Giovanni Cardone
Fino al 2 Giugno 2025 si potrà ammirare a Palazzo Bonaparte Roma la mostra dedicata a Munch – Munch ‘Il Grido Interiore’ a cura di Patricia G. Berman, una delle più grandi studiose al mondo dell’artista, con la collaborazione scientifica di Costantino D’Orazio, è realizzata in collaborazione col Museo Munch di Oslo. L’esposizione prodotta e organizzata da Arthemisia è gode del patrocinio del Ministero della Cultura, della Regione Lazio, del Comune di Roma – Assessorato alla Cultura, della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma e del Giubileo 2025 – Dicastero per l’Evangelizzazione. E’ possibile ammirare cento capolavori di Edvard Munch, tra cui le iconiche La morte di Marat (1907), Notte stellata (1922–1924), Le ragazze sul ponte (1927), Malinconia (1900–1901), Danza sulla spiaggia (1904), nonché una delle versioni litografiche de L’Urlo (1895). In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Edvard Munch e sull’Espressionismo apro il saggio dicendo : Nell’uso attuale del termine espressionismo riferito alle arti si danno due accezioni diverse: da un lato si indica una tendenza ricorrente, una sorta di categoria, individuabile in senso sovrastorico, dell’atteggiamento psicologico che si manifesta, nel fare artistico, in un sistema di esasperazioni formali; dall’altro si indica un complesso momento, storicamente determinabile, dell’avanguardia artistica di questo secolo, al quale il termine è stato applicato, prima dalla critica e poi dagli artisti, per indicarne il comun denominatore e il fattore più caratterizzante. In questo momento prevale l’atteggiamento espressionista categorialmente inteso; ma il fenomeno storico non è riducibile all’atteggiamento, come d’altra parte l’atteggiamento, nel suo manifestarsi storico, si combina con una serie eterogenea di fattori e si riduce in una determinazione particolare. Nel taglio del materiale da analizzare è legittimo tener presente l’una o l’altra accezione del termine, operando una restrizione, necessaria per ogni tipo di analisi, che corrisponde a una scelta sul metodo e le finalità del lavoro. Optando per la seconda, ci proponiamo di indicare il significato di un certo modo d’intendere la produzione artistica e l’atteggiamento estetico in un determinato momento storico, le sue molteplici manifestazioni e le sue implicazioni ideologiche, le condizioni da cui esso nasce e la posizione che occupa nella coscienza contemporanea. Questa precisazione è necessaria perché, tra tutti i termini designati a indicare movimenti d’avanguardia, l’espressionismo, per la complessità dei fatti che lo compongono e non per una loro presunta, illusoria elementarità, è quello che presenta maggiori difficoltà di definizione e quindi, al tempo stesso, più si presta a risolversi in una categoria sovrastorica; categoria che può esercitare un particolare fascino anche per certe sue istanze irrazionalistiche. Scegliendo di porsi in un’ottica rigorosamente storica, si deve analizzare e scomporre anche questo fascino. Per espressionismo s’intende dunque una manifestazione delle arti situabile tra l’esaurirsi, o meglio il trasformarsi, di un filone simbolista e le nuove tendenze ‛oggettive’ e ‛razionali’, che però sotto molti aspetti in esso rientrano, ossia tra il 1905 circa e il corso degli anni venti. Il termine è nato nell’ambito della pittura, ma il fenomeno investe anche la scultura più limitatamente, la musica, la letteratura, il teatro e il cinema, e infine l’architettura e l’industrial design, dove però è controverso se esso abbia agito direttamente o a livello di istanza, o in negativo. Per un complesso di ragioni economiche e sociopolitiche, nonché per un particolare substrato culturale e in specie filosofico, il suo centro è la Germania, da cui passa abbastanza direttamente in Austria e per vie più lente e complesse in altri paesi. Un discorso a parte va fatto per i fauves, che si possono considerare una particolare, e diversa, manifestazione dell’espressionismo in Francia, e con i quali si sono talvolta identificati gli stessi pittori espressionisti tedeschi. Il termine indica la volontà programmatica di estrinsecare nell’opera una realtà interiore, una condizione composta di sentimenti, concezioni del mondo, reazioni all’ambiente esterno, direttamente e immediatamente attraverso l’immagine, senza il tramite di un simbolo codificato; questa condizione si riassume nella intraducibile Stimmung, letteralmente ‛intonazione di un accordo’, che comprende lo stato d’animo e l’atmosfera dell’ambiente. Si accentuano, in tal modo, l’istanza comunicativa e il valore gestuale dell’attività artistica, a discapito dell’interesse per una forma totalizzante e appagante; la forma si riduce invece alla funzione di segno, nel contesto di un linguaggio che rivendica a sè, e a sé soltanto, la possibilità di esprimere globalmente e senza ‛maschere’ la realtà dell’esistenza, ormai scissa irrevocabilmente dalla verità fenomenica: sono proprio gli espressionisti che aprono la strada a un’estetica non più fondata sul concetto di forma e di rappresentazione, ma su quello di ‛segno’: l’estetica ‛semantica’, appunto. Nè, se questa tesi è giusta, v’è altro da aggiungere per spiegare l’influenza persistente, crescente, sempre più premente, che l’espressionismo ha esercitato ed esercita sull’arte moderna nel mondo; e la necessità di un ponderato riesame critico che chiarisca l’importanza, non soltanto di componente romantica, ch’esso ha avuto nella storia dell’arte». La definizione dell’espressionismo in tale significato, che, nel sottolineare il moto dall’interno all’esterno dell’atto creativo, polemicamente lo oppone all’impressionismo ma questo se ne rivelerà, a un esame più attento, presupposto diretto, non appare in un vero e proprio programma, ma è desumibile da una serie d’interventi di critici e di artisti. È usata, forse per la prima volta, nel 1910, riferita a un quadro di Pechstein da Cassirer, durante una discussione della giuria del gruppo Secessione di Berlino; da Worringer nella sua difesa delle tendenze moderne soprattutto francesi contro la nazionalistica Protest deutscher Künstler pubblicata poi anche in ‟Der Sturm» nell’agosto 1911 con maggiore consapevolezza nel 1914 riferita agli artisti della Brücke, del Blaue Reiter e a Kokoschka, e da Bahr nel 1916; da K. Edschmid in alcuni scritti tra il 1917 e il 1919, riferita alla letteratura; quindi il termine diviene di uso comune, e in seguito sarà riferito sempre più alla tendenza che più nettamente si rivela nei pittori della Brùcke. Dal 1914 in poi per espressionisti s’intendono specialmente gli artisti operanti in Germania, ma il termine è spesso ancora esteso ai fauves, ai cubisti e ai futuristi. In alcune affermazioni, per esempio dello stesso Edschmid e di Behne Deutsche Expressionisten, in ‟Sturm», 1914, appare prevalente la tendenza a concepire l’espressionismo come categoria sovrastorica, che eternamente ‛ritorna’ nell’evoluzione dell’umanità. Come è stato notato , sono gli artisti francesi, e in particolare Matisse sulla scia di Moreau, i primi a formulare nei loro scritti una teoria dell’arte come espressione; e il termine espressionismo in Germania è inizialmente riferito proprio ai fauves: così, per esempio, alla XXII mostra del gruppo Secessione di Berlino, nel 1911. Ma non è un caso che il termine stesso venga coniato e usato dai critici tedeschi e non dai francesi. L’arte come espressione è intesa in modo profondamente diverso da un Matisse o da storici come Fechter; il riferirnento dell’espressionismo compiuto da quest’ultimo, a posteriori, all’avanguardia tedesca, in base ad argomentazioni irrazionalistiche per noi inaccettabili, indica comunque che esiste un fenomeno storicamente determinato riassumibile in tale termine, anche se gli artisti in questione non si sono autodefiniti espressionisti nè costituiscono un gruppo unitario. Questa esigenza di comunicazione, di approdo immediato alla sfera esistenziale, di recupero del valore della creatività soggettiva, avviene in un momento particolarmente denso di trasformazioni nella storia della Germania. Siamo in una nazione relativamente giovane, in cui il processo di industrializzazione, ancora abbastanza arretrato all’inizio dell’ultimo quarto dell’Ottocento, ha subito negli ultimi anni una rapida accelerazione, per entrare direttamente nella competizione del mercato mondiale. La fase bismarckiana si è conclusa nel 1890 la speranza di un rapporto dialettico tra un capitalismo in piena espansione e un socialismo che preme alle porte, aperta subito dopo da qualche provvedimento, è delusa ben presto e sostituita dall’ordine stabile e dalle mire assolutistiche e imperialistiche di Guglielmo Il. Nella vita quotidiana appaiono preponderanti i valori del progresso scientifico e del rafforzamento del potere, presupposti della sicurezza di un assetto borghese che tanto più difende il proprio privilegio quanto meno direttamente è attaccato. È il momento di formazione e di espansione dei grandi consorzi produttivi e delle grandi ditte, il momento dei Krupp, della Siemens, delle miniere della Ruhr. In questa situazione l’artista-pittore prende coscienza, più chiaramente di quanto non fosse mai avvenuto prima, della propria non solo ideale ma reale, strutturale emarginazione. Sia nel ruolo di facitore d’immagini di evasiva purezza, sia in quello di sopravvissuto operatore di tecniche artigianali, egli avverte la propria impotenza nella ricerca di un committente non interessato all’utilità dell’investimento o di un destinatario ancora capace di accogliere, nel frastuono della città, il suo specifico linguaggio; e nello stesso tempo avverte, insopprimibile, il freudiano ‛disagio’ dell’attuale forma di civiltà, anzi di ‛civilizzazione’, il pericolo e l’imminente catastrofe, e per contro l’impulso vitale a opporvi disperatamente un valore alternativo. Il quale oscillerà sempre tra la pura, negativa protesta e un’ipotesi di ricostruzione più volte frustrata, fino ad approdare ed è questa la fine, o meglio la risoluzione dell’espressionismo al riconoscimento dell’inutilità della ribellione attuata in termini puramente astratti e della necessità, da parte dell’artista, di un intervento diretto nella lotta politica. Non sono, questi, problemi del tutto nuovi. Il ‛disagio’ era stato rilevato esattamente, anche se utopisticamente irrisolto, da Ruskin e Morris; e il problema di opporre al meccanicismo della produzione industriale l’alternativa della creatività e della libertà è un problema di tutta l’arte contemporanea, dall’impressionismo e postimpressionismo alle avanguardie storiche e fino ai nostri giorni. Ma nell’attaccamento alla propria tradizione nazionale, favorito da un isolamento culturale riscontrabile a tutti i livelli nella seconda metà dell’Ottocento, gli artisti tedeschi ora trovano motivo per aggravare dolorosamente quello che Gropius chiamerà ‟l’abisso tra il reale e l’ideale» piuttosto che per risolvere un problema già contraddittoriamente impostato. Nei primi anni del Novecento, pesantissima è ancora l’eredità romantica nella sua componente idealistica, e a questa non è sfuggito neppure il positivismo tedesco che non ha mai assunto un ruolo di rottura, ma è stato neutralizzato da una nuova corrente irrazionalistica con cui esso stesso si confondeva. L’impressionismo come radicale mutamento nella concezione della pittura non era mai entrato in Germania, e con esso veniva ignorato, almeno a livello di tecnica, qualunque modo d’intendere l’arte nella sua funzione conoscitiva e di controllo con mezzi specifici della realtà fenomenica. Il simbolismo in Germania non evocava tanto un contenuto onirico quanto gli antichi miti e un astratto ideale che sconfinava, assai più che negli altri paesi, nel recupero di un classicismo vuoto e lontano. Lo Jugendstil, più che interpretare le nuove istanze del modernismo, si era posto, nelle sue forme più appariscenti, come posizione evocativa ed evasivamente liberatoria. L’improvvisa apertura che l’espressionismo indubbiamente segna nei confronti della cultura europea, assume il carattere, da un lato di una violenta reazione contro tutte le condizioni che l’avevano ostacolata, dalla tradizione accademica agli interessi di una logica borghese e industrialistica, dall’altro di una strenua difesa delle proprie radici considerate autentiche, di un recupero sovrastorico dei valori del proprio passato, con i quali il legame è direi quasi viscerale e impossibile a sciogliersi. Consideriamo gli idoli del momento, i nomi ricorrenti negli articoli dei critici e nelle lettere degli artisti: da un’interpretazione parziale di Nietzsche si risale a Schopenhauer e, più lontano, alla genuinità del cristianesimo primitivo o della religione autoctona precristiana; si risale da Wagner a Goethe, fino a Dürer, Grünewald e i ‛primitivi’ tedeschi. Il primo momento della reazione non in senso strettamente cronologico, anche se pure di questo si tratta, ma soprattutto in senso dialettico segna un’esasperazione della soggettività contro la minaccia di una massificazione, dell’individuale contro il sociale. Quindi, il passo è breve verso il recupero di un senso di coralità in cui l’individuo non solo conserva il proprio valore, ma lo intensifica nel creare, con i suoi simili, quella sorta di superiore individualità che è la comunità e che non necessariamente coincide con la collettività sociale. Resterà sempre, negli espressionisti e fin negli del Bauhaus un contrasto tra ciò che Tönnies aveva definito Gemeinschaft e Gesellschaft. Contro la materia impersonata dalla macchina, dal denaro, dal benessere, si rivendica lo Spirito e anche in questo c’è l’eredità diretta della tradizione simbolista, o più precisamente il Geist, che è spirito e intelletto insieme, e si esprime attraverso l’istinto, romanticamente rivendicato contro la ragione. Esso non va confuso con una religiosità di tipo confessionale: viene esaltato anche contestualmente all’agnosticismo o all’indifferenza religiosa; è una sorta di anima, una Seele, un principio vitale, e difatti la parola sarà nuovamente assunta e chiarita in questo senso con il rafforzarsi di tendenze neovitalistiche negli anni successivi alla prima guerra. Comunque gli espressionisti sono in genere profondamente religiosi, quasi tutti tendenti a una forma mista di panteismo e misticismo, in cui identificano, sempre sulla scia della corrente romantica. Ma, al di là dell’interesse che può suscitare l’adesione di alcuni artisti a determinate dottrine, è importante tener presente il diffuso senso ‛cosmico’ che emerge da tutte le testimonianze dell’espressionismo. Il senso di disagio e di emarginazione spinge l’artista a ricreare il proprio rapporto con la natura in base a funzioni irrazionali e mistiche, perché sul terreno della nemica ‛raglone’ sarebbe sconfitto in partenza. In un primo momento egli oppone il suo io a una natura intesa come materia passiva, cui solo l’atto conoscitivo del soggetto può dare anima e vita. Quindi egli aspira a ricostituire una ‛unità’ perduta, a perdersi nel ‛tutto’, in un cosmo in cui gli esseri e le cose il principio divino e la materia stessa si fondono in un principio vitale che è il Geist, che oscilla tra un desiderio di autodistruzione, in quanto individuo staccato dal ‛tutto’ originario, e un desiderio di autoaffermazione, perché il Geist si afferma attraverso un atto di volontà che è pur sempre un atto umano di rivalità con la natura. Il tema dell’unione cosmica è costante negli scritti di Fr. Marc, ma si trova anche in Klee, A. Macke e molti altri. In una lettera del 1 dicembre 1917 a E. Grisebach, E. L. Kirchner scrive: ‟Capisco ciò che Lei intende quando dice che il filosofo e l’artista creano il loro mondo. Questo mondo in realtà non è che un mezzo d’intesa per entrare in relazione con gli altri uomini nel grande segreto dell’universo». E Kandinskij in Sguardo al passato: Ogni opera d’arte ha origine nello stesso modo in cui ebbe origine il cosmo: attraverso catastrofi che dal caotico fragore degli strumenti formano infine una sinfonia la quale ha nome armonia delle sfere». Nel passaggio da un’opposizione tra l’io e il mondo alla ricerca di una nuova armonia tra gli esseri e le cose bisogna tener presente anche la funzione della mai interrotta tradizione del classicismo di Goethe, al quale gli scritti di artisti e critici fanno continuamente riferimento. Continua così una particolare dialettica di classico e anticlassico che trae le sue origini dallo Sturm und Drang; e l’espressionismo non si risolve semplicemente in un atteggiamento anticlassico, ma in una nostalgia per un’ armonia che si vuol recuperare. In questo ‛ritorno’ all’unità originaria si ricercano le radici dell’esistenza umana anche in senso storico, come ripensamento della propria tradizione. Di qui il primitivismo, che gli espressionisti ereditano pure dal romanticismo e dall’area simbolista, ma che assume ora un tono particolare; è qualcosa di antico, di lungamente represso, che esplode, dal profondo dell’inconscio, nello Urschrei, il grido primordiale. Va precisato che il concetto d’inconscio, per gli espressionisti, è influenzato anche da Freud e più tardi da Jung, ma resta estraneo al senso in cui viene definito dalla nuova scienza della psicanalisi: morbosamente legato a qualcosa di viscerale e trascendentale nello stesso tempo, esso viene a coincidere con un’idea integralista dell’umano, carica di componenti sovrastrutturali; e per questo resta ancora al di là della nuda freddezza e laicità con cui il termine si trasforma per i surrealisti, anche se molti sono poi in concreto i passaggi tra i due movimenti, mediati dal dadaismo. Si tratti della scultura negra o dell’arte dei popoli dei Mari del Sud, degli ex voto popolari, delle stilizzazioni della scultura etrusca di E. Heckel ed egizia di O. Müller, o del verticalismo gotico, il primitivo viene sempre assunto non soltanto e non tanto come principio formativo, ma piuttosto come evocazione di una autenticità primordiale, inconoscibile ma manifestabile nel puro atto: non è un caso che le componenti primitivistiche appaiano più evidenti nelle incisioni e in particolare nella tecnica della xilografia, ripresa dalla tradizione popolare e dagli incisori tedeschi del Quattrocento, in cui la forma fa tutt’uno col gesto che scava il legno e che è determinato da una connessione quasi strutturale tra la soggettività dell’impulso e le caratteristiche quasi organiche e viventi (le venature) della materia. Considerata la situazione storica da cui si sviluppa, è logico che al centro della poetica dell’espressionismo sia la tendenza a porre, e talvolta, nello stesso tempo, a eludere, il problema sociale e quello di una filosofia della scienza. Nasce una difesa del ‛povero’, esplicita, per esempio, in Heckel e in A. Loos, in cui si mescolano la tradizione del cristianesimo primitivo e quella del socialismo utopistico come in genere in tutte le avanguardie storiche, è pressoché ignorato il nome di Marx e a questa spesso si accompagna una difesa dell’individuo in cui intervengono spunti anarchici talvolta direttamente testimoniati, e del resto già presenti nell’area simbolista francese e nell’esempio wagneriano. Molti artisti, per esempio Marc e quasi tutti i membri dello Arbeitsrat für Kunst, si autodefiniscono socialisti, ma di un socialismo ‛particolare’, perpetuando così quell’atteggiamento impolitico che era stato caratteristico di gran parte del romanticismo, non solo tedesco. In Lo spirituale nell’arte Kandinskij, nel triangolo che simboleggia l’avanzata dello Spirito, pone al livello più basso i ‟materialisti», che sono ‟atei» anche se professano una religione confessionale, sono in politica ‟repubblicani», in economia ‟socialisti» e odiano l’anarchia anche se non la conoscono; e a un livello di poco superiore ci sono quelli che, tra gli altri, citano Marx. Mentre si sostiene l’autonomia e la libertà dell’atto estetico, si rifiuta il principio dell’art pour l’art, per finalizzare la forma all’affermazione di una vittoria spirituale e propagandare l’intervento diretto dell’arte nella vita; in teoria, nella vita del popolo, ma spesso si propugna la necessità di una élite culturale. A parte alcuni episodi circoscritti e anch’essi contraddittori della rivista ‟Aktion», l’atteggiamento degli espressionisti è nettamente antiattivistico, e in questo si distacca dalla componente nietzscheana. In realtà la protesta sociale avviene nella forma di un’astratta negazione ed è anch’essa concepita come puro atto non contaminato dalla realtà; nella ricerca di un ruolo specifico d’intervento, mai definito e realizzato, consiste il dramma, dai toni della speranza a quelli della disperazione, degli espressionisti. Comune a tutti è l’atteggiamento antiborghese, altra costante almeno dal romanticismo in poi, e la polemica antipositivistica. L’utilitarismo, la ricerca del benessere e la fede nel mero progresso scientifico vengono accomunati nel concetto di materialismo, al quale si reagisce ora accentuando la fede nell’‛evoluzione’ in una fase spiritualistica, dove il divenire si contrappone, ancora romanticamente, all’essere come lo spirito alla materia, ora ricorrendo al regresso in una fase preborghese, che s’identifica indifferentemente con la comunità medievale o con la preistoria dell’umanità. Nonostante l’odio per la borghesia, si accetta senza troppe contestazioni la realtà di fatto della committenza borghese. Questo non può essere oggetto di condanna: nella situazione politico-culturale esistente, e con i limiti ideologici che son quelli di tutti gli intellettuali e non solo degli artisti, gli espressionisti, come coloro che li precedono e li seguiranno, non possono far altro che cercare la protezione del collezionismo privato; aspirano, sia a Monaco che a Berlino, a non esserne condizionati, a organizzare mostre senza giuria, ma la loro gratitudine si volge indifferentemente al Direttore dei Musei di Monaco, H. von Tschudi, al ‛mecenate’ B. Koehler (lo ‛zio Bernard’ di Macke), ai mercanti illuminati P. Cassirer e H. Walden. La ‛comunità’ della Brücke si regge col finanziamento dei ‛soci passivi’, quasi tutti nomi dell’alta borghesia, e perfino nel programma dello Arbeitsrat für Kunst la produzione artistica deve avere finalità pubbliche, ma può esser promossa da enti pubblici e privati. La disputa sulla collocazione borghese o antiborghese del fenomeno espressionista, connesso alle sue radici romantiche e in vista della fortuna che alcuni suoi temi avranno nel nazismo, sollevata soprattutto dall’interpretazione lukácsiana, non ha alcun senso, a nostro avviso, se ci si riferisce al piano politico concreto e all’espressionismo in particolare anziché a tutta l’arte contemporanea. Condannare il fallimento di questo movimento artistico significa cadere nell’illusione di una potenzialità rivoluzionaria diretta che esso non può avere, nè se lo consideriamo parte di una sovrastruttura, nè se lo consideriamo un linguaggio specifico.




Anche se si appella sovente al popolo e la parola Volk in tale contesto ha un significato romantico e spiritualistico e non coincide affatto con una ‛classe’, l’espressionismo non è un’arte popolare, come non lo è nessuna avanguardia. Nato nell’ambito, e sotto tutti i condizionamenti, di un assetto borghese, ne avverte i limiti e le contraddizioni, lo giudica, lo condanna e protesta contro di esso. Impotente a rompere i ponti con la sua stessa matrice, della borghesia si limita a preannunciare la catastrofe e in certa misura vi contribuisce, ma l’analisi negativa non evade dal livello simbolico. Nel momento in cui gli artisti avvertono l’equivoco, che non è della loro singola posizione ma del concetto stesso di arte, l’espressionismo, con un processo assai simile alla vicenda cubismo-dadaismo, si rovescia nel suo contrario, e si parlerà di morte del quadro, morte dell’architettura, morte dell’arte, senza peraltro la volontà di attuarla: nel 1912 Kandinskij parla di arte monumentale opera d’arte totale che si realizza non nel quadro ma nel teatro; Loos sostituisce al concetto di architettura quello della nuda prassi del costruire; gli architetti tedeschi dell’immediato dopoguerra oscillano tra l’esaltazione della forma nella fase utopistica e la riduzione della forma a un equivoco concetto di funzione nella fase del razionalismo; nel 1921 W. Worringer teorizza il concetto di fine dell’espressionismo e morte dell’arte figurativa (Künstlerische Zeitbragen). È stato notato che certe immagini e, più in generale, il senso di decadenza e di morte presente un po’ in tutta la produzione espressionista, ma in particolare nella prima fase e nella ripresa postbellica, preannunziano la catastrofe della guerra o il nazismo. Tenendo anche presente che nel 1913 già si parlava di guerra, è chiaro che queste immagini derivano comunque dal presentimento, e dall’avvertimento, che l’attuale indirizzo politico (e non solo della Germania) non può che portare a una catastrofe. Accanto alla fiducia nell’inizio di una nuova era, in una palingenesi dell’arte e della società, avvertibile soprattutto nel Blaue Reiter, e all’esaltazione della giovinezza il tema era già presente nello Jugendstil, lo stile della gioventù, c’è l’idea dell’imminente fine di una civiltà. L’atmosfera della Dämmerung è presente, nonostante l’apparente lucidità filosofica smentita dalle componenti irrazionalistiche, in un libro come Il tramonto dell’Occidente di O. Spengler del 1918 che influenza direttamente l’idea di fine dell’espressionismo del Worringer: fine e non risoluzione, Ende e non Auflösung, e quindi non derivabile dalla dialettica hegeliana. Fine del mondo, e a seconda dei casi con o senza resurrezione. La diagnosi era esatta; i toni con cui si tenta il rimedio, o non lo si tenta affatto, lo sono meno. Si può ammettere che in questa rinuncia si riflette l’atteggiamento del borghese che assiste senza ribellarsi alla propria autodistruzione. Ma se per l’espressionismo l’arte è comunicazione, il compito rivoluzionario è realizzato nell’atto stesso della denuncia e nello stesso ammettere la propria inettitudine, che è quella di un’intera classe sociale, a costruire un’alternativa. Tutto questo va detto per un’interpretazione globale del fenomeno; nel quale esistono anche episodi regressivi che si nutrono passivamente di una certa cultura, tramandata da una parte del filone romantico e sfruttata dall’ideologia nazista si vedano le tesi di storici come P. Viereck e G. L. Mosse, e quella più ponderata del Mittner. L’alternativa borghese-antiborghese introduce a un altro carattere dell’espressionismo: l’accentuata bipolarità, cui abbiamo già accennato a proposito della dialettica classico-anticlassico, opposizione-risoluzione del rapporto tra l’io e il mondo. Un atteggiamento bivalente è riscontrabile in ogni movimento artistico del Novecento basti pensare al cubismo un’opposizione polare è nei loro reciproci rapporti e risale al binomio sublime-pittoresco e classico- romantico. Appare nettissima nelle tendenze di volta in volta scientifiche e irrazionali, astratto-geometriche e organiche (spesso intrecciate) del postimpressionismo. Ma questa bivalenza, derivata dall’area simbolista, raggiunge nell’espressionismo la sua massima tensione; e non a caso alcuni studiosi di psicologia vi hanno visto, a ragione o a torto, realizzata la manifestazione di un carattere introvertito, o piuttosto di un carattere schizotimico estensibile a gran parte dell’arte contemporanea. Sta di fatto che nell’espressionismo, e non di rado in uno stesso artista, coesistono un’esigenza di espressione soggettiva e di costruzione oggettiva, la ricerca del brutto e del deforme e quella di un’armonia, il relativo e l’assoluto, il tema della morte e quello della nascita, lo slancio lirico e la fredda impassibilità. Si passa dal rifiuto delle scienze esatte all’emulazione dell’astrazione matematica e degli studi biologici, dall’odio per la macchina all’esaltazione dell’industria soprattutto in campo architettonico, dal nazionalismo all’europeismo e internazionalismo, dall’esaltazione dell’individuo a quella della massa, dalla rivoluzione alla conservazione, dall’ ‟urlo» alla ‟geometria» . Questo andamento distonico è spiegabile alla luce del ‛disagio della civiltà’ da cui deriva e del carattere soggettivo di entrambe le soluzioni di ogni coppia di opposti. L’artista cerca ogni volta una risposta totale, esistenziale al problema della funzione dell’arte, chiede la sopravvivenza della libertà in assoluto e non i modi in cui si possa attuare; per questo, almeno prima del Bauhaus, gli sfugge quella soluzione perché diverso è il suo problema che appagava Cézanne o i cubisti: che la propria funzione consista nell’elaborazione di una tecnica esemplare, in un’indagine autonoma sulle strutture dello spazio e del tempo. Il problema degli espressionisti è meno circoscritto, più universalistico e perciò più ‛tragico’ rispetto a quello dei cubisti. Tuttavia esso non va isolato, ma inquadrato in un rapporto di contemporaneità, di reciproci scambi e di complementarità con la linea fauve e cubista; si può dire che, in un analogo rapporto, tutte le esperienze successive muovano ora dalla tendenza fondamentale dell’espressionismo, ora da quella del cubismo. Per alcuni artisti della Brücke e del Blaue Reiter non tutti: non mancano interpretazioni corrette, non polemiche e istintive, come per critici come Bahr e Worringer, l’impressionismo è l’ultimo atto della tradizione classica rinascimentale alla quale si oppone la nuova pittura. Ammirano invece, e considerano dei loro, non solo Gauguin e van Gogh, ma anche Cézanne. La pittura impressionista vera e propria è, per loro, legata alla borghesia e al positivismo, è una passiva registrazione di dati sensoriali. La stessa interpretazione, comune anche ai fauves, si era formata nell’area del simbolismo francese. Posso considerare al contrario l’impressionismo come il primo atto di una serie di analisi condotte su una realtà non più pensata come assoluta ed esterna all’uomo, ma come prodotto della sua coscienza; il primo passo verso quel soggettivismo, che sarà poi alla base dell’espressionismo. I giovani pittori tedeschi non hanno veri impressionisti nella propria tradizione neanche M. Liebermann, L. Corinth e M. Slevogt si possono considerare tali e intorno al 1905 assai poco sanno degli impressionisti francesi. La strada che quelli avevano aperto sarà loro indicata da un lato da E. Munch e J. Ensor e poi dai fauves e dai loro immediati precedenti dall’altro dalle teorie dell’arte contemporanee all’impressionismo e al postimpressionismo, nate in Germania e in Austria e certamente note nell’ambiente di Monaco. Da Gauguin, van Gogh e Cézanne i nabis e il pointillisme, dall’impressionismo al fauvismo e attraverso Braque e ancora Cézanne fino al cubismo. Nel primo decennio del secolo quindi gli elementi comuni agli artisti francesi e tedeschi sono minoritari rispetto alla base culturale; e anche la distanza dall’impressionismo va misurata su scale diverse. Al procedimento recettivo dall’esterno all’interno sia i fauves che gli espressionisti oppongono un movimento dall’interno all’esterno, all’analisi la sintesi, a un processo materiale un processo spirituale. Entrambi usano colorazioni violente e arbitrarie, non dedotte dalla realtà ma interamente create, stesure di colore compatto, spesso delimitate, con una tecnica derivata dal cloisonnisme, da strisce scure; superano la frantumazione impressionistica dello spazio riducendo le immagini al piano, o a più piani intersecantisi che non hanno più alcun rapporto con la piramide visiva della tradizione rinascimentale. Ma l’operazione nei due casi è condotta con intenzionalità diversa. I fauves operano ancora nell’ambito della tradizione classica francese mai del tutto interrotta e continuamente rivitalizzata; non si pongono direttamente problemi esistenziali e sociali. L’espressione di un contenuto soggettivo si attua nella ricerca della potenzialità costruttiva del colore puro, nella creazione di forme che mirano a ricomporre un’armonia universale, una ‟natura parallela», come diceva Cézanne, il modello di un mondo possibile, in cui è essenziale la funzione di una forma perfetta e autosufficiente. Di qui al cubismo, per la via indicata da Braque: il colore si condensa in solidi geometrici, crea un nuovo spazio, in cui è introdotta, attraverso la memoria e la compresenza del vicino e del lontano, la dimensione del tempo. L’interrotto rapporto con la realtà è ricreato con un processo rigorosamente formale e un criterio universalizzante; rispetto all’impressionismo è stato compiuto un passo dal relativo all’assoluto; ma anche gli impressionisti si proponevano fin dall’inizio e qui è la ragione della breve durata del gruppo una nuova sintesi della realtà da attuarsi attraverso la tecnica pittorica. Gli espressionisti della Brücke operano in piena tradizione romantica; dietro di sé hanno il mitologismo di A. Böcklin, lo spazio ideale e astratto di H. Marées o di A. Hildebrand, una tradizione pittorica classicistica (non classica) che contrasta con la cultura più radicata e popolare: a tutto ciò si oppongono e da tutto ciò nello stesso tempo sono condizionati. L’espressione si carica di un contenuto essenzialmente psicologico e la forma, più che subordinata, è violentata: se i colori dei fauves sono violenti ma armonicamente composti, questi sono stridenti e spesso sporcati da gialli acidi, verdastri, violacei; le linee sono spezzate, gli angoli appuntiti, le immagini disarmoniche. Non è, questo, il modello di un mondo diverso, ma lo stesso mondo reale restituito deformato e talvolta mostruoso: nonostante l’immagine sia prodotta dall’interno, essa è incapace di staccarsi dalla memoria del reale che è costrizione e sofferenza. La situazione si rovescia nelle opere del Blaue Reiter e non a caso c’è stato di mezzo il contatto diretto con i fauves. Ma, anche in questa fase, il problema centrale non è la creazione di una nuova armonia e un nuovo spazio (‟solo l’arte poteva trasportarmi fuori dello spazio e del tempo», ricorda Kandinskij nello scritto giovanile Sguardo al passato, e la formula resta per lui sempre valida), ma la rievocazione dell’inconscio, il recupero del soprannaturale, la comunicazione tra gli esseri e le cose. Che Matisse sia classico, mediterraneo e pagano e Kirchner, o Kandinskij, gotico, nordico e mistico è immagine ormai abusata e da prender con cautela, ma significativa: da un lato si ‛esprime’ un’idea appagante del mondo, una fiducia nelle possibilità costruttive di una tecnica umana, dall’altro una ricerca ansiosa e sempre inappagante, una tensione verso un Assoluto che resta al di là delle possibilità umane, un impegno in una prassi che mai si risolve in una forma compiuta, ma in cui s’identifica, all’infinito, l’attività artistica. Tutto questo vale come caratterizzazione generica dei due movimenti: nei singoli artisti troviamo anche forme miste e complesse. Tra i fauves, per esempio, M. Vlaminck è quello che più si avvicina all’inquietudine dei tedeschi, mentre Marc trova, tra il 1912 e il 1914, immagini di una straordinaria armonia ‛classica’. L’aggancio ad alcune teorie estetiche, storico-artistiche, filosofiche e letterarie è quanto mai necessario per un’introduzione all’espressionismo tedesco, sia per il suo accentuato carattere ideologico, sia per la rottura che esso compie con la tradizione figurativa locale, per cui le sue componenti vanno ricercate in gran parte al di fuori dell’area figurativa. L’autonomia del linguaggio pittorico, la creatività e direi quasi ‛formatività’ intesa come movimento dall’interno all’esterno, le implicazioni psicologiche, l’impulso volontaristico, la polemica antipositivistica e, in parte, anche la preferenza per le produzioni anticlassiche sono tutti elementi che trovano la loro premessa nei teorici della tpura visibilità’ e della Einfühlung empatia, immedesimazione, simpatia simbolica, separa la facoltà con cui opera il pittore, la pura visibilità, sia dalla ragione che dal sentimento. Contro l’idealismo hegeliano e il positivismo di quest’ultimo però sono accolte alcune istanze, come l’esigenza di fondare una ‛scienza dell’arte’, contro il romanticismo e il realismo, l’arte non è riflesso nè della natura, che non esiste al di fuori della coscienza umana, nè di un concetto o un’idea, nè del sentimento, ma è una forma autonoma di conoscenza, un atto creativo che parte dalla coscienza e termina nella forma della realtà, che va dall’interno all’esterno e in cui l’attività della mano prosegue quasi automaticamente e senza soluzione di continuità quella dell’occhio. Siamo nella tradizione kantiana, filtrata dal formalismo dello Herbart; e in genere a Kant, e non a Hegel, risalgono i precedenti culturali accolti dagli espressionisti. La teoria della Einfühlung è di origine romantica, ma la sua formulazione moderna si può far risalire all’opera di R. Vischer ed è sistematizzata da J. Volkelt .Secondo tale teoria, l’artista proietta i propri sentimenti non negli oggetti delimitati concettualmente, ma nelle loro forme, presta la sua anima alle cose; e le forme da lui create rifletteranno il suo atto soggettivo di immedesimazione in esse, anche in questo caso secondo un processo che va dall’interno all’esterno. È importante, per gli sviluppi futuri, il principio antimimetico che vi è implicito, come anche il rapporto con la psicologia sperimentale, assente invece nella teoria fledleriana, nonché l’attenzione data dal Vischer al sogno e al mito; e soprattutto il principio soggettivo su cui si basa la teoria della percezione e della riproduzione delle forme, che si intende già come espressione di un contenuto puramente interiore. È certa l’influenza esercitata dalla teoria della Einfühlung nell’area dello Jugendstil e in particolare sulla concezione di H. Van de Velde, che a sua volta tanta importanza avrà per gli architetti della generazione espressionista, e sul libro Lo spirituale nell’arte di Kandinskij. Di entrambe le teorie si vale A. Riegl per la sua concezione di un Kunzstwollen (volontà d’arte) che, in consonanza con le idee filosofiche, religiose, politiche, ma agente come elemento attivo di trasformazione, si esprime non allegoricamente, ma attraverso schemi o simboli visivi, raggruppati secondo un’alternanza di ‛tattile’ e ‛ottico’. Di questa teoria Riegl si serve per rivalutare le arti applicate, cosiddette minori, e le fasi primitive e della cosiddetta decadenza: due interessi che, accanto all’accento spiritualistico e volontaristico, si ritrovano nello Jugendstil e nell’espressionismo. Dalla teoria della Einfühlung e da quella del Riegl, nonché da Hildebrand, Schmarsow, Wölffiin,Worringer -Abstraktion und Einfühlung, Neuwied 1907 per opporre a un Kunstwollen fondato sul concetto di empatia, basato soprattutto sulla teoria del Lipps, uno fondato sul concetto di astrazione, tipico delle epoche primitive, dell’Oriente e, in parte, del gotico. L’uomo primitivo non s’identifica nelle forme dell’apparenza fenomenica; prova disagio nei confronti del mondo esterno, teme lo spazio, rifugge dall’organico-vitale’ e trova conforto nell’‛astratto’, ossia in una regolarità geometrica, cristallina, inorganica, in immagini ‛morte’ come la piramide egizia o i mosaici bizantini, in cui tutto è ridotto alla rappresentazione bidimensionale per sottrarre gli oggetti alla casualità con cui sono percepiti nell’esperienza fenomenica e per renderli invariabili ed ‛eterni’. Worringer dimostra una simpatia per l’astratto, che nelle opere più tarde si rovescerà in una simpatia per l’organico, assai vicina alle teorie e alle forme di alcuni architetti-utopisti, e collegabile a un’interpretazione di teorie vitalistiche e soprattutto del classicismo di Goethe. La portata innovatrice della teoria del Worringer non va sopravvalutata nè è collegabile senz’altro alle prime esperienze astratte, tanto meno a quelle di Kandinskij, il concetto di astrazione, che è poi un’empatia alla rovescia e che ha caratteri molto simili alla ‛chiarezza’ e all’‛ordine’, di matrice nettamente classicistica, di cui parla Fiedler. Però il libro, che è una sorta di sintesi di tutte le teorie precedenti ed è certamente conosciuto a Monaco, dimostra come quelle abbiano influito, per suo tramite, almeno sugli artisti del Blaue Reiter. Macke e Marc lo leggono e lo apprezzano accanto al Riegl e ne riprende puntualmente le tesi. Ma i quadri astratti e la teoria di Kandinskij nascono piuttosto nell’ambito della teoria della Einfühlung; e Klee non ha affatto simpatia per l’‛astrazione’, anche se la considera, al pari di Worringer, come un prodotto tipico di un mondo ‛orrendo» . Tutte queste teorie sono state variamente considerate come prodotto di un formalismo di matrice idealistica o come geniali precorrimenti della teoria della Gestalt e della ‛teoria delle forme simboliche’ di Cassirer. Sono probabilmente l’una e l’altra cosa, e con entrambi i connotati, regressivo e innovatore, si riflettono nei quadri degli espressionisti, almeno quanto le idee di Köhler e Cassirer sono presenti nella metodologia del Bauhaus. Resta il problema dello sfasamento tra la modernità, limitata se si vuole ma comunque innegabile, delle teorie e l’incomprensione più cieca delle correnti contemporanee. Fiedler ignora dapprima, poi guarda con sufficienza, impressionisti e simbolisti e ammira Hans von Marées, dalla cui teoria era stato influenzato. H. von Hildebrand scrive Das Problem der Form in der bildenden Kunst che può considerarsi il parallelo teorico di certe manifestazioni simboliste, ed è un mediocre scultore di forme classicistico-accademiche. Worringer sembra il teorico dell’espressionismo, ma ammira Rodin e Hildebrand e arriva tutt’al più a capire, a modo suo, paragonandoli ai gotici costruttori di cattedrali, Cézanne e van Gogh .Lo stesso avviene per i filosofi: neanche Hegel aveva realmente compreso il romanticismo, nè G. Simmel l’espressionismo, cui pure è tanto vicino nelle prime opere. Tutto questo dimostra due cose, molto importanti per comprendere la distanza tra l’espressionismo tedesco e i fauves francesi: nell’arte tedesca il problema del significato non si fonda empiricamente sulla prassi formale, su una tecnica operativa specifica, ma piuttosto sulla concezione del mondo che viene espressa; e la distanza che separa l’astrazione formale di un Marées o uno Hildebrand dagli espressionisti è assai minore di quanto possa sembrare a prima vista. La stessa importanza che questi ultimi attribuiscono alla tecnica della xilografia e al valore del segno incisivo e deformante non va intesa in senso pragmatico, ma si carica di un valore ideale e simbolico. Tra i filosofi, i nomi ricorrenti negli scritti di artisti e teorici sono Schopenhauer e Nietzsche; il volontarismo e l’antispiritualismo di quest’ultimo sono però rovesciati per lo più in una rinuncia all’azione e in un atteggiamento mistico e ascetico di marca schopenhaueriana. Da entrambi deriva agli espressionisti la concezione del mondo come irrazionalità e dolore e l’opposizione alla realtà del principio soggettivo della volontà; da Schopenhauer l’idea che il mondo fenomenico, il ‛velo di Maya’, ostacola la conoscenza della kantiana ‛cosa in sé’, e le derivazioni indiane che tanta importanza avranno per un Marc o un Bruno Taut; da Nietzsche l’idea dell’‛eterno ritorno’, il principio ‛dionisiaco’ contrapposto nell’arte a quello ‛apollineo’, il mito del superuomo, che viene applicato alla figura dell’artista, incompreso e distaccato dalla massa, emulo di Dio nella creazione del nuovo mondo. Il volontarismo di questa tradizione di pensiero si riflette nello stesso concetto di Kunstwollen del Riegl, che impronta tutte le teorie del periodo. Il principio ascetico è evidente, in particolare, nell’atteggiamento utopico della Novembergruppe, e si trasforma da un lato nella fuga dalla civiltà, dall’altro nella negazione del ‛potere’ e in una vera e propria propaganda della non azione e della non violenza , presente anche in campo letterario . Nel saggio Die Wilden’ Deutschlands, inserito nel Blaue Reiter, Marc così spiega il significato di ‛selvaggi’, desunto dai fauves ed equivalente a espressionisti: ‟Nella nostra epoca, che è il momento della grande lotta per la nuova arte, noi combattiamo come ‛selvaggi’, come non organizzati, contro un potere (Macht) antico, un potere organizzato». Parallela all’incitamento alla ribellione ricorre un’esaltazione dell’amore, anche questo in accezione più schopenhaueriana che cristiana, ma che ha molti punti di contatto anche col pensiero di E. Bloch, difensore dell’espressionismo. La rinuncia all’azione non è in contrasto, anzi è la base di una forma di titanismo spirituale: l’architetto concepito da Bruno Taut vuoi cambiare l’aspetto della terra e del cielo, trasforma le montagne in palazzi di vetro, è ‟costruttore del mondo» si rivolge ai ‟proletari del mondo», a tutti quelli che si basano sul ‟nulla»: ‟‛Dio è ovunque e in nessun luogo’, io sono Dio, voi tutti lo siete»; e superuomo è l’artista di cui parla costantemente H. Finsterlin. Infine, lo schopenhaueriano ‛velo di Maya’ trova riscontro in un’infinità di passi ed è alla base dello sforzo, teorizzato soprattutto nel Blaue Reiter, di ricercare l’essenza del reale al di là del ‛visibile’, e non in un mondo di simboli letterari ma in quella ‟vista interna» di cui parla Kandinskij e che Bahr collega anche a teorie scientifiche. Il concetto è riassunto da Marc in un articolo pubblicato sulla rivista ‟Pan», Die konstruktiven Ideen der neuen Malerei del marzo 1912, che si conclude con la citazione: ‟Per usare le parole di Schopenhauer, oggi il mondo come volontà ha il sopravvento sul mondo come rappresentazione. Per la consueta oscillazione tra gli estremi, la fuga dalla vita si alterna a un’esaltazione della vita, intesa però come un principio metafisico. Il collegamento dell’espressionismo con le correnti neovitalistiche è comprovato dalle letture preferite dai protagonisti, e del resto queste correnti discendono in gran parte dalla linea Schopenhauer-Nietzsche. Il senso di questa tangenza si può riassumere con un’osservazione del Worringer: ‟Lo Spirito è per l’espressionista la somma delle forze che si oppongono alle cieche leggi della natura, al corso automatico degli eventi. Spirito è per lui l’intervento di Dio in un mondo meccanizzato. È la divinizzazione dello Spirito che egli oppone alla divinizzazione della natura» . Lo stesso autore subisce l’influenza prima di Simmel e poi di Spengier. H. Luckhardt pone Bruno Taut (pur criticandolo) al livello dei ‟grandi pensatori moderni» come H. Keyserling e Spengier . Questa esaltazione della ‛vita’ si esprime spesso in una preferenza per forme dinamiche e plastiche, per il ‛tridimensionale’ e gli spazi curvi e barocchi, che sembra opposta alla originaria fissità e alla Flächigkeit (riduzione alla superficie) degli espressionisti: così, ad es., in certi quadri di Marc, nei primi disegni di E. Mendelsohn, in tutta l’opera di Finsterlin. Un’altra importante componente entra nella Weltanschauung espressionista soprattutto attraverso la mediazione di Munch: il senso tragico dell’esistenza presente nella filosofia di Kierkegaard e nella letteratura nordica. Nella Urangst dei tedeschi è l’eco del senso di colpa, del tragico di un’angusta vita borghese dei drammi di Ibsen, dell’angoscia e della follia religiosa di Strindberg. In Kierkegaard gli artisti ritrovano la stessa interpretazione del soggettivismo romantico e la stessa ansia religiosa di quella cultura che sulla scia di Schopenhauer si stava evolvendo; e soprattutto una straordinaria affinità nella coincidenza tra l’idea dell’‛esistere’ e quella dell’‛esprimere’, entrambe emanazione di una condizione di colpa, di costrizione e di angoscia, per cui l’espressionismo si può ben considerare uno dei ponti di passaggio tra Kierkegaard e l’esistenzialismo. Inoltre, al pari della ‛fede’ di Kierkegaard e della ‛negazione della volontà’ di Schopenhauer, la pittura espressionista, soprattutto nel periodo tra il 1910 e il 1914, si propone il ‛ritorno’ nel Tutto, la redenzione nella reimmersione nell’indistinto del Cosmo. L’esperienza di Gauguin, van Gogh, Cézanne, Ensor, Munch, le sinuosità lineari dell’architettura e della grafica dell’art nouveau, la riscoperta dei primitivi, delle stampe giapponesi e poi della scultura negra e oceanica sono precedenti comuni, in diverso dosaggio e in diversa accezione, per i fauves e per la Brücke. L’esperienza di Cézanne influirà soprattutto sui fauves, e soprattutto dopo la morte dell’artista, vissuto negli ultimi anni solitario e lontano dai vari gruppi; ma anche sulla formazione dei pittori del Blaue Reiter. Un ponte diretto tra le precedenti ricerche e quelle dei primi anni del secolo si può considerare, in Francia, il gruppo dei nabis, mentre il neoimpressionismo resta costantemente un punto di riferimento al quale si rivolgono, a più riprese, i fauves. Per la Brücke è anche importante la lezione di Toulouse-Lautrec, la sua analisi psicologica del mondo cittadino, la presentazione diretta della realtà consapevole dei mezzi atti a stimolare una reazione psichica immediata nell’osservatore, il valore costruttivo ed espressivo della linea di contorno, che anche i francesi spesso assumono per sostenere le stesure di colore puro. A Gauguin in particolare, anche se non a lui solo, risale la scoperta del significato simbolico della riduzione bidimensionale, della linea ritmica e delle campiture piatte di colore dotate di una intrinseca, autonoma virtualità espressiva, che sono spesso accostate in rapporti dissonanti, in cui è la consapevolezza del valore dei complementari, ma anche la negazione che in esso consista una legge vincolante. In Van Gogh si trova la deformazione e la violenza della realtà e il significato gestuale della pennellata, già espressivo-astratto, incurante dell’oggetto singolo e della forma finita. Notevole è anche la lezione di F. Hodler e di O. Klimt, che però non sempre vengono valutati positivamente dai nuovi artisti: di quest’ultimo il senso della decadenza fisica e spirituale che incrina la stessa bellezza e la rende inquietante, non solo per l’associazione Eros-Thanatos dei quadri simbolisti, ma per il presentimento dell’imminente fine di un mondo. Le maschere di Ensor sono stimolo alla ricerca di una struttura al di là del reale e nello stesso tempo rinuncia a rappresentare l’inconoscibile. La maschera si trasforma, nei fauves nella stessa struttura formale con cui si ricostruisce armonicamente l’aspetto già distrutto della visione; nei pittori della Brücke, nel volto stesso dei personaggi, rigido involucro in cui la condizione interiore si sforza di trasparire attraverso una lotta con la materia visibile, lotta il cui risultato è il grottesco, il deforme, il brutto. Gli artisti del Blaue Reiter sono ossessionati dal pericolo dell’ornamentale e del decorativo ne parlano espressamente almeno Marc, Klee e Kandinskij, che deriva dalle componenti figurative più dirette; un antidoto a questo si trova nell’arte di van Gogh, di Ensor e soprattutto di Munch, dove è chiaro il processo per cui la linea ondulata, organica, vitale della decorazione fin de siècle si sottrae a ogni intento edonistico per caricarsi di un contenuto interiore represso, del dolore esistenziale che esplode nell’urlo’. L’influenza di questi personaggi non va limitata ai dati formali, ma si estende alla concezione dell’arte e del suo rapporto con la vita. Di Gauguin sarà fondamentale la fuga nel primitivo, che è poi la ricerca di un’originaria purezza se ne può considerare un parallelo diretto nell’animalismo di Marc, altro esempio di fuga dalla civiltà. Analoga in certo senso è l’operazione del ‛doganiere’ Rousseau, che non fugge ma riparte dal ‛grado zero’ della pittura e della coscienza, dall’immagine nitida e incorrotta della natura e dalla favola come prima forma dell’immaginazione umana. Proprio i suoi oggetti ‛astratti’ dal reale Kandinskij terrà presenti quando fisserà, in Lo spirituale nell’arte e l’equazione estrema del realismo = estrema astrazione. La fuga nel mito di Gauguin, il tuffo nella società di Toulouse, la coincidenza di gesto e immagine di van Gogh sono tanti aspetti della stessa aspirazione a identificare arte e vita che è caratteristica dell’espressionismo sia tedesco che francese. In Germania bisogna tener presenti, pure se forse hanno, sul piano formale diretto, minor peso, anche alcuni artisti locali che operano nei termini della tradizione classicistica o di quella di un attardato impressionismo. Si è già detto su che piano può aver influito un Marées, i cui quadri venivano esposti, accanto ai francesi modernissimi, nelle mostre delle Secessioni e di gallerie private, e con successo: pensiamo per esempio al giudizio di Klee e all’interesse dimostrato da M. Beckmann. Nella fase ‛impressionista’ di Kandinskij o di Marc agisce l’impressionismo diciamo, pesante di uno Slevogt o di un Corinth, accademico e contradditorio se confrontato a un Monet, ma pure aperto a una interpretazione simbolica e quasi materica del colore. Intanto Liebermann, presidente per molti anni del gruppo Secessione berlinese, aveva già in qualche modo identificato arte e vita subordinando la forma a un interesse sociale. Infine, non bisogna trascurare l’influenza, anche se limitata a grafici come Kubin o alle opere giovanili degli artisti maggiori, di incisori come Max Klinger, che entusiasma Kubin e De Chirico in base alla fortuna che egli ha avuto si potrebbe ricostruire il filo che lega il simbolismo alla metafisica e al surrealismo e che passa ma solo tangenzialmente per l’espressionismo. Il principale centro dell’espressionismo, inteso nel suo significato più specifico, è la ‛comunità di artisti’ della Brüeke, fondata a Dresda nel 1905, alcuni dei quali lavoravano insieme fin dal 1902. Nello stesso anno, in una mostra tenuta a Parigi al Salon d’automne, si configura anche il gruppo dei fauves, già attivi in una certa direzione dal 1898-1900. Nel 1909, in polemica con il gruppo Secessione, nasce la Nuova associazione degli artisti di Monaco, dalla quale ancora si distacca nel 1911 Der blaue Reiter, per l’incomprensione delle tendenze più avanzate, soprattutto di quella nettamente astratta di Kandinskij, da parte di alcuni membri. A Berlino, dove nel frattempo si erano trasferiti gli artisti della Brücke, è attiva dal 1910 la rivista ‟Der Sturm», fondata e diretta da H. Walden, proprietario dell’omonima galleria. Durante la guerra gli espressionisti si disperdono. Nel novembre 1918 è fondata la November gruppe, cui partecipano anche alcuni pittori già della Brücke e collaboratori di ‟Sturm». In un rapporto di opposizione-risoluzione con i movimenti precedenti è la Neue Sachlichkeit, nata all’inizio degli anni venti. Fauves significa belve: il termine, come quello di cubismo, è coniato dal critico L. Vauxcelles in occasione della mostra del 1905. Die Brücke è il ponte gettato tra gli spiriti creativi. Lo spiega K. Schmidt-Rottluff nella lettera (4 febbraio 1906) con cui invita E. Nolde a esser dei loro: ‟chiamare a sé tutti gli elementi rivoluzionari e in fermento – questo significa il nome Brücke». È, più in generale, collegamento tra due parti, come dirà, pur senza far riferimento all’espressionismo, Simmel nel saggio Brücke und Tür (Ponte e porta) del 1909. Sturm significa tempesta, sconvolgimento della tradizione e delle convenzioni e rimanda automaticamente al termine Sturm und Drang, la culla del romanticismo tedesco. Der blaue Reiter invece non ha un significato codificato, e già questo fatto può indicarne il carattere: A tutti e due piaceva l’azzurro, a Marc i cavalli, a me i cavalieri. E così il termine venne fuori da sé» ricorderà Kandinskij nel 1930 .Il termine è il più astratto di tutti, è un puro significante che implica nella propria stessa formula il significato. Il blu per Kandinskij, come egli scrive in Lo spirituale nell’arte, richiama l’uomo verso l’infinito, suscita in lui la nostalgia della purezza e del sovrasensibile. Esso è il colore del cielo». I cavalli sono un simbolo della forza istintiva della natura, il cavaliere del romanticismo e del Medioevo, di quel mondo cavalleresco-cortese che la cultura borghese, secondo Worringer, ha ucciso nel Rinascimento e di nuovo nel XIX secolo. Il gruppo francese non è unitario e il termine è stato forgiato a posteriori. Le più note opere fauves nascono tra il 1898 e il 1906. Nel 1907, due anni dopo la sua nascita ufficiale, il fauvismo si smembra, offuscato dal nascente cubismo; le sue premesse vengono portate avanti in varie direzioni, anche se l’opera coerente e quasi autosufficiente di Matisse sembra incarnarlo ancora per molti anni. Matisse e Marquet lavorano insieme dal 1898; nel 1900 inizia la profonda amicizia tra Derain e Vlaminck, che dal 1901 saranno in stretti rapporti anche con Matisse. Nel 1905 espongono Matisse, A. Marquet, H. Manguin, J. Puy, Ch. Camoin, L. Valtat, K. Van Dongen, O. Friesz, O. Rouault, A. Derain, M. Vlaminck. Al gruppo si aggiungono poi Dufy e, nel 1906, Braque. Questo è il nucleo in cui si possono riconoscere almeno tre direzioni: la più ‛classica’ è guidata da Matisse (il personaggio comunque più influente del gruppo) e proviene dagli allievi dello studio di O. Moreau, quindi dal simbolismo francese nel senso più aderente del termine; la più espressionistica è rappresentata da Van Dongen e Vlaminck, olandese il primo, conterraneo di van Gogh, di origine fiamminga il secondo, come ricorda il nome stesso; la più strutturale è rappresentata da Braque, che poi è il ponte di passaggio al cubismo. Si possono distinguere varie fasi a seconda delle influenze dominanti: dapprima van Gogh, i nabis e i ‛sintetisti’; poi il pointillisme di Seurat e Signac, col quale ultimo questi artisti sono in continuo contatto per la frequentazione della sua villa a Saint-Tropez e per le mostre al Salon des indépendents da lui diretto; infine Cézanne e una nuova influenza di Gauguin. Di ‛espressione’ parlano un po’ tutti, ma in modo profondamente diverso. Matisse scrive: ‟Ciò che perseguo sopra ogni cosa, è l’espressione». Ma poi segue una precisazione che potrebbe valere come distinzione tra la sua ricerca e quella degli espressionisti tedeschi: l’espressione, per me, non risiede nella passione che apparirà improvvisa su un volto o che si affermerà con un movimento violento. È in tutta la disposizione del mio quadro: il posto che occupano i corpi, i vuoti che sono intorno a essi, le proporzioni, tutto ciò ha la sua importanza. La composizione è l’arte di sistemare in modo decorativo i diversi elementi di cui la pittura dispone per esprimere i propri sentimenti. Sogno un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza soggetti inquietanti o preoccupanti, che possa essere per ogni lavoratore della mente, per l’uomo d’affari come per il letterato, un lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa d’analogo a una buona poltrona che lo riposi delle sue fatiche.» È esattamente il contrario della concezione che Bahr, intendendo superare l’idea dell’arte che ‟abbellisce la vita» espressa da Nietzsche, riferisce all’espressionismo. Al quale invece è più vicina la posizione libertaria e anarchica, l’accentuazione della vita nell’identificazione di arte e vita, di Vlaminck, per cui il fauvismo ‟è me stesso. È il mio essere in quest’epoca, il mio modo di ribellarmi e liberarmi nello stesso tempo, di rifiutare la scuola, il gruppo: i miei blu, i miei rossi, i miei gialli, i miei colori puri senza mescolanze di toni» lui, il ‟barbaro tenero e pieno di violenza», vuol tradurre ‟d’istinto, senza metodo, una verità non artistica, ma umana» . L’‛espressione’ di Matisse è ancora abbastanza vicina al modo di concepire la pittura di un Denis o un Sérusier, all’esperienza del quali egli si riallaccia per ciò che riguarda il valore dei colore puro, il suo uso antimimetico, la sua funzione decorativa. È significativo che proprio Denis sia tra i primi a comprendere il significato dell’operazione di Matisse, il suo processo di ‟astrazione» e di ‟generalizzazione» che sublima sia la rappresentazione del reale che quella della sensibilità, la meditazione teorica e il carattere ‟artificiale» della sua ‟pittura fuori da ogni contingenza, pittura in sé, atto puro del dipingere»: a comprendere, infine, che è la ‟ragione» a fornirgli le sue ‟possibilità d’espressione». Il punto di riferimento costante per Vlaminck, nonostante qualche variazione sulla tecnica divisionista e qualche meditazione su Gauguin, resta la pittura di van Gogh, di cui spesso rielabora la stessa pennellata a virgola e la direzione rotante dei tratti di colore spremuto direttamente dal tubetto, l’esasperata deformazione del reale e la rabbia del gesto pittorico, pur tendendo a stesure più ampie e riposate (tendenza poi dominante col passare degli anni). In questi caratteri talvolta, soprattutto prima del 1905 lo segue Derain, sempre conteso tra Vlaminck e Matisse. L’espressionismo di Van Dongen recupera soprattutto, accanto ad altre fonti, l’esperienza di Toulouse-Lautrec; se gli altri fauves dipingono soprattutto paesaggi ma anche ritratti, e Matisse ama particolarmente la ‛figura’, l’olandese predilige i personaggi del teatro, del circo, dei locali notturni; li ritrae con una violenta esasperazione dei tratti del volto e con un piacere quasi sensuale della materia, che colpiranno gli artisti della Brücke: nel 1908 questi lo inviteranno a far parte del gruppo. Anche se espone alla mostra del 1905, Rouault non va considerato tanto uno dei fauves quanto un espressionista indipendente. Il significato religioso e sociale che si esprime nella sua pittura lo avvicina ai pittori tedeschi, ma il suo impegno è esplicitamente cattolico, e il suo dolore esistenziale non si risolve in angoscia ma in giudizio morale e nella speranza della redenzione; queste le premesse di una pittura in cui il colore non divampa in toni puri ma resta scuro e pesante, illuminato da improvvisi bagliori e imbrigliato in pesanti contorni neri che risolvono in senso antidecorativo, ma senza la violenza deformante dei tedeschi, la tecnica cloisonniste. ‟Con la fede in una evoluzione, in una nuova generazione di creatori e di fruitori d’arte, chiamiamo a raccolta tutta la gioventù e, come gioventù che reca in sé il futuro, vogliamo conquistarci libertà d’azione e di vita, contro le vecchie forze tanto profondamente radicate. È dei nostri chiunque riproduca con immediatezza e senza falsificazioni ciò che lo spinge a creare». In questo slogan, più che programma, redatto e divulgato in una xilografia da Kirchner nel 1906, sono sintetizzate le idee comuni: la volontà di rinnovamento, che non è fede nel progresso (Fortschritt), in cui sarebbe implicito un fattore razionale, un’allusione al mondo della scienza e della tecnica e una valutazione ottimistica e positiva, ma fede in una Entwickhlung fatale, naturale; l’esaltazione della gioventù e della libertà, l’assenza di qualunque cenno a preferenze di ordine formale e, per contrasto, l’identificazione di arte e vita e l’esortazione non a imitare, ma a creare, a esternare il moto interiore. Gli artisti si ritrovano nello studio di Kirchner e la vita comunitaria che svolgono sul piano del lavoro spiega il fatto che, nonostante lo stile individuale, spesso è difficile distinguere tra i quadri dell’uno e dell’altro. Il primo nucleo si forma, stando alla Cronaca della Brücke stesa da Kirchner nel 1913, a Dresda nel 1902; a Kirchner, F. Bleyl, Heckel e Schmidt-Rottluff si aggiungono più tardi C. Amiet, Nolde nel 1906, Pechstein e infine Müller nel 1910. Nel 1911 il gruppo, dal quale intanto si sono allontanati Nolde, Bleyl e Pechstein, si trasferisce da Dresda a Berlino. Nel 1913 si scioglie ufficialmente. L’interesse per i primitivi è documentato almeno dalla passione di Kirchner per la scultura negra e gli intagli dei Mari del Sud, dall’influenza della scultura etrusca su Heckel, e soprattutto da una rimeditazione dell’arte tedesca prerinascimentale, che resterà costante in tutti gli espressionisti, ma che in questo momento si esprime più specificamente in una ricerca delle radici germaniche della tendenza all’espressione contrapposta alla forma. Molti sono i dipinti e le incisioni (litografe, acqueforti e xilografie) di soggetto religioso, in cui le asprezze lineari, le spigolosità e la ieraticità delle immagini rimandano non tanto a Grünewald, Cranach, Beham o Dürer giovane, più volte citati da questi artisti, ma soprattutto alla scultura del Trecento tedesco e francese. Una pregiudiziale in certo senso nazionalistica, che ritroviamo anche più evidente e pericolosa nell’architettura, ha pesato a lungo sull’espressionismo tedesco e ha contribuito tanto al suo fascino quanto al sospetto di un suo carattere chiuso e reazionario. Nolde riconosce la superiorità dei francesi nell’azione di rinnovamento, ma proprio per questo auspica l’affermazione di ‟una grande arte tedesca» (in una lettera del 20 marzo 1908). Ancora nel 1914 proprio Marc, che ama tanto i francesi, scrive a Macke rimproverandolo un po’, e mentendo in buona fede sulla sua estraneità al ‛cubismo orfico’: ‟Io la penso più o meno come Klee. Sono tedesco e posso scavare solo sul mio terreno; che ho a che fare io con la peinture degli orfisti? Noi tedeschi siamo e restiamo grafici nati, illustratori anche come pittori. Lo dice bene Worringer nella sua introduzione alla Altdeutsche Buchillustration» . In realtà la ricerca di una costante etnica, che si ritrova anche in teorici e storici di estrazione diversa come Wölfflin e Taine e ha il corrispettivo nella rivisitazione di un’armonia mediterranea di un Matisse o un Le Corbusier, viene presto superata nella posizione europeistica dei protagonisti del Blaue Reiter e di Sturm. Contro i sostenitori a oltranza di un’integrità tedesca, che poi non hanno nulla a che vedere con l’espressionismo, come il pittore K. Vinnen, autore della Protest deutscher Künstler per l’introduzione in Germania delle opere di artisti francesi contemporanei, prendono posizione, tra gli altri, gli stessi sostenitori di un espressionismo nordico, come Worringer e Marc. Gli interventi sono raccolti e pubblicati da R. Piper nel 1911 in un volume dal titolo Antwort an die ‛Protest deutscher Künstler’. Il pericolo era di trasformare in pregiudizio razziale la preferenza per una caratteristica tramandatasi per ragioni storiche. Ma, al di là di questo errore che non va sopravvalutato, nel momento della formazione della Brücke e, in parte, anche del Blaue Reiter, l’appello alla costante nordica e tedesca va inteso come un recupero del senso genuino della propria storia, al di là di culture di importazione come il Rinascimento e il filone classicistico ottocentesco che si era esaurito nell’Accademia, principale nemico da sconfiggere; e come segno di superamento dell’impressionismo, considerato, come si è visto, materialistico e ancora legato alla tradizione rappresentativa rinascimentale. La ricerca di una radice germanica va quindi collegata a due dati caratteristici della Brücke: l’accentuazione dell’indagine psicologica diretta e del momento distruttivo, negativo, di opposizione àlla tradizione e di rifiuto del ruolo dell’artista quale ideatore di una bellezza consolatoria, ancora presente nello Jugendstil (da cui però, fino al 1907-1908, si continuano ad accogliere suggerimenti formali). In una lettera a B. Graef del 21 settembre 1916 Kirchner ricorda: ‟Col prendere una più intima familiarità col soggetto da dipingere, contemporaneamente aveva luogo un approfondimento psichico. Veri e propri modelli nel senso accademico del termine non ne ho mai avuti. L’interesse psicologico conduce i pittori della Brücke a preferire il ritratto, o comunque la rappresentazione del volto umano oltre a quella del nudo, non individualizzato ma colto nella sua tipicità, e scene della vita della città: dalla strada ai caffè, al circo, al locale notturno. Nello stile, il maggior punto di contatto con i fauves si avverte nelle opere tra il 1909 e il 1911, già qualche anno dopo la formazione del gruppo. Il carattere ‛inconscio’ e ‛spontaneo’ su cui insistono tutti all’inizio si viene via via disciplinando per l’intervento di una ricerca strutturale più severa, anche se non mutano in sostanza le premesse antiformalistiche. Questa condurrà Nolde a una particolare vitalità e ‛gioia’ coloristica, Müller a un distaccato arcaismo; il più rigoroso nel ricorso a una severa disciplina per trovare la migliore espressione al contenuto istintuale sarà Kirchner, che insisterà sulla necessità di una forma ‛chiusa’. Più che l’influenza dei fauves, è importante, in questa fase di controllo del gesto, proprio l’attività dell’incisione, in cui, come dice Nolde, si avverte il piacere del ‟lavoro manuale», il recupero dell’artigianato: la più importante premessa espressionista alla concezione del Bauhaus. L’azione degli artisti del Blaue Reiter si può considerare complementare a quella della Brücke, e in un certo senso rappresenta già l’inizio di un superamento dell’espressionismo. Al momento distruttivo subentra una meditazione costruttiva, non tanto sulla forma in se stessa mentre per Kandinskij, infatti, ‟in linea di principio non esiste alcun problema della forma» – ma sui mezzi della comunicazione dell’‟interno contenuto» e sull’essenza stessa della ‟interiore necessità», che ancora urge, come per Kirchner, dietro l’atto creativo; all’analisi psicologica succede la sintesi, al doloroso scavare nel profondo un impulso all’astrazione, all’istintività la riflessione teorica, come dimostrano anche i numerosi scritti pubblicati da questi artisti. Se la Brücke era una comunità, in cui le esperienze si comunicavano giorno per giorno, Der blaue Reiter non è neanche un’associazione, ma il titolo di una serie di mostre e di una raccolta di scritti di artisti e di riproduzioni di arte popolare e primitiva. Si accolgono dall’esterno, di volta in volta, i contributi che appaiono più opportuni: R. Delaunay e il ‛doganiere’ Rousseau espongono alla prima mostra nel 1911; nell’almanacco sono incluse riproduzioni di opere, oltre che di Delaunay e Rousseau, di Cézanne, Gauguin e van Gogh, degli artisti della Briìcke (grafica), di O. Kokoschka, e anche di Picasso, Matisse, H. Le Fauconnier, H. Arp, Natalie Goncarova. Tra i protagonisti (Kandinskij è l’anima del gruppo, Marc il più fervido organizzatore) solo quattro sono tedeschi, Marc, Macke, H. Campendonck e G. Münter; Kubin è austriaco, Klee svizzero, mentre il contributo del folklore e del misticismo russo, estremamente significativo, è portato da Kandinskij e A. Jawlenskij. Anche il concetto del primitivo si allarga: accanto alle riproduzioni di stampe tedesche dell’Ottocento, stampe giapponesi, sculture africane e artigianato delle isole del Pacifico, troviamo nell’almanacco l’arte precolombiana, figurine del teatro d’ombre egiziano, disegni infantili, l’arte popolare russa e le pitture su vetro degli ex voto bavaresi, di cui si apprezza l’ingenuità, l’elementarità degli elementi compositivi e la purezza del colore: in questa tecnica si esercitano Kandinskij, Klee, Marc. Nelle opere del gruppo le aperture verso l’avanguardia francese, italiana e russa sono decisamente maggiori e certo preponderanti rispetto all’influenza dei pittori della Brücke, con i quali, stando alla testimonianza di Kandinskij prima della fine del 1911 gli artisti di Monaco non hanno avuto rapporti. Una fase vicina al simbolismo cromatico e all’armonia compositiva dei fauves è documentata almeno in Kandinskij, Jawlenskij, Marc e Macke nel 1905 già avevano esposto nella sezione russa del Salon d’automne. Alcuni quadri di Klee e di Marc partono direttamente dall’esperienza cézanniana; almeno fino al 1909 Klee ama più Cézanne che van Gogh. Un’influenza cubista diretta è nello sfaccettamento di soggetti come la Tigre di Marc del 1912 e nel ribaltamento dei piani dei quadri di Macke tra il 1911 e il 1912. Il dinamismo futurista insieme ai cunei luminosi del raggismo russo si riflette in opere di Marc del 1913-1914 e soprattutto è evidente, negli stessi anni, un’influenza di Delaunay contemporaneamente su Marc, Macke e Klee, che contribuirà al formarsi della struttura del cosiddetto ‛quadrato magico’ di quest’ultimo. Tutti questi elementi sono trasfigurati in una ricerca che non assume né il dato reale come punto di partenza né la struttura della percezione come punto d’arrivo, ma solo l’espressione della ‛necessità interiore’, la comunicazione di una visione spirituale del mondo che può basarsi sulla struttura dell’inconscio come in Klee, sul tema della fuga dall’uomo come in Marc o sul linguaggio di puri segni senza oggetto come in Kandinskij, ma tende sempre e comunque all’astrazione anche quando questa non è programmatica; di qui il rifiuto spesso ribadito del cubismo e del futurismo anche da parte di chi ne utilizza certi schemi compositivi. È in questa cerchia, e non nella Brùcke, che la parola Geist e l’idea della fusione nel cosmo vengono assunte costantemente nel senso sopra accennato. Dagli artisti del Blaue Reiter non è partita nessuna forma di contestazione della tecnica pittorica, come è avvenuto nell’ambito della ricerca cubista con la pratica del collage e soprattutto con la defezione dadaista , o con le ‛serate futuriste’ che tendono a dissolvere effettivamente l’opera nell’azione effimera. Essi avvertono però, come risulta dagli articoli dell’almanacco, l’assurdità dell’ ‛arte da museo’ e del ‛quadro da parete’ nella società contemporanea. La soluzione che essi offrono è, per il momento, più teorica che effettiva; effettiva in parte diventerà con il lavoro didattico di Kandinskij e Klee al Bauhaus e con la relazione istituita tra la ricerca figurativa, la funzionalità architettonica e la strutturalità del design. La soluzione per ora consiste nel recupero di un’ ‛arte monumentale’, di una Gesamtkunstwerk che è aspirazione alla sintesi di tutte le arti e all’identificazione di arte e vita in un atteggiamento estetico integrale. Qui verranno tenute presenti due radici la coralità e l’aspirazione al trascendente dell’arte medievale ovvero il ‛mito della cattedrale’ ripreso in seguito nell’architettura espressionista e nel programma del Bauhaus, e la Gesamtkunstwerk wagneriana. Per Kandinskij l’opera d’arte totale deve realizzarsi nel teatro, sintesi dinamica di suono musicale, danza, colore e parola; ed egli stesso tenta di realizzarla in Il suono giallo e di teorizzarla nel saggio Sulla composizione scenica, ambedue pubblicati in Der blaue Reiter. Il rapporto con la musica, appoggiato dalla ripresa di una vecchia teoria sulla corrispondenza tra colori e suoni musicali, è fondamentale per tutti gli artisti del Blaue Reiter e soprattutto per Kandinskij e Klee; ricordiamo l’importanza dell’inserimento degli scritti di Th. von Hartmann, L. Sabaneev e soprattutto A. Schönberg nell’almanacco. La rivisitazione wagneriana rimanda all’area simbolista, mentre un rapporto diretto tra pittura e musica è meditato anche da Matisse e Vlaminck; e all’area simbolista si collegano molte altre cose. Anche se non bisogna confondere le parole sintetista e sintetico, va tenuto presente che in vari saggi Kandinskij definirà l’arte nuova ‛sintetica’ in opposizione a quella ‛analitica’ della tradizione precedente, compreso l’impressionismo, e nell’articolo del 1911 Worringer riunisce tutti gli artisti innovatori nella definizione ‟espressionisti e sintetisti», tra i quali quindi non fa molta differenza; oltre al pensiero di Kandinskij, le teorie sul colore abbozzate in tono quasi scherzoso da Macke e Marc in due lettere del dicembre 1910 rimandano rispettivamente alla corrispondenza tra pittura e musica dal postimpressionismo proviene la dialettica di astrazione ed empatia, e non solo nel senso indicato dal Worringer: nei primi quadri astratti di Kandinskij i segni si caricano di un valore ‛empatetico’, Marc preferisce le allusioni organiche, plastiche, dinamiche nei quadri astratti e diventa invece ‛cristallino’ dove conserva il tema animalistico. Non è possibile in questa sede seguire le direzioni individuali degli artisti, così caratterizzate e profondamente diverse tra loro. Bisogna però ancora ricordare che, se rifiutano di porsi il problema della forma, cercano però tutti l’affinamento dei mezzi di comunicazione. Una vera e propria angoscia per la non raggiunta conquista del colore, seguita poi dall’esaltazione del successo, è espressa da Klee solo durante il viaggio a Kairouan nel 1914 potrà dire ‟il colore mi ha conquistato» e da Marc tra il 1908 e il 1910. Kubin è altrettanto disperato di non possedere una ‛forma’, finché questa gli si rivela quasi come un processo liberatorio quando scrive di getto il romanzo L’altra parte del 1908, ricco di spunti autobiografici relativi alla storia del suo inconscio. Il problema della conquista del colore diventa drammatico per questi artisti perché esso, a differenza di quanto si proponeva il colore puramente costruttivo, armonico, autosufficiente dei fauves e il colore psicologico dei pittori della Brücke, si carica di una più complessa funzione costruttivo-architettonica, che comprende il riferimento a dati psicologici universali e a un valore cosmico, assoluto. La rivista ‟Der Sturm» è fondata nello stesso periodo in cui si stacca dal gruppo berlinese Secessione la Nuova secessione, appoggiata da Walden; nella sua galleria esporranno, accanto alle tante rappresentanze straniere, gli artisti del gruppo di Dresda e di quello di Monaco. Da questo momento Berlino resterà il nuovo centro della vita artistica; e intorno a questo momento si fissa, come si è visto, la definizione stessa di espressionismo. L’attività della rivista accentua ancor più il carattere di apertura europea e la disponibilità ad affrontare il problema del rapporto con la scienza e tutte le altre manifestazioni culturali; mentre Kandinskij e Marc, da parte loro, stanno progettando un secondo almanacco, mai più realizzato a causa della guerra, dedicato proprio ai rapporti tra arte e scienza. E qui che si forma il legame con l’espressionismo degli austriaci, con Loos, autore di numerosi articoli, e Kokoschka, di cui si pubblicano vari disegni e, nel luglio 1910, il dramma Assassinio, speranza delle donne; si prende posizione contro il nazionalismo di Vinnen e dei suoi compagni; si pubblicano i manifesti dei futuristi, che espongono a Berlino nel 1912, e frequenti articoli sugli artisti francesi. La posizione espressa da vari autori sul rapporto tra arte e progresso scientifico, anche se tutt’altro che unitaria, assume un carattere modernistico-progressista con sortite rivoluzionarie, che formerà la base ideologica di alcuni architetti espressionisti e del Rauhaus. In polemica con la rivista ‟Kunst und Künstler» e il suo direttore K. Scheffier, si rifiuta l’idea di una fine dell’arte uccisa dalla tecnica, dalla massa e dal concetto dell’utile e ci si getta con ottimistico entusiasmo a scoprire funzioni e valori artistici non contro, ma dentro il progresso scientifico. Se impotente è la protesta integrale, cieca è questa fiducia in una troppo facile alleanza, come cieco è l’errore di chi in buona fede accetta gli ideali del Werkbund e più tardi il compromesso del Bauhaus. Anche per questo, forse più tardi Walden partirà per la Russia e, a differenza di Kandinskij e tanti altri, per non far più ritorno. Poche sono le testimonianze di una coscienza dell’inattualità di un’arte libera nel vigente sistema di produzione; si parla tanto di Nietzsche e non di Morris, di conquiste e non di contraddizioni. In questi anni anteguerra quasi solitaria si leva la voce di Loos che ammonisce contro l’architettura come arte, l’arte come ‟ornamento e delitto», strumento della moda e quindi strumento di una gestione dell’industria il cui scopo è il mutare continuo dello stile per l’incremento della produzione e del profitto; ma anche Loos, in fondo, non affronta direttamente il problema della produzione e si limita, a torto o a ragione, a un’ascetica rinuncia all’arte. A favore dell’ingegnere contro l’architetto come astratta figura di creatore di forme si esprime ancbe J. A. Lux, l’autore della monografia su O. Wagner del 1914. Intanto si affronta il problema con cui Gropius va già cimentandosi: la didattica della forma artistica e l’arte applicata. È a questo punto che il problema dell’arte come comunicazione si salda a quello della progettazione. È estremamente significativa la vignetta che appare per molti numeri nelle pagine pubblicitarie della rivista: una xilografia reclamizza il Muim Institut, una scuola diretta da Pechstein e Kirchner, dove si impartisce un insegnamento ‛moderno’ sulla pittura e altre tecniche, nonché ‛pittura collegata con l’architettura’. Il momento dell’istinto sembra finito. Un carattere particolare ha l’espressionismo degli austriaci Kubin, Kokoschka e E. Schiele, anche se importante è il loro contatto con i tedeschi. Diversa è la formazione sul piano figurativo: per Kokoschka e Schiele resterà fondamentale l’influenza del linearismo tortuoso di Klimt; Kubin, che si è dedicato prevalentemente alla grafica, parte, assai più dei tedeschi, dall’esperienza simbolista anche e soprattutto letteraria; le sue opere tra il 1898 e il 1905 sono influenzate in particolare da F. Rops e O. Redon. Ma diverse soprattutto sono la situazione culturale e politica in cui operano. L’Austria è la patria di O. Wagner e di Freud. Dagli architetti viennesi, oltre che da Klimt, gli artisti austriaci ereditano il funzionalismo di una linea scattante e lucida anche quando esprime i contenuti più tormentosi, linea che nemmeno il violento colorismo di Kokoschka sopprime; e allo stesso mondo di Freud appartiene l’analisi psicologica, venata di romanticismo ma sempre spietatamente oggettiva. In Kubin questa si trasforma consapevolmente in uno studio diretto dell’inconscio, soprattutto del materiale onirico, e in una forma di autoterapia che lo collegano al movimento surrealista ancor più che a quello espressionista. Infine, gli espressionisti austriaci non vivono tanto il dramma della libertà e dei valori umani soffocati da una corsa al primato industriale, quanto quello di un mondo in sfacelo, in cui lo splendore bizantino si accompagna a un tradizionalismo decrepito. Non la ricerca di un significato originario dell’esistenza, ma la visione di un crollo già in atto si riflette nel ricorrente tema della morte. L’unico scultore espressionista può considerarsi E. Barlach, noto anche come autore di drammi e incisore, soprattutto nella tecnica xilografica. Resta appartato dai centri dell’espressionismo figurativo; del movimento egli isola due componenti fondamentali: l’aspirazione religiosa, che lo conduce spesso a temi della storia cristiana e a una forma di protesta sociale nelle figure di povertà e di dolore, e il costante riferimento alla scultura gotica. Idealmente, anche per la prevalenza del fattore letterario sulla ricerca linguistica, si può avvicinare all’espressionismo di finalità esplicitamente sociale di un’artista come K. Kollwitz; e, per l’associazione di religiosità e umanitarismo, le sue opere sono divenute fatalmente uno dei modelli, forse il più noto, dell’arte sacra contemporanea. Una posizione appartata e differenze notevolissime rispetto al gruppo tedesco, col quale scarsissimi sono i rapporti, ha il cosiddetto ‛espressionismo fiammingo’, di cui il più noto rappresentante è C. Permeke. Il suo interesse è volto prevalentemente a ritrarre il popolo e una sorta di rude natura anch’essa di sapore popolano, in composizioni in cui il colore è cupo e denso, caratterizzato spesso da un’asprezza verdastra, da un violento spessore materico e da una costruzione massiccia e monumentale. Vengono considerati espressionisti, anche se con il movimento in questione poco hanno in comune, altri artisti. P. Modersohn-Becker, che parte dal naturalismo della scuola di Worpswede e rivela poi l’influenza di Gauguin, dipinge immagini di una umanità primitiva, in cui le stesure piatte di colore e l’ingenua ornamentazione sono composte in una severa monumentalità. C. Rohlfs corregge con la deformazione prospettica e l’esasperazione coloristica quel fondamentale impressionismo pesante e materico che era proprio degli epigoni tedeschi del movimento. Dopo la prima guerra mondiale l’espressionismo figurativo si risolve in altre forme di comunicazione e di protesta. Esso riappare in molti casi nei caratteri originari ogni volta che gli artisti si pongono in contrasto con le tendenze dell’arte ufficiale o con un concetto di arte come ricerca formale, strutturale, astratta, e soprattutto quando si propongono di manifestare nel modo più diretto una protesta politica e sociale o un’analisi realistica di un mondo oppresso dal dolore, dalla dittatura, dalla guerra. È chiaro che in tutti questi casi i riferimenti all’espressionismo hanno un carattere da intendersi come una sorta di polemico e simbolico revival, mentre storicamente la loro esperienza va inquadrata in condizioni diverse. Nell’ambito della scuola di Parigi, il lituano Ch.Soutine e il bulgaro Pascin rievocano la deformazione e l’esasperazione del segno espressionista per realizzare, il primo, un’immagine tragica e sanguinosa dell’esistenza, il secondo, un senso di disfacimento e di metafisica angoscia; Scipione e M. Mafai introducono il riferimento espressionista nella Scuola romana come mezzo per esprimere una protesta politica e morale. Già annunciata da alcune opere precedenti alla guerra, si afferma in Germania a partire dal 1920 la Neue Sachlichkeit, che significa nuova oggettività o nuovo realismo ed è stata anche definita da F. Roh, insieme a contemporanee (ma in realtà diverse) ricerche italiane, realismo magico. La tendenza si oppone programmaticamente all’espressionismo, ma a esso per molti versi continua a far riferimento. Il significato del termine si può introdurre con le parole del direttore del Museo di Mannheim, dove nel 1925 ha luogo una mostra di opere ‛oggettive’: ‟L’espressione deve realmente essere applicata come un marchio al nuovo realismo che ha un sapore socialista. In Germania esso è stato in relazione con il contemporaneo sentimento generale di rassegnazione e di cinismo dopo un periodo di esuberanti speranze che avevano trovato sbocco nell’espressionismo» . La tendenza ha in comune con l’espressionismo, soprattutto berlinese, la rivolta sociale, la risoluzione dell’arte nell’impegno morale e la concezione dell’esistenza come dolore e violenza; ma bisogna anche ricordare quanto Kandinskij, sempre sostenitore dell’astrazione nei suoi scritti, affermava in Lo spirituale nell’arte: la vera astrazione e il vero realismo coincidono nella resa di una realtà autentica, non mascherata dalle convenzioni. Degli stessi movimenti i nuovi realisti rifiutano l’illusione di una rivoluzione fondata sull’atto estetico, l’ottimismo, l’evasione dalla concreta realtà sociale e si propongono un’analisi diretta del vero che si pone come denuncia ed è tutt’altro che passiva e rassegnata. L’arte è ancora intesa come comunicazione e non come forma; ma muta l’oggetto della comunicazione e la protesta non s’identifica più con la formazione del mezzo espressivo, bensì lo subordina totalmente, traendolo indifferentemente dagli esempi espressionisti, cubisti o del realismo accademico. Non si ricercano più le relazioni cosmiche o il significato universale dell’esistenza, ma l’ingiustizia, la sofferenza, i vizi di una situazione particolare; i temi sono gli orrori della guerra, lavoratori che soffrono, soldati e borghesi corrotti, la desolazione del mondo dell’industria e le miserie della città, i mezzi preferiti la deformazione della satira e la riproduzione di un brano di vita, spietata, esatta, lucida e quasi iperreale. Le condizioni da cui si sviluppa la Neue Sachlichkeit sono di ordine politico e sociale, e in seconda istanza discendono da una concezione dell’arte che nasce dalla delusione o dall’impegno diretto di modificare la realtà e che si è già affermata in altre iniziative, come quelle della Novembergruppe: la guerra perduta, il disastro economico, la psicologia del ‛reduce’, le speranze rivoluzionarie seguite dal soffocamento sanguinoso dei moti spartachisti del gennaio 1919, l’insoddisfazione per il compromesso socialdemocratico e in particolare per la svolta in senso conservatore segnata dalla politica di G. Stresemann del 1924 la rinuncia alle posizioni dell’avanguardia e il ritorno all’ordine accompagnato da una ripresa di temi tradizionali, della figuratività e anche di un classicismo accademico, che ha luogo contemporaneamente in altri paesi anche e soprattutto in un’ottica conservatrice. In questo clima, all’artista restano aperte tre soluzioni, che di fatto s’intrecciano a vicenda: adottare la figurazione come strumento di denuncia (Neue Saehllchkeit), rinunciare all’azione immediata per configurare una ricostruzione proiettata nella dimensione utopica (Novembergruppe), tentare un recupero della funzione sociale dell’arte, intesa come analisi delle strutture visive da utilizzare nella ricostruzione dell’ambiente, ossia nell’architettura, nell’urbanistica, nel design e nella didattica per preparare i relativi operatori (Bauhaus). Nel passo citato Hartlaub afferma anche che ‟questa salutare disillusione trova in Germania la sua più chiara espressione nell’architettura». La nuova oggettività non va quindi contrapposta al ‛formalismo’ astratto degli ex-espressionisti Klee, Kandinskij e Feininger che insegnano al Bauhaus, ma rappresenta una diversa soluzione dello stesso problema, come può essere comprovato dal carattere sachlich, sia pure in una finalità diversa, di O. Schlemmer, anche lui insegnante al Bauhaus. D’altra parte una carica utopica è anche nei pittori della Neue Sachlichkeit, e forse proprio uno scarso ancoramento al reale ne determinerà la risoluzione in un atteggiamento ben più evasivo e disimpegnato di quello dei ‛formalisti’: in America G. Grosz rinnegherà il proprio impegno sociale, O. Dix inclinerà sempre più verso un’interpretazione magica e surreale e infine verso temi religiosi, M. Beckmann verso un monumentalismo ormai vuoto di protesta. Sono significativi i rapporti che tutti questi movimenti hanno con dada: Dix e Grosz giungono alla conversione sachlich direttamente dal dada di Berlino. Nella rivista ‟Frühlicht» accanto ai visionari della Novembergruppe si pubblica un articolo di K. Schwitters; rapporti diretti si hanno anche tra i dadaisti e il Bauhaus. Questa è la controprova che all’origine di tutti i diversi tentativi di soluzione c’è comunque il rifiuto dell’arte come produzione di un valore, destinato a divenire feticcio e merce per il fruitore borghese; ma nello stesso tempo si riafferma, anche dietro l’apparenza dell’anonimia, il valore del lavoro dell’artista, sia esso il demiurgo che vuol plasmare il nuovo mondo o, più modestamente, il vate che condanna i vincitori e difende i vinti. Nella difesa di questo valore è l’ultima eco dell’individualismo espressionista. I più noti tra i pittori della Neue Sachlichkeit sono Dix, Grosz e Beckmann. I primi due hanno in comune il realismo deformato dalla satira, l’incisività del segno (che fa spesso preferire la rapidità del disegno e l’incisione alla pittura), ancora fortemente espressionista in certe immagini, e la tendenza alla tipizzazione che si attua con procedimenti geometrizzanti desunti dal cubismo. Con un colore avvampante e la sintesi di cubismo ed espressionismo Grosz realizza, in un’opera come Omaggio a Oskar Panizza, un crudo ritratto storico opposto alle visioni idealizzanti del Blaue Reiter. L’esattezza memore della fotografia isola gli allucinati ritratti di Dix in una luce cruda, raggiungendo spesso un risultato quasi iperreale. Beckmann è più attento alla costruzione della forma attraverso duri piani squadrati, mantenendo livido il colore, e raggiunge soprattutto nei ritratti un effetto di monumentalità antieroica, che riflette un’umanità disincantata, ‛maschere’ che non alludono più a una realtà nascosta dietro il visibile. Edvard Munch è stato uno dei più importanti artisti attivi tra Otto e Novecento perché assieme ad altri pittori suoi coetanei ha segnato un punto di svolta nella storia dell’arte. Ogni qual volta incrociamo il suo nome in un libro o in una mostra è sempre affiancato da altri due artisti: Paul Gauguin e Vincent Van Gogh . Si potrebbe pensare che questi tre maestri siano accomunati, in prima istanza, dallo scarso successo in vita e dalla fama postuma, ma in realtà si tratta di un’opinione errata. Infatti, nonostante sia un pensiero comune associare le opere più cupe e la triste vicenda biografica di Edvard Munch a una scarsa popolarità in vita, il norvegese ottenne un grande successo nella seconda parte della sua carriera. In realtà, ciò che accomuna i tre artisti è la carica soggettiva che caratterizza le loro opere, capace di andare oltre quello studio scientifico e oggettivo della realtà, portato avanti dalle correnti contemporanee degli impressionisti e dei puntinisti. Non a caso Munch, Gauguin e Van Gogh sono considerati anticipatori dell’espressionismo, quella corrente artistica che mira a esaltare il lato emotivo della realtà che ci circonda. I più grandi capolavori di Munch sono il risultato di una vita tormentata e dolorosa, segnata da perdite familiari, insuccessi, alcolismo, nevrosi e solitudine. Come si vedrà più avanti, la vita di Munch fu piena di alti e bassi, che non hanno permesso all’artista di raggiungere quella stabilità mentale ed emotiva che la sua condizione economica e sociale gli avrebbe permesso. Infatti, nonostante la vita tormentata e solitaria, Munch riscosse grande successo presso la critica e il pubblico europeo, al punto che molti artisti, per esempio le avanguardie del Die Brücke e dei Fauves, riconobbero in lui un padre e un maestro della loro arte. Tuttavia, provare a etichettare l’arte del genio norvegese è un’operazione impossibile per la sua singolarità e anche perché Munch stesso rifiutò di farsi accostare a qualunque gruppo di artisti. Edvard Munch nacque il 12 dicembre 1863 a Løten, una piccola cittadina norvegese nei pressi di Christiania (nome originario di Oslo capitale della Norvegia), secondo di cinque figli di Christian e Laura Catherine Bjolstad. Nel 1864 la famiglia si trasferì a Christiania, dove il pittore ebbe l’opportunità di entrare in contatto con un panorama culturale più ampio rispetto al piccolo comune di origine. Purtroppo, l’infanzia di Edvard fu segnata da vari lutti, a partire dalle morti della madre nel 1868 e della sorella maggiore Johanne Sophie nel 1877, entrambe causate dalla tubercolosi. Inoltre, la perdita prematura della madre portò il padre di Edvard a un crollo mentale che lo allontanò dai figli. Ciò incise profondamente sul rapporto tra il giovane Munch e il padre, il quale sognava per lui una carriera da ingegnere, ma alla quale Edvard preferì quella artistica, tanto che iniziò a seguire i corsi della Scuola Reale di Disegno. Nel 1882 Edvard Munch e altri pittori affittarono insieme un atelier e affidarono la loro formazioni a due illustri pittori: il naturalista Christian Krihg e l’impressionista Frits Thaulow. Le opere di quest’ultimo ispirarono alcuni dei dipinti esposti nel 1883 al Salone delle Arti Decorative di Christiania, la prima mostra a cui partecipò il giovane pittore norvegese. Nel 1885 Edvard Munch si trasferì a Parigi, dove lesse per la prima volta le opere del filosofo Søren Kierkegaard. Quest’ultimo teorizzò diversi modi di concepire l’esistenza; tra questi figurava la “vita estetica”, che si basava sul connubio tra arte e vita, che Munch reinterpretò in chiave personale come arte e dolore. Questo periodo parigino fu fondamentale sotto vari punti di vista: nel 1889 Munch organizzò la sua prima mostra personale e anche se fu un fallimento, ottenne una borsa di studio che gli permise di rimanere a vivere nella capitale. Il soggiorno francese fu anche un’occasione per farsi conoscere tramite alcune esposizioni, ma soprattutto per entrare in contatto con le opere di numerosissimi artisti, in particolare quelle di Vincent Van Gogh e di Paul Gauguin, che lo spinsero a ricercare uno stile personale che lo contraddistinguesse. Tuttavia, questi anni furono segnati anche dalla perdita del padre, evento che tormentò l’artista fino alla fine dei suoi giorni, dato che non era stato in grado di risanare i rapporti con lui. Proprio questa situazione segnò un punto di svolta nelle sue opere, che per qualche anno continuarono a essere esposte, ma senza riuscire a lasciare il segno nel panorama artistico. Il 1892 fu un anno estremamente rilevante per la vita e la carriera di Edvard Munch. Il pittore norvegese fu invitato dall’Associazione Artisti Berlinesi a esporre alla loro mostra annuale. Tuttavia, l’esposizione durò soltanto una settimana perché le opere di Munch furono ritenute dalle autorità scandalose e oscene. Il provvedimento causò largo dissenso, al punto che un gruppo di artisti del sodalizio, capitanato dall’artista Max Liebermann, decise di scindersi dall’Associazione Artisti Berlinesi nel 1898, dando vita alla celebre Secessione di Berlino. La censura non costituì comunque un colpo di arresto nella carriera di Edvard Munch. L’artista, infatti, fu capace di comprendere l’importanza dell’episodio e decise così di stabilirsi a Berlino. Nella capitale tedesca il norvegese fu riconosciuto come un grande pittore per il carattere unico delle sue opere, che gli permise di esporre in tutta Europa e perfino negli Stati Uniti. Il 1893 fu uno degli anni più importanti della sua carriera, per la produzione di alcuni dei suoi più grandi capolavori, come l’Urlo caratterizzati da tinte fosche e fosforescenti e da soggetti macabri e inquietanti. Durante un’esposizione Munch decise di raggruppare sei opere in una serie intitolata Amore, il nucleo originale alla base del Fregio della vita: un ciclo unitario di dipinti che fu ampliato negli anni a seguire fino alla forma definitiva del 1902. Sebbene da una parte nel 1893 Munch raggiunse l’apice della sua carriera, dall’altra la sua tormentata relazione con la fidanzata Tulla Larsen si concluse tragicamente. Sempre nello stesso anno iniziò a dedicarsi alla realizzazione di opere grafiche e fotografiche, che ebbero un largo successo. Negli anni a seguire, Munch viaggiò molto e riscosse una certa fama, al punto che vari gruppi di artisti gli proposero di unirsi a loro. Tuttavia, Edvard declinò sempre gli inviti preferendo vivere da solo sprofondando in uno stato mentale esasperato ed aggravato dall’abuso di alcolici. Nonostante la terribile situazione, l’artista comprese da solo che non era più possibile continuare a vivere in questo stato e decise di ricoverarsi, seppur con la possibilità di continuare a dipingere. Dopo il ricovero, Edvard riuscì a condurre uno stile di vita più sano, ma sempre in solitudine. Infatti, il pittore decise di isolarsi quasi completamente dal resto della società. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati dal tentativo di farsi apprezzare dalla sua madrepatria che lo aveva sempre ignorato, impegnandosi nella realizzazione di commissioni pubbliche e lasciando in eredità al sindaco di Oslo la maggior parte delle sue opere. Subito dopo aver raggiunto l’accordo con il sindaco, Edvard Munch morì nel 1944, a causa di una broncopolmonite. Posso dire che le opere del primo periodo di Edvard Munch sono molto diverse da quelle della sua maturità: le tinte sono tenui e controllate, i personaggi sono calmi e rilassati e risentono ancora dell’arte di Edvard Degas che fu un artista per lui importante nei primi anni della sua carriera. Un momento di svolta è chiaramente percepibile nell’opera La bambina malata (1885-1886). Questo dipinto fu esposto per la prima volta con il titolo Studio e suscitò molte polemiche da parte della critica per il carattere di non finito e di incompiutezza della materia pittorica. L’opera riflette un evento personale, ovvero quello del decesso della sorella, che sembra raffigurata sul letto di morte accanto alla zia Karen che all’epoca si prese cura dei bambini dopo la scomparsa della madre. Sebbene il dipinto sia soltanto del 1885, il pennello di Munch sembra affrancarsi dallo stile impressionista e avvicinarsi a un tipo di pittura più soggettivo e carico di emozioni. Come detto precedentemente, il 1892 fu l’anno della svolta nella carriera artistica di Edvard Munch. Ciò è intuibile in alcune opere di questi anni, come Malinconia. L’opera raffigura un paesaggio marino al tramonto, con un pontile sullo sfondo, dove sono rappresentate alcune figure e una barca in mezzo al mare. Nella parte inferiore della tela, sulla destra, compare un uomo identificabile come Munch, con l’orecchio poggiato sulla mano sinistra: la posa tipica della malinconia. Il dipinto trae ispirazione dalla delusione amorosa provata da un amico per una pittrice da lui amata. A partire da questa dolorosa esperienza, il maestro norvegese trae ispirazione per dar vita a un’opera che rappresenti l’angoscia e il dolore provato da ogni persona almeno una volta nella vita. Inoltre, è possibile notare come i toni siano incupiti e il sentimento della malinconia sia trasmesso tramite delle ampie e frettolose campiture di colore. La stessa tecnica è riscontrabile in un’altra opera dello stesso anno: Sera sul viale Karl Johan. Il dipinto rappresenta il tipico rituale borghese della passeggiata serale nella città di Christiania. Munch non si sofferma sulla raffigurazione dei dettagli anatomici dei singoli passanti, ma li rappresenta come un unico blocco di automi dallo sguardo vuoto, che procede nella stessa direzione. L’unico a separarsi da questa massa informe è un uomo col cilindro che cammina lungo la strada nella direzione opposta: si tratta dello stesso Munch, che si sentì sempre emarginato e lontano dalla società. Con il passare degli anni le opere dell’artista norvegese si semplificarono maggiormente e i colori diventarono più accesi e vibranti, con lo scopo di illuminare la tela e suggerire i sentimenti provati dal pittore al momento dell’esecuzione. Si tratta di emozioni forti e terrificanti: la gelosia, l’angoscia, la malinconia, la disperazione e la libido, che stanno alla base di numerose opere cariche di significati simbolici che alludono a sentimenti e vicende personali. A partire dal 1893, Munch decise di raccogliere diversi dipinti all’interno di un’unica raccolta organica che prese il nome di Fregio della vita, una narrazione della sua vicenda spirituale e affettiva. Inizialmente il Fregio fu composto da cinque dipinti, con il titolo di Amore. Successivamente Munch aggiunse altre opere a questa raccolta fino ad arrivare a ventidue dipinti in occasione della quinta edizione della Berliner Secession. Per l’esposizione, Munch suddivise il fregio della vita in quattro tappe: il Seme dell’amore, Sviluppo e dissoluzione dell’amore, Angoscia e Morte. Tra le opere del Fregio della vita compare anche il dipinto più celebre di tutto il corpus di Edvard Munch: l’Urlo. L’opera nota in tutto il mondo è ancora una volta la trasposizione in pittura di un’esperienza vissuta in prima persona dall’artista, di cui è possibile leggerne una testimonianza scritta: “mi fermai a guardare al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando. Questo è diventato L’urlo”. Nel dipinto viene raffigurato il fiordo di Ekeberg, meta per le passeggiate domenicali e tipico scenario da cartolina. Ancora una volta Munch rompe con la tradizione e trasforma un luogo familiare in un inferno terrestre: il cielo si tinge di rosso sangue e l’uomo in primo piano, lontano dalle altre due figure sulla sinistra, si dimena in un urlo doloroso e terrificante, in risposta alla distorsione della natura intorno a lui. L’opera non può che creare ansia e un senso di turbamento nell’animo dello spettatore, che rimane pietrificato dinanzi al grido dell’autore che denuncia un’ansia sociale che lo accompagnò per tutto il corso della sua esistenza. Un tema ricorrente del Fregio della vita è la donna, che nell’immaginario di Munch ha sempre rappresentato un ruolo sinistro e ambiguo. Tra le opere più celebri si menzionano Il Vampiro (1893-94) e Madonna (1894), che rappresentano due visioni personali distinte della figura femminile. Inizialmente il dipinto il Vampiro venne chiamato da Munch Amore e dolore, e l’artista stesso dichiarò che si trattasse “soltanto di una donna che bacia un uomo sul collo”. Solo in un secondo momento il suo amico e biografo Stanislaw Przybyszewski ribattezzò l’opera con il titolo odierno, in riferimento alla visione demoniaca e assoggettante della donna nei confronti dell’uomo. Infatti, nel dipinto l’uomo sacrifica la sua stessa vita abbandonandosi al bacio mortale perché assetato dal desiderio amoroso, che soltanto la figura femminile può soddisfare. Il secondo dipinto è sicuramente uno dei più scandalosi di tutta la storia dell’arte. Infatti, Munch raffigura una Madonna tutt’altro che vergine e distante dalla classica rappresentazione di questo soggetto. La donna è ritratta in una posa sensuale e provocatoria. L’artista realizzò cinque versioni dell’opera, tra le quali spicca l’esemplare in cui la cornice è decorata con degli spermatozoi, mentre in basso a sinistra compare la figura di un feto abortivo, a richiamare il mistero della nascita e il dogma della verginità. L’opera suscitò grandissimo clamore e fu accolta con aspre critiche da parte del pubblico benpensante dell’epoca. Nonostante gli scandali e le tensioni suscitate dalle opere di Munch, il suo contributo fu fondamentale per il movimento espressionista: come ricordato anche sopra, il testimone della sua esperienza sarebbe stato in seguito raccolto dalla Secessione di Berlino. Su tutti occorre menzionare i nomi di Lovis Corinth, Max Liebermann e Käthe Kollwitz, che guardarono a Munch con convinzione e in certi casi riuscirono anche a suscitare scandalo esattamente come aveva fatto il loro precursore. Posso affermare che nel corso della sua lunga vita Edvard Munch realizzò migliaia di stampe e dipinti. Essendo tanto un uomo d’immagini quanto di parole, riempì fogli su fogli di annotazioni, aneddoti, lettere e persino una sceneggiatura per il teatro. L’esigenza di comunicare le proprie percezioni, il proprio ‘grido interiore, lo accompagnò per tutta la vita, e proprio questa attitudine è stato il motore della sua pratica come artista, che ha toccato tanto temi universali – come la nascita, la morte, l’amore e il mistero della vita – quanto i disagi psichici necessariamente connessi all’esistenza umana – le instabilità dell’amore erotico, il disagio prodotto dalle malattie fisiche e mentali e il vuoto lasciato dalla morte. Questa mostra ruota attorno al ‘grido interiore’ di Munch, al suo saper costruire, attraverso blocchi di colore uniformi e prospettive discordanti, lo scenario per condividere le sue esperienze emotive e sensoriali: un processo creativo che sintetizza ciò che l’artista ha osservato, quello che ricorda e quanto ha caricato di emozioni. Altre opere, invece, cercano di immortalare le forze invisibili che animano e tengono insieme l’universo. L’inizio della sua carriera coincide infatti con cambiamenti radicali nello studio della percezione: alla fine dell’Ottocento è in corso un dibattito tra scienziati, psicologi, filosofi e artisti sulla relazione tra quello che l’occhio vede direttamente e come i contenuti della mente influiscono sulla nostra vista. Il suo interesse per le forze invisibili che danno forma all’esperienza, condizionerà le opere che lo rendono uno degli artisti più significativi della sua epoca. Precursore dell’Espressionismo e persino del Futurismo del XX secolo nella sua esplorazione delle forze impercettibili, oggi continua a “parlare” alle visioni interiori e alle preoccupazioni anche di noi, uomini e donne dell’età moderna. Nelle sue creazioni Munch punta a rendere visibile l’invisibile.
La Mostra è Suddivisa in Sette Sezioni :
Prima sezione – Allenare l’occhio
Munch riteneva che la mente individuale, le visioni interiori e il recupero cosciente dei ricordi dessero forma alla percezione diretta della realtà, fino a sostituirla: “Non dipingo la natura: la uso come ispirazione, mi servo dal ricco piatto che offre. Non dipingo cosa vedo, ma cosa ho visto.” La formazione artistica di carattere accademico che riceve in gioventù si trasforma presto in tecniche inventive capaci di esprimere i ricordi e le emozioni che sfuggono all’occhio umano. Dopo una breve parentesi quale studente di ingegneria e poi di disegno accademico nel 1880, l’artista viene rapidamente catturato dalla sfera d’influenza di Christian Krohg, autore e pittore dai toni politici e radicali, nonché di un gruppo artistico e letterario (il Kristiania Bohéme) che, secondo lo stesso Munch, contribuisce a “far maturare” le sue idee in materia di predominanza dell’esperienza interiore sulla realtà materiale. In mostra opere del periodo come Autoritratto (1881-82), Malinconia (1900-1901) e Il circolo bohémien di Kristiania (1907). I viaggi in Francia della sua gioventù fanno da sfondo alle sue incursioni nelle tecniche dell’Impressionismo, del Neoimpressionismo e del Sintetismo. Durante gli anni ‘90 del XIX secolo vive a Berlino, dove entra a far parte di una stretta comunità di scrittori, scienziati e libertari che studiano la teoria psicologica contemporanea e le espressioni dell’inconscio. Ad esempio, i pochi anni che separarono i ritratti della sorella Laura (il primo nel 1882, Laura Munch, presente in mostra; il secondo nel 1900) illustrano bene il viaggio che porta il pittore dall’universo del visto a quello del non visto. Munch presta una particolare attenzione alle immagini, ai suoni, ai colori e persino alle vibrazioni percepibili nell’aria; è estremamente consapevole dei modi in cui le emozioni filtrano le sue esperienze del mondo, riflettendo la ricerca di Hermann von Helmholz e del filosofo William James. Nei suoi scritti annota più e più volte come la sua vista influenzi la sua esperienza sensoriale, incluso i suoni che sente e gli stati emotivi che prova, producendo capolavori come L’urlo.
Seconda sezione – Quando i corpi si incontrano e si separano
Nel 1890 Munch scrive il “Manifesto di Saint Cloud”, un testo poetico che si ritiene abbia orientato le sue scelte artistiche: “Un braccio forte e nudo; un collo possente e abbronzato; una giovane donna che reclina il capo sulle curve del seno. Chiude gli occhi ed ascolta con labbra aperte e tremanti le parole che lui sussurra nei suoi capelli lunghi e sinuosi. Vorrei dar forma alla scena come vi assisto ora, ma avvolta in una foschia azzurra. Queste due persone in tale momento in cui non sono sé stesse, ma solo uno delle migliaia di anelli sessuali che concatenano ciascuna generazione all’altra. Le persone dovrebbero comprenderne la santità, la grandiosità, e togliersi il cappello come se stessero entrando in chiesa. Ne realizzerei diversi, di dipinti simili. Non sarebbero più ambienti, o uomini che leggono, o donne che lavorano a maglia a essere dipinti, ma persone in carne e ossa, che respirano e sentono, soffrono e amano…” In un’epoca di promiscuità tanto pubblica quanto privata, la determinazione di Munch a rendere visibile quella che lui definisce la “grandiosità della sessualità” è avanguardistica e controversa. Nonostante la misoginia di alcune sue immagini e la frequenza con cui rappresenta il rapporto tra uomini e donne come una battaglia tra i sessi, egli esprime empatia nei confronti di tutte le persone che, indipendentemente dal genere, vengono irretite dalla seduzione e rovinate dalla dissoluzione dell’amore. Negli anni ‘90 del XIX secolo Munch comincia a organizzare le sue immagini di desiderio erotico, risveglio sessuale e desolazione in una serie chiamata “Amore” che sviluppa nel corso dei decenni successivi e trasforma nella serie intitolata “Il Fregio della vita”, che per lui simboleggia un ciclo essenziale della vita umana.
In mostra sono presenti opere come Bacio vicino alla finestra (1891), Coppie che si baciano nel parco (Fregio di Linde) del 1904 e Madonna (1895).
Terza sezione – Fantasmi
“La malattia fu un fattore costante durante tutta la mia infanzia e la mia giovinezza. La tubercolosi trasformò il mio fazzoletto bianco in un vittorioso stendardo rosso sangue. I membri della mia cara famiglia morirono tutti, uno dopo l’altro” Dagli anni ’80 del XIX secolo, a partire dalla La bambina malata e opere di Munch iniziano a raccontare i suoi ricordi manipolati attraverso la pittura e la scrittura, un’attitudine che durerà per tutto il resto della sua vita. Durante l’infanzia sperimenta perdite molto importanti: la madre muore di tubercolosi quando Edvard ha appena cinque anni, mentre sua sorella maggiore Sophie, con cui condivide un rapporto speciale, è portata via dalla stessa malattia un mese prima che l’artista compia tredici anni. Il decesso del padre sopraggiunge, poi, mentre il pittore si trova in Francia, e il fratello Peter Andreas muore ad appena trent’anni, negli anni ‘90 del XIX secolo. Munch filtra il lutto della sua famiglia in alcuni dei suoi motif più toccanti. Se le raffigurazioni sentimentali della malattia erano popolari nei paesi nordici, le immagini di Munch sono, di contro, cariche dell’agonia che si prova nel guardare qualcuno morire, e della lotta con la morte che immagina i malati debbano affrontare. Le sue rappresentazioni di allucinazioni, ombre allungate dietro alle figure e rivoli di pittura che evocano l’immagine di corpi che si dissolvono, vogliono suggerire il modo in cui i pazienti fanno esperienza del mondo. Nei suoi scritti, Munch dichiara esplicitamente che i ricordi sono strumentali nel suo lavoro: l’atto di richiamare le proprie memorie gli consente di liberarsi dei dettagli superflui e identificare i momenti più significativi e importanti del suo passato: quasi una caccia ai fantasmi, per esempio in occasione della realizzazione della scenografia per la rappresentazione berlinese della sceneggiatura di Henrik Ibsen intitolata, appunto, Spettri. In questa sezione sono presenti opere celeberrime, tra le altre, come Sera. Malinconia (1891), Disperazione (1894) L’urlo (1895), Lotta contro la morte (1915) e La morte nella stanza della malata (1893).
Quarta sezione – Munch in Italia
Un aspetto poco conosciuto del lavoro di Munch è il suo debito verso l’Italia. Il suo primo viaggio nella Penisola risale al 1899, assieme alla sua amata Tulla Larsen, e comincia subito con il piede sbagliato: “Sarebbe dovuto andare a Parigi”, scrive l’artista utilizzando la terza persona, “Ma la sua salute non glielo permise, e forse l’Italia gli avrebbe giovato, quindi si diressero insieme a Firenze. Malattia, alcol, disastri: questo fu il viaggio a Firenze.” Dopo la partenza della Larsen, però, Munch si dirige a Roma, dove si confronta profondamente con le tradizioni italiane. In merito a ciò le scrive: “Al momento mi trovo tra Firenze e Milano. Ed è con emozioni contrastanti che… lascio una fase in Italia e una nuova grande fase a Nord.” Questa nuova fase, in parte ispirata dall’arte di Raffaello, include l’elaborazione del suo Fregio della vita in un allestimento architettonico narrativo. Anche i dipinti monumentali successivi devono un tributo al Rinascimento italiano: “Penso alla Cappella Sistina… Trovo che sia la stanza più bella al mondo.” Munch torna in Italia nel 1922 (“più gloriosa che mai”) e trascorre un giorno a esplorare la Basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Nel 1927 passa un mese a Roma e, in occasione di tale viaggio, si reca in pellegrinaggio al Cimitero Acattolico per visitare la tomba dello zio, Peter Andreas Munch, lo storico più famoso di tutta la Norvegia. P. A. Munch, morto a Roma lo stesso anno della nascita di Edvard, è un accademico di tale rilievo da rientrare nel gruppo dei primissimi studiosi non cattolici a cui è consentito l’accesso agli archivi vaticani. Munch cerca inoltre ispirazione tra i tesori di Roma: “Dato che sto lavorando con i grandi formati, per me è fondamentale poter ammirare gli affreschi di Michelangelo e Raffaello”, annota.
In questa sezione La tomba di P.A. Munch a Roma (1927) che ritrae uno scorcio del cimitero acattolico romano dove è sepolto lo zio (storico norvegese considerato il fondatore della scuola di storia norvegese) e Ponte di Rialto, Venezia (1926).
Quinta sezione – L’universo invisibile
Un collega di Munch ricorda di avergli sentito affermare: “La terra è un gigantesco atomo vivente…Ha pensieri e una volontà; le nuvole sono il suo respiro, i temporali i suoi sbuffi profondi, la lava rovente il suo sangue brillante. Perché, allora, non dovrebbe anche il Sole avere una volontà, grazie a cui irradia la luce di cui è ricco in tutto lo spazio? Tutto ha vita e volontà e movimento, le rocce e i cristalli quanto i pianeti.” Per Munch la Terra è un elemento dotato di coscienza e respiro. Come molti altri intellettuali del suo tempo, egli segue il dibattito in corso in merito al rapporto tra scienza, tecnologia, religione e misticismo. È attratto dalla dottrina del monismo, secondo la quale la mente e la materia, le forze invisibili e il mondo materiale convergono. Uno dei teorici più influenti di questo sistema di pensiero è Ernst Haeckel, scienziato tedesco specializzato in anatomia comparata e uno dei primi promotori in Europa del Darwinismo. Secondo il monismo una forza permea l’universo e anima i rapporti evolutivi che correlano gli esseri viventi e la materia inanimata. La cosmologia personale di Munch è modellata sulla base dell’idea che l’ambiente fisico e i corpi delle creature agiscano gli uni sugli altri, permettendo alle energie invisibili (come le radiazioni solari, l’elettromagnetismo, la telepatia, la crescita cellulare) di interagire con il mondo visibile: “Oggi ho sentito una conferenza alla radio sulla materia e le onde elettromagnetiche della luce. Il docente ha presentato le ultime conclusioni: in poche parole, la luce è composta da onde e, pertanto, anch’essa è materia. Questo è esattamente quello che avevo scritto nel mio diario venti o trenta anni fa: avevo scritto che tutto si muove e che il fuoco della vita può essere trovato persino nella pietra.” In mostra Uomini che fanno il bagno (1913-1915), Onde (1908) e Il falciatore (1917).
Sesta sezione – Di fronte allo specchio (Autoritratto)
Munch è stato un prolifico creatore di autoritratti, proprio come Rembrandt e Picasso. Questo tipo di soggetto offre al pittore il modo di esplorare l’espressione, la postura, i piani di luce e ombra e altre caratteristiche del soggetto umano grazie ad un modello sempre disponibile e a basso costo: sé stesso. Gli autoritratti possono anche essere un veicolo di auto-invenzione ed espressione dell’identità artistica, una dimensione che Munch esplora servendosi di una teatralità eccezionale. L’artista posa sempre con grande originalità davanti allo specchio, una sorte di oggetto di scena che gli permette di assumere il ruolo di diversi personaggi: la litografia del 1895 paragona l’artista ad uno spettro simbolista, come se stesse osservando il mondo da una lapide, con la testa immersa nel vuoto, incorniciata da un’iscrizione e da un braccio scheletrico. Nel 1903 il pittore inserisce il suo corpo nudo tra le fiamme dell’Inferno. Espone molti suoi autoritratti alternandoli con altri suoi temi che sceglie, di volta in volta, per condividere il suo stato psicologico. Al contempo, tali immagini, per quanto fittizie, conferiscono autenticità al resto delle sue opere. Invecchiando Munch tiene progressivamente traccia degli effetti causati dall’impietoso passare del tempo: il suo Il viandante notturno (1923-24) raffigura l’artista che sbircia da un lato della composizione, come una vittima dell’insonnia che vaga tra le stanze della propria casa. A settant’anni, Munch si rappresenta come una figura instabile ne Autoritratto tra il letto e l’orologio (1940-1943) con le sue mani prolifiche che penzolano inerti ai lati del corpo. In tal senso lo specchio è uno strumento molto peculiare, suo complice durante i tentativi di auto-invenzione.
Settima sezione – L’eredità di Munch
In tutta la sua carriera Munch è stato un grande sperimentatore, che ha saputo intrecciare numerose forme di creatività: dalla pittura classica al cinema, dall’incisione alla fotografia, la sua ricerca ha mantenuto una straordinaria coerenza ed un potere evocativo ancora oggi estremamente contemporaneo. In mostra sono raccolti alcuni suoi capolavori che permettono di rileggere attraverso precise scelte compositive il suo immaginario disturbante, inquieto, eppure seducente. sono paesaggi accomunati dalla sua personale e innovativa costruzione dello spazio, risolta attraverso la progettazione di una prospettiva irregolare, definita spesso da un elemento architettonico che proietta il nostro sguardo con decisione all’interno del quadro. Accade con la balaustra nel dipinto Donna sui gradini della veranda (1942), con il viale nel Muro di casa al chiaro di luna (1922-1924) o con la staccionata ne Le ragazze sul ponte (1927). Sono elementi che invitano ad entrare nella scena e partecipare con maggiore coinvolgimento all’emozione che la pervade. Dopo aver studiato con attenzione la grande tradizione rinascimentale nei suoi viaggi in Italia e aver assorbito le novità dirompenti del Postimpressionismo di Cézanne, Gauguin e Van Gogh, dopo aver interagito con la generazione emergente degli espressionisti, Munch riesce ad inaugurare un linguaggio personale, in cui applicare con una certa libertà controllata regole geometriche inedite, dove il colore, steso in campiture ampie e decise, assume un potere straordinario. La sua ricerca, ancora oggi in parte da spiegare, costituisce la premessa per la nascita delle Avanguardie che nel XX Secolo porteranno gli artisti a cercare soluzioni sempre più radicali, spesso non apprezzate dal pubblico nell’immediato, ma destinate a definire il nostro immaginario e diventare gli strumenti migliori per raccontare le nostre emozioni più profonde.
Munch- Il Grido Interiore
Palazzo Bonaparte – Roma
dal 11 Febbraio 2025 al 2 Giugno 2025
dal Lunedì al Giovedì dalle ore 9.00 alle ore 19.30
dal Venerdì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 21.00
Foto Allestimento della Mostra Munch- Il Grido Interiore Palazzo Bonaparte – Roma dal 11 Febbraio 2025 al 2 Giugno 2025 courtesy Palazzo Bonaparte