Giovanni Cardone
Fino al 6 Luglio 2025 si potrà ammirare a Palazzo Reale di Napoli la mostra dedicata a Pino Daniele – ‘Pino Daniele. Spiritual’ a cura di Alessandro Daniele e Alessandro Nicosia. Promossa dalla Fondazione Pino Daniele con il Ministero della Cultura, Palazzo Reale, Regione Campania, Comune di Napoli, prodotta da C.O.R. Creare Organizzare Realizzare, con la media partner di Rai, radio ufficiale Rai Radio 2, con la collaborazione di Rai Teche, Archivio Storico Luce e Fondazione Campania dei Festival. L’esposizione celebra il grande cantautore tra i massimi talenti della storia della musica italiana, in occasione del decennale della scomparsa e del settantesimo compleanno. Protagonisti saranno i ricordi della sua straordinaria carriera in un’esposizione inedita,perfetto viatico per dare al visitatore la possibilità di ripercorrere una storia artistica e umana in modo intenso e toccante, la cui eredità va ben oltre la musica. Cantautore innovativo e iconico, Pino Daniele ha saputo rendersi immortale con i suoi capolavori, attraversando confini geografici e culturali; aveva infatti inventato un nuovo sound, un incastro unico tra canzone popolare, blues, jazz e dialetto, rappresentando uno straordinario fenomeno sociale e culturale che ha contribuito a costruire l’identità nazionale e la memoria collettiva degli italiani. Spiritualracchiude l’essenza più profonda dell’uomo e intende rievocare le origini del suo mondo artistico,evidenziando una profonda connessione con il blues, genere musicale le cui radici si intrecciano con la spiritualità della musica africana. Tale affinità si manifesta in diversi aspetti delle sue opere, dalla struttura musicale alle tematiche, dall’intensità timbrica fino alla magistrale capacità di improvvisazione. Un elemento cardine, quest’ultimo, condiviso sia dalla musica africana che dal blues e che emerge anche nello stile di Pino, il quale componeva e improvvisava con istintività, frutto di una costante ricerca musicale e di una rigorosa disciplina sulla sua chitarra. I materiali originali presenti, molti dei quali esposti per la prima volta, documenteranno l’intero cammino umano e professionale dell’artista, così come l’impatto profondo e trascendente della sua opera, arricchito da ‘tante rarità’, in grado di accomunare il gusto di più generazioni, concesse per l’occasione dalla Fondazione Pino Daniele. La storia di uno degli artisti più amati della musica italiana viene raccontata attraverso un ricco mosaico di contenuti audiovisivi pubblici e privati, materiali d’autore e amatoriali, documenti inediti, oggetti personali e strumenti che lo hanno accompagnato nel suo percorso creativo. Questo viaggio di ricordi che da Torre del Greco che mi ha accompagnato fino a Napoli mi emoziona ancora, una canzone scritta dal mitico Pino Daniele nel 1977 Terra mia, un testo ancora così contemporaneo, questo amore tormentato che tutti noi napoletani proviamo verso Napoli, che anche lo stesso grande Pino Daniele lo esprime in modo meraviglioso attraverso ‘Terra mia’. Io penso che senza memoria non vi è passato e senza passato non vi è identità. Ogni uomo ha bisogno di conoscere le proprie radici, la propria provenienza, per comprendere fino in fondo se stesso e la società in cui vive, così come ogni popolo per sopravvivere alla modernità, dovrebbe conoscere e valorizzare le proprie tradizioni gli usi e costumi di generazioni antiche che, seppur lontane, continuano a mantenere un’eco di vitale importanza per la sopravvivenza della propria cultura. Spesso ignoriamo che, proprio nel sapere collettivo dei nostri progenitori,si nascondevano verità incontrovertibili acquisite più che dallo studio, dall’esperienza, e che in alcune di queste possono essere rintracciate oggi basi e fondamenti scientifici allora sconosciuti che ci hanno permesso di sopravvivere e di arrivare fin qui. Quello che si ascolta nella grande musica di un genio che con la sua magnifica arte è riuscito fondere dalla musica popolare napoletana al jazz al blues. Posso affermare che il 19 marzo del 1955 non è un giorno qualsiasi per Napoli, perché in via Francesco Gargiulo 20 nel quartiere Porto, tra le ore 14:00 e le 15:00 nasce Giuseppe Daniele. Napoli ancora non sa che si sta per arricchire di una nuova gradazione che si andrà ad aggiungere ai suoi già mille colori. Giuseppe, Pinotto per amici e parenti, accolto dal viso sorridente della bella ‘mbriana, nasce in una famiglia con condizione economiche difficili ed è affidato alle zie acquisite. Così, a soli 5 anni, si trasferisce da loro in un appartamento in Piazza Santa Maria La Nova 32. La piazza prende il nome dall’omonima chiesa, le cui scale diventano il primo palcoscenico di uno dei futuri re di Napoli. Pinotto a casa dele zie Bianca e Lia scopre i dischi di Elvis Presley, il rock’n’roll colorato e “sporcato” da venature blues, la canzone classica napoletana e in generale la passione per la musica che alimenta e condivide con i suoi amici d’infanzia. Così, storie di munacielli e belle ‘mbriane raccontate dalle zie, voci dei vicoli, si mescolano alla poetica e alle melodie di Salvatore Di Giacomo, Ernesto e Roberto Murolo, di Raffaele Viviani; il blues-rock primordiale di Woody Guthrie incontra quello elettrico dei Cream del futuro amico Eric Clapton; la musica del diavolo di Robert Johnson si incastra nel jazz ibrido dei Weather Report; le scale arabe con intervalli di semitono ammiccano alla tarantella e al progressive-rock e le tammorre e i tamburi a cornice dell’Italia Meridionale creano una sinfonia con quelli del Continente Nero. È in questo angolo di mondo in cui Pino nasce e cresce dove, come disse Libero Bovio, “anche la malinconia è azzurra.. come il mare e il cielo”. Pino era solito fermarsi fuori dal Conservatorio San Pietro a Majella ad ascoltare gli allievi suonare alimentando la suo curiosità e passione per le orchestrazioni e i madrigali. Nonostante non studiò mai al conservatorio ne ha comunque respirato l’aria arricchendo la sua cultura e genialità. Pino assorbe come una spugna tutto ciò che lo circonda, in questa terra che custodisce storie e leggende millenarie. E allora suona. Suona quel blues mediterraneo, il suo blues, tutti i giorni. E lo fa con un occhio rivolto alla sua terra, uno alla “mamma” Africa e al Sud del Mondo e uno agli States, in equilibrio tra la tradizione e l’innovazione. Nel 1975, come regalo per essersi diplomato, si fa regalare una chitarra Gibson SG come quella usata dal suo mito e in futuro amico Eric Clapton e un amplificatore. Nello stesso periodo fonda i New Jet, un gruppo di cover con Gino Giglio, Bob Fix, Rosario Jermano e Salvatore Maresca e Gianni Battelli. Quest’ultimo dava lezioni di chitarra a Pino. Purtroppo però, il progetto durò veramente poco. Qualche anno dopo Pino con Gianni Battelli fonda i Batracomiomachia, con Gianni Battelli al violino, Rosario Jermano alla batteria; Paolo Raffone al pianoforte, Rino Zurzolo al basso, Enzo Cervo alla voce e successivamente Enzo Avitabile al sax. Quest’ultimo possiede una grotta/cantina di tufo (pietra gialla di origine vulcanica che caratterizza la città), dove il gruppo prova per intere giornate. Ed è proprio qui che comincia a svilupparsi quel movimento musicale partenopeo denominato Napule’s Power (termine coniato dal giornalista Renato Marengo) rifacendosi nella terminologia al movimento di liberazione afroamericano Black Power. Nel periodo dei Betramomiomachia Pino incide dei brani che sono destinati a entrare nella memoria collettiva delle persone e a diventare dei veri propri inni di Napoli: Terra Mia e Napule é. Sempre nel 75’ Pino inizia la sua attività di turnista. Suona nell’album “Arrivederci” di Mario Musella (a cui dedicherà il disco Nero a Metà). Pino ”battezza” Musella come il primo “nero a metà” poiché in lui convivevano tre anime, quella pellerossa (il padre era un militare americano cherokee del North Carolina), quella nera (aveva un voce roca, potente, black) e quella tutta partenopea. Nel 1976 Pino parte con Bobby Solo per un minitour che tocca anche il Belgio. Lo stesso anno telefona a James Senes per chiedergli di suonare con i Napoli Centrale. Lo stesso James cercava però un bassista e Pino, pur di suonare con loro, accettò lo stesso. Nel periodo dei Batracomiomachia Pino già componeva dei brani d’avanguardia, con testi e musiche che ricordavano un po’ quelli dei King Crimson, ma ad un tratto cominciò a scrivere canzoni in napoletano, e come detto prima, un giorno presentò al suo amico Rosario Jermano Terra Mia. I due riuscirono a realizzare un delle sovraincisioni con l’utilizzo di due registratori a cassette, precisamente un Geloso e un Philips. Ed è così che venne fuori il primo provino del brano. Successivamente i due continuarono a incidere provini semplici con chitarre, voci e percussioni di brani che Pino componeva e lo fa così, con la sua lingua, il napoletano, che diventa parlata di strada, vera, ma intrisa di poesia, lontana dagli schemi della Napoli folklorica. Pino affida una delle musicassette contenente quattro canzoni (Ca Calore, Libertà, Maronna mia, ‘O pusteggiatore) a un giovane giornalista napoletano, Claudio Poggi che intuisce di avere tra le mani qualcosa di nuovo e unico e contatta così la EMI, in particolare Bruno Tibaldi, il direttore artistico che anche Bobby Solo ha già segnalato a Pino. La EMI ha già dato alle stampe molte opere in particolare quelle della Nuova Compagnia di Canto Popolare del Maestro Roberto De Simone, ma la Napoli di Pino è una Napoli nuova. Canta la rabbia e il disagio dei giovani come nessun ha mai fatto prima. Così il 28 aprile del 1976 Pino e Claudio sono convocati a Roma per firmare il contratto. Ca Calore e Fortunato sono in due brani scelti per il 45 giri che esce nel giugno del 1976. Il 1977 è l’anno zero, la data della nascita della nuova canzone napoletana, lontana da una certa retorica folkloristica, stradaiola e kitsch. Terra mia è una terra che parla di libertà. Terra mia è Pino Daniele. È un recipiente che contiene voci della strada, dei vicoli; sapori, come quello del caffè che diventa un rito piuttosto che una sola bevanda; racconti e storie di personaggi che lo scugnizzo osserva quotidianamente. Pino è figlio di questa Napoli dalle mille contaminazioni e dai mille colori, che immortala per sempre in quello che sarà uno degli ultimi grandi classici della canzone partenopea: Napule è. Il brano è linfa vitalizzante per la nuova canzone napoletana, il manifesto della speranza e della disillusione di una generazione. Nello stesso disco, in ‘Na Tazzulella ‘e Cafè, Pino si cimenta nell’utilizzo dell’effetto talk-box che si azione con pedale e che si usa con la vocca attraverso un tubo di gomma. Al giorno d’oggi questa pratica sembra quasi convenzionale mentre all’epoca, in Italia soprattutto, non lo era affatto e Pino è stato uno dei primi a utilizzarlo. Na Tazzulella ‘e Cafè è musica ribelle, contro la mala-politica soffocante e profittatrice, dell’abusivismo edilizio, delle mazzette, degli scandali, della criminalità, della corruzione, il cui unico scopo è dividersi il potere. La tazzina di caffè simboleggia il “contentino” che da sempre le classi dirigente concedono al popolo affinché quest’ultimo si accontenti restando pacificamente, quasi sotto un effetto anestetico, nell’ignoranza e nella non belligeranza. Nel disco troviamo Rosario Jermano alle percussioni e alla batteria, Enzo Avitabile ai fiati, Rino Zurzolo al basso elettrico e contrabbasso, Enzo Canoro al basso elettrico in Ca Calore e in Fortunato. Donatella Brighel coro e voce solista in Saglie, Saglie e Suonno d’aiere, Dorina Giangrande (futura moglie di Pino) ai cori, Piero Montanari al basso in Na Tazzulella ‘è cafè, Amedeo Forte al pianoforte, Roberto Spizzichino alla batteria e Luca Vignali all’oboe in Napule è. Nel secondo disco, Pino Daniele (1979), Claudio Poggi non c’è più. Al suo posto c’è Willy David, già al fianco dei Napoli Centrale. I testi delle canzoni sono ancora tutti in lingua napoletana. L’artista continua ad essere – come lui dice – “portatore sano di napoletanità”. Pino chiama nuovi elementi come James Senese (sax), Ernesto Vitolo (tastiere), Gigi De Rienzo (basso), Agostino Marangolo (batteria), Fabrizio Milano (batteria in Ue Man!), Carlo Cappelli (piano elettrico in Basta ‘na jurnata ‘e sole), Francesco Boccuzzi (piano elettrico in Donna Cuncetta), Toni “Cico” Cicco e Karl Potter alle congas, oltre a Rino Zurzolo e Rosario Jermano. Anche qui l’artista disegna con voce e chitarra i lineamenti e la vita di altri personaggi del suo quotidiano, come Donna Cuncetta, metafora di una città stanca che si trascina il peso di un passato pesante, tinto di domini stranieri e con la paura di essere nuovamente violata. Gli arrangiamenti sono condivisi con Max Carola che possedeva una sala prove in via Martucci 35. In questo luogo Pino ha incontrato musicalmente Tullio de Piscopo per la prima volta. In Chillo è nu buono guaglione Pino affronta due dei temi più delicati e complessi, soprattutto in relazione al periodo: l’omosessualità e la transessualità. É uno tra i primi a farlo. Il disco racchiude anche omaggi agli elementi naturali della sua terra, che saranno sempre presenti nelle sue composizioni come il sole, il vento e il mare. “Je So’ Pazzo e nun ce scassate ‘è cazzo” è uno dei versi più noti di tutta la produzione dell’artista partenopeo, parolaccia ostentata, censurata, grido anarchico e disperato di una generazione irrequieta di nuovi Masaniello* neri a metà che vuole cancellare l’Ancien Règime, consapevole del fatto che ‘a nuttata, come Eduardo de Filippo ci descrive, non è ancora passata. Pino ama definirsi un suonautore perché fin da subito immerge tutto nel ritmo, nel black groove che ha ascoltato, studiato, rubato e imparato da musicisti americani della base NATO a Napoli. Dopo il sisma violentissimo che dilaniò Napoli nel 1980 Pino pubblica il disco forse più importante, Nero a metà. Il disco fu registrato presso gli Stone Castle Studio di Carimate mentre tutte le prove furono svolte a Sulmona e tutto si svolgeva più o meno secondo questo ordine: Pino arrivava con la chitarra e i nuovi brani. Viste le armonie, ognuno si occupava di arricchirle con fraseggi, riff e accordi un po’ più ricercati ed elaborati. Gigi De Rienzo si occupava dell’arrangiamento della ritmica insieme ad Agostino Marangolo e Mauro Spina e della sonorità globale insieme ad Allan Goldberg, mentre Ernesto Vitolo delle parti ritmico/melodiche del piano e tastiere e dopo innumerevoli prove si decideva cosa tenere e cosa eventualmente tagliare. Questo procedimento si ripeteva più o meno in tutti i dischi, chiaramente con volti e collaborazioni diversi nel tempo, ma è la dimostrazione più evidente che quando tanti musicisti bravi mettono in campo le loro idee e la loro creatività e insieme si adotta un approccio libero e di ampio confronto non può che nascere qualcosa di bello e autentico. Nel disco, dedicato all’ex Showmen Mario Musella, Pino canta alternando l’italiano alla lingua napoletana. È il disco della consacrazione, della maturità in cui l’artista incide nero su bianco uno dei suoi credo: A me me piace ‘o blues. Ai quei tempi chi era di Napoli, o comunque del sud, prima o poi doveva cercare di aprirsi una strada verso il Nord. Pino, a quel tempo, era considerato bravo dagli addetti ai lavori nordici ma allo stesso il solito “napoletano” melodico: fu per questo che decise di intraprendere la strada del blues, a modo suo chiaramente, come se stesse sorseggiando un buon caffè ma con un cucchiaino di funky. Nel disco c’è uno dei gioielli del suo repertorio, Quanno chiove, dove protagonista è un altro personaggio reale della sua Napoli, una prostituta dei Quartieri Spagnoli. Ma troviamo brani come I Say I’ Sto Caa’, Alleria, Nun Me Scoccià, Musica Musica (un inno per chi vive di musica), e tanti altri brani memorabili; insomma, un capolavoro senza tempo destinato all’eternità. Il 27 giugno del 1980 Pino, accompagnato da James Senese e Tony Esposito, apre allo stadio San Siro di Milano il concerto di Bob Marley, davanti a 90,000 persone. Il dopo-terremoto rappresenta uno delle pagine più tristi della storia d’Italia, forse più del sisma stesso, con il business della ricostruzione, i suoi scandali, il malaffare e i rapporti tra camorra e politica, gli sciacallaggi e l’avidità che scavalca qualsiasi morale e senso di colpa. E così il nostro Pino cattura questa stagione in un altro lavoro epocale, Vai Mo’ (1981), dove probabilmente si esibisce la band che è rimasta in modo più potente nella memoria collettiva delle persone, ovvero quella formata da Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Rino Zurzolo, James Senese, un giovanissimo Joe Amoruso alle tastiere e chiaramente Pino Daniele: nasce così il supergruppo newpolitano che diventerà leggenda. Un’intesa e un’alchimia incredibili uniscono questi musicisti che avevamo come solo obiettivo quello di entrare nel cuore delle persone e di aprirsi e aprire agli altri nuove possibilità, nuove soluzioni, nuovi orizzonti. Pino, con questo disco, comincia a imporsi seriamente sul piano nazionale proprio come sta facendo il suo amico Massimo Troisi nel cinema, rivolgendosi ora a tutto lo stivale e non solamente al popolo del Sud. In questo album troviamo assoluti capolavori del suo canzoniere. Un sound unico, nuovo e invidiabile da ogni angolo del mondo. Yes I Know My Way è uno dei cavalli di battaglia più significativi dell’artista partenopeo. Un sound così in Italia non c’era mai stato e, permettetemi di dire, mai ci sarà più. Blues, Funky, lingua italiana e lingua napoletana mescolate all’inglese, spruzzi di jazz e tradizione popolare. Tutto era possibile. Tra i brani spiccano Notte Che Se Ne Va, Che Te Ne Fotte, Viento ‘è Terra, Solo Pe’ Parla, E’ Sempre Sera (un chiaro riferimento al terremoto dell’anno prima). Il tour di Vai Mo’ è un successo incredibile, riscuotendo consensi in tutto lo stivale fino alla completa apoteosi di questa sua prima stagione artistica: il 19 settembre del 1981 Pino suona in piazza Plebiscito a Napoli davanti a più di 200.000 persone. Un concerto che divenne leggenda. Ma se da una parte la superband segna un’importante pagina della storia della musica italiana, dall’altra liti, ambizioni personali e varie schermaglie dei manager di turno ne causano lo scioglimento per poi riunirsi solo 30 anni dopo. Cosi Pino, spinto anche dalla visione internazionale di Willy David, decide di volgere il suo orecchio e il suo sguardo all’estero. Per il successivo album Bella ‘mbriana, infatti, Pino ingaggia Wayne Shorter (sax soprano) e Alphonso Johnson dei Weather Report, che si affiancano a Tullio, Joe e al suo grande amico Rosario Jermano. E così suoni e atmosfere world si mescolano alla tradizione e al folklore partenopeo generando un sound ibrido e innovativo, sempre all’avanguardia. Il disco si apre con Annarè, brano dedicato a una sorella di Pino purtroppo scomparsa prematuramente a soli 3 anni. Prosegue con Tutta ‘Nata Storia, uno dei suoi lavori più celebri che racconta il rapporto con l’America che da un punto di vista musicale gli ha dato tanto ma con la consapevolezza che le sue origini sono altre perché… lui ha “tuta ‘nata storia”. Pino vuole creare la sua America nel posto in cui è nato, in mezzo alla sua gente che adesso canta il rock, il blues e la fusion in napoletano. Nell’album troviamo brani struggenti e travolgenti come Io Vivo Come Te, Maggio Se Ne Va ma anche brani più vivaci che si apprestano anche a situazioni solistiche come in I Got The Blues, Bella ‘mbriana. Insomma, un altro grande disco.. un’altra pagina importante di un libro bellissimo che racconta una storia straordinaria. Nel 1983 Pino produce il disco Commond Ground di uno degli eroi di Woodstock, Richie Havens. Entrambi sono figli di realtà urbane diverse che però condividono la stessa visione della musica come mezzo di comunicazione, come arte, che però può diventare un linguaggio universale. Nel 1984 viene pubblicato Musicante, che rappresenterà una metamorfosi artistica e sonora nel percorso di Pino. Ad affiancare Alphons Johnson. Rino Zurzolo, Joe Amoruso e Agostino Marangolo, questa volta c’è Mel Collins al sax soprano (King Crimson, Camel, Dire Straits) e Nanà Vasconcelos alle percussioni. Dopo aver accumulato altre esperienze grazie ai viaggi e alle tournèe, l’artista ha l’esigenza di rivivere il passato della sua terra. Il disco infatti nasce vicino al mare, quello del Golfo di Napoli e quello dell’Isola di Tremiti. Questo album è forse uno dei più melanconici e nostalgici della sua discografia. Da ricordare in particolare Lazzari felici. Questo brano, come Terra mia e Napule è, nasce sotto la benedizione del genius loci (spirito del luogo), entità naturale soprannaturale, legata a un luogo e oggetto di culto nella religione romana. Nel disco c’è la Napoli della doppia stella, quella nera del contrabbando in mano alla camorra, argomento tabù a quel tempo, con l’abisso del mare che diventa metafora di quella criminalità che tanto sembra accogliente quanto spietata contro chi osa sfidarla. Nel 1984 viene pubblicato anche il suo primo live Sciò, giocando con la tipica espressione scaramantica contro la malasorte. Infatti, sulla copertina Pino, per scacciare la sfortuna e lanciare anche un messaggio agli sfruttatori, si fa ritrarre mentre fa il gesto scaramantico delle corna. Nel 1985 esce Ferryboat, un disco di transizione e di cambiamento verso la sperimentazione con suoni più latini e jazzistici. Alla batteria c’è quello che a quel tempo era probabilmente considerato il batterista più bravo al mondo, ovvero l’immenso Steve Gadd. Perciò un’altra formazione all star di musicisti con Karl Potter alle congas, Larry Nocella e Gato Barbieri e Marco Zurzolo al sax, il polistrumentista Mino Cinelu (Miles Davis, Weather Report) alle percussioni, Rino Zurzolo al basso/contrabbasso, Ernesto Vitolo alle tastiere, Juan Pablo Torres al trombone e Adalberto Lara alla tromba. A causa della separazione dal suo manager Willy David e il conseguente scioglimento di Bagaria (il suo studio a Formia) questo disco esce per la sua etichetta Sciò Records, ma sarà l’unico. I ferry-boat rappresentano i traghetti che attraversando l Golfo portano con loro turisti e, come in un passato non troppo lontano, storie di migrazione. Questo è, a mio avviso, uno dei dischi più belli del suonautore, o quanto meno uno dei dischi che è “invecchiato” meglio, con un sound incredibilmente moderno e a passo con i tempi. I dischi di Pino continuano e essere tavolozze dai tanti colori e dai tanti suoni del mondo. Le collaborazioni internazionali hanno chiaramente un ruolo cruciale nel percorso di Pino che non smette di aprire il ventaglio di possibilità di cui è alla ricerca, anzi… tutt’altro. Infatti Pino parte per un tour europeo che gli fa scoprire altri suoni del mondo: arabi, africani, francesi. Il successivo Bonne Soirèe racchiude così canti mediterranei, latini, arabi e africani, decorati e ricamati a puntino da musicisti incredibili come Jerry Marotta alla batteria, Pino Palladino al basso, Mel Collins al sax, Mino Cinelu alle percussioni, Bruno illiano alle tastiere e al piano e Larry Nocella sax solo in una delle tracce. La copertina del disco è molto significativa: Pino è ritratto con una kefiah attorno il collo a sottolineare anche un momento storico delicato con la tensione in Medio Oriente molto alta. Bonne Soirèe è un francesismo tutto partenopeo. La bonne soirèe è una buona serata passata tra amici e proprio questo intende il lazzaro felice quando sceglie il titolo del lavoro. Questo è un disco diverso, molto lontano dai suoi album precedenti, con atmosfere e suoni completamente nuovi alle orecchie degli ascoltatori. Questo suscita anche qualche perplessità tra critici, addetti ai lavori e tra una parte dei suoi stessi fan. Addirittura viene coniato da alcuni critici il termine “Arab rock”. Il tour di Bonne Soirèe arriva allo stadio collana di Napoli andando in onda in diretta su Rai 2. Pino viene raggiunto sul palco da Lucio Dalla con cui duetta in Caruso. Pino lo presenta al pubblico cosi: “in un momento in cui tutti cantano in inglese (anche io), lui ha fatto un brano in napoletano ed è un onore averlo qua”. Il cantautore bolognese quella sera riceve moralmente e simbolicamente la cittadinanza napoletana conferitagli proprio da Pino in persona. Nel 1988 Pino pubblica Schizzichea With Love che vince il riconoscimento come miglior disco in dialetto al Premio Tenco del 1989. Alle registrazioni partecipano ospiti eccellenti come Chris White (Dire Straits) al sax e al flauto, Steve Gadd, Agostino Marangolo e Danny Cummings alla batteria, Vicky Edimo al basso, Kevin McAlea al sax e anche alle tastiere insieme e a Danilo Rea. Il disco rappresenta un ritorno alle origini con testi legati alla tradizione partenopea nonostante il fatto che Pino inizi a usare i campionatori. Il titolo è un’espressione dialettale napoletana che indica il piovigginare, la pioggia sottile. Nel 1989 Pino è in tour con alcuni dei più grandi chitarristi al mondo, in quello che è chiamato Night Of The Guitars. Con Robbie Krieger (The Doors) Phil Manzanera (Roxy Music) e Pete Haycock (Climax Blues Band) ad aprile suona una straordinaria versione della sua Ue Man! a D.O.C., la famosa trasmissione musicale ideata e condotta da Renzo Arbore con Gegè Telesforo. L’11 giugno dello stesso anno, mentre è in tour, Pino ha un blocco delle coronarie. Viene operato e gli vengono impiantati ben quattro by-pass coronarici. Pino ha solo 34 anni e su consiglio dei dottori è costretto a limitare i suoi live. Per questo il successivo album Mascalzone Latino, uscito proprio nel 1989, non sarà mai proposto in concerto. Mascalzone Latino è l’ultimo album, il suo decimo di inediti, che Pino pubblico con la EMI in 13 anni di collaborazione. Le registrazioni vengono effettuate nel nuovo Studio Zero, allestito a casa sua. L’album è realizzato solo da Pino e Bruno illiano, con un intervento di Rosario Jermano e del gruppo calabrese degli Orixas. Forte della dedica ad Anna Magnani in Anna Verrà, il disco sarà uno dei suoi album preferiti, “fatto in casa”, realizzando un po’ il suo vecchio sogno di fondere suoni acustici con quelli elettronici. Tra il 1989 e il 1990 nasce la Lega Nord per l’indipendenza della Padania. Questo non passa inosservato agli occhi del mascalzone latino, tutt’altro, infatti attacca alla sua maniera il partito in ‘O Scarrafone, brano d’apertura del suo nuovo disco Un Uomo In Blues del 1991 per la CGD (Compagnia Generale del Disco). Pino difende quel Sud offeso e mortificato anche dai cori razzisti e dagli striscioni mostrati nelle curve di alcuni stadi di calcio, messi già a tacere da un altro idolo di Napoli, un certo Diego Armando Maradona. Pino, come Maradona e Massimo Troisi (e altri “re” e “regine” di Napoli come Modugno, Totò, Eduardo De Filippo, Sophia Loren) è capopopolo di un riscatto, icona di un popolo devoto che lo protegge, lo osanna ma che in un batter d’occhio può anche ripudiarlo, come è successo a Masaniello e a Maradona. Pino ha composto anche un inno per il Napoli calcio (Sta Malatia) ma per motivi legali e burocratici venne ritirata dal mercato. Pino è il prima che le canta e le suona alla Lega dando vita a una guerra giudiziaria lunga 23 anni con il partito secessionista fino ad arrivare al culmine con la querela per diffamazione quando Pino risponde a Bossi che, nel febbraio del 2001, per celebrare il patto con Alleanza nazionale, osa cantare Maruzzella in una piazza del Plebiscito gremita e piuttosto alterata. “Bossi che canta Maruzzella? Mi fa schifo, è un uomo di merda”. Sarebbero queste le parole dell’artista rivolte al Senatùr che appunto costarono una querela allo scugnizzo. O ‘scarrafone è un brano politico che ha la forza e il merito di entrare nelle discoteche italiane. Nel disco, Un Uomo In Blues, troviamo Harwie Swartz al basso e contrabbasso, Gary Cheffee alla batteria, Mick Goodrick alla chitarra solista in una delle tracce, Danilo Rea al pianoforte, Rosario Jermano alle percussioni, Dorina Giangrande e Kathy Jackman ai cori. Un album, il cui titolo è un nuovo appellativo che l’artista si auto-attribuisce, dopo il nero a metà, il lazzaro felice, il musicante e il mascalzone latino. Sono anni difficili, orribili per il sud, per la Sicilia, in particolare per Palermo. La mafia attacca, la mafia uccide e lo fa senza alcuna pietà. Siamo nel 1992 e tra maggio e luglio vengono assassinati due uomini simbolo della lotta contro la criminalità organizzata, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel 1993 il lazzaro pubblica Che Dio Ti Benedica che vede protagoniste figure eccellenti del panorama musicale mondiale, come Chick Corea e Ralph Towner degli Oregon. Dal primo Pino riprende uno standard del 1978: Sicily. Il brano che dà il titolo al disco è uno straordinario successo commerciale, e se con ‘O scarrafone già si intuiva un cambio di direzione nella composizione dell’artista, con Che Dio Ti Benedica ne abbiamo l’assoluta certezza: l’artista si presenta a una nuova generazione. Il disco vede anche Lele Melotti alla batteria, Jimmy Earl al basso, Bruno De Filippi all’armonica, Antonio Annona alle tastiere, Carol Steele e Rosario Jermano alle percussioni. Nel 1995 il musicante pubblica quello che probabilmente è il disco più venduto della sua discografia: Non Calpestare I Fiori Del Deserto. Il disco, che rimane per molte settimane in vetta alla classifica, gli fa vincere al Festivalbar il premio come “artista dell’anno”. Per la prima volta Pino coinvolge altre voci italiane: Jovanotti, Irene Grandi e Maria Pia De Vito. Alla batteria c’è il mitico Manu Katchè insieme a Lele Melotti, al basso Jimmy Earl, al pianoforte e alle tastiere Rita Marcotulli, al vibrafono 20 Mike Mainieri, al basso Alfredo Paixao e alle percussioni Carlo Giardina e Marco Salvati. Brani come Io Per Lei, Se Mi Vuoi, Bambina, sono stati dei grandi successi commerciali che tutt’oggi hanno la loro importanza. Nel tour di Non Calpestare I Fiori Del Deserto Pino realizza un altro suo sogno: suonare con una leggenda della sei corde come Pat Metheny e nello stesso anno tiene un concerto per i detenuti di Poggioreale di Napoli e in quell’occasione dirà: “sono qui per alleviare le sofferenze di chi ha sbagliato e la libertà può solo sognarla ma è pur sempre napoletano”. È il 12 marzo del 1997 e, oltre a nascere il sottoscritto, esce Dimmi Cosa Succede Sulla Terra per la nuova etichetta Cantodomar. Il disco si rivela un grandissimo successo con brano come Che Male C’è, Dubbi Non Ho. Le percussioni africane di Hossam Ramzy impreziosiscono il nuovo viaggio di Pino. Accanto troviamo il batterista Manu Katchè, il bassista Jimmy Earl, il pianista e organista Deon Johnson, Rita Marcotulli (archi sintetici), Fabio Massimo Colasanti (loop, programmazioni), l’Orchestra Accademia Musicale Italiana diretta da Gianluca Podio, la cantante israeliana Noa, Giorgia e infine Raiz, Pablo e Gennaro T. degli Almamegretta. Amici Come Prima è dedicata al suo amico Massimo Troisi e anche in questo disco suona e canta l’amore. Ora ha una nuova compagna: Fabiola Sciabbarrasi. Nel 1998 esce il primo “best of” dell’artista avvalendosi anche della collaborazione di Jim Kerr e Charlie Nurchill dei Simple Minds. In questa raccolta dal titolo The Best Of Pino Daniele – Yes I Know My Way lo scugnizzo ripropone anche alcuni dei suoi cavalli di battaglia come Napule è, Quanno Chiove, A Me Me Piace ‘O Blues, Je So’ Pazzo e Yes I Know My Way nella sua nuova versione (Senza Peccato). Nel 99’ Pino pubblica Come Un Gelato all’Equatore. Alle tastiere troviamo Gianluca Podio e il jazzista Jean Philippe Dary, alla chitarra, sitar e tastiere Massimo Colasanti, al basso Jimmy Earl e Pino Palladino, alla batteria Manu Katchè, alle percussioni Aron Ahmman e Mino Cinelu e Rossana Casale, Emanuela Cortesi e Giulia Fasolino ai cori. Il disco è trainato dal successo di Neve Al Sole ed è intriso anche di suoni elettronici e più moderni. Il millennio sta finendo e Pino si sta preparando a un cambiamento. Nuove direzioni, nuove possibilità, nuove frontiere da abbattere e nuove sonorità sono alle porte. Il nuovo millennio artistico inizia con la pubblicazione nel 2001 dell’album Medina. Medina, che nel mondo islamico indica la parte vecchia della città, qui diventa un concetto, un’idea, un luogo fisico e metafisico, un ponte astratto e forse utopistico che unisca città che, come Napoli, sono riscaldate dal sole e bagnate dal mare. “Questo è un disco che nasce nella mia Napoli per diventare internazionale”, così dice Pino. Il disco vede la collaborazione dei 99 Posse e del cantante Salif Keita. Nell’album Pino introduce anche un madrigale di Carlo Gesualdo, un personaggio molto caro al mascalzone fin dai tempi della giovinezza. Medina presenta vari temi: la cultura islamica, l’integrazione razziale, la discriminazione, la nostalgia per la propria terra, la voglia di cambiamento ma anche voglia di tolleranza e inclusività. Siamo in un periodo storico caratterizzato da tensioni in tutti il mondo in particolare dall’escalation del conflitto mediorientale che, dopo gli attentati del 11 settembre del 2001, fa nascere nel mondo l’islamofobia, creando un terreno fertile per sentimenti di odio e forme di antisemitismo. Pino mescola parole in arabo, africano, inglese, italiano e napoletano e, attraverso storie e racconti, cerca di col(legarci) gli uni e gli altri. Il lazzaro felice rinnega fortemente il concetto di “padroni a casa nostra”. Questo è un concetto ormai passato, morto. Infatti, in origine, il mondo non “apparteneva” a nessuno. La natura, madre natura, non faceva distinzione di genere o di razza. Questa pratica è un costrutto esclusivamente dell’uomo; un costrutto da demolire al più presto nonostante si abbia l’impressione che sia troppo tardi. Nella formazione del disco troviamo anche musicisti del mondo musicale arabo (Lofti Boshnaq, Bechir Selmi, Nabil Khlidi, Abdelkrim Halifu, Omar Faruk, Faudel, Khadijà El Aprite, Hamadi Ben Mabrouk) e africano come il celebre Mali Salif Keita. A questi si aggiungono il coproduttore Mike Manieri (Steps Ahead), la vocalist Mia Cooper, i bassisti Victor Bailey e Mirian Sullivan, il batterista Peter Erskine, il pianista Rachel Z e infine i fidati compagni di viaggio Rino Zurzolo, Gianluca Podio e Lele Melotti. I singoli Mareluna, Tempo di Cambiare e Sara hanno riscosso un notevole successo. Il 2001 è un anno particolarmente importante della storia contemporanea non solo per il mondo intero con l’attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono, ma anche per l’Italia. Infatti, il nostro paese ospita il G8, il congresso dei Governi delle principali potenze più industrializzate. In quella notte del 21 luglio, a Genova, accade l’impensabile: la nostra repubblica democratica si trasforma in una dittatura oppressiva come quelle del Centro e Sud America. Giorni di follia si susseguiranno che portarono anche all’uccisione di un giovane nella più totale incompetenza delle forze dell’ordine a ristabilire la situazione ormai sfuggita di mano. In questo periodo storico, viene pubblicato Live @RTSI: un live tenuto presso gli studi della televisione svizzera nel 1983 e la band formata da Tony Esposito, Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Rino Zurzolo, Elia Rosa al sax e Gennaro Petrone al mandolino e chitarra, diede spettacolo quella sera. Il disco Medina, invece, prevedeva un tour lungo la nostra penisola. Accanto allo scugnizzo troviamo Allison Miller alla batteria, Miriam Sullivan e Rino Zurzolo al contrabbasso, Rachel Z al piano, Mia Cooper e Karam Mourad alle voci. Il 2004 è la volta di Project – Passi d’Autore”, un disco ambizioso condito da madrigali, sfumature jazz, sprazzi di world music, eleganti atmosfere da night club, generi brasiliani come la bossanova, canzoni a cappella. Qui si affianca di nuovo al batterista Peter Erskine, figura iconica della musica mondiale, membro di quella che stata la “fusion band” per eccellenza, i Weather Report. Poi troviamo Alan Pasqua (pianoforte e tastiere) e Dave Carpenter (contrabbasso) a cui si aggiungono Roberto Gatto (batteria), Fabio Massimo Colasanti (programmazioni, computer e ztar), Gianluca Podio e l’Ensemble Vocale. Il disco è trainato dal singolo Pigro, presentato anche al Festivalbar. Il successivo lavoro, Iguana Caffè, è un disco essenzialmente acustico, tra blues e sonorità caraibiche. I brani, registrati da Nanà Vasconcelos, Karl Potter, Fabbio Massimo Colasanti e con gli Archi A.I.M.T., hanno un sapore latin-blues ma non mancano stili come la bossanova o il flamenco. È il 2007 e Pino richiama con sé il vecchio compagno di viaggio Tony Esposito con la volontà di riunire la superband, il dream team vesuviano. E così avvenne. L’anno successivo la band si riunisce in concerto in Piazza del Plebiscito per festeggiare insieme 30 anni di carriera. Al dream team vesuviano si aggiunge la band di Nero a metà con Agostino Marangolo, Gigi De Rienzo e Ernesto Vitolo e la backing band del momento con Alfredo Golino, Gianluca Podio, Fabio Massimo Colasanti, Juan Carlos Albelo e Matt Garrison. Una festa incredibile, proprio lì dove avvenne il “miracolo” del 1981 con 200.000 neri e metà accorsi ad ascoltare il nuovo Masanllo, con la voglia di gridare, di cantare, per esorcizzare dolore e paura. Un ritorno al passato ma con la volontà di essere quelli di oggi, voltarsi indietro ma senza troppa nostalgia, consapevoli di aver fatto comunque un pezzo di storia. Napoli è sempre “na carta sporca”, ma quella sera “nisciuno se ne ‘mporta”, al contrario molti, quella sera, avvolti dall’entusiasmo e da un senso di appartenenza, pensano che quella carta prima o poi qualcuno l’avrebbe raccolta. Eppure la nostalgia canaglia ricorda crudelmente ai quei ragazzi del 1981, 27 anni dopo, che la carta sporca è ancora lì, che la voglia di riscatto nata sotto le macerie del terremoto è sfumata e ormai persa, al contrario di un certo malaffare e malpensare che ancora sono vivi e radicati. Tony Esposito partecipò anche alle successive registrazioni del nuovo disco Il Mio Nome è Pino Daniele e Vivo Qui. Insieme a lui vi sono Peter Erskine e Dave Carpenter, Alfredo Paixao, Giancluca Podio, Mariano Barba alla batteria, Corrado Ferrari alle tammorre, Bob Sheppard al sax, Giorgia e Fabio Massimo Colasanti. Uno degli episodi più riusciti del disco è senz’altro Vento di Passione con la partecipazione di Giorgia. Ormai Pino si avvale della tecnologia da anni e c’è da dire che le sue scelte artistiche sono state criticate fortemente nel passato recente dai suoi ascoltatori più fedeli e quindi più critici. Un utilizzo funzionale e musicale di questi strumenti rappresenta, a mio avviso, una grande occasione di ricercare nuove possibilità e nuove frontiere. L’abuso, invece, rappresenta un grande rischio in quanto si può perdere un po’ il feeling e il sentimento, elementi fondamentali per fare grande musica. Nel 2009 Pino inizia una nuova avventura musicale.
Electric Jam, prima parte di un progetto dai due volti, a cui dovrà seguire Acustic Jam, è un lavoro di soli sei brani: questa è una scelta nuova per l’artista partenopeo che spiega il perché di questa scelta con queste parole: “sono un artista di concetto, sono legato all’album, ma mi rendo conto che è cambiato anche il sistema. Ho adattato così il prodotto ai tempi” Nella formazione troviamo un colosso della batteria come Vinnie Colaiuta, un colosso del basso come Nathan East, Gregg Mathieson al piano e all’organo Hammond, i nostri Alfredo Golino (batteria) e Gianluca Podio e infine Alfredo Paixao (basso). Questi brani ritornano a graffiare e a “sputare” groove, blues, arricchito di atmosfere Jazz del suo spirito mediterraneo. La seconda parte del progetto (Acustic Jam) non fu mai pubblicato poiché la casa discografica decise di non approvarne la realizzazione per motivi non chiari. 24 Da Medina in poi Pino collabora con case discografiche di rilievo, major musicali quali BMG, RCA, SONY, Ricordi. Nonostante la mancata pubblicazione di Acustic Jam, il mascalzone pubblica nel 2010 Boogie Boogie Man, dove una manciata di brani viene immersa nei suoni vintage degli anni Settanta, nel rock blues “più black della midnight”. Un ritorno agli anni Settanta ma senza troppa nostalgia. Boogie man è l’uomo nero, ‘o mammone napoletano, spauracchi usati dai genitori di tutto il mondo, come il lupo cattivo, per far dormire i bambini, ma è anche uno stile musicale (boogie-woogie) figlio dei blues per pianoforte. Alla batteria c’è Omar Hakim, al piano Rachel Z, al sex Mel Collins, al basso Matthew Garrison, alla chitarra Fabio Massimo Colasanti e alle tastiere Gianluca Podio. It’s a beautiful day è il secondo atto del nuovo lavoro di Pino e rileggere le parole quasi profetiche del ritornello che anticipano in qualche modo quello che poi succederà cinque anni dopo, mette una certa commozione e un profondo senso di malinconia. In questo lavoro il nostro nero a metà è affiancato da Steve Gadd e Omar Hakim alla batteria, da Rachel Z al piano, Willie Weeks e Solomon Dorsey al basso, Chris Stainton all’organo Hammond e al piano, Gianluca Podio al piano e alle tastiere, Mino Cinelu alle percussioni e da Mel Collins al sax. Il disco è prodotto dalla sua etichetta Blue Drag. L’artista decide di essere indipendente e questo, lo sappiamo, significa non dover scendere a compromessi e non dover fare felice nessuno, oltre sé stessi. Allora è chiaro che il Pino Daniele di oggi è autenticamente in questo disco: un autore capace, un musicista curioso e un compositore appassionato. La Grande Madre sarà l’ultimo album in studio dell’ormai ex scugnizzo del quartiere San Giuseppe, ora diventato cittadino del mondo e il 24 luglio del 2012 Pino suona e canta per l’ultima volta nella sua piazza. Un addio, o forse, un arrivederci. Il lontanissimo come il suo amico Massimo Troisi dagli stereotipi «pizza e mandolino», a soli 18 anni scrisse la sua canzone più amata dai partenopei, «Napule è», che i tifosi della squadra di calcio vorrebbero diventasse il nuovo inno da cantare prima di ogni partita al San Paolo. Ma, leggendo il testo, si capisce bene che quelle parole che ogni napoletano conosce a memoria sono un’appassionata dichiarazione d’amore, ma di un’amante che conosce bene i difetti dell’amata: «Napule è nu sole amaro, Napule è addore ‘e mare. Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a’ ciorta». A’ ciorta, ossia la sorte. Come a dire che a Napoli si vive nella rassegnazione, in una perenne attesa di una soluzione ai problemi. Il tempo non aveva addolcito questa sua opinione, anzi. Molti anni dopo, In un’intervista, il cantautore era stato ancora più duro nei confronti della sua città: “Io non sono figlio di Napoli… io mi sento un figlio del Sud, un garibaldino. Da quando ho l’età della ragione ad oggi non è cambiato niente, anzi la situazione è peggiorata. Ma non voglio pensare che non ci sia più la speranza. Una speranza che purtroppo si riaccende soltanto quando salta fuori qualcuno: una volta è spuntato Maradona, una volta Troisi, una volta Pino Daniele. Purtroppo è un popolo che ha bisogno sempre di un re o di un Masaniello”. Ci faremo aiutare da alcune citazioni ci chi a Napoli è nato, ha vissuto e di chi con Napoli ha avuto un rapporto stretto ed è riuscito ad analizzare quel filo sottile che legava Pino Daniele alla sua città. Ci faremo aiutare anche dalle fotografie che ho scattato durante il mio viaggio. Ripercorreremo anche i luoghi dove Pino Daniele ha “mosso” le prime note e i primi successi. Eppure Napoli è una città che non si può spiegare attraverso le sole parole o le sole fotografie. Napoli è una città che va vissuta, osservata e capita. Nella mia breve esperienza a Napoli ho potuto soltanto assaggiare e assaporare in modo frettoloso quella che è la vera anima della città. Nonostante questo ho potuto comunque percepire una concezione della realtà e della vita molto diversa e molto lontana da quella a cui sono abituato. È una città diversa in tutto e per tutto. E allora, attraverso le parole di chi veramente conosce Napoli e grazie a chi delle parole ne fa un mestiere, possiamo avvicinarci il più possibile a un’idea e a una concezione veritiera o comunque verosimile della realtà napoletana. C’è una strada a Napoli che porta il nome di un santo ma che tutti conoscono come la via della musica: via San Sebastiano. Di lì sono passati maestri come Scarlatti, Cimarosa, Rossini, Pergolesi, e più recentemente artisti del calibro di Renato Carosone, Pino Daniele, Edoardo Bennato. Cos’ha di particolare? Conserva nelle sue botteghe l’antica arte dei liutai napoletani. Percorrerla, alzare lo sguardo verso i palazzi storici, buttare l’occhio nelle vetrine e accorgersi che da sinistra a destra è tutto un fiorire di violini, chitarre, mandolini e pianoforti è un po’ come rivivere la storia della musica all’ombra del Vesuvio. A un passo da lì, del resto, c’è l’ex convento dei celestini, sede dagli inizi dell’800 del Conservatorio di San Pietro a Majella, che custodisce nei suoi archivi e nel suo museo testimonianze vivide degli antichi fasti. Sarebbe un errore pensare che ciò che raccontiamo oggi sia una storia di sola musica. È tuttavia fuori di dubbio che la produzione musicale napoletana, dal dopoguerra agli anni ’80, può essere utilizzata come lente di ingrandimento per leggere i profondi mutamenti (e non sono pochi) vissuti da Napoli in quel periodo. Ma in un viaggio ideale che va da “Tu vuo’ fa’ l’americano” a “O’ Scarrafone”, dai carretti alla tangenziale, dalla sceneggiata a “Ricomincio da tre”, ciò che è passato alla storia come Neapolitan Power non può essere classificato semplicemente come la musica prodotta da un pugno di musicisti talentuosi. Il potere napoletano è piuttosto la forza, la vitalità, la fantasia, il coraggio e la dignità con cui Napoli ha saputo rispondere allo scatafascio di una guerra, alla trasformazione urbanistica e ai disagi delle periferie, alla disoccupazione, all’emigrazione, alle ingiustizie sociali, al pregiudizio. Si, il pregiudizio, perché per togliersi dal viso la maschera di Pulcinella, mettere da parte il mandolino e iniziare a mangiare gli spaghetti con le posate, Napoli ha dovuto, e lo ha fatto in maniera eccellente, produrre cultura. Non che non ne avessimo già abbastanza, ma la tradizione andava riletta e aggiornata. Il Neapolitan Power è stato questo. Una bottega, una fucina di artisti e di idee che ha traghettato la città e il suo bagaglio millenario di storia dentro l’epoca contemporanea. Per parlare più nello specifico di ciò che ci interessa, cioè la musica, l’elemento principe di questo movimento è un’accoglienza sincera che diventa contaminazione. È vero, il blues, il rock, il jazz e il funk qui li hanno portati i soldati anglo/afroamericani. Napoli però non è mai stata colonia musicale. Tanto meno una presuntuosa rocca trincerata dietro la sua tradizione antica. Anzi, dall’incontro degli elementi distintivi della cultura musicale partenopea (su tutti quello melodico) con le suggestioni ritmiche e armoniche del funk e del jazz, o con la malinconia del blues, nasce un nuovo sound, un mondo particolare, che per una sorta di “ius soli” musicale è tutto napoletano. Tra i primi a battere queste strade ci sono due napoletanissimi figli della guerra. Mario e Gaetano, quest’ultimo da tutti è chiamato James, come il padre americano che non ha mai conosciuto. Il papà di Mario è un pellerossa, quello di James è nero. Gli Showmen di Musella e Senese cantano e suonano in un modo nuovo, scrivono canzoni d’amore, ma sembrano stranieri, vogliono suonare il rhythm and blues. Poi James scopre che il suo modo di parlare (un napoletano sfrenato) suona benissimo sul blues, sul jazz, sul rock. E già, perché il napoletano è pieno delle parole tronche di cui l’italiano scarseggia. Esperienze come quelle degli Showmen e dei Napoli Centrale importano a Napoli generi nuovi e li rimodellano attraverso una “napoletanizzazione” sistematica. Una straordinaria generazione nata a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 si ritrova a lavorare gomito a gomito in una ideale bottega che sforna alcuni dei musicisti più apprezzati in Italia, solo per ricordarne qualcuno, Rosario Jermano, Rino Zurzolo, Tullio de Piscopo, Enzo Avitabile, Tony Esposito, i fratelli Sorrenti, i fratelli Bennato. È in questo contesto di sperimentazione e rinnovamento che muove i suoi primi passi Pino Daniele, la cui produzione, almeno fino a tutti gli anni ’80, può essere considerata il fiore all’occhiello musicale di questo movimento, che parallelamente sta rinnovando la tradizione teatrale (si pensi solo alla Smorfia di Troisi e a tutta la sua filmografia) e artistica in generale. Napoli diventa negli anni ’80 una delle principali porte d’accesso della Pop Art in Italia grazie all’infatuazione di Andy Warhol per la città. È difficile spiegare in poche righe cosa sia successo in quel periodo. A me piace pensare (e sono convinto che sia così) che si sia trattato di un’affermazione di identità. Non prepotente, non esclusiva, al contrario totalmente inclusiva rispetto al nuovo, al diverso e alle ricchezze e possibilità che questi portano con sé. Il Neapolitan Power, dalla musica al teatro, dall’arte alla letteratura, fino ai grattacieli e agli scudetti di Maradona, racconta una città difficile, una “carta sporca”, che trova il coraggio di guardarsi dentro, fare autocritica e gettare lo sguardo oltre sé stessa. E allora dobbiamo ringraziare ai signori che hanno fatto questo, liberandoci dagli antichi luoghi comuni e regalando all’Italia, e non solo a Napoli, una lezione di integrazione e una pagina importante di cultura. La mostra, suddivisa in due aree tematiche, ha come obiettivo quello di raccontare come la sua vita sia stata non solo quella di un grande cantautore e performer che reinventò la musica napoletana, ma anche di un profondo innovatore e interprete dei cambiamenti musicali che hanno attraversato la nostra società per decenni, influenzando nuove generazioni di musicisti. E fu così che Napoli perde un pezzo di sé, la notte tra il 4 e il 5 gennaio del 2015, quando il cuore del lazzaro felice cessa di battere. Se ne va un pezzo di storia, un pezzo della storia di ognuno di noi.
La prima parte dal titolo Terra mia (Sala Plebiscito)ripercorre la storia di Pino Daniele dal 1955 al 1977, anno di pubblicazione del suo primo album, impreziosita dalle ricostruzioni scenografiche della sala prove e di un tipico live club notturno di Napoli degli anni ’70, luoghi che contestualizzano gli esordi del musicista, consentendo ai visitatori di attraversare varie epoche e di interagire con la sua magia:1. La mia città tra inferno ed il cielo,2. The space – La grotta, 3. The club – I got the blues, 4. Terra mia.
La seconda parte Le radici e le ali (Sala Belvedere) invece, narra in maniera intima e completa la sua vita e la sua carriera dal 1977 al 2014 attraverso un percorso cronologico che intreccia la sua evoluzione musicale e personale con un focus sugli incontri, sulle collaborazioni e sulle produzioni musicali: 5. Working & life, 6. Connections featuring & productions, 7. Soundtracks – Pino e il cinema. Oltre alle fotografie inedite e amatoriali della sua vita privata, gli abiti di scena, i suoi strumenti, le sue amate chitarre,non mancherà la sala immersiva dove poter ascoltare la sua musica live. Ci sarà anche uno spazio per sentire la registrazione inedita delle prove dei Batracomiomachia(audio originale del 1974),unica incisione esistente catturata durante una session del gruppo. Pino Daniele. Spiritual, sarà accompagnata da un importante catalogo pubblicato da Silvana Editoriale. Un volume che raccoglie storia, immagini e un ricco repertorio di straordinarie testimonianze, offrendo una profonda comprensione del suo spirito eclettico in cui molti giovani si ritrovano condividendo la sua voglia di libertà.
Palazzo Reale di Napoli
Pino Daniele. Spiritual
dal 20 Marzo 2025 al 6 Luglio 2025
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 20.00
Mercoledì Chiuso
Foto dell’Allestimento mostra Pino Daniele. Spiritual Palazzo Reale di Napoli dal 20 Marzo 2025 al 6 Luglio 2025 credit © Marco Carotenuto – credit © Fondazione Pino Daniele