Giovanni Cardone
Fino al 20 Luglio 2025 si potrà ammirare a Palazzo Diamanti di Ferrara le mostre una monografica su Alphonse Mucha e una mostra-dossier su Giovanni Boldini, curate da Tomoko Sato con il coordinamento scientifico di Francesca Villanti mentre quella su Boldini da Pietro Di Natale. Entrambe le esposizioni organizzate Fondazione Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara mentre la mostra monografica su Alphonse Mucha è stata prodotta anche da Arthemisia con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna. La mostra di Palazzo dei Diamanti illustra attraverso circa 150 opere tra dipinti, disegni, fotografie, manifesti, oggetti l’intera vicenda biografica e artistica di Mucha: dal decisivo incontro a Parigi con la “divina Sarah” all’affermazione del suo linguaggio attraverso i manifesti pubblicitari; dai progetti in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900 ai soggiorni negli Stati Uniti, sino alla produzione degli anni maturi trascorsi in Cecoslovacchia, dove rientrò nel 1910 con l’obiettivo di mettere la propria arte al servizio del paese, specialmente attraverso la creazione del monumentale ciclo di dipinti dell’Epopea slava, il suo indiscutibile capolavoro. Mentre nelle sale dell’ala Tisi di Palazzo dei Diamanti, oltre 40 opere di Giovanni Boldini tra dipinti ad olio, pastelli, acquerelli, disegni e incisioni selezionate fra quelle custodite nel Museo a lui intitolato raccontano il suo talento di pittore della “donna moderna” e del suo fascino. La mostra approfondisce, infatti, il tema del ritratto femminile, cui il pittore ferrarese si dedicò in maniera quasi esclusiva, e con successo, nella Parigi fin de siècle. Ricercatissimo da una facoltosa clientela internazionale, Boldini fu capace di restituire, come pochi altri, la viva concretezza, il carattere e lo status dei suoi modelli, che consegnò alla storia come icone di un’epoca. Il pubblico e la critica, in Europa come in America, apprezzarono soprattutto l’innovativa formula stilistica con la quale diede forma all’ideale femminile del tempo: elegante, spigliato, colto, emancipato, inquieto, talvolta eccentrico. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle figure di Alphonse Mucha e Giovanni Boldini apro il mio saggio dicendo : La fine dell’Ottocento sembra essere un periodo di grande prosperità e generale soddisfazione, come ricorda la stessa definizione di “Belle époche”. In realtà, vuoto e senso di ambiguità pervadono gli anni di transizione dalla vecchia borghesia ottocentesca all’affermazione, sulla scena politica e sociale, delle masse popolari. Quest’epoca si caratterizza per una crisi di valori che coinvolge tutti gli ambiti del sapere: dalle scienze esatte a quelle umane, dall’arte alla filosofia, emergono nuove teorie che superano la visione ingenua dello scientismo positivista. Viene criticata la nozione dogmatica di scienza, propria appunto del positivismo, posta al centro del dibattito scientifico; la definizione del concetto di materia viene messa in discussione, diventando meno assoluta, meno dogmatica e meno statica. Edmund Husserl, nella seconda fase del suo pensiero, parla di una crisi d’identità delle scienze, che non riguarda le scienze in quanto tali, i loro fondamenti epistemologici e le scoperte scientifiche, ma il significato che esse hanno per l’esistenza umana: è una crisi di valori etici e morali, una crisi di senso, il sapere non porta più alcuna ispirazione etica . La cultura europea, all’inizio del Novecento, è quindi pervasa da un profondo senso di crisi, in cui cadono tutte le certezze circa la possibilità di cogliere la realtà attraverso una conoscenza piena e immediata dei suoi molteplici aspetti. Lo sviluppo industriale, legato al progresso tecnologico e alle invenzioni delle macchine, già dalla fine del Settecento comporta un cambiamento radicale del modo di vivere, che tuttavia si traduce in un senso di alienazione e distacco dell’uomo dalla propria natura. Il tema dell’alienazione, già al centro del pensiero di Marx, esprime bene l’unità culturale e spirituale dell’Ottocento, caratterizzata da una tendenza rivoluzionaria di fondo. Come ricorda De Micheli, non bisogna mai dimenticare lo spirito rivoluzionario che pervade tutto l’Ottocento, perché la frattura che avviene nell’arte con le avanguardie artistiche europee non si spiega solo sul piano estetico, facendo riferimento semplicemente ai mutamenti del gusto, ma va invece analizzata prendendo in considerazione le ragioni storiche che hanno portato verso la crisi dell’unità di fondo della cultura borghese. Secondo De Micheli essa non è altro che la vocazione rivoluzionaria della borghesia intellettuale, fondata sugli ideali di libertà, uguaglianza e progresso, che viene messa in crisi dalle forze reazionarie. Il rapporto tra arte e società, arte e politica rimane sempre alla base delle nuove poetiche; attraverso l’arte si possono cogliere aspetti e sfumature della realtà che le sole conoscenze intellettuali e razionali non riuscirebbero a mettere in luce. Il periodo che va dalla fine del XX secolo alla prima guerra mondiale è caratterizzato da una rapida evoluzione del sistema industriale. Il rilancio della produzione, favorito anche da una politica di protezionismo doganale e da una progressiva indipendenza tra Stato ed economia finanziaria, fu reso possibile dalla trasformazione radicale del modello economico, che vedeva sempre più pressante l’esigenza di allargamento dei mercati. In questi anni avvengono le grandi rivoluzioni epistemologiche della contemporaneità quali la relatività, la psicanalisi, la teoria dell’atomo. Tra i tratti distintivi del pensiero filosofico dell’epoca vi furono il vitalismo, inteso come attenzione ai valori istintivi, lo spiritualismo, contrapposizione di una dimensione mentale a una materiale e accentuazione del ruolo della coscienza nella percezione del mondo esterno, e il relativismo, in cui si afferma il carattere prospettico della nostra esperienza del mondo. Le ricerche delle avanguardie storiche rappresentarono l’espressione del clima politico, culturale e sociale del tempo. La nascita delle avanguardie scaturì dalla crisi che investì tutti i valori della società civile europea agli inizi del XXI secolo: fu la sensibilità degli artisti a permettere di percepire i primi crolli nelle certezze che per anni avevano rappresentato dei capisaldi nella vita dei singoli individui. Ora grazie all’arte questa stessa crisi si trasforma in una ribellione, in un rifiuto sempre più fermo di ogni tradizione culturale antichi dogmi e antiche credenze vengono posti in discussione. Tutto il secolo fu caratterizzato da una continua sperimentazione artistica movimenti e stili si succedettero nel tempo con differenti modalità e forme espressive, rimanendo però accomunati da una forte volontà di rottura con il passato, sorta di fil rouge per l’evoluzione culturale dell’epoca. Posso affermare che l’Art Nouveau nell’importante monografia dedicatagli negli anni ‘70 dalla critica e storica dell’arte e dell’architettura Lara-Vinca Masini. Rivoluzione: la stagione Art Nouveau si svolge tra l’ultimo decennio dell’800 e il primo del ‘900, a valle della Rivoluzione Industriale europea, che ha profondamente modificato modi, tempi e finalità della produzione, anche artistica.Reazione: all’esaltazione del progresso di stampo positivista, gli esponenti dell’Art Nouveau contrappongono un atteggiamento più problematico. Contro la replicabilità potenzialmente infinita dell’oggetto industriale, appiattito nella sua moltiplicazione, riscoprono e attualizzano i know-how artigianali del passato. Cosmopolitismo: l’Art Nouveau attraversa tutto il continente europeo, per approdare anche in America del Nord. Le Esposizioni Internazionali, come quelle di Parigi del 1900 e di Torino del 1902, sono momenti fondamentali di confronto e di circolazione di modelli e sensibilità. In ogni contesto nazionale il movimento si declina con caratteristiche specifiche, e assume una diversa denominazione: Art Nouveau è utilizzato in Belgio e in Francia, dove sono comuni anche le varianti Style Guimard e Style 1900; in Germania ed in Austria s’impongono rispettivamente i termini Jugendstil e Sezessionstil; in Spagna si parla di Modernismo e in Italia di Stile Liberty o Stile Floreale. Provincia: l’Art Nouveau conosce una grande popolarità anche in luoghi lontani dai tradizionali poli della produzione artistica, province dove spesso si fa portavoce dell’esaltazione e della modernizzazione delle identità locali. Costante ed effimero: l’Art Nouveau professa l’indissolubile unità tra arte e vita, con la prima che investe tutti gli aspetti della seconda (l’art pour l’art, secondo la celebre espressione popolarizzata dal poeta Théophile Gautier) e quindi tutte le discipline artistiche. Dalle più permanenti, come l’architettura, la pittura e la scultura, alle più effimere, come l’arredo, l’allestimento, la scenografia. Non a caso, è proprio con il movimento Art Nouveau che nasce il disegno industriale modernamente inteso. Nell’ambito di questa esperienza sinestetica, Giovanna Massobrio e Paolo Portoghesi sottolineano la rinnovata importanza attribuita all’architettura: “la gerarchia delle arti non procede più dalla meno condizionata alla più legata a fattori economici e sociali secondo la tesi di Hegel, largamente condivisa tra letterati ed artisti europei ma, al contrario, dall’architettura, che è la più comprensiva e sintetica, alle altre arti, che le offrono le diverse tecniche necessarie per definire lo spazio e renderlo adatto alle diverse attività umane”. Così, per i brevi e tormentati decenni della Belle Époque, l’Art Nouveau costruisce i paesaggi della nuova borghesia, che grazie alla Rivoluzione Industriale si è arricchita ed è assurta a classe culturalmente e politicamente rilevante. Gli interni domestici come gli spazi urbani, con i loro servizi e le loro infrastrutture, si adeguano al “gusto” (concetto squisitamente borghese) dominante. Sublime e stravagante: le forme e le estetiche dell’architettura Art Nouveau oscillano tra questi due poli. La natura, di cui gli avanzamenti scientifici dell’epoca garantiscono una conoscenza sempre più approfondita, è una fonte d’ispirazione costante per un movimento che ricerca la completa unità tra struttura e decorazione. Le linee sinuose e le volumetrie organiche s’ispirano più o meno fedelmente al mondo naturale, tanto vegetale quanto animale. A partire dai primi anni ’10 del ‘900, l’affermazione delle avanguardie e poi del Movimento Moderno, oltre che le mutate condizioni politiche, economiche e sociali conseguenti al primo conflitto mondiale, comportano il definitivo superamento del movimento Art Nouveau. Interpretato semplicisticamente come uno stile decorativo, accomunato erroneamente all’eclettismo ottocentesco, quest’ultimo conosce decenni di sostanziale sfortuna critica e oblio, che si traducono anche nella demolizione e manomissione di molte architetture di valore. Già in parte riabilitato dallo storico dell’architettura Nikolaus Pevsner, che ne fornisce una nuova e più acuta interpretazione storiografica nella sua opera su I pionieri del movimento moderno (1936), è soprattutto dalla seconda metà del ‘900 che l’Art Nouveau è oggetto di una sostanziale riscoperta, che lo reintegra a pieno diritto tra i movimenti che hanno fatto la storia dell’architettura occidentale del ventesimo secolo. La cultura europea, all’inizio del Novecento, è quindi pervasa da un profondo senso di crisi, in cui cadono tutte le certezze circa la possibilità di cogliere la realtà attraverso una conoscenza piena e immediata dei suoi molteplici aspetti. Lo sviluppo industriale, legato al progresso tecnologico e alle invenzioni delle macchine, già dalla fine del Settecento comporta un cambiamento radicale del modo di vivere, che tuttavia si traduce in un senso di alienazione e distacco dell’uomo dalla propria natura. Il tema dell’alienazione, già al centro del pensiero di Marx, esprime bene l’unità culturale e spirituale dell’Ottocento, caratterizzata da una tendenza rivoluzionaria di fondo. Come ricorda De Micheli, non bisogna mai dimenticare lo spirito rivoluzionario che pervade tutto l’Ottocento, perché la frattura che avviene nell’arte con le avanguardie artistiche europee non si spiega solo sul piano estetico, facendo riferimento semplicemente ai mutamenti del gusto, ma va invece analizzata prendendo in considerazione le ragioni storiche che hanno portato verso la crisi dell’unità di fondo della cultura borghese. Secondo De Micheli essa non è altro che la vocazione rivoluzionaria della borghesia intellettuale, fondata sugli ideali di libertà, uguaglianza e progresso, che viene messa in crisi dalle forze reazionarie. Il rapporto tra arte e società, arte e politica rimane sempre alla base delle nuove poetiche; attraverso l’arte si possono cogliere aspetti e sfumature della realtà che le sole conoscenze intellettuali e razionali non riuscirebbero a mettere in luce. Il periodo che va dalla fine del XX secolo alla prima guerra mondiale è caratterizzato da una rapida evoluzione del sistema industriale. Il rilancio della produzione, favorito anche da una politica di protezionismo doganale e da una progressiva indipendenza tra Stato ed economia finanziaria, fu reso possibile dalla trasformazione radicale del modello economico, che vedeva sempre più pressante l’esigenza di allargamento dei mercati. In questi anni avvengono le grandi rivoluzioni epistemologiche della contemporaneità quali la relatività, la psicanalisi, la teoria dell’atomo. Tra i tratti distintivi del pensiero filosofico dell’epoca vi furono il vitalismo, inteso come attenzione ai valori istintivi, lo spiritualismo, contrapposizione di una dimensione mentale a una materiale e accentuazione del ruolo della coscienza nella percezione del mondo esterno, e il relativismo, in cui si afferma il carattere prospettico della nostra esperienza del mondo. Le ricerche delle avanguardie storiche rappresentarono l’espressione del clima politico, culturale e sociale del tempo. La nascita delle avanguardie scaturì dalla crisi che investì tutti i valori della società civile europea agli inizi del XXI secolo: fu la sensibilità degli artisti a permettere di percepire i primi crolli nelle certezze che per anni avevano rappresentato dei capisaldi nella vita dei singoli individui. Ora grazie all’arte questa stessa crisi si trasforma in una ribellione, in un rifiuto sempre più fermo di ogni tradizione culturale antichi dogmi e antiche credenze vengono posti in discussione. Tutto il secolo fu caratterizzato da una continua sperimentazione artistica movimenti e stili si succedettero nel tempo con differenti modalità e forme espressive, rimanendo però accomunati da una forte volontà di rottura con il passato, sorta di fil rouge per l’evoluzione culturale dell’epoca. Nel Novecento l’arte scompone, decostruisce, altera la realtà, ricercandone allo stesso tempo una raffigurazione fedele, che rappresenti la premessa per quella che dovrebbe essere l’azione politica. I prodotti culturali devono essere interpretati: nelle opere ottocentesche è ancora presente un soggetto riconoscibile, le forme sono armoniose, i soggetti gradevoli alla vista. Nel corso del Novecento invece le regole del gusto e i canoni estetici convenzionali mutano radicalmente, i linguaggi delle opere si fanno sconcertanti. Guerre, rivoluzioni, scoperte scientifiche e tecnologiche divennero fattori in grado di sovvertire tradizioni che a lungo avevano provveduto a fornire un’identità stabile all’umanità. I vari cambiamenti si rifletterono nell’arte, nell’ambito della quale iniziò l’esplorazione della realtà attraverso la dissoluzione della figura, la creazione di forme e segni che non avevano più alcun rapporto con il mondo che le circondava. L’arte divenne un fenomeno di massa iniziò a essere considerata come un valore prezioso da tutelare, si aprirono musei e raccolte, le opere uscirono dalle collezioni private e dalle chiese, per essere mostrate a un pubblico sempre più ricettivo, coinvolto e interessato. La retrospettiva racconta la biografia, il percorso artistico e i molteplici aspetti della produzione. Il ceco Alphonse Mucha, nato nel 1860 nella piccola città morava di Ivančice, diviene uno degli artisti più celebri di Parigi durante la cosiddetta Belle Époque, periodo di pace e prosperità tra gli anni ottanta dell’Ottocento e lo scoppio del primo conflitto mondale. Le sue straordinarie illustrazioni, i raffinati poster teatrali e le innovative creazioni pubblicitarie rivoluzionano il linguaggio visivo, elevando la comunicazione commerciale a vera espressione artistica. Le opere di Mucha conquistano rapidamente una fama mondiale, mentre il suo stile diviene talmente imitato da far coniare la definizione «Style Mucha». La potente bellezza dei suoi soggetti femminili, intanto, s’imprime indelebilmente nell’immaginario collettivo. Le iconiche figure che dominano le sue composizioni incarnano una visione rivoluzionaria di femminilità e sono portatrici di libertà e dignità fino ad allora negate. Agli albori della modernità, Mucha ne diventa eloquente interprete attraverso un linguaggio che intreccia armoniosamente diverse influenze: i Preraffaelliti, le xilografie giapponesi, gli elementi naturali, le decorazioni bizantine e le tradizioni slave. L’approccio del maestro boemo si rivela innovativo anche nel metodo creativo. Partendo dall’attenta osservazione della natura, l’artista integra le nuove conoscenze scientifiche in quelle che definirà «teorie su come incantare» i meccanismi della percezione visiva. Nonostante il successo internazionale, Mucha non dimentica mai le sue radici. Il profondo amore per la causa slava lo spinge a dedicarsi al ciclo monumentale dell'»Epopea slava» (1912-26), opera che considererà sempre il vero capolavoro della sua vita, affermandosi non solo come artista di fama mondiale ma anche come acceso patriota. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, quando Alphonse Mucha si spegne, la sua arte sembrava destinata all’oblio. Nonostante la celebrità raggiunta, nei decenni successivi il mondo artistico europeo si era completamente allontanato dal suo stile. Solo negli anni ’60 il suo genio riemerge prepotentemente. La svolta avviene nel 1963, quando il Victoria and Albert Museum di Londra organizza una grande mostra che riaccende l’interesse per il maestro ceco. Questa riscoperta ha un impatto immediato e travolgente: i manifesti di Mucha diventano ben presto i più venduti nei negozi di riproduzioni d’arte come Athena a Londra, decorando le pareti delle abitazioni giovanili della Swinging London. L’influenza di Mucha si diffonde rapidamente in tutta la cultura pop degli anni ’60 e ’70. Artisti come Wes Wilson, Victor Moscoso e Alan Aldridge si ispirano al suo stile per creare i manifesti psichedelici che definiscono l’estetica della Summer of Love e del rock and roll. Le sinuosità e i motivi decorativi muchaiani appaiono nelle copertine degli album, mentre il suo linguaggio visivo trova nuova vita nei fumetti giapponesi e americani, nelle serie animate e nei videogiochi. Nel 1980, una retrospettiva al Grand Palais di Parigi e, tre anni dopo, un’altra al Museo Isetan di Tokyo, cementano ulteriormente la sua influenza globale. In Giappone, in particolare, la popolarità di Mucha cresce costantemente, con mostre di ogni dimensione organizzate in tutto il paese. Oggi, l’impatto di Mucha è evidente in innumerevoli espressioni artistiche contemporanee: street art, moda, tatuaggi, manga online e numerose altre sottoculture. Nel 2013, il Museo Bellerive di Zurigo (oggi Museo del Design) ha dedicato una mostra intitolata «Mucha Manga Mystery» all’influenza dell’artista sull’arte commerciale dagli anni ’60 in poi. Da manifesti su cartelloni parigini rubati dai frugali appassionati d’arte di fine Ottocento alle moderne reinterpretazioni digitali, l’arte di Mucha continua a essere sorprendentemente attuale e rivoluzionaria, proprio come lo era nel 1895.
Il Percorso espositivo di Mucha e suddiviso in otto sezioni :
Prima sezione – Donne icone e muse
Giunto a Parigi sul finire dell’Ottocento, Alphonse Mucha si immerge nel vivace panorama artistico della capitale francese. Illustratore di libri e riviste, tesse relazioni con figure del calibro di Gauguin e Strindberg, mentre forgia silenziosamente un linguaggio artistico destinato a rivoluzionare la comunicazione visiva. La svolta decisiva nella carriera di Mucha avviene nel 1894 con l’incontro con Sarah Bernhardt. L’illustratore, fino ad allora sconosciuto nel campo pubblicitario, riceve dalla «Divina» l’incarico di creare il manifesto per «Gismonda». Questo evento segna il momento cruciale che trasforma radicalmente il suo percorso artistico e professionale. L’attrice rimane affascinata dall’originalità delle sue composizioni a grandezza naturale, caratterizzate dal formato alto, dai contorni fluidi e dai colori pastello. Ciò che conquista definitivamente la Bernhardt è la capacità di Mucha di ritrarre l’anima dei personaggi: i suoi manifesti riescono a trasmettere esattamente l’immagine che l’attrice aspirava a portare sul palcoscenico. Svelata a Capodanno del 1895, questa prima locandina conquista immediatamente Parigi. Il clamoroso successo spinge la Bernhardt a offrirgli un contratto di sei anni come disegnatore e direttore artistico. Durante questa collaborazione, Mucha non si limita ai manifesti, ma crea anche costumi, gioielli e scenografie, realizzando altre sei affiche che consacreranno Sarah Bernhardt come icona imperitura. In mostra possiamo ammirare il manifesto di Gismonda e tutti quelli ideati per gli altri spettacoli di Sarah Bernhardt, da quello per La Dame aux Camélias, La Samaritaine, Medea fino a quello della pièce teatrale La Princesse Lointaine, scritto appositamente per la Bernhardt da Edmond Rostand.
Seconda sezione – Mucha e la pubblicità
Nell’arco di vent’anni Mucha realizza circa centoventi manifesti, oggi icone dell’Art Nouveau. Arte e pubblicità hanno, secondo Mucha, l’obiettivo comune di trasmettere un messaggio al pubblico. L’attività pubblicitaria diventa terreno ideale per sperimentare nuove modalità di comunicazione. Bevande, profumi, biciclette, sigarette: l’oggetto reclamizzato passa in secondo piano, mentre protagonista è sempre una figura femminile idealizzata. Queste donne ieratiche, incorniciate da contorni grafici dinamici, evocano atmosfere seducenti e invitano lo spettatore nel loro mondo con sguardo fascinatore. I colori, scelti tra toni pastello con sfumature delicate, e la sovrapposizione di strati decorativi contribuiscono alla complessità visiva delle opere, trasformando i manifesti in autentiche opere d’arte. La fama come autore di poster procura a Mucha numerose commissioni per insegne, confezioni e oggettistica decorativa. Nel 1896, mentre lavorava a un manifesto per il lancio del profumo Rodo gli fu anche richiesto di creare l’etichetta e la scatola della fragranza. Nel 1899 Mucha riceve l’incarico dal prestigioso champagne Moët & Chandon di creare le grafiche di tutta la pubblicità di due tipologie di prodotti, note come Imperial e White Star. Il primo è commercializzato con il nome di Crémant Impérial, nonché come Dry Imperial e Grand Crémant Impérial. In mostra quattro menù Moët & Chandon, espressione dell’Art Nouveau applicata alla gastronomia e al lusso. Questi menù incarnano l’eleganza e il gusto sofisticato del famoso marchio, dimostrando come lo stile Art Nouveau abbia influenzato anche la comunicazione negli ambiti della ristorazione e del design commerciale. Caratterizzati da un’estetica ricercata, con linee fluide e dettagli decorativi, i menù trasmettono un senso di lusso e raffinatezza, enfatizzato dalla tipografia elegante e dalle illustrazioni artistiche. L’arte prodotta in serie attraeva Mucha, perché poteva raggiungere e ispirare più persone. Nei manifesti per profumi, birra, biscotti, biciclette e sigarette, ha reso meno netta la barriera tra belle arti e arte commerciale, tra commercio e filosofia.
Terza sezione – Spiritualismo
Nel corso degli anni Novanta dell’Ottocento, Mucha sviluppa un profondo interesse per il misticismo, l’occultismo e la teosofia, influenzato anche da Strindberg. In questo periodo inizia a indagare quelle che lui stesso chiama le «forze misteriose» che regolano l’esistenza. La sua ricerca spirituale lo porta alla massoneria, confraternita che propugna l’edificazione dell’umanità attraverso opere caritatevoli, solidarietà e ricerca dei massimi valori intellettuali, morali e spirituali. Condividendone gli ideali, il 25 gennaio 1898 viene accolto nella loggia parigina del Grande Oriente di Francia, il più antico ordine massonico dell’Europa continentale. Questa dimensione spirituale trova la sua massima espressione ne Le Pater, volume illustrato pubblicato a Parigi il 20 dicembre 1899 in 510 copie numerate. L’opera rappresenta la personale interpretazione di Mucha della preghiera del «Padre Nostro», concepita come messaggio alle generazioni future sui progressi del genere umano. Mucha considererà sempre Le Pater una delle sue opere migliori, la più autentica espressione della sua visione spiritualista e del suo percorso filosofico.
Quarta sezione – L’Esposizione Universale di Parigi
Per il suo ruolo di spicco nel mondo dell’arte internazionale, Mucha viene coinvolto in una serie di progetti per l’Esposizione universale di Parigi del 1900, evento che segna simbolicamente il passaggio al nuovo secolo e celebra le conquiste tecnologiche e culturali degli ultimi cento anni. Il contributo del ceco si sviluppa su due fronti: come artista ufficiale dell’Impero austro-ungarico gli viene affidato l’allestimento del padiglione della Bosnia-Erzegovina, per il quale crea decorazioni ispirate al folklore e all’artigianato locale, valorizzando l’identità culturale di queste terre. Parallelamente, come esponente «parigino» dell’Art Nouveau, collabora con prestigiose aziende francesi quali Houbigant, tra le più antiche profumerie del paese, e il celebre gioielliere Georges Fouquet, realizzando gioielli e oggetti decorativi emblematici del nuovo stile. Presentata con il tema «Il Diciannovesimo secolo: una panoramica», l’Esposizione del 1900 riscuote un successo straordinario. Vi partecipano cinquantotto nazioni e viene visitata da cinquanta milioni di persone, una cifra impressionante per l’epoca. Per il suo lavoro, Mucha riceve la medaglia d’argento per il padiglione della Bosnia-Erzegovina, insieme all’Ordine di Francesco Giuseppe per il contributo dato all’Impero austro-ungarico in quella che fu considerata la maggiore esposizione del secolo e una vetrina fondamentale per l’affermazione dell’Art Nouveau.
Quinta sezione – Fama oltreoceano
Tra il 1904 e il 1909 Mucha si reca negli Stati Uniti ben cinque volte, portando oltreoceano il suo linguaggio artistico innovativo. Le sue opere, caratterizzate da un’inedita concezione decorativa di ispirazione naturalistica, dall’uso espressivo della linea in movimento, dalle composizioni libere e dalla fascinazione per la figura femminile, incarnano perfettamente i principi del fermento culturale a cavallo tra i due secoli. Lo «Stile Mucha», che ridefinisce il concetto di bellezza e contribuisce a plasmare il modello stilistico dell’Art Nouveau nelle maggiori capitali europee, conquista rapidamente il pubblico americano. Il New York Daily News celebra l’artista ceco come «The World’s Greatest Decorative Artist», mentre collezionisti e mecenati lo ricoprono di onori e commissioni importanti. Ma l’America rappresenta per Mucha molto più di un successo professionale. Questi viaggi gli permettono infatti di realizzare il sogno di una vita: trovare i finanziamenti necessari per quella che considera la sua missione suprema, un’epopea monumentale dedicata alla storia e all’unità dei popoli slavi, destinata a diventare la sua più grande eredità artistica e spirituale alla patria.
Sesta sezione – Ritorno in Patria
Quando nel 1910 Mucha ritorna in patria dopo venticinque anni di assenza, può finalmente realizzare il sogno di una vita: servire la sua terra con la propria arte. Il suo stile, pur mantenendo l’eleganza sviluppata a Parigi, ritorna alle origini, chiudendo un cerchio artistico e personale. Questo ritorno alle radici rappresenta il culmine di un percorso in cui l’identità slava è sempre stata presente. Anche nelle creazioni più moderne e innovative come i manifesti pubblicitari parigini, l’essenza slava traspare costantemente. Tutte le sue opere sono permeate di elementi tradizionali: abiti di foggia slava, motivi floreali ispirati all’arte della Moravia, forme circolari che evocano aureole, curve e temi geometrici tipici delle chiese barocche ceche. Mucha infonde nuova vita ai simboli antichi integrandoli in un contesto contemporaneo, trasformandoli in un linguaggio visivo innovativo ma profondamente radicato nella tradizione. Per l’artista, i motivi ornamentali rappresentano veri alfabeti di lingue visive destinati a evolversi, portatori di un messaggio che unisce passato, presente e futuro. Questa concezione trascende la pura estetica per abbracciare una dimensione spirituale, dove la tradizione diventa strumento di continuità culturale. In patria, prima di dedicarsi all’Epopea slava, Mucha realizza anche i primi francobolli della Repubblica Cecoslovacca e si occupa della decorazione per la Casa Municipale di Praga (Obecní dům), ritornando pienamente all’iconografia tradizionale slava che, in realtà, non aveva mai abbandonato.
Settima sezione – L’Epopea slava
Durante uno dei suoi viaggi americani, Mucha incontra Charles Richard Crane, ricco imprenditore e appassionato slavofilo che, colpito dalla sua visione di un’Europa rinnovata, decide di sostenerlo finanziariamente. Questo incontro decisivo permette all’artista di dedicarsi finalmente al progetto che considerava la missione della sua vita: mettere l’arte al servizio della propria patria e dell’intero popolo slavo. Nasce così l’Epopea Slava, un monumentale ciclo pittorico composto da venti imponenti tele (la più grande misura oltre sei metri per otto) che narrano i momenti fondamentali della storia slava dal III al XX secolo. L’opera non è solo un tributo artistico, ma un vero e proprio messaggio messianico che invita gli slavi a trarre insegnamento dalla propria storia per conquistare libertà e progresso. Il racconto visivo si sviluppa dalle origini pagane, attraverso la conversione al cristianesimo, fino alla frammentazione in diverse nazioni con lingue e identità autonome. Questa straordinaria testimonianza di arte e storia viene presentata per la prima volta a Praga nel 1928, in occasione del decimo anniversario dell’indipendenza cecoslovacca dal dominio austro-ungarico. Durante l’occupazione nazista, le tele vengono nascoste per sottrarle alle requisizioni. Oggi questa imponente eredità spirituale e artistica è esposta al castello di Moravsky Krumlov, nella Moravia meridionale, regione natale dell’artista.
Ottava sezione – Lo Stile Mucha
L’avvento del modernismo porta dei cambiamenti rivoluzionari nel concetto di arte, anche la tradizionale nozione di bellezza viene messa in discussione e ampliata per accogliere idee nuove. In quel periodo di grandi cambiamenti, Mucha cerca invece nell’arte un valore immutabile e universale. L’artista ceco rifiuta l’idea che l’arte possa mutare. Scrive “L’arte non può essere nuova. L’idea di arte ‘moderna’ come moda passeggera è offensiva. L’arte è eterna come il progresso dell’uomo e la sua funzione è quella di accendere di luce il cammino del mondo. L’arte si trova in costante sviluppo ed è sempre qualche passo avanti all’umanità”. È ferma convinzione dell’artista ceco che una bella opera costituisca il “simbolo del bene” e contribuisca a sollevare l’animo del pubblico, finendo col generare una società migliore. Tutto è pensato per riuscire ad arrivare alla comprensione della “bellezza”, unico modo per elevare la qualità della vita. Le forme aggraziate del corpo femminile e le sinuose linee della natura servono a guidare lo sguardo dell’osservatore verso il punto focale della composizione. Mucha predilige temi semplici e universali come le stagioni, i fiori e le ore del giorno, dei temi facilmente comprensibili anche per un pubblico non esperto, che possano così essere di ispirazione alla ricerca del bello. Le opere di Mucha, dai disegni alle stampe decorative saranno poi riproposti in una moltitudine di forme, come calendari, cartoline e persino oggettistica, e riprodotti in molte riviste d’arte sia in Francia che all’estero, diffondendo così lo stile Mucha ovunque. Il suo stile, divenuto di gran moda, influenzerà tutta l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1900. Come Mucha, Giovanni Boldini si affermò nella Parigi della Belle Époque ottenendo un successo di portata internazionale. Il pittore ceco vi giunse nell’autunno del 1887, quando il ferrarese più anziano di diciott’anni e lì residente dalla fine del 1871 stava maturando l’intenzione, dopo aver affrontato «tutti i generi», di dedicarsi prevalentemente al ritratto. E’ stato uno dei principali pittori italiani di fine Ottocento, tra i più vicini a l’impressionismo tra coloro che operarono in Italia. Boldini era noto per la sua vivace vita mondana, che trovò il suo apice a Parigi: le sue frequentazioni borghesi gli garantirono grande fama come talentuoso ritrattista di personalità culturali e soprattutto di figure femminili, che riportava sulla tela con eleganza, dinamismo e caratterizzazione psicologica, rifuggendo quindi dalla ritrattistica più classica. Conosciamo diversi aneddoti legati alla sua vita grazie alla moglie Emilia Cadorna, una giornalista che il pittore sposò ormai ottantenne, e che nello stesso anno della sua morte pubblicò un libro biografico su di lui. Egli era ottavo di tredici fratelli, Giovanni Boldini ed ebbe un’educazione molto cattolica in quanto la madre, Benvenuta Caleffi, era piuttosto devota. Il padre Antonio, invece, era un pittore. Ancora prima di imparare a leggere e scrivere ed iniziare a frequentare le scuole elementari, Boldini dimostrò un talento naturale per il disegno. Abbandonò presto gli studi dimostrandosi piuttosto insofferente alle regole scolastiche e ai metodi didattici, e il padre, intuendo le capacità del figlio, gli insegnò direttamente le tecniche basilari della pittura. Il padre era un pittore purista che possedeva ottime basi tecniche imparate durante gli anni trascorsi all’Accademia di San Luca a Roma e attraverso lo studio dei maestri del Quattrocento, diventando comunque un nome ben conosciuto a Ferrara. Giovanni Boldini, intanto, a soli quattordici anni dipinse un Autoritrattoche dimostrava non solo quanto il giovane pittore avesse ben assimilato le tecniche pittoriche di base, ma soprattutto la capacità di padroneggiarle con disinvoltura. Poco dopo, divenne allievo di Girolamo Domenichini e Giovanni Pagliarini. La sua adolescenza fu piuttosto fortunata, in quanto venne esonerato dal servizio militare che era appena stato istituito a seguito della nascita del regno d’Italia, e inoltre ottenne un’eredità cospicua da parte di uno zio. Con questa somma, Boldini decise di lasciare Ferrara, poiché aveva notato come tra gli artisti locali vi fosse una certa tendenza ad accontentarsi di eguagliare quanto già proposto da altri artisti ed era molto arduo poter percorrere vie inedite. Scelse dunque di trasferirsi a Firenze.Una volta giunto nel capoluogo toscano, Boldini si iscrisse all’Accademia delle belle arti, dove trovò come insegnanti Stefano Ussied Enrico Pollastrini. Tuttavia, come già accaduto durante le scuole elementari, ben presto Boldini risultò insofferente ai metodi dell’Accademia e si ritirò, preferendo piuttosto buttarsi a capofitto nel vivace ambiente che gravitava intorno al Caffè Michielangiolo. Qui, infatti, si ritrovavano numerosi artisti e patrioti per discutere, spesso animatamente, di questioni artistiche e politiche. Tra questi, vi erano i “Macchiaioli”, un gruppo di artisti anch’essi in aperta opposizione alla rigidità dell’Accademia. Il gruppo di artisti venne così chiamato per l’utilizzo di larghe pennellate di colori puri, con le quali dipingevano paesaggi che riproducessero il più possibile la reale percezione visiva dell’occhio umano. Boldini, una volta entrato in contatto con i Macchiaioli, tra cui Giovanni Fattori, Telemaco Signorini e Silvestro Lega, si interessò alle nuove tecniche da loro esplorate, tuttavia a differenza loro preferì concentrarsi sulla ritrattistica, un genere che gli era da sempre congeniale. Iniziò così a produrre ritratti di numerosi amici e colleghi pittori, creandosi una fitta rete di contatti che lo aiutò molto nella sua attività. Infatti, presto entrò in contatto con numerose personalità aristocratiche che gravitavano a Firenze, in particolar modo nobili stranieri, che oltre a commissionargli diverse opere ben retribuite gli aprivano le porte delle loro collezioni private. La frequentazione più importante fu certamente quella con la famiglia Falconer, nobili inglesi che vivevano in una villa nei pressi di Pistoia. Boldini divenne l’amante di Isabella Falconer, che proprio in virtù di questa frequentazione gli commissionò numerosi lavori, e parallelamente coltivò una stretta amicizia con il marito. Questi lo volle con sé in un viaggio a Parigi nel 1867 per visitare l’Esposizione Universale, dove Boldini rimase colpito dalle opere di Edgar Degas. Il viaggio a Parigi instillò una nuova urgenza in Boldini: infatti, nonostante considerasse Firenze l’apice della cultura artistica, andando all’estero si rese conto che vi erano altre culture da esplorare, e l’Italia iniziò ad andargli sempre più stretta. Allora, iniziò a viaggiare instancabilmente per l’Europa, dapprima in Francia con Isabella Falconer e poi in seguito in Inghilterra, dopo aver accettato l’invito del nobile Cornwallis-West. Grazie alla sua protezione, Boldini entrò nelle frequentazioni della nobiltà inglese e anche qui venne molto richiesto per le sue abilità di ritrattista. Tuttavia, dopo poco tempo Boldini iniziò a preferire Parigi a Londra. La Francia, in quel periodo, si trovava agli albori della Terza Repubblica e Parigi in particolare assumeva i contorni di una città moderna, dinamica e ricca di spunti, tra caffè letterari, musei, circoli. Così, Boldini vi si trasferì definitivamente nel 1871. Da amante della vita mondana, Boldini volle stabilirsi nel quartiere di Montmartre ed iniziò a frequentare il Café de la Nouvelle Athènes, che si trovava proprio di fronte alla sua dimora. Qui erano soliti riunirsi gli artisti che poco dopo avrebbero dato vita al movimento impressionista. Frequentando il Café, Boldini incontrò e fece amicizia con Degas, colui che lo aveva colpito all’Esposizione Universale. In questo stesso periodo, tra il 1871 e il 1878, Boldini entrò nella cerchia del mercante d’arte Adolphe Goupil, che aveva riunito sotto la sua protezione diversi artisti innovativi tra i quali Giuseppe Palizzi e Giuseppe De Nittis. Grazie a questa collaborazione, Boldini non solo ottenne una certa stabilità economica, ma venne accolto nelle più importanti esposizioni e divenne l’artista di punta dei salotti parigini. Boldini, nonostante il forte legame con la capitale francese, non smise mai di viaggiare. Si recò nel 1876 nei Paesi Bassi, dove entrò in contatto con la pittura di Frans Hals, nel 1889 viaggiò in Spagna e in Egitto insieme all’amico Degas e infine nel 1897 espose alcune opere a New York. Con l’arrivo del XX secolo, Boldini tornò spesso in Italia per partecipare diverse volte alla Biennale di Venezia e ricevere l’onorificenza di grande ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Morì a Parigi l’11 gennaio del 1931, e le sue spoglie si trovano, dietro sua esplicita richiesta, nel cimitero monumentale della Certosa di Ferrara. Formatosi tramite lo studio delle opere risalenti al Quattrocento che il padre gli presentava a lezione, Giovanni Boldini sviluppò ulteriormente la sua arte grazie al contatto con i Macchiaioli, senza tuttavia aderire in pieno al loro gruppo. Rispetto a quelli dei macchiaioli, infatti, i dipinti di Boldini virano verso soluzioni di linee e colori molto più ardite e dinamiche. Inoltre, Boldini preferiva nettamente i ritratti ai dipinti di paesaggio. Si veda come riferimento il Ritratto di Giuseppe Abbati (1865), pittore che Boldini frequentava a Firenze. Egli non viene ritratto in una posa canonica, piuttosto Boldini dà l’idea di aver catturato il momento in cui l’amico è passato a trovarlo nel suo studio mentre si trovava nei paraggi, a passeggio con il suo cane (anch’esso nel dipinto). Anche lo spazio intorno ad Abbati risulta dinamico, addirittura è possibile notare come alcuni dipinti appesi al muro sul lato destro risultino sfocati. La tendenza di Boldini a preferire la ritrattistica fu inoltre alla base del suo distacco dagli Impressionisti, che frequentava a Parigi. Certamente alcuni influssi di Edgar Degas e dei compagni sembrano effettivamente aver toccato in qualche modo l’immaginario del pittore, che in questo periodo dipinge non solo ritratti ma anche scene di genere, si vedano ad esempio Le chiacchiere del 1873, oppure Lo strillone parigino (il giornalaio) del 1878. Singolari sono inoltre alcuni dipinti che si riferiscono al periodo in cui Boldini lavorava presso Goupil: il mercante d’arte chiedeva, infatti, ai suoi artisti di accontentare il gusto dei clienti, che amavano circondarsi di opere che riecheggiassero la pittura francese del Settecento. Le opere di questo periodo denotano dei cambiamenti di stile nella produzione di Boldini, soprattutto nella tavolozza di colori che si fa più chiara ed eterea. Ne è esempio Dame del primo impero (1875). Ma non appena finì la collaborazione con Goupil, Boldini esplorò tinte più scure, virate sui toni del rosso, del marrone, del nero. Importantissime in questa esplorazione furono i colori per l’appunto molto intensi e scuri delle opere di Frans Hals e Diego Velázquez. Boldini eseguì il ritratto di molte personalità importanti dell’epoca, tra cui lo scrittore Robert de Montesquiou (1897), la duchessa Consuelo Vanderbilt (1906) ma soprattutto Giuseppe Verdi (1886). Il ritratto del celebre compositore non fu di semplice realizzazione, infatti quella che conosciamo è la seconda versione dell’opera. La prima versione non convinse né Boldini né Verdi, per diversi motivi tra i quali la difficoltà di Boldini nel ritrarre un Verdi irrequieto che si intratteneva di continuo in conversazione con il suo assistente, così il pittore davanti alla situazione chiese a Verdi di concedergli una seconda possibilità. Ne venne fuori la versione che è passata alla storia e che è diventata di fatto l’immagine ufficiale di Verdi, il quale ne rimase molto impressionato. La potenza del ritratto di Verdi è data sicuramente dall’espressività del viso e dalla scelta oculata dei dettagli, dal cilindro che rappresenta lo status economico di alto livello del compositore alla sciarpa che ne simboleggia invece l’estro artistico. Nonostante il soggetto sia ripreso a mezzo busto ed incasellato in uno sfondo piatto, di colore grigio e senza alcun elemento, la raffigurazione non è per nulla statica ma. come nella tradizione dei ritratti di Boldini, vi è un certo dinamismo. Lo troviamo sia nella posizione in cui è ritratto Verdi, leggermente di lato, oppure nel tratto a pastello, che Boldini utilizza sapientemente in modo da sfumare alcuni dettagli e dare risalto ad altri, ma è evidente in particolar modo nel volto del protagonista. Colto in una particolarissima espressione come se stesse per parlare, gli occhi di Verdi risultano vivissimi e catturano lo sguardo di chi osserva il dipinto. Tornando alla produzione artistica di Boldini, è evidente come le protagoniste assolute dei suoi ritratti fossero le donne borghesi, rappresentate al massimo della loro femminilità e piene di personalità. Pennellate lunghe, verticali o sinuose delineano figure decisamente eteree, che indossano vestiti che sembrano muoversi e volteggiare leggeri nello spazio. L’ambientazione di questi ritratti è quasi sempre la stessa, ovvero una stanza al chiuso con un divano o un letto sui quali le protagoniste sono sedute o si appoggiano. I volti, a cui è affidato il centro focale della tela, vengono valorizzati da tratti decisi e ben delineati, e rivelano una vasta gamma di emozioni, dalla fragilità alla maliziosità, dalla risolutezza all’arguzia, conferendo quindi alla donna un ruolo “parlante”, con una voce unica ed autonoma. Boldini, nella rappresentazione femminile, si sofferma su alcuni dettagli ricorrenti, come il collo, la schiena, il profilo elegante, le spalle scoperte e scollature ardite, oppure sull’eleganza dell’abito quando è chiuso al collo o completato da un vistoso cappello. Tra i più raffinati ritratti femminili di Boldini ricordiamo Ritratto della principessa Marthe-Lucile Bibesco (1911), Marchesa Luisa Casati con piume di pavone (1913) e La donna in rosa (1916). Morì a Parigi 1931. La mostra Giovanni Boldini e il mito della Belle Époque pone l’accento sulla capacità dell’artista di psicoanalizzare i suoi soggetti, le sue “divine”, facendole posare per ore, per giorni, sedute di fronte al suo cavalletto, parlando con loro senza stancarsi di porle le domande più sconvenienti, fino a comprenderle profondamente e così coglierne lo spirito, scrutandone l’anima. Farsi ritrarre da Boldini significava svestire i panni dell’aristocratica superbia di cui era munificamente dotata ogni gran dama degna del proprio blasone. Occorreva stare al gioco e accettarne le provocazioni, rispondendo a tono alle premeditate insolenze ma, infine, concedersi, anche solo mentalmente, facendo cadere il muro ideologico dell’alterigia, oltre il quale si celavano profonde fragilità. Dopo giorni di pose immobili, conversando e confessandosi, durante i quali il “fauno” poteva anche permettersi il lusso di perdere intenzionalmente tempo tracciando svogliatamente qualche segno sulle pagine di un taccuino per osservarle e comprenderle o abbozzare uno studio su una tavoletta, quando la confidenza era divenuta tale da addolcire gli sguardi e talvolta esplodere perfino nel pianto liberatorio e più spesso in atteggiamenti nevrotici o eccitati fino alla follia, ecco che solo allora scattava la scintilla predatoria dell’artista. Egli coglieva al volo l’attimo fuggente, quel momento unico in cui un’occhiata più sincera rivelava lo stato d’animo e la mimica del corpo si faceva più espressiva, l’istante in divenire fra un’azione e l’altra, quando la forza motoria di un gesto si esauriva, rigenerandosi prontamente in quello successivo. Negli anni della maturità e poi della senilità, le lunghe e vorticose pennellate, impresse come energiche sciabolate di colore, rimodellavano in senso dinamico i corpi delle sue “divine” creature e il suo stile, a un tempo classico e moderno, costituiva la miglior risposta alle vocazioni estetiste e progressiste manifestate dagli alti ceti. Nella prima sala della mostra “incontriamo” Boldini, trentasettenne, ritratto in bronzo da Vincenzo Gemito ed “entriamo” nei suoi atelier parigini: da quello in place Pigalle, dov’è ambientata la serata musicale tramandata da La cantante mondana, al secondo, nel quale si trasferì nel luglio del 1886, in boulevard Berthier, descritto in una coppia d’indiavolate istantanee. Qui si svolse la visita di Emiliana Concha de Ossa, che di spalle si “specchia” nel suo celebre ritratto a pastello, tecnica di cui Boldini fu assoluto padrone. Lo dimostra un saggio eccellente come l’effige di Madame X, la cognata dell’amico pittore Paul César Helleu, vestita con un abito scuro dalla vertiginosa scollatura simile a quello indossato dalla contessa Gabrielle de Rasty, musa, amante e mecenate del pittore. Già in quest’opera del 1879 si coglie nella resa del fondo e del braccio della modella il segno rapido e fluido che avrebbe distinto le creazioni della piena maturità. Tra queste spiccano gli straordinari ritratti a figura intera dell’aristocratica parigina Suzanne Berthier de Leusse (c. 1889) e della misteriosa protagonista di Fuoco d’artificio (1892-95). Nella sala successiva si fronteggiano i grandi ritratti della principessa Eulalia di Spagna, che Boldini scelse di vestire con un abito bianco firmato da Madame Nicaud, e di Olivia Concha de Fontecilla (noto come La signora in rosa), che pare alzarsi dal divano per avvicinarsi all’osservatore, già rapito dal suo sorriso. La peculiare scrittura rapidissima e insieme controllata, che rende inconfondibile e unico il suo stile, si manifesta con evidenza ancora maggiore nei lavori concepiti come studi: il Nudino scattante, immagine d’evanescente e raffinato erotismo, la tela con l’intreccio di due mani femminili, soluzione adottata anche nel ritratto di Eulalia, e quella, forse eseguita in previsione della decorazione di un soffitto, intitolata Ninfe al chiaro di luna, che raffigura uno sciame di nudi in movimento che lasciano una scia nell’aria. Saggio di carattere privato sembra essere Il pianto, opera ricca di fresca materia, che si riduce all’essenziale, quasi vent’anni dopo, nel rarefatto, e altrettanto sensuale, ritratto della Contessa Saffo Zuccoli, considerato l’ultimo dipinto di Boldini. Completano la sala alcuni disegni, sia studi preparatori, sia opere autonome, come il foglio in cui descrive un angolo dell’atelier con i ritratti di Eulalia e di Madame Veil-Picard e il calco del busto del cardinale Leopoldo de’ Medici degli Uffizi, opera, allora creduta di Bernini, amatissima dal maestro ferrarese. Nell’ultima sala è esposto il celebre Autoritratto a sessantanove anni, eseguito nel 1911. Boldini si ritrae sicuro di sé e dei suoi mezzi, pienamente consapevole del proprio successo, come rivela lo sguardo fiero rivolto all’osservatore. È nel suo atelier di boulevard Berthier, seduto su una delle sedie usate per far posare le sue modelle, che sembrano ancora fargli compagnia in questa sala. Tra queste Eugénie Legrip detta Ninie, “divina” con la quale aveva soggiornato nella città termale di Pougues-les-Eaux nell’estate del 1909, ritratta assieme alla madre; la contessa Francesca d’Orsay, carissima amica degli anni maturi; la newyorkese di origini cubane Rita de Acosta, moglie del capitano Philip Lydig; Madame Veil-Picard, effigiata a mezzo busto, con la testa sorretta dal braccio e la mano che aggiusta i capelli, in una puntasecca tratta dal ritratto a figura intera. Questa straordinaria stampa, tirata da una delle circa cinquanta lastre realizzate da Boldini, documenta – assieme ad altre altrettanto notevoli – la sua abilità nell’arte incisoria, un aspetto della sua produzione assai significativo ma meno conosciuto, perché di carattere essenzialmente privato, e svolto in parallelo all’esercizio del disegno, che praticò durante la sua lunga carriera in maniera incessante, con modalità, scopi ed esiti assai differenti, ben rappresentati dai fogli esposti in questa sala e nelle precedenti. La mostra di Alphonse Mucha sarà accompagnata dal Catalogo edito da Moebius, mentre la Giovanni Boldini il catologo edito da Fondazione Ferrara Arte editore.
Palazzo Diamanti di Ferrara
Alphonse Mucha e Giovanni Boldini
dal 22 Marzo 2025 al 20 Luglio 2025
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.30 alle ore 19.30
Foto dell’Allestimento mostra Alphonse Mucha e Giovanni Boldini dal 22 Marzo 2025 al 20 Luglio 2025 courtesy Palazzo Diamanti Ferrara