamentale di studio. Appariva chiaro che fra la “strada per le Calabrie” – oggi corso Resina – e la costa c’erano vaste aree ancora libere da fabbricati. Impensabile uno scavo verso l’allora ipotizzato decumano superiore, probabile attraversamento della strada costiera che da Neapolis conduceva a Nocera oppure alla penisola sorrentina. L’esplorazione verso il cardo I sarebbe stata pressoché impossibile, per la difficoltà di superare il vico Mare col sottostante collettore di fogna e la presenza, al di là di quella stretta arteria, di una cortina di abitazioni. Scartata l’ipotesi di procedere «con due diverse escavazioni» – cioè con un’esplorazione dai vecchi cunicoli borbonici affiancata da un’altra all’aperto – si cominciò dall’area oggetto dei precedenti scavi, con l’intento di avanzare prima verso est e nord, mettendo in luce l’insula III delimitata dal decumano inferiore e dai cardines III e IV nonché l’intero complesso delle Terme, per poi avanzare nel resto del tessuto cittadino. Non era un lavoro facile. Lo spesso banco tufaceo poteva essere rimosso per molti metri con mezzi meccanici e martelli pneumatici sia di fianco che dall’alto, ma una volta affrontato un edificio bisognava procedere con la massima cautela. I muri dovevano essere puntellati, le travi di legno sostituite lasciandone tracce a vista, le tegole salvaguardate per quanto possibile. Vale la pena ascoltare il protagonista: «Muri, colonne, statue, bronzi appaiono aggrumati, insozzati di scorie, spesso come illividiti e maculati di sangue o maciullati, pesti e frantumati… Occhi e mani sicure ci vogliono per distinguere nell’uniforme grigiore cinereo le mura dal terreno, per enucleare un oggetto – dalla scultura in marmo o in bronzo alla membrana di un tessuto – dal suo involucro di fango. Terra e edifici paiono d’uno stesso colore e tutto appare immerso e coagulato in un’immensa fiumana solidificata, spesso travolto e trascinato lontano». Eppure si procede a tempi di record, grazie anche all’impianto di una decauville. Il materiale di risulta era trasportato all’inizio su carri tirati da cavalli. Il risultato desta grande meraviglia se si considera, anche, che la Soprintendenza di allora era enorme. Andava dal basso Lazio a Velia, comprendendo oltre a tutto il territorio della Campania e del Molise la gestione di grandi parchi archeologici come Pompei, Paestum, quelli dei Campi Flegrei e delle isole. Il lavoro comincia nell’aprile del 1927. Di tutta la fatica di generazioni di cavamonti, architetti, ingegneri, studiosi sembrava essere rimasto solo «un gruppetto meschino di edifici a valle dell’abitato di Resina, affondati entro alte ripe di terra e di mura». Tra il 1927 e il 1929 si completa  lo scavo della Casa dello scheletro – dove lo scheletro era solo un ricordo dell’esplorazione borbonica eseguita fra il 1830 e il 1831 – e del grande complesso della Casa dell’albergo. Si mettono poi rapidamente in luce e si restaurano numerose altre abitazioni, fra cui alcune con arredamento di legno o di anomala struttura: Casa del tramezzo di legno, Casa a graticcio. La prima era una grande abitazione signorile col prospetto esterno sul cardo IV intatto fino al secondo piano, che originariamente doveva estendersi per tutta la profondità dell’insula, abbastanza svilita quando fu frazionata e sia lungo il decumano che sul retro, sul cardo III, si aprirono botteghe e povere dimore di artigiani. Si entrava in un grandioso atrio col tetto compluviato, fornito di gronde a testa di cane dalle quali l’acqua piovana scorreva in un impluvio rivestito di lastre di marmo che facevano intravedere una precedente fase con tessere bianche, con sottostante cisterna. Aveva la singolare caratteristica di un tramezzo di legno spartito in tre porte bivalvi, che una volta chiuse rendevano il tablino una riservata stanza di soggiorno.  La Casa a graticcio  presentava invece tutte le caratteristiche di un condominio popolare. Costruita con materiali poveri, con tramezzi di telai in legno riempiti di muratura oppure in opus craticium, cioè in graticciato di canne, aveva in comune fra i condomini la luce di un cortile e l’acqua di un pozzo. Pur con l’innovazione del cortile rispetto al tradizionale atrio – rivoluzionaria, che durerà nel Napoletano per quasi venti secoli – era in stridente contrasto rispetto ai notevoli valori estetici della non lontana Casa del bel cortile, il cui nucleo era un suggestivo cortiletto con un’adiacente scala in muratura che portava al piano superiore. Quest’abitazione rappresentava infatti la fase di passaggio dalla casa ad atrio a quella con cortile in un ambiente diverso: monofamiliare con adeguato reddito. Nei tre anni seguenti si scava tutta l’insula IV con le splendide Casa dell’atrio a mosaico e Casa dei cervi che restituisce pregevoli sculture. Qui ci si imbatte in abitazioni che avevano stravolto la pianta originaria ovest-est o viceversa, con la consueta successione ingresso-atrio-tablino, per l’esigenza primaria di ottenere triclini e ambienti di soggiorno prospicienti ampi giardini nonché solaria e spazi di siesta di fronte al panorama del golfo. Al posto dei tradizionali peristili che erano porticati con colonne si erano costruiti ampi corridoi fenestrati che, affacciando sui giardini con imposte che si potevano chiudere, rappresentavano un passaggio protetto verso le parti della casa esposte alle intemperie. Si lavora anche nell’insula V mettendo in luce altre abitazioni, fra cui spicca la Casa sannitica, con l’atrio sormontato da un elegante loggiato. Antica nobile dimora con la rara testimonianza nella fauce d’ingresso di pitture di primo stile, una sorta di bugnato di finto marmo policromo, nel corso del tempo era stata completamente rimaneggiata. Delimitata in origine da due cardines e dal decumano inferiore, era stata frazionata, perdendo dietro al tablino un porticato e un vasto giardino e soffrendo la violenta intrusione di un’altra abitazione dalla parte del decumano. A sinistra del bel portale c’era lo sconcio edilizio di una ripida scala in legno che serviva da ingresso per un piano superiore, aggiunto e dilatatosi sul cardo IV con la violenta protuberanza di un meniano. Fino al 1937 si lavora anche alle insulae orientali, scavando per tutta la profondità possibile la Casa della gemma e la sontuosa Casa del rilievo di Telefo, ricca di rilievi e oscilla in marmo, con figure di satiri e maschere teatrali sospese fra gli intercolumni di un porticato rosso lucido. Nel 1938 si completa lo scavo dell’insula V fino al decumano massimo individuando numerose altre abitazioni, fra cui la vasta Casa del Bicentenario col suo mistero della possibile presenza di un precoce culto della Croce. Famosa anche per il ritrovamento, sempre nel 1938, di un cospicuo archivio di tavolette cerate che riguardavano il processo a carico di Giusta, figlia di una schiava, per rivendicarne l’eredità ritenuta illegittima. All’area archeologica si accedeva ormai da un monumentale ingresso lungo la principale arteria di Resina denominata corso Ercolano, quella che in seguito sarà chiamata corso Resina quando la città prenderà il nome di Ercolano. Misteri degli amministratori. Il lavoro compiuto fino alla seconda Guerra mondiale – che risparmiò Ercolano, a differenza di Pompei: solo un paio di bombe all’ingresso, con danni modesti – è davvero imponente. Era soprattutto l’edilizia privata, grazie all’eccezionale conservazione, a fare della città un unicum. Una sorta di capitolo irripetibile di storia dell’architettura antica, con soluzioni innovative come il cortile al posto dell’atrio, la dilatazione verso il panorama del golfo di case che a spese delle parva moenia avevano adottato ardite tecniche di opus caementicium, grandi complessi a più piani. Le abitazioni riflettevano il dinamismo di nuove classi mercantili che avevano sconvolto abitudini secolari una volta impossessatesi di antiche domus patrizie sopraelevandole, sminuzzandole in quartierini da affittare, aprendo misere botteghe accanto ad accessi aristocratici. Al silenzio di dimore chiuse da grate si contrapponevano aperture piene di luce, di gente rumorosa che dialogava con la strada. Scrive il protagonista: «Lo scavo d’anteguerra ha segnato il trionfo dello scavo della casa: case minime, racchiuse, serrate e assediate entro un angusto rettangolo invalicabile e che tuttavia riescono ad avere il loro giardinetto e sul giardino la stanza privilegiata di siesta e di frescura; case signorili costruite con una libertà e una spregiudicatezza d’impianto che non si ritrova nelle belle case pompeiane, più fedeli alle influenze ellenistiche degli ampi peristili e degli oeci colonnati; e infine tutta una serie di abitazioni del ceto medio, ognuna con la sua impronta di nitore, di benessere, di amorosa cura non senza una certa borghesuccia ostentazione del triclinio dipinto a nuovo, del larario messo scenograficamente dirimpetto alla porta di casa davanti agli occhi dei passanti, del giardinetto tirato su con secchiellini d’acqua nella penombra del cortile». Si pensava che dopo la razzia dei Borbone difficilmente Ercolano avrebbe restituito opere d’arte. E invece, a parte i bei mosaici a paste vitree nella Casa di Nettuno e Anfitrite, in un frontone di un portale nella Casa dei cervi e le numerose pitture un po’ dappertutto, ecco ancora nella inesauribile Casa dei cervi l’Ercole ebbro, il meraviglioso gruppo dei cervi assaliti dai cani e nella Casa del rilievo di Telefo, come si è accennato, splendidi rilievi di marmo e pinakes, oscilla. Per non parlare, nel suburbio meridionale, della testa in marmo del proconsole Marco Nonio Balbo, quando lo scavo superò i fornici che tappavano i cardines III e V e si dilatò nei due spazi contrapposti dell’Area sacra e delle Terme suburbane. Ercolano appariva una città a misura d’uomo, appaiata a Pompei dalla data della distruzione ma con caratteristiche completamente diverse. Se davvero era nata come baluardo costiero come Partenopesul colle di Pizzofalcone, ora si presentava come un centro raccolto, di poche migliaia di abitanti fra i quali non erano percepibili grandi frizioni sociali. La mancanza di un retroterra aveva impedito il crearsi di notevoli fortune terriere. Molti ricchi di un tempo, abbandonando la città per le grandi ville suburbane, avevano lasciato spazio ad abitanti che vivevano per lo più di piccolo commercio, artigianato, pesca. La città non presentava vistosi solchi nelle strade, chiassosa pubblicità elettorale. Era dotata di un teatro, di una grande palestra, di due diversi complessi termali, di numerosi ambienti per il culto, di cui qualcuno aperto alle nuove religioni esoteriche. C’erano fontane pubbliche, cisterne e pozzi che attingevano alla falda, sistemi fognari per l’epoca all’avanguardia. Ed era ordinata, pulita. Un’ordinanza dell’edile Marco Alficio Paulo, dipinta ben visibile all’angolo fra il decumano massimo e il cardo IV – cioè in pieno centro – stabiliva severe sanzioni per chi defecava sulla pubblica via: pene pecuniarie per i liberi, frustate per i servi. A Pompei gli stercorari e i mingitores in muro erano solo ammoniti dai proprietari delle abitazioni mediante graffiti, con quale risultato possiamo immaginare: «Discede, cacator, non est hic tutum culum aperire tibi». Al massimo si minacciava il malocchio e l’ira degli dei: «Cacator, cave malum aut, si contempseris, habeas Iovem iratum». Da alcuni anni c’è il vezzo di denigrare l’opera di Maiuri e la sua concezione di Ercolano come “città museo”. Qualche critica risulta fondata, ma è insopportabile la prosopopea di chi dimentica in quale contesto operò lo studioso ciociaro, quando la conservazione non era una scienza come oggi bensì un patrimonio di cognizioni pratiche che le maestranze tramandavano di padre in figlio: le pitture, ad esempio, erano trattate con un impasto di cera e benzina, poi spazzolate vigorosamente, e si mantenevano lucide e brillanti. Si esaminano minuziosamente le tessiture murarie, gli elementi lignei più o meno carbonizzati lasciati in vista per scoprire la sostituzione temeraria. C’è anche chi ha scritto di “travisamenti” ponendo il misterioso titolo Inventio Herculaneis. Cioè, pare si vorrebbe dire, una realtà urbanistica completamente inventata. Fra i grandi meriti di Maiuri c’è il recupero dell’arredo domestico della casa romana, che sarebbe pressoché sconosciuto senza il suo contributo. Tutto ciò che era stato scoperto nei cunicoli, di cui c’è notizia nei giornali di scavo, era andato distrutto. Con la consulenza del chimico Selim Augusti si applicò il metodo di consolidare i mobili in legno con cera sciolta in benzina, lo stesso adoperato per i dipinti. Che piaccia o no, tale metodo ha consentito la conservazione di numerosi tavolini, armadi, casse, sgabelli, armadi, letti. Compresa la tenera culla di un bambino, con resti del materasso di foglie e del corpicino del piccolo. Il progetto di questa mostra nasce già nel 2018, quando si intraprese il programma espositivo “Ercolano 1738-2018 Talento Passato e Presente” che includeva un ciclo di tre mostre sui reperti più significativi della città antica, ossia ori, legni e cibi e di conseguenza sugli aspetti di questa antica comunità inerenti il lusso, l’artigianato e le abitudini alimentari. In questo iniziale progetto vi era anche la volontà di allestire le tre mostre nei luoghi più belli del territorio, l’Antiquarium del Parco Archeologico di Ercolano è stato la sede della mostra “Splendori. Il lusso negli ornamenti a Ercolano”, la Reggia di Portici ha accolto l’esposizione “Materia. Il legno che non bruciò a Ercolano” e quest’ultima è allestita nella vantitelliana Villa Campolieto, una delle più belle dimore settecentesche lungo il Miglio d’Oro. La raffinatezza e il valore storico del piano nobile di Villa Campolieto hanno richiesto un approccio espositivo rispettoso; da qui nasce l’idea della «stanza nella stanza», allestimento che crea un dialogo tra il passato e il presente. Ogni sala è dotata di una pedana sopraelevata, che delinea lo spazio espositivo senza interferire con la pavimentazione e con l’ambiente in cui si inserisce. Il perimetro dell’isola espositiva è segnato da pareti che fungono da quinte scenografiche e da elementi di separazione permeabili, creando una percezione differenziata degli ambienti espositivi. Per rendere l’allestimento più funzionale, le pareti sono collegate da sottili elementi metallici che servono sia per la sistemazione dell’illuminazione che a sostenere teli microforati sospesi, che modulano la luce e creano un gioco di trasparenze e profondità. L’esperienza del visitatore si sviluppa su due livelli: nel primo, attraversando le stanze affrescate, può apprezzare la ricchezza decorativa della villa settecentesche; nel secondo, entrando nello spazio allestito, vive una dimensione multi-temporale, in cui il racconto della cultura alimentare dell’anno 79 d.C. riceve elementi di decodificazione con riferimenti al mondo contemporaneo ricavati direttamente dal quotidiano di Ercolano moderna. L’allestimento mira a coinvolgere il visitatore in un’esperienza immersiva, spingendolo a riflettere sul significato di gesti quotidiani solo apparentemente semplici, con la proposta di un percorso narrativo che permetta di vivere il cibo e la sua storia in una dimensione multi-temporale. La mostra si sviluppa attraverso sale espositive, ciascuna delle quali affronta una delle fasi fondamentali che caratterizzano il rapporto dell’uomo con il cibo. Il visitatore è libero di attraversare le stanze esplorando ciascun tema affrontato e soffermandosi anche su più aspetti dell’alimentazione, quali la produzione delle materie prime, i processi di conservazione, le tecniche di preparazione, il consumo e lo smaltimento degli scarti. Il percorso di visita fornisce una chiave di lettura chiara e intuitiva, permette di comprendere come ogni passaggio sia parte di un sistema articolato, che riflette non solo le esigenze nutrizionali, ma anche le dinamiche sociali, economiche e culturali dell’epoca.

Il Percorso Espositivo

L’ingresso all’esposizione introduce il tema della mostra esponendo dei reperti che potrebbero sembrare inusuali, ma che sono di grande impatto: i calchi degli scheletri rinvenuti negli anni ’80. Questi resti umani, impressi per sempre dall’eruzione del 79 d.C., non solo testimoniano il tragico destino degli Ercolanesi, ma hanno anche permesso di ricostruire la loro dieta e abitudini alimentari. Le analisi sui resti hanno fornito informazioni preziose sulla qualità e varietà del cibo, sullo stato di salute della popolazione e sulle differenze nutrizionali tra le classi sociali. Il primo tema offerto al visitatore è quello degli alimenti prodotti dall’agricoltura quali cereali e legumi. Elemento guida è il Pane, alimento essenziale per gli antichi Ercolanesi, così come per noi oggi. Oltre a nutrire, rappresenta un forte simbolo di continuità culturale, un filo che lega passato e presente attraverso le tecniche di lavorazione, la ritualità della preparazione e il valore sociale. Questa sala guida il visitatore alla scoperta di uno dei  principali alimenti nella dieta degli antichi Ercolanesi, offrendo la visione di pani e focacce carbonizzate quali frutto di una filiera produttiva basata sulle  materie prime con le quali si produceva la farina per l’impasto, di strumenti di lavorazione ritrovati in un antico forno della città con un continuo rimando al presente. La Sala Cucina : spazi, strumenti e pratiche guida il visitatore alla scoperta delle tecniche di preparazione del cibo, degli strumenti utilizzati e della gestione degli spazi domestici dedicati alla cottura. L’allestimento ci cala in una ideale cucina antica attraverso ricostruzioni e reperti per comprendere come e dove si cucinava in epoca romana, mettendo in evidenza aspetti funzionali, tecnologici e sociali. Il fulcro dell’esposizione nella grande isola espositiva è uno dei manufatti più affascinanti della mostra: una cassa lignea, rara testimonianza della vita domestica e vera e propria dispensa antica, utilizzata per conservare cibo e ritrovata con resti dei sacchetti nei quali alcuni alimenti erano conservati e frammenti di focaccia. La sezione dedicata al Mercato e tabernae : il commercio e il consumo del cibo ,  ruota sugli scambi commerciali e la vendita di prodotti alimentari, un aspetto centrale della vita quotidiana di una città romana come Ercolano. Il visitatore è immerso in un ambiente che rievoca l’atmosfera del mercato antico, attraversando una sequenza di tabernae, le botteghe tipiche della città romana.  Infine con i Tempi e spazi del mangiare si esplora la dimensione temporale e spaziale dei pasti nell’antica Roma, mostrando quando, come e cosa si mangiava. Al centro dell’allestimento, una meridiana in marmo scandisce simbolicamente il tempo dei pasti, accompagnando il visitatore attraverso le abitudini alimentari dell’epoca: dalla prima colazione, consumata tra le 8 e le 9 del mattino, per lo più frugale con un bicchiere di latte di capra o acqua aromatizzata, accompagnato da pane intinto nel vino o in una salsa d’aglio, al pranzo di mezzogiorno, un pasto rapido e spesso freddo, gustato in piedi nelle tabernae sparse lungo le strade della città, fino alla cena, il momento più conviviale e dove potevano essere servite ricche e varie pietanze, nelle case dei più ricchi consumata nei lussuosi triclini illuminati dalla luce calda e tremolante di candelabri e lucerne. Gli affreschi della sala della Villa borbonica e la disposizione degli elementi rendono l’esperienza ancora più immersiva.

Villa Campolieto Ercolano

Dall’uovo alle mele. La civiltà del cibo e i piaceri della tavola

dal 28 Marzo 2025 al 31 Dicembre 2025

dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.00 

Foto Allestimento della Mostra Dall’uovo alle mele. La civiltà del cibo e i piaceri della tavola dal 28 Marzo 2025 al 31 Dicembre 2025 Villa Campolieto Ercolano courtesy Parco Archeologico di Ercolano.

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Tags: Giovanni Cardone
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