Giovanni Cardone
Fino al 15 Giugno 2025 si potrà ammirare alla Fondazione Biscozzi – Rimbaud ETS di Lecce la mostra dedicata a Sandro Chia – ‘Sandro Chia. I due pittori’ a cura di Lorenzo Madaro. La mostra, che propone una ricognizione sistematica della sua produzione su carta con ben cento opere esposte, vuole essere un vero e proprio viaggio nell’archivio intimo di immagini di Chia che l’hanno reso un maestro riconosciuto della pittura, esemplificando il suo immaginario denso di riferimenti alla storia dell’arte, ma anche di visioni ironiche e beffarde, oscillazioni tra corpi, simboli e allegorie dell’arte e della vita. Il titolo della mostra – che richiama il titolo di importanti opere storiche dell’artista, una delle quali, Due pittori al lavoro – è un chiaro riferimento alla natura metamorfica dell’impegno di Chia, sempre orientato da un lato verso un avanzamento del lessico espressivo e dall’altro verso un rimaneggiamento costante e ossessivo delle immagini provenienti dalla storia dell’arte. Si tratta del nuovo appuntamento espositivo dell’istituzione fondata nel 2018 dai coniugi Luigi Biscozzi e Dominique Rimbaud con l’intento di promuovere l’arte moderna e contemporanea oltre a essere parte integrante di un lavoro di ricerca sugli anni Ottanta in Italia. Una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Sandro Chia e sulla Transavanguardia apro il saggio dicendo : In Europa e negli Stati Uniti gli anni che seguirono la fine della Seconda Guerra Mondiale furono caratterizzati da una forte ripresa economica e da un vivace fermento culturale; il periodo di prosperità fu reso possibile da una fortuita congiunzione di fattori. In primis, un ruolo di rilievo ebbe l’affermarsi di un nuovo genere di capitalismo, insieme al quale la democrazia e le aspirazioni popolari riuscirono a convivere pacificamente portando ad un vero e proprio boom economico nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta. Come affermato dallo storico Marcello Flores all’interno del testo Il secolo mondo. Storia del Novecento, a partire dai quindici anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale e fino agli anni Settanta si assistette, poi, alla cosiddetta “transizione demografica”, ovvero una spettacolare crescita della popolazione che poté compiersi grazie a un nuovo clima produttivo: motore di questo incremento delle nascite fu, infatti, soprattutto il miglioramento delle condizioni economico-sociali, dovute dapprima all’attuazione di piani di sostegno internazionali negli anni Cinquanta – come il cosiddetto Piano Marshall – , e poi allo sviluppo di tecnologie avanzate e alla produzione di beni di consumo durevoli che ebbero una straordinaria diffusione in tutto il versante occidentale . In molti paesi si registrò uno sviluppo continuo che si declinò in tutti i settori della società e delle scienze; tra gli altri, vennero potenziati il settore terziario a quello dell’industria chimica, che inserì nel mercato in maniera massiccia materie plastiche, fibre sintetiche e nuovi farmaci (tra cui la pillola anticoncezionale e alcuni psicofarmaci). Gli anni Sessanta furono anche il decennio in cui vennero realizzati i primi trapianti chirurgici e della conquista dello spazio, traguardo di cui massima espressione fu lo sbarco sul suolo lunare della navicella statunitense Apollo 11, avvenuto nel 1969 . Il miracolo economico che aveva investito le nazioni uscite sconfitte dalla Seconda Guerra Mondiale subì una grave battuta d’arresto nel corso degli anni Settanta, a causa del clima politico tutt’altro che disteso che si era venuto a delineare, che vedeva contrapposti il blocco dell’Unione Sovietica e quello fortemente capitalistico degli Stati Uniti. L’episodio che più di tutti segnò la fine del periodo florido dei decenni precedenti fu la crisi petrolifera del 1973. Come viene asserito dal critico d’arte Achille Bonito Oliva all’interno del volume L’arte moderna 1770-1970. L’arte oltre il Duemila, proprio nel 1973 il conflitto, già incandescente, tra Paesi Arabi e Israele deflagrò nella guerra del Kippur, e indebolì inevitabilmente sia l’economia mondiale, sia il clima culturale che si era sviluppato in precedenza, caratterizzato da una grande fiducia nel progresso e una visione positiva e ottimistica dello sviluppo economico . La chiusura del Canale di Suez e il blocco petrolifero decretato dagli Stati Arabi contro i paesi occidentali alleati di Israele diedero alla crisi una dimensione globale, con conseguenze di vasta portata sull’economia e sugli equilibri internazionali. La crisi energetica, infatti, danneggiò irrimediabilmente non solo le economie, ma anche i sistemi culturali e politici, causando il crollo della prospettiva di progresso vissuta nei vent’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale . Contrariamente alla rapida crescita registrata negli anni Cinquanta e alle spinte rivoluzionarie – nello specifico quelle della rivoluzione studentesca del 1968 degli anni Sessanta, gli anni Settanta e Ottanta furono invece scanditi da un’instabilità politica ed economica, dal terrorismo e dalla violenza, come viene affermato da Alessandra Cuzzucoli nell’articolo La Transavanguardia, il Postmoderno ed Enzo Cucchi . La crisi petrolifera del ’73, infatti, causò sia danni diretti alle economie, provocando dapprima una stagnazione e poi una violenta inflazione, ma anche danni indiretti, come la crescita esponenziale del tasso di disoccupazione che si mantenne molto alto per tutto il decennio successivo; a rendere meno drammatica questa situazione – specialmente in Europa occidentale fu la presenza di numerosi ammortizzatori sociali, quali i sussidi di disoccupazione e le sovvenzioni statali elargiti alle industrie in difficoltà. Gli storici Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto, nel volume Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, sostengono, tuttavia, che, nonostante quanto appena descritto, lo stesso modello del Welfare State, affermatosi nei decenni precedenti come strumento di stabilizzazione economica, oltre che di perequazione sociale, si dimostrò insufficiente a contrastare le difficoltà dal momento che la crescita del debito pubblico obbligò al contempo i governi ad aumentare la pressione fiscale6 . Questo portò al ritorno in auge delle teorie liberiste e a critiche crescenti contro lo Stato assistenziale, che sfociarono, per esempio, nell’elezione di governi conservatori in Gran Bretagna come quello guidato da Margaret Thatcher dal 1979 e repubblicani negli Stati Uniti sotto la presidenza di Ronald Reagan dal 1980. Si assistette, dunque, in maniera generalizzata a una rimessa in discussione della capacità dei grandi sistemi ideologici – soprattutto di quelli che propendevano per una trasformazione rivoluzionaria della società – di fornire delle concrete soluzioni ai problemi del popolo, e ciò condusse alla nascita e alla radicalizzazione di frange estremiste e violente; Tutto ciò portò, in particolare nel contesto dell’ Europa occidentale, alla tragica esplosione del terrorismo politico attuato da piccoli gruppi fortemente militarizzati, tra cui le Brigate Rosse in Italia, la Frazione dell’Armata Rossa in Germania, il gruppo di Action directe in Francia. Gli anni Settanta rappresentarono, tuttavia, anche il decennio in cui iniziò a diffondersi una consapevolezza ecologica sviluppatasi in seguito alla crisi petrolifera, che aveva generato la paura del possibile esaurimento delle risorse naturali del pianeta. La risposta a questa crisi si concretizzò in una protesta “ideologica” contro la società consumistica che si era affermata nel corso dei decenni precedenti, in favore di politiche di sensibilizzazione ecologica e ambientalista: intorno alla metà degli anni Settanta si iniziò a parlare della necessità di utilizzare fonti energetiche alternative ai combustibili fossili. Nel campo sociale, poi, soprattutto in quello dei diritti civili, questo decennio in Italia fu particolarmente ricco di conquiste, tra le quali la legge sul divorzio, entrata in vigore nel 1970 e poi oggetto di referendum abrogativo, fallito, nel 1974 e la legge sull’aborto, confermata nel 1981. Questo clima socio-politico-economico estremamente complesso non fermò il progresso tecnologico; infatti, il principio degli anni Settanta vide lo sviluppo della cosiddetta “rivoluzione elettronica”, evoluzione dei progressi scientifici compiuti negli anni Cinquanta e Sessanta, che portò all’unificazione dei linguaggi e a una notevole circolazione delle informazioni. Tutto questo impattò ovviamente anche sull’industria culturale, influenzata in particolar modo da tale rivoluzione. Nel campo dell’arte, inoltre, gli artisti iniziarono a porre le loro ricerche in relazione con i nuovi mezzi di comunicazione. In generale, si assistette alla moltiplicazione delle imprese multimediali e crebbe, quindi, anche la tendenza alla standardizzazione dei prodotti culturali, pensati ora per un pubblico più ampio . Nonostante questa “rivoluzione tecnologica”, gli anni Settanta e Ottanta vengono spesso definiti con il termine Postmoderno, considerato in questa sede come categoria storica, ad indicare un periodo in cui si assiste al superamento del culto della novità e del progresso sviluppatosi nei decenni precedenti, che, come si è detto, furono caratterizzati da rivoluzioni culturali e tecnologiche. Con il postmoderno cambiò l’approccio nei confronti della modernità. Come riportato dallo storico e critico britannico Mark Mazower nel proprio testo Dark continent: Europe’s twentieth century, il periodo tra gli anni Settanta e Ottanta diede prova di una vera e propria crisi della modernità, e a sottolinearlo era il forte contrasto con il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta il testo dello storico e critico analizza proprio il concetto di postmodernità da molti punti di vista considerando diversi ambiti di riferimento e rileggendo le teorie di alcuni intellettuali. A tal proposito, secondo il filosofo Jean-Francois Lyotard, che trattò a lungo il concetto di postmoderno cercando di definirne i principi cardine, gli anni Settanta segnarono propriamente la fine della modernità soprattutto dal punto di vista artistico e culturale. Lo storico britannico chiarisce come per Lyotard il termine postmoderno designasse il modo in cui si era evoluta la cultura a seguito delle trasformazioni avvenute in letteratura, nelle scienze e nelle arti dalla fine degli anni Cinquanta; trasformazioni dovute all’avvento della tecnologia, e conseguenti alle modalità di influenza della stessa sulle varie branche della scienza e della cultura . Nel testo di Mazower ritroviamo anche il pensiero del sociologo Göran Therborn, il quale si esprime a proposito del postmoderno affermando come gli anni della postmodernità fossero contraddisti dall’avanzare di una nuova coscienza ambientalista, che portò all’abbandono dell’ottimismo scientifico degli anni Cinquanta per la nostalgia di un passato in maggiore simbiosi con la natura . I politici d’altro canto, riporta lo storico britannico, affermavano come il “lamentoso pessimismo culturale” fosse scaturito dalla “paura della vita, della tecnologia e paura del futuro”. Infatti, la postmodernità, sostiene Mazower, aveva diffuso ovunque, in modo omogeneo, un sentimento di sfiducia personale e una sensazione di insicurezza che portarono le persone a sviluppare uno spropositato attaccamento nei confronti delle radici e delle tradizioni. Tuttavia, secondo lo scrittore Robert Musil, citato all’interno del volume dello storico non vi è una comprensione immediata di cosa distingua la crisi postmoderna da perturbazioni analoghe avvenute in tempi precedenti. Ciò che sicuramente in questa occasione differiva dalle crisi antecedenti era la considerazione della politica, che, come si è visto, negli anni Settanta non venne più ritenuta come il principale campo di realizzazione e di azione personale perché oggetto di profonda sfiducia. Si diffuse un sentimento di apatia e astensionismo dal punto di vista della mobilitazione politica, che si unì al clima di pessimismo e di incertezza, influenzando la sfera sociale ed economica e accrescendo l’individualismo. Mazower sostiene come, a suo avviso, l’unica reazione a questo individualismo dilagante fu un “comunitarismo” volto a resuscitare una moralità civile della comunità locale, ricercando ottimisticamente passate armonie sociali. Altre riflessioni interessanti in merito al postmoderno possono essere individuate all’interno del testo del filosofo, accademico e politico italiano Giovanni Vattimo La fine della modernità. Lo studioso riporta come, i filosofi Friedrich Wilhelm Nietzsche e Martin Heidegger avessero parlato di “postmodernismo” sebbene per ciò che concerne Nietzsche si tratti di una teoria molto precoce, essendo egli vissuto nella seconda metà dell’Ottocento definendone il prefisso “post” come un comune atteggiamento di oblio della società nei confronti dell’eredità del pensiero europeo. Nietzsche e Heidegger misero dunque in discussione tale pensiero, non cercando di mettere in atto un “superamento” critico di quest’ultimo poiché ciò avrebbe significato rimanere ancora ancorati a questo stesso flusso di idee. Nietzsche e Heidegger, come affermava Giovanni Vattimo, asseveravano che “la modernità si può caratterizzare infatti come dominata dall’idea della storia del pensiero come progressiva ‘illuminazione’, che si sviluppa in base alla sempre più piena appropriazione e riappropriazione dei ‘fondamenti’ i quali sono pensati anche come le ‘origini’, di modo che le rivoluzioni, teoriche e pratiche, della storia occidentale si presentano e si legittimano per lo più come ‘ricuperi’, rinascite, ritorni” Secondo loro il concetto di “superamento”, dà per scontato che il corso del pensiero sia uno sviluppo progressivo in cui il nuovo coincide con la mediazione del recupero e dell’appropriazione del fondamento-origine. Nietzsche e Heidegger possono essere considerati come i filosofi antesignani della post-modernità. Infatti, il “post” della postmodernità corrisponde per loro a un allontanamento, un congedo dalle logiche di sviluppo della modernità, asserisce il filosofo Gianni Vattimo ne La fine della modernità . Tuttavia, spesso si possono muovere delle critiche al discorso sulla postmodernità, come ad esempio il suo essere intrinsecamente contraddittorio. Di fatti affermare di trovarsi in un momento successivo alla modernità potrebbe significare ciò che viene affermato dalla stessa modernità, ovvero l’idea di storia, di superamento e di progresso. È dunque difficile capire e spiegare in cosa consiste la differenza filosofica della postmodernità nei confronti della modernità. Se la postmodernità significasse, infatti, solo qualcosa di nuovo rispetto al moderno, consisterebbe nella modernità stessa. Ciò che, quindi, secondo Nietzsche e Heidegger caratterizza il postmoderno è la “dissoluzione della categoria del nuovo”, l’arresto della storia. Perciò i filosofi incitano ad un ritorno alle origini del pensiero europeo, ovvero a una visione dell’essere che non accetta più il divenire in modo apatico, ma l’illusione di una possibilità di ritorno alle origini. Tuttavia, secondo Vattimo ciò significherebbe “ricominciare da capo”. È proprio in queste nuove condizioni di non-storicità, ovvero di post-storicità che Nietzsche e Heidegger hanno posto le basi per realizzare un’immagine dell’esistenza . Interessante considerare anche il pensiero del sociologo Arnold Gehlen, riportato da Vattimo, che trattando la postmodernità le conferì la definizione di post-histoire. Secondo Gehlen, infatti, la postmodernità andrebbe ad indicare la condizione in cui “il processo diventa routine”. Secondo il filosofo, la modernità non è portatrice di valori rivoluzionari, non è impressionante, ma “permette che le cose vadano avanti nello stesso modo”. Come si è visto, gli anni Settanta del Novecento furono decisamente anni di particolare rilevanza per la storia internazionale, caratterizzati da importanti implicazioni politicosociali nell’Occidente del mondo. Questi anni furono contraddistinti da un duplice sentimento; da una parte si sperava in una possibilità di rinascita, dall’altra si vedeva questo periodo come l’inizio di una crisi e disfacimento. Gli artisti operanti negli anni Settanta e Ottanta si trovano a doversi confrontare con i molteplici cambiamenti avvenuti a livello globale che interessarono i diversi aspetti della società e che contribuirono a modificare in maniera pregnante quello che era stato il contesto culturale antecedente. Come viene affermato da Achille Bonito Oliva all’interno del catalogo della mostra “Avanguardia Transavanguardia” a seguito delle crisi che colpirono gli assetti politico, economico e culturale di cui si è trattato in precedenza, anche il sistema dell’arte e la produzione artistica furono investiti da sconvolgimenti che inevitabilmente portarono molti cambiamenti all’interno della pratica artistica. A seguito della sperimentazione messa in atto dalle neoavanguardie del secondo dopoguerra, negli anni Settanta e Ottanta: “la rappresentazione diventa lo strumento attraverso cui l’arte attuale, con felice umiltà, prende atto dall’esaurimento storico di ogni pretesa, quella di darsi quale progetto ed unità di misura, volutamente astratta, di ogni possibile operare”, così afferma Achille Bonito Oliva, e aggiunge come “la tradizione pura e semplice delle avanguardie nascondeva ancora questa speranza” . Un quadro artistico disilluso e sprezzante costituisce un momento di cesura netta con il modo di fare arte del passato, contraddistinto da un approccio speranzoso e ottimistico derivato dal momento di pace e prosperità che aveva contraddistinto il periodo successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La produzione artistica svolta nell’ambito di queste correnti e tendenze rivela la scelta di privilegiare il processo creativo rispetto al risultato, il progetto rispetto all’opera. L’attitudine dell’artista, il suo comportamento, l’azione, prevaricano l’opera d’arte nella sua concretezza. Tra le varie declinazioni di «comportamento» dell’artista, una delle più incisive è quella che coinvolge il corpo come soggetto e oggetto dell’azione artistica: la Body Art, che trova il suo massimo sviluppo proprio in questi anni. L’artista usa il corpo come oggetto di conoscenza, sia personale che politica, ponendolo in rapporto con la propria interiorità ma anche con il mondo, le convenzioni e i condizionamenti sociali: proprio di questo rapporto parlano le opere di artisti come Gina Pane , Marina Abramovic e il compagno Ulay, Rebecca Horn, Luigi Ontani, il duo Gilbert e George attivo dal 1968. La scoperta del corpo viene supportata dall’uso del video, medium che inizia ad essere impiegato frequentemente tra gli anni Sessanta e Settanta. Uno strumento fin troppo «oggettivo», che è ancora difficilissimo manipolare ma, come afferma lo storico dell’arte Marco Meneguzzo nel volume L’arte globalizzata tra i due millenni, sembra realizzare l’utopia della realtà sovrapposta all’arte. Un altro medium molto utilizzato negli anni Settanta è la fotografia, dapprima come strumento adatto a indagare le basi della comunicazione per immagini, poi come mezzo di catalogazione del reale, infine per narrare eventi personali o pubblici, pratica, questa, che va sotto il nome di Narrative Art. Strettamente collegato al successo della fotografia è l’Iperrealismo, tendenza che gioca sull’illusionismo delle tecniche pittoriche e delle inquadrature per creare dipinti estremamente simili alle fotografie. Un’altra accezione di comportamento dell’artista è quella che sta alla base del movimento che va sotto il nome di Land Art. Nata negli Stati Uniti intorno al 1967, la Land Art è una pratica che prevede il totale abbandono di tutti gli strumenti del fare artistico, a favore di azioni dirette sulla natura e nella natura: ne consegue che le opere abbiano un carattere intrinsecamente provvisorio, se non effimero, e rimangano documentate soltanto attraverso fotografie e video. Tra gli artisti più attivi in questo campo si individuano Walter De Maria , Robert Smithson e Richard Long . In Italia molte delle opere di Land Art sono legate strettamente all’esperienza dell’Arte Povera, corrente codificata dal critico d’arte Germano Celant già nel 1967 per designare il gruppo di artisti inizialmente formato da Alighiero Boetti , Luciano Fabro , Pino Pascali , Jannis Kounellis , Emilio Prini e Giulio Paolini, per la prima volta in mostra alla galleria La Bertesca di Genova proprio in quell’anno. Altri artisti imprescindibili per il movimento sono Michelangelo Pistoletto e Mario Merz. Come scrive lo stesso Celant nel contributo Appunti per una guerriglia, l’Arte Povera si pone in antitesi rispetto all’ ”arte complessa” della contemporaneità, proponendo soluzioni che rifiutano il sistema del mercato dell’arte e le aspettative codificate di ogni genere. Questa corrente artistica ha avuto un grande seguito e ha continuato ad apportare il proprio contributo al dibattito critico nazionale e internazionale fino agli anni Ottanta inoltrati. Sempre tenendo in considerazione il contesto italiano, nei primi anni Settanta ci furono, inoltre, gruppi di artisti o artisti indipendenti che intendevano arrivare al pubblico attraverso messaggi diversi: tra questi si ricordano Piero Manzoni si pensi ad esempio alla ricerca infinita della serie delle Linee il gruppo T attivo tra il 1959 e il 1968 e il gruppo N attivo tra il 1960 e il 1966 . Parallelamente sul finire degli anni Sessanta, in un momento quasi esclusivamente rivolto all’analisi degli strumenti del comunicare in cui l’impiego del mezzo pittorico sembra lasciato in disparte, la corrente di Pittura Analitica rivendica per la pratica della pittura uno statuto concettuale. L’artista non solo non rinuncia alla pittura, ma ne analizza scrupolosamente i procedimenti e le componenti materiali (la tela, la cornice, il segno, il colore, la materia pittorica), per arrivare a scoprire anche i propri procedimenti attuativi, le motivazioni personali e sociali del «fare pittura» . Gli anni Settanta, considerati ad ampio spettro sono il decennio della cosiddetta «arte ambientale» che rende lo spazio il «luogo» dell’arte: gli artisti allargano non solo concettualmente, ma anche fisicamente, i limiti dell’opera, coinvolgendo spesso lo spettatore entro i propri confini, spingendolo a mettere in campo tutti i sensi e non solo la vista. La pratica dell’arte ambientale è poi entrata nell’atteggiamento comune degli artisti, nelle varie accezioni di vera e propria trasformazione di uno spazio, di installazione e persino di allestimento . L’esuberanza dell’arte processuale e le novità introdotte con l’arte concettuale erano probabilmente dovute anche alla situazione politica che si viveva in quegli anni, il contesto in cui si svilupparono era infatti caratterizzato da un “ottimismo produttivistico, da un’euforia espansionistica dell’economia che consente all’arte di conservare la speranza di un riscatto, di un futuro migliore”. Tutto questo era dovuto a una tradizionale credenza di concepire la storia come un percorso progressivo legato alla ricerca di un equilibrio economico e sociale. L’arte di questi anni stava ancora conservando il proprio valore funzionale, moralista in relazioni alle ideologie politiche. Naturalmente, in questa sede non si intende stabilire equivalenze tra tendenze nate più o meno contemporaneamente, e apparentemente molto diverse tra di loro, quanto considerare come le idee sull’arte venute a maturazione attorno alla seconda metà degli anni sessanta includendo tra queste anche la Minimal Art, l’Arte Povera, l’Antiform, la Process Art, la Body Art, con i significativi precedenti degli happening e del movimento Fluxus posseggano un sostrato ideale comune attraverso il quale debbono essere lette, e che l’atteggiamento con cui gli artisti affrontano la questione «arte» sia da allora totalmente mutato. Nella seconda metà degli anni Settanta si verificò un vero e proprio cambiamento artistico, quando “al pensiero ‘espansivo’- quello, per intendersi, dell’arte povera e di quella concettual-comportamentista subentra una concezione dell’arte “recessiva” ed “eccessiva” come viene riportato da Livio Billo nel volume Figure della Transavanguardia. L’arte in questi anni ripose sempre meno importanza nell’utilizzo del medium artistico, prediligendo un “ri-azzeramento” dei tradizionali mezzi di espressione e le tradizionali categorie formali. Gli artisti degli anni Settanta, dunque, tentarono di ridefinire lo statuto dell’arte, seguendo quindi una ricerca personale. Con la ridefinizione dello statuto artistico, continua Livio Billo ci fu un “restringimento di campo sia sul versante formale che su quello mediale ed operativo”. A tal proposito lo storico dell’Arte Filiberto Menna afferma come alcuni dei, movimenti attivi negli anni Settanta, tra cui Support-Surfaces, la Minimal Art e l’Art&Language avessero contribuito a spostare l’arte “ dal piano di una pratica ermeneutica a quello di una pratica semiotica: il significato non è più cercato nella relazione tra i segni e le cose ma nella correlazione dei segni tra loro”. Allo stesso modo l’arte concettuale aveva privilegiato un’arte performativa con comportamenti predefiniti ad un’arte fondata sulla sensibilità corporea. Dunque, l’arte di questi anni subì una modificazione del suo paradigma da “l’arte è l’arte” in “l’arte per l’arte”. L’arte aveva quindi perso il suo connotato “sociale” e “naturale”. È proprio questa duplice visione dell’”azzeramento” e dell’”oltre-passamento” che crea una vera e propria rottura tra le avanguardie e tra i nuovi movimenti degli anni Settanta; le prime vedevano nella morte dell’arte un modo per creare del nuovo, mentre i secondi interpretavano questa “fine della storia” come emblema della postmodernità, come un tentativo di “scavalcamento all’indietro, una vera e propria volontà di rinnegare lo storicismo, quasi come affermare di non essere mai nati” . È sul finire degli anni Settanta che si ha ormai la sensazione per gli artisti di poter agire in qualunque modo preferiscano, operare sul corpo, lavorare con l’ambiente, utilizzare i nuovi strumenti tecnologici come la fotografia ed il video, lavorare con il solo esercizio concettuale ed anche tornare all’elementarità della manualità pittorica , afferma lo storico dell’arte Francesco Poli in riferimento alla situazione artistica in essere alla fine del decennio. Poli continua sostenendo come alla fine degli anni Settanta si poté assistere a un indebolimento delle precedenti ideologie e delle grandi utopie rivoluzionarie. Stava prendendo piede una crisi che coinvolse le “istanze emancipatorie e libertarie dell’arte concettuale, dell’astrazione e del mezzo fotografico”. Al contempo cominciò a vacillare la convinzione della sussistenza di una relazione tra sperimentazione e progresso. Tra gli anni Settanta e Ottanta, inoltre, nonostante le evidenti specificità nazionali, si assiste alla diffusione di una tendenza comune che si palesa come espressione di un’estetica disorganica e mutevole. Questa tendenza rinnega le dottrine artistiche contraddistinte da una preminente rigidità e le teorie estetiche eccessivamente concettuali. Questo nuovo approccio si concretizza nella rinascita della figurazione che venne declinata in modo eterogeneo e diversificato. Spesso protagonista di questa nuova figurazione è un passato ripreso e interpretato con grande libertà impiegando mezzi appartenenti proprio alla tradizione della produzione artistica, per dar luogo a opere in cui la componente soggettiva e l’aspetto dell’individualità degli artisti riveste una posizione di assoluto rilievo. La tendenza in questione vede una larghissima diffusione e viene appellata con il nome di neoespressionismo. Mentre gli artisti statunitensi si stanno confrontando con un passato più recente, ovvero quello della tradizione delle neoavanguardie, e solo alcuni rimandi alla storia europea, gli artisti europei si confrontano con il racconto familiare di un tessuto storico-culturale lontano, generando una ripresa del figurativo da parte di alcuni gruppi artistici, come appunto l’Ipermanierismo, il Citazionismo ed infine, quello che ha riscosso maggiore successo, teorizzato dal critico d’arte Achille Bonito Oliva, la Transavanguardia italiana. La Transavanguardia riprese alcuni stili delle avanguardie storiche, utilizzando una modalità aggressiva, alleggerita dalle precedenti gerarchie artistiche, impiegando uno stile pittorico contraddistinto da impasti cromatici ricchi di materia come viene riportato da Chelli . Questa nuova espressione artistica venne contestata da alcuni teorici dell’arte statunitensi. Tra i critici che contrastarono maggiormente la “nuova pittura europea” ci fu Benjamin H.D. Buchloch, che si pronunciò in modo piuttosto ostile nel suo intervento Figures of Authority, Ciphers of Regression: Notes on the Return of Representation in European Painting pubblicato sulla rivista October nel 1981. Per lui come per tanti altri critici questa nuova espressione artistica, questo nuovo modo di intendere la pittura, veniva percepito come manifestazione della decadenza sociale, piuttosto che come un cambiamento dell’approccio nei confronti della produzione artistica. Buchloch riteneva la nuova creatività degli anni Ottanta come “corrente disponibilità storica, non indirizzata verso alcuna reale innovazione della pratica artistica” . È con la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva che alla fine degli anni Settanta si è passati, come afferma lo stesso critico, “a un’arte della rappresentazione in quanto l’opera denuncia volontariamente e con grande naturalezza l’impossibilità di darsi come misura di sé e del mondo” . In questi anni la rappresentazione assunse dunque un ruolo fondamentale nella produzione pittorica degli artisti. Gli artisti attivi sul finire degli anni, così come i transavanguardisti, erano spinti dal desiderio di rivendicare la libertà eclettica di lavorare in autonomia, attingendo alla tradizione figurativa e pittorica senza essere accusati di anacronismo o regressione. Gli artisti di questi anni cercarono di allontanarsi dallo storicismo e dalla politicizzazione di ogni pratica artistica, concentrandosi sulla loro sfera personale. Svilupparono le loro opere intorno agli aspetti del particolare, del frammentario del genius loci, in opposizione con gli ideali delle neoavanguardie di seguire un percorso lineare della storia dell’arte. Dunque, gli artisti, de-ideologizzando l’arte non tentavano di dimenticare la storia, ma vollero anzi rapportarsi con essa in modo diverso dal passato, recuperandone alcuni modelli, come affermato anche da Chelli nel volume Storia dell’arte. Dall’Impressionismo alla Transavanguardia . Come già accennato, in questi anni in Italia si assistette alla formazione e allo sviluppo di nuovi gruppi artistici come appunto la Transavanguardia Italiana, i bolognesi Nuovinuovi, gli Anacronisti di Maurizio Calvesi, ciascuno con caratteristiche proprie e distinte dagli altri. Le città di Roma e Milano diventarono poi i centri focali in cui questi gruppi con la loro opera si misero in netta contrapposizione rispetto alle neoavanguardie. I vari membri dei gruppi realizzavano opere personali, c’era una vera e propria eterogeneità tra le loro opere e tra le loro forme di espressione. La nuova operatività con il ritorno alla figurazione e alle forme tradizionali coincise con una volontà da parte degli artisti di recuperare il vecchio rapporto con il pubblico, ormai abbandonato dalle precedenti pratiche artistiche . Secondo Pierluigi Severi, Prosindaco di Roma negli anni Ottanta, le nuove personalità artistiche di questi anni espressero “non una ma mille culture, diverse tra loro, non necessariamente antagoniste, ma non sicuramente omologhe o assimilabili” . Lo stesso critico teorico della Transavanguardia, Achille Bonito Oliva dichiarò, all’interno del catalogo della mostra da lui organizzata nel 1982 Avanguardia Transavanguardia, che a seguito della sperimentazione messa in atto dalle precedenti neoavanguardie cambiò la mentalità artistica, “più legata alle emozioni intense dell’individualità e di una pittura che ritrova il suo valore all’interno dei propri procedimenti”. In questo clima di de-ideologizzazione gli artisti superarono il problema e la paura dell’inattualità degli strumenti d’espressione, così come avevano fatto per la precedente esigenza di sperimentazione, ritenuta ormai non più prioritaria. L’opera dell’artista di questi anni venne realizzata attraverso una continua relazione di riprese e rimandi, la pittura riacquistava in questo modo una forma di sperimentazione più personale e concreta anziché astratta e impersonale come quella degli artisti delle neoavanguardie . Gli artisti della fine degli anni Settanta e inizio degli anni Ottanta vivono sotto il segno di un’arte formata da una moltitudine di mezzi espressivi, specialmente l’uso della pittura, l’uso di strumenti del linguaggio e del colore . L’affermazione “arte non più progressista ma progressiva” venne esclamata da Bonito Oliva, che sosteneva che a far perdere l’atteggiamento progressista all’arte era stato il clima storico e politico in cui lavoravano i nuovi artisti, un clima caratterizzato dalla smaterializzazione delle ideologie che aveva portato conseguentemente ad una nuova visione dell’arte. Bonito Oliva affermò a tal proposito “l’artista ha compreso come progressismo significhi alla fine progressione, evoluzione interna del linguaggio, lungo linee di fuga speculari alla fuga utopica dell’ideologia” . Le correnti artistiche degli anni Sessanta come la Body Art, la Pittura Analitica, la Narrative Art, erano di colpo scomparse per la critica degli anni Settanta. Ciò avvenne per mettere in mostra solo due delle correnti che avevano invaso il campo artistico italiano, l’Arte Povera di Germano Celant e la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. Posso affermare che gli artisti del Nuovo Contesto usano indifferentemente la fotografia, il disegno, la pittura, il fumetto, l’installazione senza alcun problema. Qui sta la novità, e non si tratta più di suddividere il loro lavoro per media utilizzati o per procedure di uso delle stesse. anche questi artisti hanno dei padri precisi che si chiamano Schifano, Pascali, De Dominicis, Aldo Mondino e tanti altri erano della stessa generazione. Clemente ha cominciato anni fa con altre cose, anche Chia, poi anche il loro critico è di un’altra generazione, diversa dalla mia. Chia e Clemente circolavano già nel ‘69-’70 e facevano parte dell’ambiente romano. Un altro teorico molto attivo in questo periodo che io preso molto in considerazione in questo mio percorso storico- critico, è Maurizio Calvesi, che con la mostra ‘Buon giorno, fantasmi’, analizza e raggruppa gli artisti che hanno della citazione un’idea più estrema. È l’inizio di una maniera di dipingere che trova nel passato tema e interlocutore, e che negli anni a seguire sarà etichettata con svariati epiteti: Anacronismo, Pittura Colta, Ipermanierismo, Nuova Maniera Italiana ecc. Negli anacronisti c’è molta ricerca che si muove in direzione di una singolare forma di re-invenzione dell’arte del passato, dove il modello storico che parte dal rinascimento passando per il manierismo per il barocco fino ad arrivare al neoclassicismo e romanticismo sembra rispondere ad una funzione uguale e contraria a quella che nei pittori delle avanguardie storiche, poteva avere il modello primitivistico, gli anacronisti riconoscono nella pittura o scultura occidentale dei grandi secoli trascorsi, e nel classicismo, la forma più rigogliosa di manifestazione dell’immaginario mitico un repertorio da rivisitare e rivivere, nell’incontro tra memoria e coscienza. La tradizione, o l’accademia che essi rifiutano è la tradizione, divenuta accademica, delle avanguardie . Motivo conduttore in tutte le manifestazioni artistiche finora incontrate, e nel contempo diviene un legame fortissimo con la pittura del tempo e con la sua concettualità, un connubio dovuto ad un’eredità, ovunque presente, ricevuta dagli anni ‘60-’70, la citazione diventa quasi un ready-made del passato. Per il solo fatto che l’artista sceglie attua un’operazione artistica. La citazione però può a sua volta diventare spuria, un’imitatio, alla latina, che porta in sé i segni di un’elaborazione che fa differire l’oggetto scelto e rappresentato, come in L.H. O.O.Q. di Duchamp. Le operazioni concettuali dei decenni precedenti sembrano finalmente avere liberato la pittura dai fantasmi del manifesto, della riconoscibilità e della coerenza tecnica e formale. Poi ci fu l’arrivo della Transavanguardia che come tutti noi sappiamo i punti di riferimento sono le principali mostre che via a via fecero conoscere gli artisti e infine decretarono il successo del gruppo in Italia e in Europa, e gli inquadramenti affidati agli interventi in catalogo dei curatori delle mostre stesse. Descriverò la “poetica” ovvero la parola che sempre fu sempre rifiutata dai transavanguardisti, contenute nei testi prodotti, a stretto contatto con i momenti espositivi, da Achille Bonito Oliva, il riconosciuto teorico del gruppo. L’impostazione mi sembra la più adatta a un primo approccio al tema mentre le più vaste implicazioni teoriche connesse al rapporto tra la Transavanguardia e la cosiddetta “condizione postmoderna” che verranno affrontati dai tentativi che saranno condotti storiograficamente da alcuni critici americani di indagare i rapporti tra estetica e postmodernità. Premetto un solo dato a indicare la necessità di questo allargamento non è un caso che proprio nel 1979, anno cruciale nel percorso di identificazione della Transavanguardia, venga pubblicato il saggio che segnala l’ingresso delle società occidentali in una fase storica nuova ovvero, la condizione postmoderna di Jean Francois Lyotard. Tutto questo forse mi permette di puntualizzare meglio la ricostruzione storica e critica del percorso espositivo degli artisti transavanguardisti va dalla fine degli anni settanta e metà anni ottanta ovvero tra il 1978 e il 1984, cioè dalla “preistoria” del movimento fino alla sua definitiva e dell’affermazione internazionale. Il percorso prende avvio per iniziativa di due coraggiosi galleristi, Emilio Mazzoli e Gian Enzo Sperone. E’ proprio Mazzoli a curare la pubblicazione di quello che si può considerare il primo testo teorico del gruppo,questo testo farà da tramite per la prima importante sortita all’estero di alcuni dei futuri transavanguardisti. Si tratta della mostra che si apre a Colonia nel 1979 presso la galleria di Paul Maenz col titolo ‘Arte Cifra’. vengono presentati sei artisti italiani tra cui : Sandro Chia, Francesco Clemente, Nicola De Maria, Mimmo Paladino, Nino Longobardi ed Ernesto Tatafiore, che insieme a Cucchi formeranno il gruppo di artisti della Transavanguardia . Questa mostra segna una tappa molto importante nel cammino del movimento non solo perché ne avvia l’esordio europeo con la presentazione del curatore Wolfang Max Faust che propone un’interpretazione di notevole impatto critico da cui le successive elaborazioni non prescinderanno . Riassumiamone i punti fondamentali evidenziando le opposizioni che li costituiscono innanzitutto il non costituirsi di questi artisti in un gruppo ed il conseguente rifiuto di considerarsi una Nuova-avanguardia denotando un’opposizione con le avanguardie storiche. Quindi l’emergere di un “soggettivismo estremo” nel “volgersi verso la propria persona quale luogo e centro di partenza del proprio linguaggio”. Questo percorso verso la soggettività va, secondo Faust, contestualizzato: esso nasce da una “latente coscienza della crisi”, dalla sensazione della fine di un’epoca della storia mondiale, una crisi che si innesta sulla consapevolezza dei limiti dello sviluppo capitalistico, ma anche delle illusioni di un suo possibile rovesciamento . La parola chiave diventa “desiderio” come frutto di concatenazioni complesse e ambivalenti di cui Faust non nasconde i pericoli di atteggiamenti “regressivi”. Sul più stretto terreno della storiografia artistica Faust stabilisce un’altra delle opposizioni fondanti delle teorie transavanguardistiche “in fieri”: quella con l’Arte concettuale che aveva dominato gli anni sessanta e con la sua specifica configurazione italiana ovvero l’Arte Povera . “Concettualità” e “poverismo” sono infatti ancora legate a una prospettiva progressista e illuminista, anche se un “illuminismo poetico”, guardano “in avanti”, perseguono una “volontà di verità” che non cessa di postulare un utopico “telos”. Verità e finalità rifiutate da questi artisti: all’ “intenzionalità” si oppone ‘l’intensità’, tutta giocata nel “qui ed ora” dell’investimento pulsionale, capace di suscitare flussi energetici. A livello segnico loro strumento è la cifra. Ma che cosa intende Faust con “cifra”? Un segno che si pone al di là della tirannica antitesi fra mimetico e simbolico. “La cifra permette un’arte che non è né apparenza , né conoscenza nascosta ma libero gioco di intensità e di ideali” . Dobbiamo prendere in accurata e attenta considerazione questa definizione di Faust, vedremo, infatti, come questa componente ludica verrà ampiamente sottolineata da Achille Bonito Oliva e come, aspetto ancora più importante, questa libertà si traduca in immagini sconcertanti e sorprendenti che giocano con figurazioni oniriche ed esperienze quotidiane, con concetti artistici e con variazioni iconografiche. “Alla rigidità programmatica dell’arte concettuale l’Arte Cifra oppone opere in cui forme espressive esagerate si accompagnano a simboli resi convenzionali, elementi allegorici a gesti figurativi astratti”, è individuato qui un altro superamento: quello della antitesi astratto/figurativo. Infine, concetto fra i più importanti, Faust indica l’aspetto che, nella sua inattualità, era destinato a suscitare in alcuni critici la più violenta opposizione: il ritorno alla pratica della pittura e del disegno. Disegnare e dipingere, la ripresa del rapporto artigianale con il materiale, permettono, secondo il critico, una spontaneità che in larga misura manca ai mezzi tecnici quali il video, il film o la fotografia. Contemporaneamente, questi procedimenti manuali permettono l’elaborazione di una produzione artistica che in un processo continuo, unisce tra loro testa e mano, sicché l’opera appare come un riflesso immediato di una coazione all’espressione. La guerra alla tradizione duchampiana era apertamente dichiarata. Nello scritto di Wolfang Max Faust sono, a mio avviso, già delineate, a tutti i livelli socio-politici, culturali, estetico-formali, le categorie teoriche fondanti in cui si collocherà in maniera estesa e compiuta la Transavanguardia. Un’ultima considerazione che Faust evochi a conclusione della sua pertinente analisi, come sfondo dell’Arte Cifra, strategie e aspetti delle politiche della sinistra italiana mentre la terza via,ovvero il femminismo e l’ emancipazione delle minoranze appare atteggiamento dettato dalla cautela preventiva di chi teme di essere tacciato come reazionario, cosa che puntualmente avvenne. In questo senso, come cautela di critico d’arte, va interpretato secondo me il richiamo a Mario Merz, capofila dell’Arte Povera, come autore con cui l’Arte Cifra istituiva un confronto critico. La mostra di Colonia può essere considerata la riuscita entrata in scena europea di alcuni artisti destinati ad entrare stabilmente nel novero dei transavanguardisti. Come abbiamo visto Arte Cifra è il nome che Faust elabora per gli artisti in mostra, “Transavanguardia” è la definizione che venne coniata di lì a poco dal critico che diverrà il suo più acuto e appassionato sostenitore, Achille Bonito Oliva. Le personalità artistiche che faranno parte stabilmente della Transavanguardia italiana furono: Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino. Il testo può ben considerarsi il “manifesto” della Transavanguardia come movimento. Questa definizione che sarebbe certamente rifiutata dal critico poiché rimanda immediatamente alle pratiche delle avanguardie novecentesche, costituisce senza dubbio il punto di riferimento decisivo per l’approccio teorico al fenomeno. “Ancora oggi l’intervento, il cui ruolo fu anche quello di legittimare teoricamente l’incedere dei successivi eventi espositivi, viene indicato dalla critica quale espressione quintessenziale della ideologia artistica della Transavanguardia”. Innanzi tutto quello che emerge fin dall’inizio è il tono di chi vuole proclamare una svolta ma, si badi bene, non in avanti, come proponeva l’avanguardia, bensì, all’indietro verso le “ragioni costitutive” dell’opera artistica. E’ la riconquista di un “pericoloso piacere”: quello di “tenere le mani in pasta”, di un movimento nomadico che rifiuta un approdo definitivo, che non si reprime davanti a niente, neppure davanti alla storia. Segue un attacco estremamente duro all’arte povera, almeno nelle sue espressioni teoriche, definita “repressiva e masochista”, incapace di sottrarsi alla censura imposta dalla dominante psicoanalisi freudiana. Non “povera” ma “opulenta” deve essere l’arte, ricca cioè di quella materia immaginale che procede come un flusso, zigzagante e discontinuo. Tale flusso è ora sottratto a quella “coazione al nuovo” di cui l’avanguardia è stata vittima, prodotto di un “darwinismo linguistico” e di un evoluzionismo culturale perseguito con rigore puritano. A questa cattiva spinta in avanti la Transavanguardia oppone un percorso fatto di accelerazioni e rallentamenti, si volge ad un’autonoma evoluzione interna. Alle poetiche di gruppo si sostituisce la ricerca individuale come salutare antidoto ai sovrastanti sistemi a vocazione totalitaria: ideologie politiche, psicoanalisi, scienze. Di fronte all’austera immobilità del concetto produttivo, la Transavanguardia, afferma Achille Bonito Oliva, tende a far valere la soggettività dell’artista espressa attraverso le modalità interne del linguaggio: è, in sintesi, una “creatività nomade” che non rifugge dal ricorso alle tecniche tradizionali, alla manualità sperimentale al richiamo al patrimonio del passato. Per questa arte vale l’affermazione di Nietzsche: “Zarathustra non vuole perdere nulla del passato dell’Umanità, vuole gettare ogni cosa nel crogiolo.” Si tratta di una nuova temporalità estetica che conduce a non avere nostalgia di niente, in quanto tutto è continuamente raggiungibile senza più categorie gerarchiche di presente e passato, come invece avveniva secondo la concezione lineare del tempo che era proprio delle avanguardie. La sintesi perfetta della posizione teorica espressa, può riassumersi in questa frase: “Trans-avanguardia significa assunzione di una posizione nomade che non aspetta nessun impegno definitivo, che non ha alcuna etica privilegiata se non quella di seguire i dettami di una temperatura mentale e materiale sincronica all’istantaneità dell’opera l’arte degli anni settanta tende a riportare l’opera nel luogo di una contemplazione appagante, dove la lontananza mitica, la distanza della contemplazione, si carica di erotismo e di energia tutta promanante dall’intensità dell’opera”. Il movimento aveva ora un nome e i suoi componenti erano stati definitivamente individuati, infatti l’articolo si conclude con una rassegna critica dei cinque artisti che avevano esposto alla collettiva di Acireale, la sua piattaforma era ora definita, seppure in prima battuta, con notevole forza teorica. In linea con quanto detto ad apertura di capitolo non ne indagherò qui i presupposti estetico-filosofici, una sola anticipazione: non si può non avvertire nel testo di Achille Bonito Oliva la presenza di due autori in quegli anni assai in voga: G. Deleuze, il cui L’anti-edipo. da cui proviene l’idea del liberatorio superamento del modello psicanalitico freudiano, nonché l’affermazione di una soggettività “nomade” o “rizomatica” e R. Barthes da cui proviene l’idea della necessità di ristabilire un rapporto di piacere fra l’opera e il lettore o l’osservatore, un piacere che non nasca dalla percezione della “unicità” del segno, ma piuttosto da quella della pluralità di codici che intersecandosi ne determinano la forma. Ancora a Roland Barthes e in particolare al breve saggio L’immaginazione del segno comparso nel 1962 sulla rivista Arguments, rimanda la propensione transavanguardista verso una produzione di segni “metonimici” piuttosto che “metaforici” . Così strutturato il movimento poteva riprendere con nuovo impeto il suo percorso espositivo all’estero. Ciò avvenne nuovamente in Germania dove troviamo l’esistenza di fenomeni artistici affini. Artisti quali Anslem Kiefer, Georg Baselitz, Markus Lüpertz, A. R. Penck, e Jorg Immendorf, di una generazione più anziana rispetto ai trans-avanguardisti, e i cosidetti Neuen Wilden mostrano una produzione assimilabile a quella della Transavanguardia italiana. I cosiddetti “Nuovi Selvaggi” tra i quali Helmut Middendorf, Rainer Fetting, Salomé, e i pittori più anziani che vengono etichettati come neo-espressionisti, saranno spesso compagni di strada degli artisti italiani nelle mostre all’estero e in patria, proprio per le affinità e le scelte di mezzi di produzione, disegno e pittura, come per il contenuto visivo delle opere. Si tratta di una mostra itinerante, le città in cui si espose furono Bonn, Wolfsburg, Groningen fra Gennaio e Luglio 1980. La mostra, esclusivamente dedicata al disegno, viene curata da Margarethe Joachimsen, autrice assieme a Wolfang Max Faust e Achille Bonito Oliva dei saggi raccolti nel catalogo. Vi compaiono appunto disegni di quattro dei cinque transavanguardisti: Chia, Clemente, Cucchi e Paladino, l’unico assente dunque è De Maria. La mostra reca l’inquietante ed enigmatico titolo ‘Die Enthauptete Hand’ seguito dal più tranquillizzante sottotitolo 100 Zeichnungen aus Italien. Tradotto in italiano, il titolo è ‘La mano decapitata’ sottotitolata 100 disegni italiani. Va subito messa in luce una caratteristica che differenzia questa mostra da Arte Cifra in quest’ultimo caso la presenza di artisti che in seguito avrebbero seguito percorsi diversi, non consentiva la precisa individuazione di un gruppo. La mostra che si apriva a Bonn, invece, fatta salva l’assenza di De Maria, poteva farlo e lo dichiarava apertamente nel sottotitolo italiano ‘La Transavanguardia’ nel disegno. C’è anche da rilevare che all’altezza cronologica di Arte Cifra il movimento non aveva ancora ricevuto una definizione che lo identificasse e difatti i suoi presupposti estetici erano delineati per la prima volta, all’ estero, nel catalogo stesso della mostra. Ora invece esisteva una denominazione, nonché una più solida premessa teorica, rappresentata dall’articolo scritto da Bonito Oliva sulla rivista “Flash Art”. Ognuno degli artisti presenti esponeva venticinque lavori, tutti su supporto cartaceo: acquarelli, inchiostri, pastelli, oli, polimaterici e soprattutto disegni. Questa precisa scelta offre l’occasione di inquadrare con più precisione una fondamentale caratteristica della pratica creativa degli esponenti della Transavanguardia, a cui si è fin qui solo accennato. Si tratta invece di una delle più vistose opzioni in opposizione alle varie declinazioni dell’arte concettuale: il “riprendere in mano il pennello”, il recupero delle pratiche pittoriche tradizionali come reazione al predominio dei mezzi tecnici extra-artistici di specie fotoelettronica. Un atteggiamento che oppone alla “coazione innovativa” il recupero della tradizione, con annesso ricorso alla citazione, alla retrospezione e a quella che Renato Barilli chiamerà “ripetizione differente”. Un’operazione che il critico bolognese paragona a quella compiuta da Giorgio De Chirico negli anni trenta del Novecento e che viene analizzata, all’interno della dialettica delle opposizioni bipolari, teorizzata da Heinrich Wolfllin, come una sorta di inevitabile movimento pendolare nella dialettica della forma artistica. “In una situazione di progressivo cambio di rotta, la necessità di ripristinare e riqualificare una pratica disegnativa neo-iconica, si configurava certamente quale antagonistica risposta a molta ormai svigorita cultura concettuale scegliere di esordire collettivamente mediante una simile tecnica significava porre in evidenza i fondamenti linguistici e l’alfabeto segnico che avrebbero costruito il linguaggio dell’imminente sensibilità, le cellule che avrebbero fornito il corpo della nuova pittura. E’ un punto che va ribadito a rischio di incorrere in qualche ripetizione, la Transavanguardia persegue la riqualificazione di formule espressive iconiche e dei tradizionali media tecnici. Lo fa inoltre non per amore di contrapposizione ma perché quelle tecniche sono coerenti con un ritrovato desiderio di individualità e con la ricerca espressiva di una soggettività ovviamente declinata, come si è già notato, secondo il paradigma “nomadico” o “rizomatico” di derivazione deleuziana. In effetti il disegno garantiva “la possibilità di pervenire a quel microcosmo, a quella sensibilità intima e privata che si palesa all’artista su una superficie di contenute dimensioni”. L’adozione poi dell’antichissima tecnica del disegno “è caratterizzata da un atteggiamento non restaurativo, anzi spiccatamente antiaccademico, in cui il carattere di fugace intuizione, di spontaneo spirito vitale e dionisiaco sono divenute cifre qualificanti”. In questa mostra si confrontano artisti di diversa provenienza, non può essere considerata una tappa nel cammino espositivo della Transavanguardia. Emergono poi dai disegni della ‘Mano decapitata’ altri concetti fondanti e in particolare quello dell’opera come frammento irriducibile a qualsiasi totalità e in particolare a quelle aborrite totalità rappresentate dalle ideologie politiche o dalla psicanalisi freudianamente intesa. Immagini dunque “costruite a sbalzi”, fuori da ogni prestabilita progettualità, esenti da ogni “arrogante volontà di restituire una qualsiasi visione unitaria del mondo”. Veniamo ora al problema posto dal titolo della mostra ‘La mano decapitata’. Un problema infatti perché questa metafora sembra in contraddizione con la dichiarata volontà di recuperare la manualità nell’operare artistico, più volte affermata da Bonito Oliva: “Questi artisti hanno dovuto farsi ricrescere le mani e imparare a utilizzarle”. Ne consegue che il suo senso andrebbe paradossalmente rovesciato: il taglio della mano è via per l’acquisizione di “molteplici mani” rappresentanti di una salutare volubilità e incoerenza. Con un’altra sfumatura interpretativa si può intendere la metafora come indicazione di una liberazione dai vecchi fardelli e recupero di una manualità aperta al piacere del libero gioco pulsionale e quindi liberata dal controllo razionale (de/capitata appunto). Va, tuttavia, detto che il nostro critico conclude con la cauta affermazione secondo cui “La mano decapitata continua a porsi come metafora cangiante e notturna, ambigua e sfuggente ” Avendo ampiamente utilizzato il testo di Belloni in quanto capace di cogliere con precisione il senso e il valore della mostra, mi limiterò ora ad alcuni accenni ai due contributi contenuti nel catalogo e dovuti ad Achille Bonito Oliva e W.M. Faust. L’intervento di Achille Bonito Oliva dal significativo titolo di Una nuova soggettività con ironico rovesciamento dell’etichetta della corrente avanguardista tedesca “Nuova oggettività” ripercorre concetti basilari della “non-poetica” della Transavanguardia soggettività, frantumazione, accidentalità, transitorietà, mobilità, pulsione, piacere, rifiuto di ogni blocco ideologico, compresenza di comico e drammatico. Sembra utile piuttosto che soffermarci su questi concetti citare per intero un brano in cui, applicando la sua nozione di “critica creativa”, Achille Bonito Oliva sottopone il testo a un impulso bulimico e ludico che pare rimandare a certi cataloghi joyciani è un autore del resto caro al nostro critico e da lui spesso contrapposto nel consueto gioco di antitesi al meno amato Proust. “Il disegno nei lavori di Chia, Clemente, Cucchi e Paladino è segno, frego, immagine, effigie, linea, abbozzo, arabesco, paesaggio, pianta, diagramma, profilo, silhouette, vignetta, illustrazione, figura, scorcio, stampa, spaccato, bozzetto, calco, caricatura, chiaroscuro, graffito, incisione, mappa, litografia, pastello, acquaforte, xilografia. Gli strumenti possono essere: carboncino, matita, penna, pennello, lapis, compasso, tiralinee, squadra, pantografo, regolo, riga, sfumino, stampino. Il processo può essere: arabescale, calcare, comporre, copiare, cancellare, correggere, lucidare, ricavare. Nel catalogo W. M. Faust ripropone come elemento unificante delle opere esposte il concetto di “Cifra”, nozione, come abbiamo visto, coniata dal critico per il suo intervento nel catalogo della mostra di Colonia e qui ulteriormente investigata come quel segno in cui confluisce “una forza emozionale-intellettuale che come tale non può essere né vissuta né esperita dall’osservatore”. La “Cifra” è il segno in cui si esprime “l’economia del desiderio” e il portato di un’attività estetica resa necessaria da un’impellenza quasi biologica e qui il critico tedesco convoca come garanti Deleuze, Guattari, Foucault e, per la prima volta, Lyotard il teorico della “condizione postmoderna”. Questa apertura all’ “economia del desiderio” si esplica in una pluralità nomadica degli stili che non esita a rivolgersi al patrimonio antico-museale: “il repertorio delle forme di espressione possiede una sconcertante immortalità alle forme figurative del passato si affiancano elementi figurativi dell’estetica del presente l’eclettismo è apertamente contrapposto a un concetto consunto di originalità anche il principio dell’innovazione è in larga misura abrogato”. Abrogazione dell’unità dell’opera e dell’unità del soggetto vanno di pari passo. La trasferta tedesca segna un ulteriore passo in avanti nella consapevolezza degli artisti del gruppo. La loro notorietà è in crescita, la base teorica si va ampliando e definendo mentre si sta poi compiendo l’aggancio con quelle correnti del pensiero europeo che partendo dalla rivalutazione di Nietzsche e Martin Heidegger conducono una serrata critica dello storicismo verso esiti di decostruzionismo e di pensiero debole. Si tratta di un clima generale a cui in maniera generica verrà applicata l’etichetta di “postmodernità”. Nell’ambito del postmoderno, si stabilisce un clima generale che trascina il giovane movimento verso la sua definitiva consacrazione in patria. Essa non si fa attendere e si realizza nello stesso 1980 della Biennale di Venezia. Achille Bonito Oliva e Harald Szeemann curano, ai Magazzini del sale a Dorsoduro, una mostra che presenta la nuova generazione artistica sotto l’etichetta Aperto, si tratta in realtà di una sezione della mostra generale denominata L’arte negli anni ’70. Aperto abbina artisti di diverse nazionalità e si erge come un una nuova iniziativa, una sezione speciale per giovani artisti che verrà ripetuta in molte edizioni successive. Proprio in questa sezione fecero la loro apparizione alla Biennale i cinque protagonisti della Transavanguardia, Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Domenico (detto Mimmo) Paladino. Bonito Oliva sintetizza il senso dell’esposizione in un intervento pubblicato nel catalogo XXXIX Biennale di Venezia denominato curiosamente ‘Aperto ’80’ e quindi orientato verso il nuovo decennio. Nel testo il critico riconduce il senso dell’ esposizione alla concezione da lui stesso delineata nella costruzione delle teorie a sostegno della Transavanguardia. La nuova tendenza è costituita dalla produzione artistica avviata negli anni settanta che, alla soglia degli anni ottanta, si manifesta come il superamento dei procedimenti legati alla tradizione dell’avanguardia e allo sviluppo lineare da essa propugnato. Si propone invece un attraversamento incessante di attualità e inattualità, con il recupero dell’immagine secondo modalità prevalentemente metonimiche prodotte con gli strumenti tradizionali dell’arte. “Negli ultimi anni è subentrata una diversa mentalità, più legata alle emozioni intense dell’individualità e di una pittura che ritrova il suo valore all’interno dei propri procedimenti”. Bonito Oliva enfatizza l’utilizzo dell’espressione, di una vena ironica e giocosa, e infine individua nel “transavanguardismo” il carattere prevalente nella situazione italiana. Dicendo :“Il carattere antropologico dell’arte europea comporta un lavoro che non tiene conto della dimensione dell’opera, a favore di un prodotto che si dà come frammento, come sintomo di un’identità, quella dell’artista, che certamente non si lascia catturare dal linguaggio adoperato. La situazione europea trova delle differenziazioni ulteriori a seconda dell’area geografica e culturale. La situazione italiana è caratterizzata dalla “Transavanguardia” che assume l’opera come luogo della transizione, del passaggio da uno stile all’altro, senza mai fissarsi su uno schema fisso”. Da questa premessa egli instaura una decisa contrapposizione fra artisti europei e artisti americani. Se i primi, grazie al possesso di una storia dell’arte più stratificata e differenziata possono assumere verso il linguaggio “un rapporto più mobile e meno poggiante sull’identificazione”, i secondi sono caratterizzati in relazione alla loro tradizione puritana, da una Maggiore identificazione col proprio spazio operativo. A questo punto Bonito Oliva fa una diversificazione nell’arte americana e la definisce a seconda di due aree di influenza ed afferma che: “L’area americana è divisa da uno spartiacque che delimita la produzione dell’East coast da quella della West coast. L’arte californiana, aveva per molti anni prodotto lavori giocati sulla manualità e sulla plasticità, ora è rivolta prevalentemente verso la ricerca ambientale, giocata sulle istallazioni e su nuove relazioni spaziali. L’arte newyorkese ha smaltito il surplus di geometria e riduzionismo legato alle esperienze concettuale e minimal. Ora è indirizzata verso il recupero della manualità pittorica, della figurazione, della decorazione e della ripetizione ornamentale”. Come possiamo notare il critico italiano è ben informato sulle vicende artistiche di oltreoceano, il confronto di queste con l’arte europea non gli è nuovo. Nel lontano 1976 Bonito Oliva aveva scritto un saggio chiamato Europe/America, the different Avant-garde. Nel testo l’autore esaminava le ricerche artistiche europee e americane dagli anni del secondo dopoguerra fino ad arrivare a Beuys e Warhol. Si trattava allora di confrontare la creazione artistica di entrambi i continenti e ricavarne le differenze. Nella Biennale del 1980, si presentano nel padiglione americano una serie di artisti che troveremo accostati ai transavanguardisti italiani in mostre e articoli a venire sulle pagine di riviste e quotidiani specializzati. Possiamo citare Susan Rothenberg e Robert Zakanich. Inoltre c’è anche una grande retrospettiva di un importante artista pittore, Balthus. E infine nel padiglione Tedesco sono presenti Anselm Kiefer e Georg Bazelitz. Quindi le scelte espositive della mostra evidenziano l’interesse dei curatori a dare spazio a correnti pittoriche. In conclusione vorrei riassumere questo complesso concettuale in una serie di opposizioni binarie, in cui il primo termine caratterizza il clima artistico dominante negli anni sessanta e il secondo quello dominante nella seconda metà degli anni settanta per poi esplodere nella Transavanguardia. In questo percorso espositivo tante sono le personalità differenti, in dialogo fin da quegli anni fianco a fianco nelle grandi mostre internazionali; dalla Biennale di Venezia a Documenta di Kassel o in mostre che hanno segnato la storia dell’arte a partire dagli anni Settanta. Va ricordato, in questo frangente, come gli Anni Ottanta assistano alla nascita di un nuovo “sistema dell’arte” che unisce le grandi gallerie di New York, Colonia, Zurigo alle gallerie delle città italiane come Modena, Napoli, Milano o Torino in un tessuto italiano particolarmente vitale ed attivo, anche nella sua provincia. Con dei contraltari di natura trasversale, di quel milieu legato alle grandi sperimentazioni e alla cultura “altra” milanese, la mostra dà conto anche del rientro in Italia di protagonisti di quegli anni come Mimmo Rotella o Valerio Adami o di quella figura di grande intellettuale, traduttore, critico che fu Emilio Tadini. Infine penso ad Enrico Baj la mostra dedica un’intera sala costruita su quattro rari dipinti che fanno parte della collezione Intesa Sanpaolo, realizzati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che accompagnano il visitatore in una maturazione del linguaggio pittorico e del meccanismo creativo dell’artista, per condurlo poi allo spettacolare Il mondo delle idee: una tela di 19 metri di lunghezza, dipinta a spray, quasi un graffito contemporaneo eseguito nel 1983 e oggi di sorprendente attualità. Contemporaneamente alla mostra verrà pubblicato e distribuito un numero speciale della rivista “Flash Art”, che in nuova veste riunirà articoli, interviste, documenti legati agli artisti in mostra e che restituirà la ricchezza critica di quegli anni Ottanta di cui come rivista fu uno degli strumenti fondamentali della cultura artistica italiana ed internazionale. Se, nel caso di Giulio Paolini, la questione dell’esordio si risolve nel momento, deliberato quanto trasparente, della ricostruzione filologica, in una sorta di aferesi documentaria dettata dalle ragioni della poetica, vi sono stati altri casi in cui l’inizio è venuto a coincidere con un’oculata finzione; una finzione che ha rimosso nell’atto stesso in cui ha dato avvio. Un esempio di tal genere è proprio quello di Sandro Chia. Com’è noto, infatti, egli debuttò ufficialmente nell’aprile del 1971, con una mostra intitolata L’ombra e il suo doppio, presso la Galleria La Salita di Roma. Secondo la versione corrente, accreditata da varie interviste e numerose biografie, Chia era giunto nella Capitale qualche mese prima, dopo un periodo formativo nella sua città d’origine, Firenze. Fresco di diploma, si era rivolto a Gian Tomaso Liverani, il direttore de La Salita, conscio della fama di scopritore di talenti che lo circondava presso la sua galleria avevano già esordito, a quella data, Tano Festa, Richard Serra, Vettor Pisani e lo stesso Paolini. La personale, da subito indicata come il suo debutto, era in realtà una piccola palingenesi, se non un vero e proprio cambio di identità. Sandro Chia, infatti, era soltanto uno pseudonimo che celava un’attività espositiva cominciata già nel 1967, sotto il vero nome anagrafico di Alessandro Coticchia. Di tale pregresso, tuttavia, egli aveva cancellato ogni traccia appena giunto a Roma, riformulando totalmente il suo curriculum. Le ragioni di questa omissione, che perdura ancora oggi, sono quantomeno duplici. La prima di esse deriva da quanto accadde in seguito, quando Chia fu incluso dal critico Achille Bonito Oliva nella fortunata Transavanguardia, al principio degli anni Ottanta. Entrato a far parte di un ‘proditorio’ nucleo di giovani pittori neofigurativi (gli altri erano Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino) che aveva ripudiato i linguaggi effimeri e ‘de-materializzati’ dell’Arte Concettuale e dell’Arte Povera, egli si trovò davanti a un ingombrante trascorso. A differenza di simili tendenze, emerse in altri contesti nazionali – si pensi, ad esempio, a pittori tedeschi come Anselm Kiefer –, i transavanguardisti non potevano vantare una carriera altrettanto integerrima. Essi non erano stati sin dagli esordi dei pittori, ma si erano piuttosto avvicinati a questo medium tradizionale dopo aver sperimentato i più disparati mezzi in voga negli anni Settanta. Le performance, le installazioni e, soprattutto, le fotografie che i transavanguardisti avevano realizzato prima della loro svolta pittorica del 1977-1978 finirono così per essere tralasciate dai cataloghi e dalle monografie posteriori a questa data. Nella narrazione critica, che enfatizzava gli antagonismi e accentuava le proprie tesi filopittoriche, i loro esordi ‘concettuali’ non trovarono cioè un’adeguata collocazione, nemmeno se intesi come una benefica anticamera della pittura. Il loro destino fu, pertanto, quello di essere semplicemente non documentati fino a una fase abbastanza recente, quando un clima più pacificato e pluralista ha stimolato la riscoperta di questo periodo giovanile. La brusca metamorfosi che subì la carriera di questi artisti, ad ogni modo, non è sufficiente a chiarire perché L’ombra e il suo doppio sia stata comunque indicata da Chia come il suo debutto espositivo. Un secondo ordine di ragioni dovette intervenire. La sua ‘rinascita’, sotto pseudonimo, non soltanto gli consentì un’operazione abbastanza comprensibile (quella di occultare la sua fase giovanile, da lui forse ritenuta debole e confusa), ma gli diede anche la possibilità di conferirsi un’origine programmatica, un avvio profetico ed emblematico. Lo testimonia il fatto che le riproduzioni de L’ombra e il suo doppio furono le uniche ad aggirare l’autocensura con la quale Chia bonificò, retroattivamente, la sua carriera da tutti i trascorsi concettuali. Detto altrimenti, L’ombra e il suo doppio sopravvisse a due rimozioni incrociate: da un punto di vista curricolare, essa rinnegò l’intero periodo fiorentino che l’aveva preceduta, divenendo la prima voce del suo elenco d’esposizioni; da un punto di vista documentario, invece, essa rimase l’unica testimonianza della sua fase concettuale, che andava grossomodo dal 1971 al 1975-1976, quando a detta dello stesso Chia – egli si era riavvicinato dapprima al disegno e poi alla pittura. Da quanto abbiamo potuto appurare, dopo la svolta pittorica le occorrenze fotografiche della mostra a La Salita furono almeno tre (altre riproduzioni, di cui daremo conto in seguito, apparvero invece senza la volontà dell’artista). Le prime due riguardano la medesima immagine in cui è possibile osservare due ombre proiettate su quattro tele bianche: nella scena l’artista accovacciato impugna una matita, mimando la tracciatura del profilo di un’altra ombra, quella di un volatile. La prima opera fu un libro d’artista, pubblicato nel 1978, che dava testimonianza della transizione di Chia dall’installazione al disegno e in cui l’immagine fu accompagnata da alcuni versi. La seconda, invece, fu il catalogo di una collettiva, già in clima di Transavanguardia. In ciascuna fattispecie la riproduzione era l’unica fotografia anteriore al 1975. La terza occorrenza de L’ombra e il suo doppio risale, invece, alla fine degli anni Ottanta, quando una documentata ricostruzione di Bruno Mantura rese noti, per la prima volta, alcuni materiali fotografici presenti nell’archivio Liverani e inerenti al periodo più concettuale dell’artista. Tale catalogo è ancora oggi il solo, se si escludono le pubblicazioni non riconducibili all’iniziativa di Chia, che offra un’appendice fotografica su alcune installazioni del periodo 1971-1975. Fra i minimali riprodotti in quell’occasione la mostra fu rappresentata da uno scatto, simile a quello già menzionato, in cui l’artista era stavolta alle prese con l’ombra di un profilo floreale. Questa riproduzione, ricavata da quella che era con ogni probabilità la cartolina di invito alla mostra , non faceva che ribadire l’allusione alla celebre leggenda pliniana sulle origini della pittura. Il piano mitologico che emerge dalla messinscena di queste fotografie è utile anche a comprendere il motivo della loro fortuna nel canone dell’artista. Richiamandosi al mito originante della figlia di Butade, L’ombra e il suo doppio era una mostra che, sebbene risentisse di un certo ascendente concettuale, consentiva a posteriori di poter fondare tutta la carriera pittorica di Chia su un gesto iniziale di carattere metapittorico. L’autonarrazione che quel prologo legittimava divenne allora quella di un artista che, nonostante l’aperta ostilità verso la pittura di molte neoavanguardie dell’epoca, aveva principiato la sua opera senza rinunciare agli strumenti del fare pittorico, riabilitandoli però all’interno di un impianto metalinguistico e installativo. D’un sol colpo, insomma, L’ombra e il suo doppio si ergeva nel percorso artistico di Chia come la prova di una vocazione precoce ma intempestiva, come il presentimento di un mestiere che sarebbe arrivato soltanto più tardi: una rappresentazione del principio di quello stesso mestiere che sovrapponeva due modi di raccontare le origini, quello del mito e quello autobiografico. In una vicenda in cui la simulazione autobiografica contamina l’attendibilità dei documenti sarà bene ripartire da qualche certezza filologica. L’ombra e il suo doppio il titolo è attestato dalla cartolina della mostra si era tenuta presso la sede di via Gregoriana 5, dove Liverani aveva trasferito la sua attività nella primavera del 1967, al primo piano di un edificio che già ospitava una facoltosa galleria. La data d’inaugurazione era stata il 16 aprile e quella di chiusura il 5 maggio, com’è attestato da un breve annuncio e dalla datazione sulle opere, apposta da Chia a conclusione dell’evento. La mostra si era ben inserita nella programmazione neoavanguardista de La Salita, volta a dare spazio a linguaggi sperimentali e giovani esordienti. La personale di Chia, infatti, giungeva dopo le due di Ferruccio De Filippi e Giulio Paolini, ed era seguita da quella dell’artista francese Gérard Titus-Carmel e da una collaborazione tra Vettor Pisani e Michelangelo Pistoletto. De L’ombra e il suo doppio sono conservati almeno due nuclei documentari: il primo è quello presso l’archivio del gallerista, mentre il secondo è quanto rimasto in possesso dell’artista. I materiali presenti nell’archivio Liverani, oggi non consultabile, sono costituiti dalla cartolina della mostra , da un foglio dattiloscritto, che era forse destinato ai visitatori, e da alcune fotografie dell’allestimento. A pubblicare una parte di questi documenti sono stati, in ordine cronologico, Bruno Mantura, nel già menzionato catalogo del 1988, Daniela Lancioni, in un circostanziato regesto sull’attività de La Salita, e un catalogo della casa d’aste Pandolfini, che corredò nel 2001 la vendita della collezione Liverani. A quanto è dato sapere, il secondo nucleo documentario, conservato presso l’archivio dell’artista, è invece composto da una ventina di negativi di una sessione fotografica che lo ritrae all’interno della sala allestita. Una selezione di queste immagini è stata proiettata durante la cruciale intervista che Sandro Chia ha rilasciato nel 2012, nella serie di incontri presso la Quadriennale di Roma, curati sempre da Daniela Lancioni.
Da entrambi i nuclei è probabile che provenissero anche le esigue riproduzioni della mostra pubblicate a ridosso di quest’ultima: una minuscola foto in bianco e nero, che lasciava intravedere una veduta complessiva dell’allestimento, apparsa su «Bolaffi Arte» del giugno 1971, e un minimale con l’artista in posa davanti a una delle tele, nel solito gesto di tracciare il profilo di un’ombra (ancora una volta si trattava della sagoma di un volatile). A soccorrere la ricostruzione filologica, ci è giunta soltanto una recensione anonima dell’esposizione, la quale consente tuttavia di decifrare con buona approssimazione l’allestimento originario. La restante parte delle testimonianze scritte è equamente divisa tra fonti primarie e fonti secondarie. Sia Chia sia Giovanni Carandente, critico che all’epoca era vicino all’artista, hanno ricordato in diverse circostanze lo svolgimento di quella mostra, aggiungendo dettagli essenziali per la sua comprensione. Mentre sono già state menzionate le ricostruzioni storiche che di essa hanno fornito prima Mantura e poi Lancioni, basandosi soprattutto sull’archivio de La Salita. Per quanto riguarda l’allestimento, esso era congegnato all’interno di uno spazio assai regolare e flessibile. La galleria di Liverani, infatti, era stata ricavata da alcuni locali abitativi e si componeva di un piccolo ufficio, di un’anticamera e di un’unica sala espositiva a pianta rettangolare. Grazie alle foto dell’archivio Chia è possibile evincere quali fossero le dimensioni e le scelte museotecniche adottate per questo spazio . Le pareti erano state dipinte di un colore neutro, grigio cemento, e a tre quarti dell’altezza, senza interferire troppo con la visione, scorrevano delle sottili guide per le catenelle dei quadri queste ultime, comunque, non furono impiegate da Chia. L’illuminazione era totalmente artificiale e proveniva da due binari paralleli, sospesi al soffitto, con dei faretti mobili e orientabili. Alla sala si accedeva da un ingresso rettangolare, al centro del lato più corto, che si opponeva a una parete con una porta sulla sinistra, camuffata dalla tinteggiatura omogenea, e un’alta finestra sull’angolo, oscurata con una tenda alla veneziana. Per il suo aspetto simmetrico e la sua sobria funzionalità questo spazio viene ancora oggi ricordato da Chia come un luogo ideale per le esposizioni. Ed effettivamente, proponendosi come il classico contenitore asettico, in linea con la grammatica espositiva dell’epoca, questa stanza si prestava con estrema versatilità sia al classico allestimento di quadri sia alle installazioni più contemporanee: quanto, insomma, di più idoneo all’operazione ibrida che Chia aveva in mente per la sua personale. Per L’ombra e il suo doppio egli ideò un dispositivo che era a metà fra l’installazione e la mostra di pittura, o meglio, che conferiva ai quadri una posizione installativa, tale da istituire tra loro un sistema di relazioni spaziali non alterabile. L’artista aveva sfruttato la simmetria rettangolare della sala per collocare al centro di ogni parete l’unica eccezione fu la parete d’ingresso quattro tele accostate a formare un quadrato compatto. Ognuna di esse nell’insieme erano sedici recava soltanto l’imprimitura bianca ed era contrassegnata, in basso a destra, da un timbro con l’iscrizione «Frammento d’ombra» (la dicitura alludeva al fatto che i quattro gruppi di quadri accoglievano ciascuno la proiezione parziale dell’ombra di un oggetto). Per ottenere un simile dispositivo, Chia aveva oscurato la stanza impiegando come fonte luminosa una batteria di quattro faretti, posti al centro del pavimento e orientati rispettivamente verso l’oggetto da illuminare. L’effetto complessivo era simile a quello di un teatro d’ombre, multiplo e speculare, in cui le tele affrontate fungevano da schermi incompleti per l’apparizione delle sagome. Posti di fronte alle rispettive luci, gli oggetti scelti dall’artista erano quattro, senza evidenti connessioni tematiche tra loro: entrando si poteva osservare, sulla parete di fondo, l’ombra di alcune rose di plastica in un vaso; il modellino di un biplano, sulla sinistra; quello di uno storno impagliato, sulla destra; e infine l’ombra di due fiale sistemate sulla sommità di un piccolo podio, sulla parete d’ingresso. Per giustificare un simile accostamento, che combinava kitsch domestico e feticismo hobbistico, Chia ha addotto la tesi di una «falsa analogia» tra queste coppie d’oggetti, riferendosi alla loro ingannevole somiglianza: l’ombra dell’aeroplanino di fronte a quella del volatile, oppure le medesime forme, collo allungato su corpo cilindrico, evocate dalle fialette e dal vaso di fiori. Grazie alla ricostruzione filologica di Lancioni è noto che l’artista aggiunse una seconda fase a questo dispositivo visuale, di per sé così muto e scenografico. Il giorno conclusivo della mostra, il 5 maggio 1971, egli tracciò a matita, su ciascuna tela, il profilo descritto da queste ombre, siglando ogni quadro con la data, l’ora di esecuzione, la firma e un’intitolazione che recitava: «Frammento d’ombra» (timbro) e «Dall’immagine della rosa di plastica» o ancora «Dall’immagine dell’aeroplano» (a penna), a seconda dell’oggetto raffigurato. Ogni tela venne intesa – da qui l’enfasi sulla frammentarietà – come un’opera autonoma, recando inevitabilmente un’immagine parziale e interrotta dell’ombra del suo soggetto. Per spiegare questo epilogo figurativo, sovvengono almeno tre ipotesi, fra loro assai diverse. La prima di esse è che l’azione fisica di riportare il contorno delle ombre dischiudeva, quasi in modo didascalico, l’allusione al mito di Butade. Le stesse riproduzioni della mostra che Chia impiegò nei suoi cataloghi successivi, sebbene non riferibili al finissage, riprendevano letteralmente l’iconografia di questo mito, offrendo l’immagine dell’artista nell’atto di ricalcare un’ombra. La seconda ipotesi è che l’artista volesse rivestire di una modernità semiotica un gesto tecnico, come la proiezione e il ricalco, abbondantemente usurato dalla Pop Art a cui, peraltro, non mancava di alludere l’unica recensione alla mostra: «L’uso del proiettore è entrato da tempo nelle tecniche artistiche di derivazione pop come supporto alla trasformazione oggettuale di immagini tratte da fotogrammi o di ombre proiettate». All’interno di un’installazione che sembrava rimarcare le origini mimetiche della pittura Chia poteva ovviare a questo anacronismo sconfessando la riconoscibilità dei soggetti o enfatizzando il ruolo semiologico della cornice pittorica, sia come delimitazione del campo visivo sia come interruzione di ogni continuità fra rappresentazione e realtà. D’altronde, lo stesso titolo della mostra, alludendo al ‘doppio’ di un fenomeno, l’ombra, che è già di per sé un’ulteriore apparenza, sembrava insinuare il più severo insegnamento platonico, circa l’illusorietà delle immagini, in seno al mito fondativo dell’arte come mimesi. Tradizione e attualità, teorie antiche e attardato gusto pop potevano essere altrettante insidie per un esordiente di quegli anni, in un conclamato clima postpoverista di fine della pittura. Un’ultima ipotesi la più prosaica è che si trattasse di una inevitabile reificazione delle opere. Per ammissione dello stesso Chia, infatti, le sedici tele disegnate erano un necessario compromesso con le esigenze di un autorevole gallerista come Liverani, alle prese con un’arte sempre più effimera e impalpabile. La franchezza dell’artista sembra trovare riscontro in almeno un paio di considerazioni. Innanzitutto, non è possibile non sottolineare come vi fosse un’accomodante contraddizione nel ricondurre un’installazione così rarefatta e scenografica allo status di quadro da cavalletto. In secondo luogo, la quasi inesistente storia espositiva di ciascun Frammento d’ombra accentua l’impressione che le opere fossero state confezionate per il collezionismo privato, mentre ciò che interessava l’artista, con la riprova delle foto pubblicate sui suoi cataloghi, era l’operazione in sé. Fra gli originari quattro nuclei di tele, se si esclude il gruppo raffigurante le due fiale, sono documentabili le vicende di tre. I quadri Dall’immagine dell’aeroplano sono passati in un’asta milanese di Christie’s, nel 1994, con diretta provenienza dalla collezione Liverani e di essi non vi sono ulteriori testimonianze da quella data. Gli altri due nuclei, dedicati all’ombra dello storno e delle rose di plastica , furono con ogni probabilità presenti nella mostra retrospettiva sulla Galleria La Salita del 1998. Il primo, rimasto nella collezione di Liverani, fu venduto nella relativa asta, dedicata a questo lotto da Pandolfini, nel 2001. Il secondo, invece, di proprietà di un collezionista privato, è stato nuovamente esposto, a quindici anni di distanza, nella mostra Anni 70. Arte a Roma. Grazie a queste due occorrenze sono disponibili le riproduzioni fotografiche di entrambi i nuclei, i quali, a differenza di quanto previsto dal loro autore, non furono mai disgiunti. L’osservazione di queste opere rivela qualche aspetto interessante circa la loro tecnica. Facendo affidamento sull’orario, riportato in basso dallo stesso artista, queste tele furono eseguite in un lasso di tempo abbastanza circoscritto, pressappoco dalle 18:00 alle 20:00 di quel 5 maggio 1971. Ciascun quadro dovette impegnare Chia poco più di un quarto d’ora, sebbene non sia facile ricostruire oggi la sequenza esatta con cui egli procedette.
Ciò che si evince dalle immagini, tuttavia, sembra indebolire l’ipotesi di una trascrizione delle ombre così incalzante e asettica. Se si pongono a confronto le riproduzioni dell’allestimento e l’immagine riportata a matita sulle tele, non si fa fatica a scorgere una difformità tra le due versioni. Osservando le fotografie dell’epoca , in effetti, si può notare come l’ombra della rosa attraversasse in modo asimmetrico le quattro superfici bianche, sbilanciata verso i due quadranti a destra. Da ciò derivava un’elusiva assenza d’ombre negli altri due quadranti di sinistra: a malapena il segno lanceolato di due foglie; difetto che Chia cercò di correggere. Le opere finali , infatti, presentano delle immagini lievemente rimpicciolite, che sono frutto o di un avvicinamento degli oggetti alle tele o di un allontanamento della fonte luminosa. Questo aggiustamento compositivo sembra dunque destinato a evitare l’horror pleni dei quadranti più spogli. Tutta una serie di dettagli del fiore, che nell’installazione erano esclusi dalla superficie pittorica, sono al contrario visibili nel disegno conclusivo: l’ombra ingigantita del bocciolo, prima alto sulla parete, è convertita ora in una gradevole antesi che rievoca le eleganze floreali di alcune fonti visive degli anni Sessanta. O, ancora, il vaso monofiore, il cui collo stretto e conico ricadeva, proiettato, sotto il bordo del quadro, si ritrova integro in una delle quattro tele finali. Accostando queste immagini nell’insieme, dunque, si comprende come, al momento del ricalco, fosse venuta meno la coerenza prospettica dell’assetto originario in galleria: i cambi di scala, le ripetizioni di dettagli svelano come la relazione spaziale fra oggetti, superfici e fonti luminose fosse stata alterata nei sedici quadri, in modo da ottenere per ciascuno un’immagine autonoma e convincente. In buona misura, l’artificiosità di questa operazione non fa che confermare come Chia fosse perlopiù concentrato sul carattere profetico della sua mostra, conservandone la memoria fotografica e le allusioni mitologiche più scoperte anziché i prodotti reificati. Se quello a La Salita doveva essere un falso debutto, allora il suo carattere programmatico andava accentuato dai parallelismi col mito, dalla circolazione delle foto anziché delle opere. Sin dagli anni Ottanta, di Sandro Chia esiste una biografia abbastanza canonizzata. Secondo quest’ultima la sua infanzia si era svolta nel centro di Firenze città che, ovviamente, non avrebbe mancato di esercitare un ascendente sul ragazzo dove, circondato da musei e capolavori artistici, il giovane aveva seguito studi regolari, prima presso l’Istituto d’Arte e poi presso l’Accademia di Belle Arti. Alla fine di questo periodo, attorno al 1970, egli aveva intrapreso, con spirito beat, un avventuroso viaggio in Europa, per poi stabilirsi a Roma al termine di quello stesso anno. A questo racconto ufficializzato è possibile affiancare una serie di evidenze documentarie che sono emerse dalle nostre ricerche. Alessandro Coticchia, prima di divenire il più celebre Sandro Chia, aveva infatti iniziato la sua attività espositiva almeno quattro anni prima della personale a La Salita. Ancora studente, sin dall’ambiente dell’Istituto d’Arte, frequentato fino al 1964, egli aveva stretto un sodalizio con altri coetanei, come Renato Ranaldi, Remo Salvadori e Andrea Granchi. Il gruppo si era poi consolidato in Accademia, frequentando le classi di pittura di Afro Basaldella e di Ugo Capocchini, e finendo con l’ampliarsi ad altri artisti e creativi toscani nell’organizzazione di qualche evento espositivo (Marco Bagnoli, Alfredo Picchi, Giovanni Ragusa, Ermanno Manco ecc.). Il periodo formativo di Coticchia, stando all’unico curriculum disponibile ante 1971, si concluse nel 1969, non prima del suo esordio come artista. Nel 1967 aveva partecipato a una biennale sull’incisione a Tolentino e aveva trascorso un periodo a Parigi, frequentando l’Académie des Beaux-Arts ed esponendo in occasioni non meglio precisate. Un anno più tardi era stato accettato in una mostra-premio a tema, sullo sport, ed era stato insignito di una borsa di studio per giovani artisti del Comune di Firenze, la quale prevedeva in contropartita la donazione di opere: La radice, la nuvola e l’albero e Rospo che non esiste, realizzate nello stesso anno, furono i due assemblage ceduti in quell’occasione all’attuale Museo Novecento. Entrambe sono le prime opere note dell’artista e manifestano un repentino cambiamento di tecniche e di stile. Mentre Rospo che non esiste è una divertita e subliminale allusione all’apparato genitale femminile, condotta in toni tra il kitsch surrealista e l’astrazione psichedelica, La radice, la nuvola e l’albero è un accrochage più giocoso che reimpiega materiali posticci (diamanti in plastica, manti d’erba finta ecc.) in una figurazione di sapore più infantile. La prima (vera) personale dell’artista si tenne l’anno seguente presso la Galleria Inquadrature 33, diretta da Marcello Innocenti. Di questa mostra, inaugurata il 14 ottobre 1969, si è conservato un pieghevole con un testo di presentazione di Claudio Popovich, un critico d’arte attivo in quegli anni a Firenze, ma la cui vicenda è oggi poco conosciuta. Le uniche immagini visibili nella brochure (una nuvola, un labirinto e una scatola da cui fuoriusciva una sorpresa a molla, a forma di cuore) lasciano dedurre che Chia si stesse avvicinando, in quel frangente, a una figurazione di cultura pop e fumettistica. Un’ulteriore svolta dovette giungere, comunque, proprio nei mesi della sua personale, quando partecipò ad alcune mostre presso il Centro Tèchne, diretto da Eugenio Miccini, ed entrò contestualmente in contatto con il Gruppo 70 fiorentino e con le sperimentazioni verbo-visive di alcuni suoi membri. Da questo momento in poi e sino al suo approdo a Roma l’interazione fra testo e immagine, che era stato fra i temi d’indagine di artisti fiorentini come Lamberto Pignotti, Lucia Marcucci o lo stesso Miccini, divenne uno dei principali filoni poetici di Coticchia. A differenza di questi ultimi, più concentrati sul détournement dei messaggi massmediatici, quello di Chia si configurava come un modo più eccentrico e soggettivo di esaltare le relazioni analogiche e associative con l’immagine, ricorrendo a un registro testuale irriverente, canzonatorio e pseudo-favolistico. Lo testimoniano bene un paio di cataloghi che l’artista realizzò, assieme ai suoi sodali d’Accademia, nel 1970. Abbinati a eventi autogestiti, questi libri lasciavano spazio all’intervento artistico più libero: Coticchia proponeva dei racconti visivi corredati da una prosa disinvolta e dai compiaciuti toni antintellettualistici, giocosa e nonsense a confronto con gli stravaganti montaggi fotografici. Le ultime due partecipazioni espositive di questo periodo fiorentino risalgono invece alla primavera (una mostra-scambio tra Firenze e Zagabria, curata da Pier Luigi Tazzi) e all’estate del 1970 (una contro-mostra organizzata a Montepulciano, in risposta alla più celebre Amore mio). Il viaggio che condusse Chia a Roma a cui si fa sempre riferimento nelle sue biografie andrebbe dunque collocato nell’autunno di quell’anno e rappresenterebbe un vero e proprio spartiacque, dopo il quale l’artista rigenerò integralmente il proprio curriculum. Ciò che questa sommaria ricognizione sulla sua formazione (rimossa) lascia trapelare è qualcosa che ne rende ancor meno spiegabile l’occultamento. A ben vedere, molti degli aspetti stilistici e poetici che saranno del Chia pittore, a non più di dieci anni di distanza, si ritrovano incubati sin da queste opere giovanili: l’infantilismo irriverente, quella figurazione a un tempo goffa e fumettistica, quei titoli che giocano, nei modi di una filastrocca, con le aspettative visive di chi osserva. Per quale ragione, dunque, questi esordi furono destinati all’oblio se essi potevano costituire un plausibile retroterra per la sua adesione alla Transavanguardia? Le motivazioni sono senz’altro molteplici e non tutte complesse: Chia non fece che tenere fede, infondo, a una scelta palingenetica che aveva compiuto irreversibilmente col suo falso esordio del 1971. Inoltre, la perifericità delle iniziative a cui aveva preso parte prima di quella data non invogliava certo a riesumarle in tempi più fortunati. Nonostante ciò, la ragione principale di questa opzione – insistiamo – restava una ragione programmatica. Esordire nel 1971, seguendo un indirizzo metalinguistico, significava compiere un gesto già consapevole della propria cornice linguistica, già foriero delle proprie conseguenze metodologiche, già radicato in una storia che lo precedeva e lo fondava. In tal senso, principiare dalle origini stesse della pittura possedeva la giusta circolarità concettuale: era l’auspicio di divenire artista mentre si evocava la prima inconsapevole artista della tradizione (la figlia di Butade), era un modo moderno di guardare all’antico, era la chiarezza teorica di principiare dall’oscurità degli inizi. La leggenda della figlia di Butade, tramandata da Plinio il Vecchio, è assai nota come fonte letteraria. Tuttavia, essa è forse meno conosciuta nella sua traduzione iconografica. In un articolo degli anni Cinquanta senz’altro troppo specialistico per un artista lo storico dell’arte Robert Rosenblum aveva ricostruito proprio la fortuna visiva del soggetto a cavallo fra Neoclassicismo e Romanticismo. Riscoperto per affermare la primazia del disegno di puro contorno, l’episodio delle origini corinzie della pittura si era diffuso fra gli artisti europei del Sette-Ottocento in chiave altrettanto programmatica. Le opere discusse da Rosenblum, di cui la più accessibile era forse The Corinthian Maid di Joseph Wright of Derby , ricalcavano la medesima impostazione: in una scena d’ambientazione notturna la figlia di Butade era colta con la matita (o un pennello) nella mano destra mentre contornava sulla parete l’ombra del suo amato, assopito o intento ad abbracciarla, a seconda delle versioni. Rosenblum aveva definito questo soggetto come un topico esempio di «Neoclassicismo erotico» che fondeva, col medesimo pretesto, la fascinazione per l’antichità e i valori morali di un’epoca (bellezza, fedeltà, sublimazione del sentimento amoroso). Nonostante la rarità di molte delle immagini scovate da Rosenblum, un paragone con le foto de L’ombra e il suo doppio sembra rivelare più di qualche assonanza iconografica: l’installazione intera era ambientata in una stanza buia e lo stesso Chia si era più volte fatto fotografare nel medesimo atto di impugnare una matita e di seguire, intento, il profilo di un’ombra. A differenza delle fonti neoclassiche, però, il suo dispositivo visivo sembrava porre più enfasi sulle questioni poietiche: sulla scissione tra rappresentazione e realtà o sull’introiezione dell’atto del figurare, come forma consapevole di separazione o di distanziamento dall’oggetto raffigurato (la stessa vicenda della figlia di Butade evocava, sebbene in toni sentimentali, questo distacco esorcizzato dalla figurazione). L’intera installazione di Chia forniva più di un indizio sull’illusorietà di una equivalenza tra l’oggetto e la sua immagine. I rapporti di somiglianza erano messi in discussione nel momento stesso in cui venivano inscenati: la ‘falsa analogia’ tra le coppie di oggetti scelti dall’artista, il potere trasfigurante di un’ombra ingigantita, la frammentazione dell’intero causata dalle quattro tele accostate. Nell’atto stesso in cui evocava l’origine della pittura, il suo mito fondativo, Chia manifestava una moderna consapevolezza circa la semiotica dell’immagine, inscenando sia una forma di scetticismo sia una forma di fascinazione verso la mimesi. Non è un caso che anche il titolo, L’ombra e il suo doppio, insistesse su questo aspetto. Se la sua interpretazione era ambivalente il ‘doppio’ dell’ombra poteva essere tanto l’oggetto che la proiettava quanto l’immagine che ne derivava, le sue connotazioni platoniche, riferite al celebre mito della caverna, erano più scoperte. L’intero congegno di proiezioni e ombre, anzi, sembrava concretare quella che era stata la complessa metafora visiva di Platone: in qualche modo, Chia agiva ambiguamente rendendosi complice dell’immagine, ma alludeva pure al suo spettacolo illusorio e deformante. Il ‘doppio’, infatti, finiva per invocare la duplicazione di un altro ‘doppio’, un simulacro di quell’ombra che era, a sua volta, una proiezione indiretta, per quanto indicale, del suo referente. L’enfasi sul ‘doppio’ poteva pertanto suscitare un ventaglio molto ampio di riferimenti – ad esempio, la raccolta borgesiana Elogio dell’ombra o il risaputo archetipo junghiano dell’ombra come inconscio e doppio dell’Io- ma sembrava restare ancorato, escludendo la figura umana dai propri soggetti, a un piano innanzitutto poietico. Esso chiamava in causa l’archetipo dell’artista tutt’al più come creatore di tale simulacro, come agente, cioè, di questo raddoppiamento specioso. Nonostante nell’arte italiana coeva, insomma, non mancassero gli esempi di sdoppiamento e di allusione a un alter ego psichico, da Alighiero Boetti a Salvo, quello di Chia era un ragionamento più spersonalizzato che cercava la sua legittimazione nel mito anziché nel narcisismo o nella schizofrenia. La nozione di ‘doppio’ investiva l’opera d’arte come manufatto che sorgeva da un atto di duplicazione, da una catena di trasferimenti iconici che creavano tanto l’effigie somigliante quanto il sosia imperfetto del proprio referente. Chia intendeva rivolgersi così alle radici stesse della teoria dell’arte occidentale e cercare quelle vie che avevano preceduto l’affermarsi della mimesi come paradigma della rappresentazione. Erano origini che, per quanto leggendarie, dimostravano la convenzionalità o l’artificiosità di tale paradigma e, allo stesso tempo, aprivano un nuovo varco per la sua praticabilità nel presente. L’ispirazione per una simile impresa intellettuale poteva offrirla una letteratura concentrata sullo studio della civiltà greca, a cui tali origini si facevano risalire.
Testi fondamentali come Mito e pensiero presso i greci di Jean-Pierre Vernant, per offrire un esempio illustre, avevano cercato di chiarire come il ‘doppio’ fosse una categoria dell’arte arcaica non riducibile alla teoria della mimesi. Un simile approccio al problema della figurazione, che Vernant definiva di «psicologia storica», poteva dischiudere a Chia più di qualche suggestione sulle origini magiche ed etnoantropologiche dell’arte. Questa idea di ‘personificazione’ che Vernant anteponeva alla nascita, in Occidente, della rappresentazione come mimesi poteva sembrare una via per riscattare la somiglianza iconica da ogni funzione descrittiva. Il ‘doppio’ era un simulacro che rievocava in absentia e, soprattutto, sostituiva il proprio referente. Per questa ragione, forse, Chia scelse per la sua mostra degli oggetti che erano dei doppi miniaturizzati di altrettanti referenti reali (aereo, rosa, storno, bottiglia) e attese soltanto il finissage prima di realizzare il loro ricalco. Non era soltanto un meccanismo per frustrare lo spettatore, secondo lo Zeitgeist concettuale, ma anche il coerente differimento che il mito di Butade comportava: l’ombra si trasformava in tableau soltanto un attimo prima della scomparsa definitiva del suo referente. Ai sedici Frammento d’ombra di Chia era solo concesso di rievocare gli oggetti con una somiglianza interrotta, attraverso una sineddoche visiva. Ciò che, frattanto, s’offriva all’osservatore era l’officina che annunciava, allo stesso tempo, la nascita di quelle raffigurazioni e di un nuovo artista. C’era ovviamente un altro riferimento obbligato a una nozione di ‘doppio’ ed era quello contenuto nel titolo, un’evidente parafrasi de Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud. Tradotto in pieno 1968, il libro era presto divenuto un testo fondativo per molta dell’avanguardia teatrale italiana. Tuttavia, il ‘doppio’ era qui da intendersi, con un gioco di parole, come la vita, vale a dire come un modo di ripensare la relazione stessa fra arte e vita, e cioè in un’accezione non accostabile a quella di Chia. In quest’ultimo, invece, il mito e l’immagine giungevano come forma di consapevolezza e di distanziamento, ossia come qualcosa di opposto, secondo quanto scriveva all’epoca Jacques Derrida, al messaggio vitalistico di Artaud. D’altra parte, di quel ‘teatro della crudeltà’ artaudiano, a cui tutti stavano guardando in quel frangente, non v’era traccia evidente ne L’ombra e il suo doppio. Mancavano lo scopo catartico e l’esibizione sadica, nonostante i modelli fossero a portata di mano. A Roma, nei mesi precedenti la mostra, era stata più volte inscenata la tragedia I Cenci, una scelta emblematica in tal senso. O, ancora, nelle arti visive Artaud era stato l’ispiratore inquieto di alcune opere. Lo era stato in forma dichiarata nella pittura di Sergio Sarri, che lo aveva più volte omaggiato raffigurando dispositivi di costrizione, di esibito masochismo e di crudele alienazione dell’individuo. E lo era stato, stavolta in forma più ermetica, nelle installazioni di Vettor Pisani dove il supplizio era inscenato con l’«humour nero e liturgico, da teatro della crudeltà». Se quest’ultimo esempio, sia per la contiguità (Pisani aveva tenuto nel 1970 la sua prima personale da Liverani) sia per le assonanze poetiche (un’arte metalinguistica che si riferiva soprattutto a Marcel Duchamp), era quello più calzante, il modo d’intendere Artaud da parte di Chia restava eccentrico rispetto alla sua ricezione presso l’arte sperimentale italiana. Per comprendere quanto fosse singolare questa interpretazione non bisogna tanto ricorrere all’analisi iconografica, quanto al paratesto che accompagnava L’ombra e il suo doppio. Oltre al suo titolo, infatti, la mostra era corredata da un breve dattiloscritto, a firma dell’artista, che è stato reso noto soltanto nel 2001. Il testo, che qui riportiamo integralmente con alcune note sulle sue fonti letterarie, era un occulto centone che fondeva tra loro le citazioni da alcuni testi dello Śivaismo e, soprattutto, da una raccolta di poesie e racconti di Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, edita nel 1966 e meno fortunata del suo manifesto teatrale. La scelta di citare, sebbene in via subliminale, la raccolta del 1966 corrispondeva senz’altro a una diversa ricezione del drammaturgo francese. Quello nelle pagine dell’edizione Adelphi, infatti, era un Artaud molto più intimo e disperato, specialmente nelle sue denunce sulla brutalità delle terapie psichiatriche, ma era anche un Artaud più visionario e coinvolto nelle esperienze magico-psichedeliche. Proprio quest’ultimo aspetto era alla base della disinvolta ed ermetica commistione di quel dattiloscritto, fra testi induisti e viaggi fra gli indigeni messicani di Artaud. Con una certa vaghezza, che apparteneva più che altro alle frange hippie della sua generazione, Chia mescolava allusioni ipnagogiche, cifrati rimandi alla psichedelia e il piano assolutamente mistico dell’illuminazione induista. In qualche modo, nella sua oscura organizzazione, questo brano era il racconto di una rivelazione artistica («nasce improvvisamente un altro pensiero»), di un’ispirazione che arrivava con l’allentarsi della ragione («Ma non so cosa ciò significhi») e con la deviazione delle tecniche meditative («Mentre uno è mentalmente tutto occupato su di un dato oggetto»). Questo breve testo, per quanto criptato, rinvigorisce l’impressione che l’apparato visivo, notturno e umbratile, concepito da Chia, avesse un forte valore mistagogico. Nell’alludere ai meccanismi imperscrutabili dell’invenzione artistica, esso tornava su quell’aspetto magico e antropologico che si è già notato disquisendo del ‘doppio’: Chia impersonava, in qualche modo, la figlia di Butade, compiendo una sorta di rito dal valore iniziatico. Il suo gesto d’esordio, quindi, era tanto una forma di autodeterminazione quanto un atto propiziatorio: un voler essere riconosciuto come artista, che cercava di tenere insieme consapevolezza metalinguistica e misticismo, allusione al mito e letture à la page, creazione artistica e magia etnologica. In uno scritto del 1986, redatto all’indomani della morte di Joseph Beuys il maestro dell’arte come attivismo politico, che aveva però formato l’ultima generazione di pittori tedeschi, Chia compì in modo esplicito quell’operazione retrospettiva di cui ogni esordio, per essere tale, ha bisogno: Penso a cosa sia l’arte ed il tempo si arresta e lentamente torna indietro, ieri moriva Joseph Beuys, venticinque anni fa decidevo nella gloria di una notte di consacrare la mia vita alla pittura e all’arte. L’allusione era di per sé limpida: ormai giunto all’apice del successo, il pittore identificava il momento della rivelazione del proprio mestiere con quella notte del 1971, descritta nell’arcano dattiloscritto che accompagnava L’ombra e il suo doppio. A oltre due decadi di distanza, quell’esposizione reggeva ancora egregiamente il suo ruolo fondativo, di avvio di quella che si sarebbe potuta definire, mutuando le parole di Ernst Kris, una tappa essenziale nella «biografia prescritta» di un artista: la rivelazione del suo talento, il manifestarsi improvviso e spontaneo della sua vocazione, nelle forme di una epifania giovanile. In un’epoca come gli anni Ottanta, di ritorni pittorici e fulgidi successi di mercato, l’autonarrazione di una gavetta difficile, di un apprendistato laborioso, era meno affascinante dei topoi radicati nelle biografie degli artisti e del folgorante manifestarsi del loro destino. Ciò che, tuttavia, è ancora più sorprendente è come L’ombra e il suo doppio abbia rivestito la sua funzione di origine, premonitrice e consapevole, non soltanto lungo tutta la carriera di Chia, ma, appunto, fin dall’inizio. Alludendo al mito per autodichiararsi come una forma di principio, quell’esposizione palesava l’esigenza di costruire la propria carriera in una forma specifica e particolare, in linea con certa arte metalinguistica di quel tempo. Esempi di tal genere, ai quali attingere nel 1971, non erano certo esigui. L’anno prima, come già accennato, presso la Galleria La Salita Vettor Pisani aveva tenuto la sua prima personale, riscontrando un immediato interesse della critica. Da subito era emerso l’approccio metalinguistico della sua arte, che prendeva la parola a partire dal commento dell’arte altrui, o meglio, dei fondamenti storici dell’arte presente. Maschile, femminile e androgino. Incesto e cannibalismo in Marcel Duchamp era una complessa installazione, non priva di tratti cruenti e cupe allusioni psicanalitiche, in cui Pisani aveva reinterpretato l’opera di uno dei maestri indiscussi per l’Arte Concettuale e, più in generale, per il secondo Novecento. Al di là dei contenuti specifici, l’elemento di maggiore originalità di una simile operazione era proprio l’assenza d’ogni ricorso alla retorica dell’innovazione avanguardista. L’attitudine espressa da Vettor Pisani era piuttosto quella di un distanziamento tipico dell’atto metalinguistico: il tentativo di parlare dell’arte del passato impiegando una strumentazione visivo-teorica nuova. In modo fondato, l’attuale storiografia ha sottolineato come questo atteggiamento di Pisani costituisse una duplice abiura sia verso il mito dell’originalità sia verso una visione storicista dell’evoluzione artistica. Sviluppando forme conclamate di «epigonalità» o constatando malinconicamente la perdita «della potenza immaginativa dell’arte d’avanguardia», le frequenti citazioni colte effettuate da Pisani erano state davvero i prodromi come certa critica militante intuì della stagione dell’eclettismo postmoderno; stagione di cui Chia sarà un indiscusso emblema. Tornando al 1971, comunque, un modello ancor più puntuale poteva essere quello offerto da Giulio Paolini. Ne L’ombra e il suo doppio i debiti teorici e allestitivi nei suoi confronti erano abbastanza scoperti. Innanzitutto, la disposizione simmetrica e speculare delle tele, che poneva ciascun quadro in una sorta di condizione ‘installativa’, riprendeva il congegno prospettico già adottato da Paolini in Quattro immagini uguali. Esposta nell’epocale Vitalità del negativo, la prima tappa nella istituzionalizzazione delle neoavanguardie italiane, l’installazione fu con ogni probabilità vista da Chia non appena questi arrivò a Roma, agli inizi del 1971. Da quel sistema di reciprocità prospettica, per cui ogni tela recava l’immagine delle altre tre, poste al centro di ciascuna parete, egli dovette riprendere i modi allestitivi e l’idea di un posizionamento dei quadri in chiave installativa, di vicendevole corrispondenza. Tradendo in parte le premesse paoliniane, che puntavano piuttosto a rendere evidente la convenzionalità prospettica della visione incarnata da un quadro, Chia convertì tale dispositivo in una dichiarazione circa il processo figurativo di costruzione dell’immagine. Da un sistema autoriflessivo, com’era quello di Paolini, che richiedeva una concentrazione dell’atto su sé stesso, della visione sul proprio funzionamento, Chia si era spostato verso una visualizzazione della genesi dell’opera. In entrambi i casi, cioè, si trattava di una mise en abîme, di un’opera che dichiarava la propria ‘finzionalità’, tematizzando sé stessa con intenti, però, divergenti: nel primo si evidenziavano le norme che presiedevano alla rappresentazione in Occidente; nel secondo, invece, l’atto magico e indicale che, in quella stessa tradizione, aveva originato la rappresentazione. In entrambe le immagini si assisteva a due forme di atemporalità: nella prima si trattava di quella sincronica e universalizzante della prospettiva, nella seconda della riattualizzazione ciclica del mito. L’una concepiva un dispositivo autoriferito, dentro al quale si dichiarava l’artificio dei rimandi reciproci, l’altra inscenava il laboratorio, la ‘camera oscura’ in cui l’immagine, dalla realtà, si proiettava nello spazio della tela. Dall’interrogazione sul vedere, insomma, ci si traslava nel campo della gestazione iconica e delle ragioni autoriali, sebbene Chia riconducesse tutto ciò all’ambito impersonale della leggenda. Una seconda suggestione paoliniana dovette provenire, inoltre, dalla mostra che aveva preceduto, a La Salita, L’ombra e il suo doppio. Nel marzo del 1971, infatti, Paolini aveva dedicato un’intera esposizione alla sua prima opera riconosciuta, ossia a quel Disegno geometrico da cui abbiamo preso avvio in questo articolo. Nella sala della galleria l’artista aveva allestito sette riproduzioni fotografiche, stampate su tela emulsionata, di quello stesso quadro, attribuendo a ciascuna di esse un autore e un titolo fittizio. Assolutamente borgesiana e labirintica, quest’operazione poneva un’estrema enfasi sulla questione dell’esordio e dell’origine preparatoria dell’immagine come una vera e propria dichiarazione d’intenti. Nella moltiplicazione di autori e titoli, essa sottolineava l’impersonalità metastorica di quella immagine e, allo stesso tempo, dimostrava come ciascuna origine non fosse altro che il riconoscimento, effettuabile soltanto a posteriori, del chiarirsi di un progetto poetico. La vocazione metalinguistica dell’arte di Paolini si trovava così confermata sia in quello stesso avvio, così essenziale e colmo di potenzialità, sia nella rievocazione di quell’avvio che, retrospettivamente, compiva la sua mostra del 1971. Per un approccio che di fatto confutava ogni forma di evoluzione teleologica con cui si erano spesso legittimate, nel Novecento, molte avanguardie, il principio di una carriera si autodenunciava come non più fondato sul mito della novità e dell’invenzione ex nihilo. La questione dell’esordio e dell’origine non diveniva, pertanto, un atto di creazione pura e autodeterminata, bensì una forma di ricongiunzione col passato. Ogni avvio doveva essere, cioè, la ripetizione di un altro avvio e il saldarsi con la tradizione che aveva istituito le condizioni per quell’avvio. L’incipit, per un artista metalinguistico, era dunque il modo di operare con consapevolezza questa saldatura con la storia dell’arte, senza ricadere in formule ingenue di originalità avanguardista o di creatività romantica. Istituendosi come ricongiunzione, ogni debutto era così fondato sulla capacità di sussumere il passato – o gli avvii che l’avevano preceduto – e di lasciar intravedere una potenzialità per la ricerca a venire. Quanto, di questa accorta filosofia della storia, Chia potesse assimilare nel 1971 è di certo un problema aperto e da indagare ulteriormente. Tuttavia, al di là delle assonanze formali con Paolini (i medesimi impianti allestitivi o la simile nudità delle tele), L’ombra e il suo doppio sembrava tener ben presente la possibilità di darsi allo stesso tempo un’origine e un avvio attraverso il doppio gioco di un riferimento colto al passato e di uno, autoriferito, al proprio lavoro. Scegliendo le allusioni al mito, all’illuminazione mistica, all’etnologia, Chia sembrò preferire da subito, agli strumenti rigorosi della semiotica che circolavano in quegli anni, un’evocazione più magica delle origini. Nel commutarsi dei modelli e dei problemi di un’arte metalinguistica, Chia aveva piuttosto concepito l’inizio come un’iniziazione: il ripetersi di un gesto leggendario che, quasi per cooptazione ideale e immaginaria, avrebbe propiziato il suo ingresso nella secolare congrega degli artisti. Infine posso affermare che il concetto che caratterizza l’arte di Chia è la convinzione che la linfa che alimenta l’arte è intrinseca a se stessa. L’artista ritiene che sia necessario per gli artisti conoscere ciò che è venuto prima di loro e guardare ai maestri con occhio rispettoso, per poi poter citarli nelle opere. Infatti, Chia guarda molto ai capolavori degli artisti del passato, tra cui Tiziano, Masaccio, Tintoretto, Lorenzo Lotto e Michelangelo Buonarroti, ma anche agli esempi contemporanei del calibro di Giorgio de Chirico, Fernand Lèger, Paul Cézanne, Francis Picabia e Marc Chagall, rielaborando i loro risultati e facendoli suoi attraverso numerosi riferimenti e citazioni che porta nelle sue opere, spesso anche in modo ironico ed allusivo. Le prime opere di Chia sono, quindi, certamente figurative ma molto concettuali, tra cui La mercante di scacchiere (1976), in cui una figura femminile di spalle si muove tra diverse superfici a scacchi di diversi colori e dimensioni che riempiono tutta la tela, proprio come se ci si trovasse in una dimensione onirica; oppure Ossa, cassa, fossa (1978) in cui un uomo guarda in una sorta di abisso rappresentato da un parallelepipedo nero ricavato in un muro rosso, nel quale si leggono le parole che danno il titolo all’opera; infine si ricorda una delle opere in cui sono presenti citazioni derivate dalle opere metafisiche di De Chirico, ovvero Sul tetto, sulla strada (1979). Con il proseguire degli anni, a poco a poco le figure umane si appropriano di buona parte dello spazio della tela. Si tratta di personaggi ben delineati da contorni definiti con il colore nero e costituiti da volumi possenti, che campeggiano imponenti su sfondi vivaci che non hanno luogo e non hanno tempo, perpetrando la sensazione di trovarsi di fronte ad un sogno visionario fatto di contrasti apparentemente inconciliabili tra loro. In particolare, si riconoscono in queste opere espliciti riferimenti ai contrasti tra l’antico e il contemporaneo, tra l’apollineo e il dionisiaco, tra la passione e la razionalità. Non a caso, sia nelle opere scultoree che pittoriche di Chia il personaggio che ricorre più frequentemente è il maschio presentato come eroe, che simboleggia l’artista stesso in atteggiamento di ribellione e di affermazione di se stesso. Le opere diventano in questo modo per l’artista una sfida avventurosa il cui fine ultimo è trovare la propria libertà e riuscire a lasciarsi andare completamente senza limiti. L’espediente dell’eroe, tuttavia, viene costantemente sdrammatizzato da Chia attraverso l’uso dell’ironia, che appare evidente ad esempio in Sinfonia incompiuta (1980), in cui una figura vista di spalle, voltata a guardare lo spettatore, sfoga la propria creatività come fosse un istinto corporeo da lasciare libero. In questo specifico caso la creatività viene rappresentata da uno spartito musicale, ma ad ogni modo l’artista lascia intendere che nell’opera si riferisca alla creatività in generale. Successiva a quest’opera è Figure con bandiera e flauto (1983), dove vengono ritratti due uomini seduti all’aperto di notte, uno intento a suonare un flauto mentre l’altro regge una bandiera. Si tratta di una scena dai toni umili, eppure Chia infonde nei protagonisti un’aura di grande importanza, come se fossero eroi di un grande poema storico. Emblematica è anche Il pittore (1983) in cui la figura che campeggia nell’intero spazio della tela ha il volto di una statua, mentre il resto del corpo è umano e ritratto mentre reca tra le mani un dipinto fatto semplicemente di macchie di colore informi.
Anche la scultura è perfettamente integrata nell’intento artistico di Chia, come si evince da Senza titolo del 1984. La figura umana è sempre protagonista ed è raffigurata mentre riprende, o meglio prende in giro, le pose tipiche della scultura antica. Il busto infatti segue una torsione enfatizzata, innaturale, mentre gli occhi risultano grandi almeno il doppio del normale, in un continuo travalicare il limite tra immaginazione, sogno e realtà. Nella prolifica produzione di Chia degli anni Novanta e Duemila, continuano ed essere presenti delle palesi citazioni del passato, che in particolare virano verso Braque o Picasso (non a caso le figure presenti in una serie di opere Senza titolo del 2006 sembrano essere estrapolate direttamente da Les Demoiselles d’Avignon, in quanto ricorrono delle figure femminili, presentate singolarmente, che nelle loro posizioni contorte ricordano le medesime presenti nella celebre opera di Picasso). Ricorrono in questo periodo anche citazioni del Futurismo , evidenti negli sfondi dinamici composti da blocchi di colori accesi che ricordano molto le opere di Umberto Boccioni, Giacomo Balla e Fortunato Depero ,fino a nominare esplicitamente il movimento nel titolo Fotografo futurista del 2003. Nel 1999 Chia aveva inoltre realizzato dei ritratti di artisti italiani esponenti della Pop Art, in occasione di una mostra al Chiostro del Bramante di Roma dedicata al movimento. Le opere degli anni Duemila proseguono la tendenza di presentare la figura ieratica e plastica a tutto campo, con una variazione riguardo le cromie che diventano meno contrastanti, bensì più sfumate e giocate sui toni del verde, dell’azzurro, del rosa e del bianco, come ad esempio Attesa (2013-14), in cui un aitante giovane è ritratto mentre è seduto su un masso, in attesa di qualcuno, e dietro di lui si staglia un paesaggio dai volumi tondeggianti e semplificati, ma pur sempre plastici. Tutta la composizione si basa su diverse tonalità di azzurro, verde acqua e grigio, mentre i contorni sono ben delineati da spesse linee nere. Il titolo della mostra che richiama il titolo di importanti opere storiche dell’artista, una delle quali, Due pittori al lavoro è un chiaro riferimento alla natura metamorfica dell’impegno di Chia, sempre orientato da un lato verso un avanzamento del lessico espressivo e dall’altro verso un rimaneggiamento costante e ossessivo delle immagini provenienti dalla storia dell’arte. Il progetto si concentra specificatamente sulla produzione di carte poiché, osservando la lunga storia italiana e internazionale dell’artista, proprio questo supporto ha costituito un ambito privilegiato del suo fare, spesso in autonomia totale rispetto alla coeva produzione di dipinti su tela o sculture che l’hanno consacrato nei grandi musei internazionali. Le opere in mostra ritraggono personaggi – Pinocchio, per esempio –, anatomie, narrazioni, ironia un po’ tragica, scene buffe, amori, solitudini e malinconie che appartengono alla storia dell’uomo. Per l’occasione sarà pubblicato un catalogo da Dario Cimorelli Editore con il saggio del curatore, le fotografie delle opere in mostra, materiali d’archivio e una densa sezione di apparati scientifici biografici, bibliografici ed espositivi dell’artista redatti da Simone Melis, assistente curatore della mostra. La mostra è organizzata con il supporto di Galleria Mazzoli, Modena.
Biografia di Sandro Chia
Nato nel 1946 a Firenze ha studiato all’Istituto d’Arte e all’Accademia di Belle Arti di Firenze dove ha concluso gli studi nel 1969. Successivamente ha viaggiato molto in India, Turchia e in tutta Europa prima di stabilirsi a Roma nel 1970, dove l’anno successivo tiene la sua prima mostra personale alla Galleria La Salita. Verso la fine dei Settanta la sua ricerca artistica di matrice concettuale si apre ad una dimensione pittorica intensa ed espressiva, accostata dal critico Achille Bonito Oliva a quella di Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, nella lettura critica della Transavanguardia Italiana. È del gennaio 1980 la sua prima mostra newyorkese tenuta alla Galleria Sperone Westwater Fischer, città dove si è trasferito nel 1982 e dove è rimasto per oltre due decenni.
Ha partecipato alla Biennale di San Paolo (1979), alla Biennale di Parigi (1977, 1985), alla rassegna Documenta 7 di Kassel (1982) e a quattro edizioni della Biennale di Venezia (1980, 1984, 1988, 2009). Le sue opere sono state esposte in musei e gallerie di tutto il mondo, dal Solomon R. Guggenheim Museum di New York alla Royal Academy of Arts di Londra, dal Centre Georges Pompidou di Parigi al Museum of Modern Art di New York, dalla TATE Gallery di Londra alla Kunsthalle di Basilea. Gli sono state dedicate mostre personali, tra le altre, allo Stedelijk Museum di Amsterdam (1983), alla Staatliche Kunsthalle di Berlino (1984), al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris di Parigi (1984), al Metropolitan Museum of Art di New York (1984), alla Kunsthalle di Bielefeld (1984), al Museum Moderner Kunst di Vienna (1989), a Palazzo Medici Riccardi di Firenze (1991), alla Nationalgalerie di Berlino (1992, Palm Spring Desert Museum in California (1993), a Villa Medici, Roma (1995), a Palazzo Reale a Milano (1997), alla Galleria Civica di Siena (1997), al Boca Raton Museum of Art in Florida (1997), alla Galleria Civica di Trento (2000), al Museo Archeologico Nazionale di Firenze (2002), alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma (2010), e al Foro Boario di Modena (2011). Oggi vive e lavora nel Castello Romitorio, nei pressi di Montalcino.
Fondazione Biscozzi – Rimbaud ETS di Lecce
Sandro Chia. I due pittori
dal 22 Febbraio 2025 al 15 Giugno 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 16.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto dell’ Allestimento mostra Sandro Chia. I due pittori dal 22 Febbraio 2025 al 15 Giugno 2025 Fondazione Biscozzi – Rimbaud ETS di Lecce courtesy Fondazione Biscozzi – Rimbaud ETS di Lecce