Giovanni Cardone
Fino al 15 Giugno 2025 si potrà ammirare Palazzo Martinengo a Brescia una mostra dedicata a Boldini e De Nittis – La Belle Epoque . L’Arte Nella Parigi di Boldini e De Nittis a cura di Francesca Dini e Davide Dotti. L’esposizione organizzata dall’Associazione Amici di Palazzo Martinengo, col patrocinio della Provincia di Brescia, del Comune di Brescia e della Fondazione Provincia di Brescia Eventi, presenta una selezione di 80 capolavori, per lo più provenienti da raccolte private, solitamente inaccessibili, e da importanti istituzioni museali come il Museo Giovanni Boldini di Ferrara, le Raccolte Frugone di Genova e il Museo Civico di Palazzo Te di Mantova, che Boldini, De Nittis, Zandomeneghi, Corcos e Mancini eseguirono durante il periodo trascorso a Parigi. Nella capitale francese questi pittori italiani si affermarono, conquistando i più raffinati collezionisti dell’epoca, immortalando le brulicanti piazze parigine, gli amplissimi boulevard, gli eleganti interni borghesi, gli affollati caffè e i teatri, cogliendo la figura femminile nella quotidianità e nei momenti privati, divenendo così i cantori della vita moderna. Il periodo che va sotto la definizione di Belle Époqueè durato poco meno di quarant’anni, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, caratterizzato da un tumultuoso sviluppo e da una incrollabile fede nel progresso, da prodigiose scoperte scientifiche, dalla nascita del turismo di massa e dal grande fulgore dei teatri e dei giornali a stampa. Parigi divenne il fulcro di questo particolare momento storico, vero laboratorio letterario e artistico, centro propulsore dell’arte contemporanea, vista da molti pittori italiani della seconda metà del secolo XIX come tappa obbligata per arricchire la propria formazione e imprescindibile occasione di aggiornamento culturale e come obiettivo da raggiungere, trampolino di lancio per ottenere guadagni e successo. I nostri “Italiani di Parigi”, così etichettati dal critico d’arte Diego Martelli, si muovono sulla scena parigina a partire dal 1870 con grande agilità, imponendosi all’attenzione internazionale, inventando il genere pittorico della tranche de vie, come nel caso di De Nittis e di Boldini che dipingono momenti della vita parigina colti sul vero, lungo i boulevard, o nell’intimità di giardini privati e di salotti esclusivi, oppure lasciandosi sedurre dal linguaggio impressionista, come Federico Zandomeneghi che contribuisce a fare della donna parigina una icona di moderna femminilità. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Giovanni Boldini apro il mio saggio dicendo : La fine dell’Ottocento sembra essere un periodo di grande prosperità e generale soddisfazione, come ricorda la stessa definizione di “Belle époche”. In realtà, vuoto e senso di ambiguità pervadono gli anni di transizione dalla vecchia borghesia ottocentesca all’affermazione, sulla scena politica e sociale, delle masse popolari. Quest’epoca si caratterizza per una crisi di valori che coinvolge tutti gli ambiti del sapere: dalle scienze esatte a quelle umane, dall’arte alla filosofia, emergono nuove teorie che superano la visione ingenua dello scientismo positivista. Viene criticata la nozione dogmatica di scienza, propria appunto del positivismo, posta al centro del dibattito scientifico; la definizione del concetto di materia viene messa in discussione, diventando meno assoluta, meno dogmatica e meno statica. Edmund Husserl, nella seconda fase del suo pensiero, parla di una crisi d’identità delle scienze, che non riguarda le scienze in quanto tali, i loro fondamenti epistemologici e le scoperte scientifiche, ma il significato che esse hanno per l’esistenza umana: è una crisi di valori etici e morali, una crisi di senso, il sapere non porta più alcuna ispirazione etica . La cultura europea, all’inizio del Novecento, è quindi pervasa da un profondo senso di crisi, in cui cadono tutte le certezze circa la possibilità di cogliere la realtà attraverso una conoscenza piena e immediata dei suoi molteplici aspetti. Lo sviluppo industriale, legato al progresso tecnologico e alle invenzioni delle macchine, già dalla fine del Settecento comporta un cambiamento radicale del modo di vivere, che tuttavia si traduce in un senso di alienazione e distacco dell’uomo dalla propria natura. Il tema dell’alienazione, già al centro del pensiero di Marx, esprime bene l’unità culturale e spirituale dell’Ottocento, caratterizzata da una tendenza rivoluzionaria di fondo. Come ricorda De Micheli, non bisogna mai dimenticare lo spirito rivoluzionario che pervade tutto l’Ottocento, perché la frattura che avviene nell’arte con le avanguardie artistiche europee non si spiega solo sul piano estetico, facendo riferimento semplicemente ai mutamenti del gusto, ma va invece analizzata prendendo in considerazione le ragioni storiche che hanno portato verso la crisi dell’unità di fondo della cultura borghese. Secondo De Micheli essa non è altro che la vocazione rivoluzionaria della borghesia intellettuale, fondata sugli ideali di libertà, uguaglianza e progresso, che viene messa in crisi dalle forze reazionarie. Il rapporto tra arte e società, arte e politica rimane sempre alla base delle nuove poetiche; attraverso l’arte si possono cogliere aspetti e sfumature della realtà che le sole conoscenze intellettuali e razionali non riuscirebbero a mettere in luce. Il periodo che va dalla fine del XX secolo alla prima guerra mondiale è caratterizzato da una rapida evoluzione del sistema industriale. Il rilancio della produzione, favorito anche da una politica di protezionismo doganale e da una progressiva indipendenza tra Stato ed economia finanziaria, fu reso possibile dalla trasformazione radicale del modello economico, che vedeva sempre più pressante l’esigenza di allargamento dei mercati. In questi anni avvengono le grandi rivoluzioni epistemologiche della contemporaneità quali la relatività, la psicanalisi, la teoria dell’atomo. Tra i tratti distintivi del pensiero filosofico dell’epoca vi furono il vitalismo, inteso come attenzione ai valori istintivi, lo spiritualismo, contrapposizione di una dimensione mentale a una materiale e accentuazione del ruolo della coscienza nella percezione del mondo esterno, e il relativismo, in cui si afferma il carattere prospettico della nostra esperienza del mondo. Le ricerche delle avanguardie storiche rappresentarono l’espressione del clima politico, culturale e sociale del tempo. La nascita delle avanguardie scaturì dalla crisi che investì tutti i valori della società civile europea agli inizi del XXI secolo: fu la sensibilità degli artisti a permettere di percepire i primi crolli nelle certezze che per anni avevano rappresentato dei capisaldi nella vita dei singoli individui. Ora grazie all’arte questa stessa crisi si trasforma in una ribellione, in un rifiuto sempre più fermo di ogni tradizione culturale antichi dogmi e antiche credenze vengono posti in discussione. Tutto il secolo fu caratterizzato da una continua sperimentazione artistica movimenti e stili si succedettero nel tempo con differenti modalità e forme espressive, rimanendo però accomunati da una forte volontà di rottura con il passato, sorta di fil rouge per l’evoluzione culturale dell’epoca. Nel Novecento l’arte scompone, decostruisce, altera la realtà, ricercandone allo stesso tempo una raffigurazione fedele, che rappresenti la premessa per quella che dovrebbe essere l’azione politica. I prodotti culturali devono essere interpretati: nelle opere ottocentesche è ancora presente un soggetto riconoscibile, le forme sono armoniose, i soggetti gradevoli alla vista. Nel corso del Novecento invece le regole del gusto e i canoni estetici convenzionali mutano radicalmente, i linguaggi delle opere si fanno sconcertanti. Guerre, rivoluzioni, scoperte scientifiche e tecnologiche divennero fattori in grado di sovvertire tradizioni che a lungo avevano provveduto a fornire un’identità stabile all’umanità. I vari cambiamenti si rifletterono nell’arte, nell’ambito della quale iniziò l’esplorazione della realtà attraverso la dissoluzione della figura, la creazione di forme e segni che non avevano più alcun rapporto con il mondo che le circondava. L’arte divenne un fenomeno di massa iniziò a essere considerata come un valore prezioso da tutelare, si aprirono musei e raccolte, le opere uscirono dalle collezioni private e dalle chiese, per essere mostrate a un pubblico sempre più ricettivo, coinvolto e interessato. Giovanni Boldini è stato uno dei principali pittori italiani di fine Ottocento, tra i più vicini a l’impressionismo tra coloro che operarono in Italia. Boldini era noto per la sua vivace vita mondana, che trovò il suo apice a Parigi: le sue frequentazioni borghesi gli garantirono grande fama come talentuoso ritrattista di personalità culturali e soprattutto di figure femminili, che riportava sulla tela con eleganza, dinamismo e caratterizzazione psicologica, rifuggendo quindi dalla ritrattistica più classica. Conosciamo diversi aneddoti legati alla sua vita grazie alla moglie Emilia Cadorna, una giornalista che il pittore sposò ormai ottantenne, e che nello stesso anno della sua morte pubblicò un libro biografico su di lui. Egli era ottavo di tredici fratelli, Giovanni Boldini ed ebbe un’educazione molto cattolica in quanto la madre, Benvenuta Caleffi, era piuttosto devota. Il padre Antonio, invece, era un pittore. Ancora prima di imparare a leggere e scrivere ed iniziare a frequentare le scuole elementari, Boldini dimostrò un talento naturale per il disegno. Abbandonò presto gli studi dimostrandosi piuttosto insofferente alle regole scolastiche e ai metodi didattici, e il padre, intuendo le capacità del figlio, gli insegnò direttamente le tecniche basilari della pittura. Il padre era un pittore purista che possedeva ottime basi tecniche imparate durante gli anni trascorsi all’Accademia di San Luca a Roma e attraverso lo studio dei maestri del Quattrocento, diventando comunque un nome ben conosciuto a Ferrara. Giovanni Boldini, intanto, a soli quattordici anni dipinse un Autoritrattoche dimostrava non solo quanto il giovane pittore avesse ben assimilato le tecniche pittoriche di base, ma soprattutto la capacità di padroneggiarle con disinvoltura. Poco dopo, divenne allievo di Girolamo Domenichini e Giovanni Pagliarini. La sua adolescenza fu piuttosto fortunata, in quanto venne esonerato dal servizio militare che era appena stato istituito a seguito della nascita del regno d’Italia, e inoltre ottenne un’eredità cospicua da parte di uno zio. Con questa somma, Boldini decise di lasciare Ferrara, poiché aveva notato come tra gli artisti locali vi fosse una certa tendenza ad accontentarsi di eguagliare quanto già proposto da altri artisti ed era molto arduo poter percorrere vie inedite. Scelse dunque di trasferirsi a Firenze.Una volta giunto nel capoluogo toscano, Boldini si iscrisse all’Accademia delle belle arti, dove trovò come insegnanti Stefano Ussied Enrico Pollastrini. Tuttavia, come già accaduto durante le scuole elementari, ben presto Boldini risultò insofferente ai metodi dell’Accademia e si ritirò, preferendo piuttosto buttarsi a capofitto nel vivace ambiente che gravitava intorno al Caffè Michielangiolo. Qui, infatti, si ritrovavano numerosi artisti e patrioti per discutere, spesso animatamente, di questioni artistiche e politiche. Tra questi, vi erano i “Macchiaioli”, un gruppo di artisti anch’essi in aperta opposizione alla rigidità dell’Accademia. Il gruppo di artisti venne così chiamato per l’utilizzo di larghe pennellate di colori puri, con le quali dipingevano paesaggi che riproducessero il più possibile la reale percezione visiva dell’occhio umano. Boldini, una volta entrato in contatto con i Macchiaioli, tra cui Giovanni Fattori, Telemaco Signorini e Silvestro Lega, si interessò alle nuove tecniche da loro esplorate, tuttavia a differenza loro preferì concentrarsi sulla ritrattistica, un genere che gli era da sempre congeniale. Iniziò così a produrre ritratti di numerosi amici e colleghi pittori, creandosi una fitta rete di contatti che lo aiutò molto nella sua attività. Infatti, presto entrò in contatto con numerose personalità aristocratiche che gravitavano a Firenze, in particolar modo nobili stranieri, che oltre a commissionargli diverse opere ben retribuite gli aprivano le porte delle loro collezioni private. La frequentazione più importante fu certamente quella con la famiglia Falconer, nobili inglesi che vivevano in una villa nei pressi di Pistoia. Boldini divenne l’amante di Isabella Falconer, che proprio in virtù di questa frequentazione gli commissionò numerosi lavori, e parallelamente coltivò una stretta amicizia con il marito. Questi lo volle con sé in un viaggio a Parigi nel 1867 per visitare l’Esposizione Universale, dove Boldini rimase colpito dalle opere di Edgar Degas . Il viaggio a Parigi instillò una nuova urgenza in Boldini: infatti, nonostante considerasse Firenze l’apice della cultura artistica, andando all’estero si rese conto che vi erano altre culture da esplorare, e l’Italia iniziò ad andargli sempre più stretta. Allora, iniziò a viaggiare instancabilmente per l’Europa, dapprima in Francia con Isabella Falconer e poi in seguito in Inghilterra, dopo aver accettato l’invito del nobile Cornwallis-West. Grazie alla sua protezione, Boldini entrò nelle frequentazioni della nobiltà inglese e anche qui venne molto richiesto per le sue abilità di ritrattista. Tuttavia, dopo poco tempo Boldini iniziò a preferire Parigi a Londra. La Francia, in quel periodo, si trovava agli albori della Terza Repubblica e Parigi in particolare assumeva i contorni di una città moderna, dinamica e ricca di spunti, tra caffè letterari, musei, circoli. Così, Boldini vi si trasferì definitivamente nel 1871. Da amante della vita mondana, Boldini volle stabilirsi nel quartiere di Montmartre ed iniziò a frequentare il Café de la Nouvelle Athènes, che si trovava proprio di fronte alla sua dimora. Qui erano soliti riunirsi gli artisti che poco dopo avrebbero dato vita al movimento impressionista. Frequentando il Café, Boldini incontrò e fece amicizia con Degas, colui che lo aveva colpito all’Esposizione Universale. In questo stesso periodo, tra il 1871 e il 1878, Boldini entrò nella cerchia del mercante d’arte Adolphe Goupil, che aveva riunito sotto la sua protezione diversi artisti innovativi tra i quali Giuseppe Palizzi e Giuseppe De Nittis. Grazie a questa collaborazione, Boldini non solo ottenne una certa stabilità economica, ma venne accolto nelle più importanti esposizioni e divenne l’artista di punta dei salotti parigini. Boldini, nonostante il forte legame con la capitale francese, non smise mai di viaggiare. Si recò nel 1876 nei Paesi Bassi, dove entrò in contatto con la pittura di Frans Hals, nel 1889 viaggiò in Spagna e in Egitto insieme all’amico Degas e infine nel 1897 espose alcune opere a New York. Con l’arrivo del XX secolo, Boldini tornò spesso in Italia per partecipare diverse volte alla Biennale di Venezia e ricevere l’onorificenza di grande ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Morì a Parigi l’11 gennaio del 1931, e le sue spoglie si trovano, dietro sua esplicita richiesta, nel cimitero monumentale della Certosa di Ferrara. Formatosi tramite lo studio delle opere risalenti al Quattrocento che il padre gli presentava a lezione, Giovanni Boldini sviluppò ulteriormente la sua arte grazie al contatto con i Macchiaioli, senza tuttavia aderire in pieno al loro gruppo. Rispetto a quelli dei macchiaioli, infatti, i dipinti di Boldini virano verso soluzioni di linee e colori molto più ardite e dinamiche. Inoltre, Boldini preferiva nettamente i ritratti ai dipinti di paesaggio. Si veda come riferimento il Ritratto di Giuseppe Abbati (1865), pittore che Boldini frequentava a Firenze. Egli non viene ritratto in una posa canonica, piuttosto Boldini dà l’idea di aver catturato il momento in cui l’amico è passato a trovarlo nel suo studio mentre si trovava nei paraggi, a passeggio con il suo cane (anch’esso nel dipinto). Anche lo spazio intorno ad Abbati risulta dinamico, addirittura è possibile notare come alcuni dipinti appesi al muro sul lato destro risultino sfocati. La tendenza di Boldini a preferire la ritrattistica fu inoltre alla base del suo distacco dagli Impressionisti, che frequentava a Parigi. Certamente alcuni influssi di Edgar Degas e dei compagni sembrano effettivamente aver toccato in qualche modo l’immaginario del pittore, che in questo periodo dipinge non solo ritratti ma anche scene di genere, si vedano ad esempio Le chiacchiere del 1873, oppure Lo strillone parigino (il giornalaio) del 1878. Singolari sono inoltre alcuni dipinti che si riferiscono al periodo in cui Boldini lavorava presso Goupil: il mercante d’arte chiedeva, infatti, ai suoi artisti di accontentare il gusto dei clienti, che amavano circondarsi di opere che riecheggiassero la pittura francese del Settecento. Le opere di questo periodo denotano dei cambiamenti di stile nella produzione di Boldini, soprattutto nella tavolozza di colori che si fa più chiara ed eterea. Ne è esempio Dame del primo impero (1875). Ma non appena finì la collaborazione con Goupil, Boldini esplorò tinte più scure, virate sui toni del rosso, del marrone, del nero. Importantissime in questa esplorazione furono i colori per l’appunto molto intensi e scuri delle opere di Frans Hals e Diego Velázquez. Boldini eseguì il ritratto di molte personalità importanti dell’epoca, tra cui lo scrittore Robert de Montesquiou (1897), la duchessa Consuelo Vanderbilt (1906) ma soprattutto Giuseppe Verdi (1886). Il ritratto del celebre compositore non fu di semplice realizzazione, infatti quella che conosciamo è la seconda versione dell’opera. La prima versione non convinse né Boldini né Verdi, per diversi motivi tra i quali la difficoltà di Boldini nel ritrarre un Verdi irrequieto che si intratteneva di continuo in conversazione con il suo assistente, così il pittore davanti alla situazione chiese a Verdi di concedergli una seconda possibilità. Ne venne fuori la versione che è passata alla storia e che è diventata di fatto l’immagine ufficiale di Verdi, il quale ne rimase molto impressionato. La potenza del ritratto di Verdi è data sicuramente dall’espressività del viso e dalla scelta oculata dei dettagli, dal cilindro che rappresenta lo status economico di alto livello del compositore alla sciarpa che ne simboleggia invece l’estro artistico. Nonostante il soggetto sia ripreso a mezzo busto ed incasellato in uno sfondo piatto, di colore grigio e senza alcun elemento, la raffigurazione non è per nulla statica ma. come nella tradizione dei ritratti di Boldini, vi è un certo dinamismo. Lo troviamo sia nella posizione in cui è ritratto Verdi, leggermente di lato, oppure nel tratto a pastello, che Boldini utilizza sapientemente in modo da sfumare alcuni dettagli e dare risalto ad altri, ma è evidente in particolar modo nel volto del protagonista. Colto in una particolarissima espressione come se stesse per parlare, gli occhi di Verdi risultano vivissimi e catturano lo sguardo di chi osserva il dipinto. Tornando alla produzione artistica di Boldini, è evidente come le protagoniste assolute dei suoi ritratti fossero le donne borghesi, rappresentate al massimo della loro femminilità e piene di personalità. Pennellate lunghe, verticali o sinuose delineano figure decisamente eteree, che indossano vestiti che sembrano muoversi e volteggiare leggeri nello spazio. L’ambientazione di questi ritratti è quasi sempre la stessa, ovvero una stanza al chiuso con un divano o un letto sui quali le protagoniste sono sedute o si appoggiano. I volti, a cui è affidato il centro focale della tela, vengono valorizzati da tratti decisi e ben delineati, e rivelano una vasta gamma di emozioni, dalla fragilità alla maliziosità, dalla risolutezza all’arguzia, conferendo quindi alla donna un ruolo “parlante”, con una voce unica ed autonoma. Boldini, nella rappresentazione femminile, si sofferma su alcuni dettagli ricorrenti, come il collo, la schiena, il profilo elegante, le spalle scoperte e scollature ardite, oppure sull’eleganza dell’abito quando è chiuso al collo o completato da un vistoso cappello. Tra i più raffinati ritratti femminili di Boldini ricordiamo Ritratto della principessa Marthe-Lucile Bibesco (1911), Marchesa Luisa Casati con piume di pavone (1913) e La donna in rosa (1916). Morì a Parigi 1931. La mostra Giovanni Boldini e il mito della Belle Époque pone l’accento sulla capacità dell’artista di psicoanalizzare i suoi soggetti, le sue “divine”, facendole posare per ore, per giorni, sedute di fronte al suo cavalletto, parlando con loro senza stancarsi di porle le domande più sconvenienti, fino a comprenderle profondamente e così coglierne lo spirito, scrutandone l’anima. Farsi ritrarre da Boldini significava svestire i panni dell’aristocratica superbia di cui era munificamente dotata ogni gran dama degna del proprio blasone. Occorreva stare al gioco e accettarne le provocazioni, rispondendo a tono alle premeditate insolenze ma, infine, concedersi, anche solo mentalmente, facendo cadere il muro ideologico dell’alterigia, oltre il quale si celavano profonde fragilità. Dopo giorni di pose immobili, conversando e confessandosi, durante i quali il “fauno” poteva anche permettersi il lusso di perdere intenzionalmente tempo tracciando svogliatamente qualche segno sulle pagine di un taccuino per osservarle e comprenderle o abbozzare uno studio su una tavoletta, quando la confidenza era divenuta tale da addolcire gli sguardi e talvolta esplodere perfino nel pianto liberatorio e più spesso in atteggiamenti nevrotici o eccitati fino alla follia, ecco che solo allora scattava la scintilla predatoria dell’artista. Egli coglieva al volo l’attimo fuggente, quel momento unico in cui un’occhiata più sincera rivelava lo stato d’animo e la mimica del corpo si faceva più espressiva, l’istante in divenire fra un’azione e l’altra, quando la forza motoria di un gesto si esauriva, rigenerandosi prontamente in quello successivo. Negli anni della maturità e poi della senilità, le lunghe e vorticose pennellate, impresse come energiche sciabolate di colore, rimodellavano in senso dinamico i corpi delle sue “divine” creature e il suo stile, a un tempo classico e moderno, costituiva la miglior risposta alle vocazioni estetiste e progressiste manifestate dagli alti ceti. Nel 1863 ottenne 29.260 lire quale parte dell’eredità lasciata anni prima dal prozio paterno, somma che nel volgere di qualche mese (1864), gli consentì di lasciare per sempre Ferrara e raggiungere il principale centro culturale e artistico dell’epoca, Firenze, entrando in stretto contatto con i Macchiaioli e stringendo amicizie fondamentali come quella con Telemaco Signorini. Nell’indagare con attenzione le fasi iniziali dell’attività artistica del precocissimo Giovanni Boldini, ossia il periodo ferrarese compreso tra il 1857 e il 1864, si evidenzia anzitutto il controverso quanto pregnante rapporto che egli ebbe con il padre pittore Antonio. Il ventenne pittore ha modo di apprezzare il mutato clima politico e sociale, iniziato con l’annessione di Ferrara al nuovo stato sabaudo grazie ai risultati del Plebiscito del 1860. Gli esiti positivi si avvertono subito, grazie al nuovo fervore culturale e ad un rinnovato edonismo, nato in contrapposizione al mesto e stagnante clima penitenziale della dominazione papalina. Giovanni assorbe come una spugna tutto ciò, anche se questa aria di fermento lo investe soprattutto nel versante ludico e amoroso, vista la giovane età. Egli intreccia relazioni con alcune ragazze ferraresi, che talora ritrae (come nel romantico “La pensée”), frequenta feste e ritrovi, veste gli abiti del sarto Delfino Santi, il più ricercato della città, e si stacca sempre più dall’influsso del padre. Nel 1866 Boldini partecipò alla sua prima mostra collettiva, organizzata dalla “Società di incoraggiamento in Firenze”, con due quadri. Scrisse allora acutamente Telemaco Signorini che aveva evitato la convenzione di far risaltare su un fondo uniforme il volto dell’effigiato (come faceva a Ferrara Giovanni Pagliarini, il miglior ritrattista locale). Nell’ottobre del 1871, quando risiedeva a Firenze e terminati i viaggi che si alternarono fra Ferrara, la Francia e l’Inghilterra, Boldini si trasferì definitivamente a Parigi, abitando inizialmente nell’Avenue Frochot e poi a Place Pigalle con la modella e compagna Berthe e iniziando una stretta collaborazione con il potente mercante Goupil, conclusasi nel 1878. Subì il fascino abbagliante di Marià Fortuny i Marsal – prima di lui capofila dei pittori della Maison Goupil – e dei suoi orditi grafici traboccanti di luccichii. Vi vedeva definitivamente imboccata la strada di quel progresso tanto atteso e la provvidenziale opposizione al concetto di separazione fra l’opera e l’autore, chiamato dal verismo di Capuana a scomparire ed eclissarsi nel testo, tacendo le sue opinioni, affinché gli eventi si producessero in perfetta autonomia, trascritti quale fedele specchio moralistico della realtà. Il folklorismo spagnoleggiante di Fortuny aveva del resto influenzato anche quella stagione della pittura del Mezzogiorno d’Italia e così Michetti, nel Corpus Domini, spiegava senza incertezze le sue eloquenti iperboli cromatiche, traslate, anche nei timbri retorici, nel successivo gergo dannunziano. Boldini, dal canto suo, aveva invece in parte disattivato il prototipo fortunyano, mutuandone le accezioni peculiari, specialmente quelle ornative, trascrivendole però in un contesto lessicologico estremamente complesso e vario. Se ne svincolò più facilmente nei ritratti e questo fu possibile soprattutto grazie alla sua strabiliante padronanza tecnica, capace di ridurre nell’ombra perfino il geniale caposcuola catalano, con il quale, nei primissimi anni Settanta, si avvicendò quale pittore capofila della Maison Goupil. Gli echi del fortunysmo non risuonarono tuttavia a lungo nel modellato dell’artista e sullo scorcio degli anni Settanta quegli schemi descrittivi, fin lì di grande successo, furono completamente scompaginati dal definitivo crescendo della sua sensibilità dinamica. I luccicanti saloni dei fastosi palazzi patrizi entro i quali avevano conversato deliziosamente damine e marchesini svanirono per sempre dall’immaginario pittorico boldiniano, e con essi il gusto Impero e le certezze sociali nelle quali si era riconosciuta fino ad allora l’alta borghesia francese. Sulla rive droite della Senna, nella zona tra la collina di Montmartre e Place Pigalle – dove il peintre italien visse, al numero 11, fino al 1886 – si trovavano vere e proprie “case d’artista”. Sullo stile di vita bohémien e sul clima decadente delle piccole strade che correvano sconnesse fra gli slarghi e le vigne della vecchia provincia agricola, la sera si apriva lo scandaloso sipario del demi-monde, inondato dall’alcol e gremito di prostitute i cui clienti abituali erano gli stessi mariti ed “irreprensibili” capifamiglia della borghesi francese, che le disprezzavano di giorno. Gli ultimi ritratti di Berthe risalgono al 1878-80, anche se l’unione della modella con Boldini dovette durare, come testimoniano gli appunti di viaggio di Signorini, almeno fino al luglio 1881: «…alla locanda per aspettare Tivoli ed andare in campagna da Boldini. Arrivo a Chatou presso Bougival, visto Boldini e Berta…». Più o meno in questo periodo, evidentemente ma misteriosamente, si chiuse uno dei capitoli più felici della vita dell’artista. Così quella incantevole figura di ragazza, seducente e naturalmente aristocratica, la sua prima vera divina, dopo un intero decennio lasciava definitivamente il posto a Gabrielle, la sua rivale in amore, che già dal 1875 si incontrava in segreto con il celebre artista in una garconiere presa in affitto in rue Demours. Durante gli incontri segreti con la nobildonna, moglie del conte Costantin de Rasty, il pittore la ritrasse rappresentando una bellezza sensuale e misteriosa nella quale prevalgono l’ebbrezza della passionalità e una costante tensione psicologica, vissuta fra consapevolezza del pericolo e sopraffazione dei sensi: “È bella, è bruna, e ardente. Altolocata e ammogliata anche. Un’amica ricevuta nei migliori salotti, che sapeva tutto di tutti, adorabile pettegola, divertentemente sagace, di fronte alla quale la femminile esperienza e la sottile astuzia della povera Berthe erano divenute puerili attitudini quanto mai sprovvedute”. Trasportato dalle vertigini della passione, l’artista si era trovato quasi occasionalmente a spingere con foga, per la prima volta senza censure, su un pedale narrativo sfrenato, a lui sconosciuto, mediato soltanto dall’eleganza del filtro stilistico, quasi come se i propositi creativi e culturali posti in opera a termine degli appuntamenti clandestini potessero riscattare o restituire dignità a quella relazione fosca, fondata sul tradimento della compagna e del marito. Nella cosmopolita Ville Lumière dei café-chantant e degli Impressionisti fiorirono le aspirazioni di un’intera generazione di donne che incarnavano lo spirito stesso della modernità. Artiste, come le pittrici Berthe Morisot e Mary Cassatt o la scultrice Camille Claudel, ma anche scrittrici, attrici e cantanti o più semplicemente eccentriche protagoniste del loro tempo, vivevano con rinnovato senso d’indipendenza la propria condizione femminile. L’inedito riversarsi a Parigi di centinaia di pittori, ognuno tormentato dalla permanente ossessiva necessità di individuare scorci, figure e soggetti originali, dette luogo a una sorta di “studio di massa” senza precedenti – al limite della psicoanalisi – dei luoghi, degli ambienti e delle attitudini di quell’umanità così eterogenea. Da esperto casanova, Boldini intratteneva in studio le sue modelle tentando di rompere l’etichetta attraverso pungenti boutades, apparentemente fuori luogo e, contando sull’effetto sorpresa, orchestrava conversazioni inaspettatamente confidenziali e provocatorie, sostanziate in frizzanti scambi di battute. Con estrema sfacciataggine, sollecitava facili risate, allentando così i freni inibitori e vincendo l’imbarazzo delle sue muse ispiratrici, psicologicamente turbate e obbligate a rispondergli a tono. In un susseguirsi di parafrasi e giochi di parole, confessava la sua ammirazione per loro. Se da un lato le attaccava dubitandone sfacciatamente l’integrità morale, proferendo domande e velate proposte normalmente irricevibili da una gran dama di nobili costumi, dall’altro, altrettanto maliziosamente, invocava la loro compassione lamentando la poca considerazione che avevano dell’artista e soprattutto dell’uomo. Di domanda in risposta le anime più fragili vacillavano, fornendo talvolta torrenziali confessioni sul loro stato di donne e mogli incomprese e insoddisfatte. Così “l’amico sensibile”, l’amateur di lungo corso, il grand maître peintre, lo stregone custode degli arcani segreti della bellezza e dello charme femminili, sussurrava loro qualche utile suggerimento per riaccendere il fuoco della perduta passione. Possedeva un’allure particolare, avvolta da un’aura di mistero, e le sue reparties alimentavano il mito della donna irraggiungibile, caratterizzato dall’esprit des Guermantes. Le sue plateali sfuriate costituivano un monito di alterigia per il prossimo, la stessa che vive negli occhi e attraverso le posture perfettamente equilibrate e gli abiti di alta moda delle femmes divines di Boldini. La contessa Greffulhe, figlia di Joseph de Riquet de Caraman, principe di Chimay, e moglie del visconte Henry Greffulhe, erede di un impero finanziario e immobiliare, pianificava le proprie apparizioni con oculatezza, presentandosi in pubblico con elegantissimi e talvolta eccentrici abiti di tulle, garza, mussola e piume o con originalissimi kimono, con soprabiti di velluto a motivi orientaleggianti, firmati da Worth, Fortuny, Lanvin e Babani. Manifestazioni di estremizzato egocentrismo come quelle della contessa Greffulhe, pur fra molte critiche, godevano, tuttavia, di un plauso diffuso e costituivano la prolessi dell’emancipazione femminile in progressivo e incalzante divenire. Nel 1901 Boldini dipinse uno dei ritratti più iconici della sua carriera di artista, quello di Cléo de Mérode, la ballerina dell’Opéra di Parigi, famosa per la sua bellezza eterea. Figlia della baronessa Vincentia de Mérode e di un gentiluomo austriaco dell’alta società che non la riconobbe, Cléo era timida e introversa, estremamente differente dalla maggior parte delle sue compagne di fila, per natura della loro stessa professione, chiassose ed eccentriche. Era composta ed elegantissima, vestita negli abiti di Jacques Doucet. A volte, nei momenti di pausa dal ballo, se ne stava da sola a leggere un libro. Non amava il demi-monde, sebbene la sua popolarità infastidisse alcune grandi cortigiane come Liane de Pougy che, nel 1904, in un roman à clef intitolato Les Sensations de Mlle de La Bringue la ritrasse quale “Méo de la Clef: … Cette demoiselle de La Clef personnifiait l’amour sans le faire…”. L’eccezionale fotogenia della piccola Cléo e le sue forme sensuali ma al contempo aggraziate fecero di lei un modello di bellezza estremamente emancipato, dal quale rimasero affascinati artisti del calibro di Gustav Klimt, Henri de Touloue-Lautrec, Edgar Degas e, naturalmente, Boldini, che ne restituì un’immagine di universale modernità ed eleganza. L’artista ritraeva le sue donne un attimo prima che, sopraggiungendo l’autunno della vita, la loro bellezza appassisse per sempre, che le loro foglie di rose profumate cominciassero a cadere. A volte, come uno stregone, raccoglieva i fragili petali e con un gesto d’amore ricomponeva quei fiori appassiti restituendogli un attimo di eterna primavera. Ritraendo le sue donne, Boldini rappresentava un’epoca, la bella epoca, prima quella della sua giovinezza, quando Parigi felice e opulenta viveva l’ebbrezza del benessere economico e del progresso sociale e, poi, quella della senilità e della decadenza, quando il primo conflitto mondiale inibì la pubblicazione delle riviste di moda e il maestro si scoprì inesorabilmente vecchio. “…Milli subì il fascino misterioso di quel piccolo uomo dallo sguardo ipnotico che tante cose aveva da raccontare, di quell’anziano signore dai finissimi capelli biondi, dalla bocca fresca e dai grandi, vivaci occhi azzurri, lo ascoltava parlare per ore seduta sulle bergères sulle quali avevano posato, prima di lei, le divine muse del diabolico ritrattista, ora con la vista compromessa, riparato alla luce tiepida di quelle pareti, dalle quali come fantasmi, come stelle di un firmamento tramontato per sempre, spuntavano i volti traslucidi delle sue femmine e guardandoli si udivano le «…voci, voci di donne morte od invecchiate, voci di ammiratrici, di amiche, di amanti… Vous rappelez-vous, Boldini? Grida dal quadro da cui protende il busto opulento la bella madame J. de C. che sentimmo vecchia ripetere con desolata monotonia la domanda angosciosa che fa pensare al grido dei dannati ricordanti la vita… Vous rappelez-vous, Boldini?»”. Con avidità mefistofelica Boldini, per oltre sessant’anni, aveva fatto sfilare sulle sue sedute Impero le donne più avvenenti dell’alta società francese, immobili e intimidite sotto lo sguardo rapace e diretto del genio che – parafrasando artisticamente i loro dialoghi, riferendo di loro ciò che esse volevano più di ogni altra cosa tacere – le adulava e le invitava a esprimersi senza indecisioni, perché a un artista, come a un medico, si doveva confidare proprio tutto. Si inebriava con la fragranza del loro profumo ogni volta diverso e metabolizzava l’essenza delle loro personalità controverse per poi sferrare impietosamente il suo fendente con il pennello, riducendo a niente quel presupposto perbenismo che avevano voluto manifestare entrando per la prima volta nel suo studio. Molte volte la Storia dell’arte si è appassionata alle vicende più drammatiche dei propri geni proponendoci chi, come ad esempio Van Gogh, in vita è stato escluso da una società che non sapeva che farsene del suo lavoro, il quale è stato ampliamente stimato solo dopo la morte, e chi, come ad esempio De Nittis, ha conosciuto un grande successo in vita, offuscato, dopo la sua morte, da un pesante silenzio intorno alla sua persona ed alla sua opera. E se di primo acchito si potrebbe pensare che il successo denittissiano sia stato dovuto alla sua permanenza in Francia e al suo avvicinamento agli impressionisti, probabilmente proprio questa è stata la causa del suo fallimento dopo la morte. La Francia avrebbe protetto e sostenuto prima di tutto i suoi figli, facendo dell’Impressionismo una propria icona, come del resto l’Italia aveva fatto a suo tempo con il Rinascimento. E strano che lo stesso De Nittis in vita non si sia reso conto di quale destino lo avrebbe atteso dopo la morte. C’è da dire anche che alla prima mostra degli impressionisti del 1874, tenutasi nello studio del fotografo Nadar, i suoi dipinti furono relegati nelle ultime stanze in una condizione luministica sfavorevole. Questo indusse De Nittis a non esporre più con il gruppo. Anche l’Italia non ha ripagato degnamente questo genio, ma probabilmente perché non se ne conosceva a fondo l’opera. Fortunatamente dalla seconda metà del secolo scorso è sorta come una gara al recupero del tempo perduto, una tardiva espiazione per la colpevole trascuratezza che la storiografia artistica italiana per un così lungo tempo aveva riservato a questo suo figlio dimenticato. L’intera produzione pittorica di De Nittis può essere soggetto di una scansione tematica, la quale prevede tre grandi blocchi. Innanzitutto una costante nell’opera di De Nittis è la pittura di paesaggio, che trova inizio nelle piccole tavolette dedicate allo studio di nubi, di fiumi e di mare, tutte eseguite en plein air durante il primo periodo napoletano e pugliese. Uno dei punti salienti degli anni napoletani e pugliesi è la riscoperta del paesaggio nativo quel paesaggio dimesso, dimenticato per secoli dalla storia, che il pittore barlettano per primo ha rappresentato in tutta la sua intima bellezza e poesia nascosta. Nello sviluppo del paesaggismo denittissiano sono di straordinaria importanza gli studi del Vesuvio realizzati nel 1871-1872, dove l’artista fissa, con interesse quasi scientifico, il minaccioso monte in aspetti inediti e inquadrature nuove, mai rappresentate prima di lui. Interessanti sono anche gli straordinari paesaggi invernali che percorrono tutta la produzione francese di De Nittis. Abituato al sole mediterraneo, la sensibilità artistica di De Nittis fu particolarmente colpita dalla visione del paesaggio innevato, dal suo cromatismo delicato, dalla sua luce come sospesa. Sempre nell’ambito del paesaggio sono da collocare i dipinti di soggetto londinese, nei quali sono riprodotti cieli grevi, brumosi, immobili, dominati da una intensa poesia malinconica. Altra tematica cara al pittore barlettano è stata “la vita moderna”. Il “nuovo” che il giovane pittore intravede nella movimentata vita della città coincide con il progresso di cui il popolo francese è fanatico. È soprattutto la metropoli, che sia Parigi o che sia Londra, il luogo del moderno che De Nittis conquista gradualmente, fino a penetrarne le contraddizioni più seducenti. Con occhio ora ingenuo e ammirato, ora ironico e divertito, ora affettuoso ed eccitato, ora distaccato e malinconico guarda e registra il brulicante e precario universo urbano, cogliendolo nella sua coerente frammentarietà. Il racconto della vita quotidiana della metropoli, popolata da passeggiatori galanti e signore alla moda, si estende agli appuntamenti mondani e ai riti di una borghesia ricca e sfaccendata, protagonista ammirata della Parigi del tempo. Ultimo soggetto ampliamente trattato da De Nittis riguarda il privato, l’universo femminile, gli affetti familiari. Come pochi altri artisti della sua epoca, De Nittis fu attratto dal mondo femminile, dalla sua grazia e dal suo fascino segreto. Le figure di donne appartengono quasi tutte alla borghesia benestante e si muovono con naturalezza nei luoghi di svago e di incontri sociali. De Nittis ha fermato le donne sulla tela e lo ha fatto in modo tale che esse dicano a noi quel che hanno detto a lui. In alcune silhouette di queste donne par di vedere sollevare il corpetto, e le labbra muoversi in un cicaleggio malizioso e leggero. Un posto di primaria importanza nell’opera di De Nittis rivestono, inoltre, i numerosi quadri dedicati a sua moglie Lèontine, e quei pochi dedicati a suo figlio Jacques. Lèontine fu la sua sola modella preferita, e tanti sono i dipinti che ritraggono quel volto fine, riservato, un po’ malinconico e sempre molto distante. De Nittis fu anche un artista poliedrico e tutto egli provò nell’arte e in tutto riuscì con prepotenza. Maestro del pennello e della tavolozza, si volse anche al pastello, al carbone, all’acquaforte: mentre nei dipinti ad olio De Nittis utilizzò piccoli formati, nei pastelli realizzò, quasi sempre, delle figure a grandezza naturale; nell’acquerello l’artista raggiunse una fattura limpida e fresca; nel bianco e nero De Nittis fu un disegnatore preciso, impeccabile, dal tratto rapido ed incisivo; nell’acquaforte emulò i maggiori artisti all’epoca specializzati in questa tecnica. De Nittis si volle cimentare anche nella scultura e oltre a progettare e realizzare con Gallori il Monumento a Garibaldi, l’artista modellò vari busti, specie del figlioletto Jacques. Nel corso della sua breve vita la sua parabola artistica viene documentata in varie tappe della sua articolata attività e i contatti in ambito italiano ed europeo, l’impatto con la cultura moderna. Cerco quindi di approfondire gli aspetti biografici e creativi di un pittore che è stato fra i protagonisti del rinnovamento della pittura dell’Ottocento europeo ed un antesignano, forse inconsapevole, delle nuove correnti dell’arte alle quali un crudele destino non consentì di prendere parte. Il legame tra Francia e Italia, e tra Parigi e Napoli nello specifico, fu proficuo e costante nel tempo, in particolare nel secondo Ottocento, con la differenza che, se nel XVIII secolo, e fino ai primi decenni del successivo, l’Italia meridionale aveva rappresentato una delle tappe finali per gli artisti stranieri nell’ambito del Grand Tour, nel corso del XIX, e ancor di più dagli anni Cinquanta, questo fenomeno si verificò in senso inverso, trasformando Parigi nella nuova Mecca artistica per gli italiani desiderosi di relazionarsi al più dinamico e cosmopolita ambiente culturale europeo dell’epoca. Parigi costituì un’attrazione irresistibile per innumerevoli artisti del calibro di Serafino De Tivoli, Alberto Pasini, Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi, Medardo Rosso, e naturalmente per tanti napoletani. La storiografia degli ultimi cinquant’anni ha più volte ricordato come tra Napoli e la capitale francese esistesse un rapporto scambievole, biunivoco. I circoli artistici partenopei accolsero, infatti, numerosi artisti parigini di differenti generazioni ed esponenti delle più moderne scuole pittoriche per tutta la seconda metà del secolo, da Edgar Degas a Gustave Moreau, passando per Gustave Caillebotte, Pierre-Auguste Renoir, Édouard-Louis Dubufe e suo figlio Guillaume (Bréon 1988), fino ai ripetuti soggiorni di JeanLéon Gérôme tra il 1875 e il 1889, di passaggio verso il Medio Oriente e in rapporto con Domenico Morelli . Ben più numerosi, invece, furono i pittori provenienti dall’ambiente napoletano che si recarono a Parigi o per accogliere e riportare in patria le ultime novità artistiche, come nel caso della famosa visita di Filippo Palizzi, Domenico Morelli e Saverio Altamura all’Esposizione universale del 1855, o per restarci in pianta stabile, alla ricerca soprattutto di circuiti commerciali più ampi e remunerativi, come nel caso di Beniamino De Francesco prima e Giuseppe Palizzi poco dopo, che non lasciarono più la Francia dal loro arrivo, rispettivamente nel 1842 e nel 1844 . Giuseppe De Nittis, pugliese d’origine ma napoletano di formazione, resta senza dubbio il più importante rappresentante della comunità partenopea a Parigi, dove si trasferì definitivamente nel 1868 attirato dalle sirene di mercanti come Frédéric Reitlinger e Adolphe Goupil, con il quale fu poi sotto contratto dal 1872 al 1874, anno in cui scelse di abbracciare le nuove poetiche impressioniste. La storiografia ha ampiamente discusso e altrettanto lungamente si è divisa sulla possibilità di annoverare De Nittis tra le fila della nuova avanguardia francese. A lungo una parte della critica italiana è sembrata pronunciarsi in maniera talvolta frettolosa sulla questione, guidata non tanto da testimonianze storiche incontrovertibili, quanto dal desiderio di vedere riconosciuto un possibile suo contributo alle dinamiche che rivoluzionarono l’arte dalla seconda metà del XIX secolo, con tutto il lustro che ne sarebbe derivato. Le indagini condotte nell’ultimo ventennio attorno all’effettiva posizione di De Nittis nel multiforme tessuto culturale parigino coevo hanno in qualche modo segnato un’inversione di tendenza rispetto al passato, riuscendo a delineare in maniera più precisa il profilo di un pittore straniero capace di proporsi intelligentemente come un protagonista, fino alla sua morte, della vita artistica cosiddetta ’ufficiale’ della capitale francese, restando, al tempo stesso, sensibile alle nuove sperimentazioni artistiche maturate in quegli stessi anni dalla frangia impressionista. Oltralpe, la critica francese si è espressa invece con indubbi meriti di obiettività già dall’ultimo quarto dell’Ottocento, intravedendo spesso nella produzione pittorica del periodo parigino di De Nittis quella natura eccessivamente ’da Salon’ che lo mantenne in quel juste milieu proclamato da Silvestre, Renoir e Huysmans (Huysmans 1975), e che sembrò in parte proteggerlo dai giudizi negativi avanzati rivolti al movimento impressionista nei suoi primissimi anni. A questo proposito, nel riproporre il pensiero di Léon-r ce Bénédite, Dominique Morel che ha ribadito quanto De Nittis meritasse la qualifica di impressionista, pur essendo riuscito a distinguersi dai colleghi più intransigenti grazie a un’attitudine più ’moderata’ che gli valse tanto l’accettazione del pubblico, quanto le ricompense ufficiali. Con negligenza, tuttavia, la Francia ha trascurato il valore dell’artista pugliese appena dopo la sua morte, con l’evidente complicità delle istituzioni d’oltralpe, responsabili di un silenzio calato sull’arte di un parigino ’d’adozione’ appena dopo il 1886, anno dell’ultima retrospettiva dedicatagli nella capitale francese. Che De Nittis abbia abbracciato i principi artistici impressionisti in maniera poco convinta, o quantomeno che la sua produzione abbia piuttosto risposto a esigenze commerciali del tutto estranee all’etica del movimento le stesse manifestate, in parte, anche da Édouard Manet è cosa nota. È altrettanto chiaro come, dal punto di vista tecnico-pittorico, una parte della sua produzione parigina abbia aderito ottimamente ai loro precetti di osservazione e traduzione del dato naturale, risentendo, inoltre, di una comune passione per l’arte e l’oggettistica giapponese, secondo una moda diffusasi Francia a partire dal 1867 circa, anno della prima partecipazione ufficiale del Giappone a un’esposizione universale. Una lettera di Claude Monet a De Nittis, conservata presso il Getty Research Institute di Los Angeles, riaccende il dibattito sui legami tra il pittore pugliese e il gruppo francese, ma piuttosto che prender parte a questa disputa, invita a una riflessione sulla poco indagata relazione tra lui e il capofila del movimento impressionista, sui loro momenti di vicinanza, tanto sul piano professionale, quanto personale. Pur non presentandosi particolarmente rilevante da un punto di vista artistico, infatti, la missiva certifica per la prima volta un rapporto privato diretto tra i due, specialmente se si considera come, fino ad oggi, il nome di De Nittis fosse apparso solo un paio di volte nel carteggio tra Monet e Paul Durand-Ruel. Il contenuto della lettera si presenta coerente con la fitta corrispondenza intrattenuta in quegli anni da Monet con molti altri destinatari, da Manet fino a Durand-Ruel, passando per Émile Zola, sia da un punto di vista tematico ripetute e pressanti richieste d’aiuto economico , sia per la costante inquietudine finanziaria che trapela dalle frasi ripetute o interrotte. La malcelata urgenza di ricevere un prestito, tutto sommato modesto, di cento franchi, spinse Monet a domandare la consegna della somma direttamente al corriere incaricato della consegna della lettera. La data, come riferito dallo stesso artista, coincide con il secondo giorno della vendita all’Hôtel Drouot delle opere impressioniste di Caillebotte, Pissarro, Renoir e Sisley, a cui De Nittis non partecipò. Le scuse finali rivolte al collega italiano per le reiterate richieste suggeriscono come questa non fosse la prima lettera inviatagli, ma che, anzi, egli fosse già tra i suoi sostenitori e referenti. A distanza di poco più di un mese dalla terza mostra impressionista, finanziata in gran parte dalle casse di Caillebotte, Monet manifestava il disagio per una situazione che toccava ora uno dei momenti più difficili, a seguito della desolante ricezione critica delle sue opere e delle ingenti sue difficoltà economiche. Come noto, eccezion fatta per Georges Rivière, costante difensore della loro arte, e per alcuni giornali come L’Homme libre, Le Rappel, Le Petit Parisien, Le Courrier de France e Le Siècle, che quantomeno riconobbero il successo di pubblico e la curiosità manifestata dai visitatori accorsi al 6 rue le Peletier nell’apri-t le 1877, la critica francese fu in linea di massima spietata verso tutto il gruppo impressionista e, in particolare, verso la sua serie della Gare Saint-Lazare. Alle lamentate ristrettezze economiche, proprio nel mese di maggio 1877, si era aggiunta la netta regressione degli affari tra Monet ed Ernest Hoschedé , direttore del giornale Au Gagne Petit e suo principale finanziatore almeno fino al 5 giugno dell’anno dopo. Stando tuttavia ai dati delle vendite annotati da Monet nel suo carnet des comptes (Wildenstein 1974), il 1877 sembra essere un anno piuttosto prolifico per lui, grazie a un guadagno di 15.197 franchi, somma, per l’epoca, largamente sufficiente alla conduzione di una vita agiata. I debiti contratti in quegli anni, uniti a spese sconsiderate, portarono il pittore francese a lamentarsi costantemente della propria situazione e a ricercare prestiti continui, seppur non strettamente necessari. Al contrario, pur non prendendo più parte alle iniziative promosse dal gruppo impressionista, il successo di critica ed economico registrato dalle opere di De Nittis in quegli anni era ben noto a tutto l’ambiente artistico-culturale parigino. De Nittis era reduce da una fortunata partecipazione al Salon del 1877, dove presentò Paris vue du Pont Royal e due acquerelli, Boulevard Haussmann e Place St. Augustin, mentre qualche tempo prima, il 22 febbraio 1875, aveva concluso un’importante transazione col mercante londinese Marsden per l’ingente somma di diecimila franchi. Una florida ma temporanea situazione economica che doveva molto alla fama da lui conquistata in quel periodo e che avrebbe toccato il suo apice nel 1878, con il trionfo all’Esposizione universale e la conseguente assegnazione della Légion d’honneur, riconoscimento deontologicamente lontano da ogni ideale impressionista. La partecipazione stessa di De Nittis alla prima mostra impressionista del 1874 in rue des Capuci-i nes, del resto, ancor prima di una comune condivisione di un’etica e di principi artistici innovatori e antiaccademici, aveva risposto principalmente a esigenze di rappresentanza ed economiche proprie del gruppo avanguardista. La presenza delle tele di De Nittis, «artiste chévronné» e habitué del Salon, manifestazione ufficiale patrocinata dal governo, sembrò in qualche modo conferire una maggiore dignità alla manifestazione e una propria identità al gruppo agli occhi dell’ambiente parigino. D’altra parte, grazie alla discreta agiatezza economica e all’effettiva posizione sociale borghese raggiunte, in parte, attraverso le vendite assicurategli da Goupil negli ultimi due anni, De Nittis, come Caillebotte e Henri Rouart prima di lui, avrebbe potuto garantire all’occorrenza il sostegno economico alla causa impressionista. Le ultime righe della missiva qui in esame, infatti, sembrano confermare come la loro opinione nei confronti dell’artista pugliese non fosse mutata rispetto a tre anni prima. De Nittis, per gli impressionisti, e per Monet in particolare, restava uno di quei «pittori guadagnatori di denaro e a cavallo su Parigi e Londra» e tale restò fino alla sua morte. Alla maniera di Édouard Manet che addirittura non prese parte a nessuna delle mostre impressioniste, continuando piuttosto a prediligere il Salon il pittore italiano aveva presto compreso che, pur condividendo con loro idee pittoriche e un innovativo metodo d’osservazione del reale, un allontanamento dagli avanguardisti gli avrebbe permesso di continuare a prender parte ai principali appuntamenti artistici parigini, aggirando, per quanto possibile, sia i giudizi negativi di una parte della critica rimastagli favorevole, sia una possibile conseguente flessione negativa delle vendite delle sue opere. Una scelta ponderata, dunque, evidenziata già da Raffaello Causa nel 1975 e da Piero Dini nel 1990 il primo rintracciò nei limiti culturali del pittore, nelle esigenze e ambizioni economiche e sociali sue e di sua moglie Léontine, le cause dell’incapacità di sfruttare l’irripetibile opportunità di una convinta e totale militanza nel gruppo francese Dini, invece, pur intravedendo in questo senso una scarsa lungimiranza da parte di De Nittis, sostenne appunto come questi scelse la strada del guadagno sicuro, abbracciando un’arte capace di attirare principalmente i frequentatori del Salon, categoria di acquirenti che, in termini di mercato, fu certamente tra le più costanti e redditizie nella Francia della Terza Repubblica. Lo stesso Dini fu non a caso tra i primi a rendersi conto dei numerosi punti di discussione e delle molteplici prospettive di riflessione scaturenti dalla strategia di De Nittis, specialmente in merito a motivazioni di ordine economico e ai condizionamenti provenienti dall’ambiente intellettuale parigino , ambiente di cui lo stesso artista, e il suo entourage, erano figli. Gli studi più recenti sull’artista pugliese hanno quindi evidenziato come l’inserimento di De Nittis e della sua famiglia all’interno in questi circoli culturali fosse stato a sua volta agevolato, oltre al suddetto successo economico e ai riconoscimenti ufficiali su tutti, l’assegnazione della Légion d’honneur, anche da altri fattori: la condivisione di passioni comuni, come la musica, ad esempio, nello specifico quella di Lorenzo Pagans , e soprattutto l’universo orientale, che lo avvicinò ancor di più ai letterati e ai personaggi di rango della capitale francese, come Edmond de Goncourt, Alphonse Daudet, Philippe Burty, la principessa Mathilde Bonaparte e suo nipote Giuseppe Primoli, ma anche ad artisti come Manet, Degas, Tissot. Partendo dai Carnets Des Invitations di Léontine De Nittis, Manuela Moscatiello ha ricostruito in maniera puntuale la cerchia intellettuale che attorniò l’artista pugliese nei suoi anni francesi, rilevandone comuni affinità in termini di gusto artistico, estetico e collezionistico nei confronti della cultura orientale . Di certo le personalità attorno a cui De Nittis scelse di orbitare e viceversa erano in qualche modo affermate e riconosciute nel contesto culturale parigino coevo. Gli stessi Manet e Degas, esponenti a modo loro della nuova pittura avanguardista, rappresentarono una sorta di «bohème très bourgeoise» in stretto contatto con l’artista pugliese. Per quanto concerne il rapporto tra Claude Monet e De Nittis, invece, la missiva in esame invita a considerare che questo fosse più intimo di quanto registrato finora, pur non consumandosi nelle serate mondane a casa dell’artista pugliese assieme alla crème culturale parigina. La loro conoscenza sembra articolarsi piuttosto attorno a questioni di tipo economico, argomento di fondamentale valenza nelle esperienze di entrambi gli artisti. Nel sottolineare come De Nittis avesse scelto come amici i più borghesi degli impressionisti, Marina Ferretti Bocquillon ha correttamente osservato quanto poco egli avesse in comune con Monet, «del quale colleziona le opere, ma che, perennemente squattrinato, non è ancora lo stimatissimo patriarca di Giverny» , e il cui nome non era ancora riconosciuto, appunto, né all’interno dei circoli artistici ufficiali, né tra i maggiori collezionisti dell’epoca: i frequentatori del Salon. A questo proposito, è necessario ricordare come, nella Parigi degli anni Settanta, il quadro artistico, oltre che sociale, fosse mutato sensibilmente in linea con il rinnovamento della figura del collezionista. Esponendo al Salon, gli artisti, specialmente quelli medagliati, riuscivano a vendere le loro opere a prezzi notevoli grazie a mercanti ben inseriti nei circuiti commerciali della capitale francese. Gli introiti che ne derivavano consentivano loro di condurre una vita basata sugli agi e su abitudini borghesi, oggetto per De Nittis sia di un’aspirazione personale, sia del desiderio di compiacere la crescente ambizione e il malcelato bovarismo della moglie. Borghese era, infatti, la nuova clientela che in quegli anni stava facendosi largo a Parigi: non più aristocratici ma professionisti nelle attività liberali, avvocati, medici, ma anche banchieri, industriali e imprenditori, uomini d’affari, collezionisti a caccia di oggetti à la mode, dediti all’arte come forma di investimento, bourgeois attratti dal valore simbolico della collezione, espresso in termini di riconoscimento sociale e indice di rango, ancor prima che di capacità economica. Secondo questa concezione del bene artistico inteso come simbolo di lusso, acquistando un’opera esposta al Salon, il nuovo collezionista si dotava del prestigio di un tipo d’arte dal valore universalmente comprensibile, affermando, al tempo stesso, una potenza gerarchica determinata dal suo potere d’acquisto. In linea di massima, secondo una tendenza ormai «dans l’air» in quell’epoca, gli esponenti del gruppo impressionista si giustapposero a questi circuiti ufficiale creando iniziative indipendenti, vendite all’asta e scegliendo nuovi spazi espositivi, benché i suoi membri fossero ben consapevoli del meccanismo perfettamente riassunto nella degassiana frase: «le Salon, c’est toujours le Salon» (Degas 1877).
Non in ultimo, oltre alla questione ’etica’, la creazione di questi nuovi circuiti, in un certo senso, fu una scelta obbligata per gli avanguardisti, se si considera anche il pregiudizio abbastanza diffuso tra i moderni amatori sulla loro arte, percepita come pericolosa nei confronti di un nuovo ordine sociale in cui la classe borghese era riuscita faticosamente a inserirsi . La lettera di Monet a De Nittis documenta un rapporto tra i due che, stando alle fonti pervenuteci fino a oggi, probabilmente era cominciato proprio nel 1874 in rue des Capucines. L’ammirazione artistica del pugliese verso il collega francese si tradusse nell’acquisto di tre sue tele nel 1876, come si evince da un’altra missiva in cui Monet comunicò a Paul Durand-Ruel, suo mercante, la volontà di recuperare tutta la sua produzione per gestirne le vendite in maniera più diretta e oculata: «Caro signor Durand, ho dimenticato di dirvi una cosa. Sembra che le tre tele che avevo da De Nittis, e che mi aveva detto appartenessero al signor Portier, sono da Heiman, genero di De Nittis, che li vuole vendere a buon mercato; sarebbe doppiamente sciagurato in questo momento, se potete, dovreste occuparvi di farli acquistare da una terza persona». Analizzando la storiografia delle opere di Monet, De Nittis risulta invece essere il proprietario di quattro sue tele, anche se solo due di queste avrebbero potuto far parte della sua collezione nel 1876: Gelée blanche, dello stesso anno, e Le Musée du Havre, olio su tela del 1873, acquistato su consiglio di Caillebotte. Se è impossibile pertanto risalire al terzo quadro citato in questa lettera, è d’altra parte certo che De Nittis avrebbe poi acquistato altre due opere del maestro francese nel 1878: Les dindons, del 1877, oggi al Musée d’Orsay, e Vue de l’ancien avant-port du Havre, oggi al Philadelphia Museum of Art. Queste scelte collezionistiche non stupiscono se si considera quanto De Nittis, anche se ufficialmente lontano dal gruppo impressionista, fosse sensibile a un’osservazione del vero libera e anticonvenzionale come quella proposta da Monet. Lo si può desumere da un’altra lettera in cui quest’ultimo, nel 1882, domandò a Durand-Ruel «l’indirizzo del signor Nittis, che mi ha chiesto di vedere le mie marine (non so con quali intenzioni, ma gliel’ho promesso)». Nasce pertanto spontanea la riflessione circa la possibile vicinanza nella glossa dei due pittori: è il caso dei mari e dei cieli mediterranei del pittore italiano, soggetti particolarmente ricorrenti nel suo periodo giovanile partenopeo, che negli anni Ottanta sembrano acquisire particolari nuances rosa pastello molto vicine a quelle delle vedute nordeuropee della fase di Monet a Pourville , anche se tradotte da De Nittis in una maniera tutta personale, molto più attenta al dato reale e alla resa corporea dei volumi delle nubi . Ancor prima delle marine, è dimostrato che De Nittis conoscesse le opere dei suoi amici e colleghi impressionisti incentrate su alcune tra le tematiche a loro più care, come la famiglia e il giardino. Il suo Colazione in giardino, considerato da molti il capolavoro della fase finale della sua carriera, nella scelta particolare del ritratto in absentia e nelle stoviglie sulla tavola, sembra in parte debitore nei confronti del Déjeuner di Caillebotte del 1876 , più estremo e antiaccademico nell’esasperata prospettiva di chiara dipendenza fotografica, e ancor di più verso l’omonima opera di Monet del 1873, che non a caso faceva parte della collezione privata dello stesso Caillebotte. Oltre allo spartito di vita familiare en plein air, la composizione di De Nittis condivise con quella di Monet proprio la sua parte più felice, ossia quella natura morta giapponesizzante e di chiara matrice impressionista, composta di tazze, piattini e vasi di vetro «su cui la luce gioca» (Pittaluga, Piceni 1963, 69). In alcuni suoi aspetti, il raffronto De Nittis-Monet sembra d’altronde prestarsi a interpretazioni biunivoche, specialmente per quanto concerne la sperimentazione di nuove soluzioni pittoriche nella relazione tra artista e natura. Nella serie londinese di Westminster dei primi del Novecento, ad esempio, Monet sembrò per certi versi reinterpretare alcune scelte che avevano già portato De Nittis al trionfo nell’Esposizione Universale del 1878, in particolare la scelta di conferire alla fenomenologia naturale l’inusuale ruolo di mediatrice nella rapporto tra lo spettatore e il monumento. A differenza del collega italiano, in questa serie l’attenzione di Monet si focalizzò solo ed esclusivamente sulla resa degli agenti atmosferici e mai sui personaggi, sui tipi umani londinesi, «operai raggruppati sul ponte e ’affogati’ in una nebbia umida e fumosa», che De Nittis aveva tradotto, invece, secondo una lente dickensiana tipicamente francese, fondendo «l’aspetto materiale del luogo con la fisionomia delle classi, con la storia delle abitudini sociali, con la ricerca dei tipi che, tutti insieme, ne costituiscono la fisionomia morale presentandoci non solo l’urbs, ma anche la civitas dell’era moderna» . Paul Lefort, per primo, vide nella produzione londinese di De Nittis il risultato di una «solida impressione, sentita, vissuta e tradotta con rara felicità», benché le scelte compositive la confinassero in un impressionismo ’moderato’ dato da un voluto equilibrio tra gli effetti luministici, la «forma confusa» dell’edificio sul fondo della scena e la dettagliata descrizione dei personaggi londinesi, di chiara matrice realista. In termini metodologici, sin dal concepimento, i loro Westminster rivelano una concezione simile di ’serie’: ripetizioni di uno stesso soggetto indagato puntualmente in ogni sua variazione attraverso i molteplici filtri offerti dai fenomeni naturali. In questo caso, per entrambi la vera protagonista restò la nebbia, traduttrice di architetture evanescenti, di effetti di dissolvenza luministica senza dubbio derivati dalla comune assimilazione delle lezioni di Constable, Cotman, Bonington, ma soprattutto di Turner, al quale, non a caso, è stata sempre attribuita «una parte capitale nella nascita dell’impressionismo». Di fatto, un atteggiamento di apertura sperimentale verso la ’serie’ artistica, centrata attorno ad un unico soggetto, tratto peculiare dell’arte di Monet, appare nella produzione di De Nittis già nel 1872, nei circa sessanta dipinti raffiguranti le fasi eruttive del Vesuvio. Fu proprio in queste opere che il pugliese probabilmente mostra la più completa e matura assimilazione del concetto di en plein air, coniugato però a un originalissimo intento documentario volto a fissare tutti gli istanti del mutamento del dato reale, della luce, secondo un rigoroso processo di sintesi formale e cromatica scevra da ogni tipo di ricerca o raffinatezza estetica. De Nittis scelse poi di conservare la forma originale dei suoi quadretti senza ultimarli, convinto che la loro apparente sommarietà fosse affine ai nuovi orientamenti della nascente pittura impressionista francese, al punto che due di queste furono tra le cinque opere da lui presentate alla prima mostra del gruppo nel 1874, giudicate poi come «informi abbozzi» da una parte della critica francese. Trent’anni dopo, mosso da intenti simili ma arrivando a soluzioni ben più esasperate e ’maniacali’, Monet avrebbe realizzato le famose serie dei covoni e della cattedrale di Rouen. Seppur con tecniche pittoriche e metodi d’osservazione differenti tra loro punto di vista fisso e ’scomposizione’ delle forme e della luce derivata dallo studio dello spettro luminoso in Monet, inquadrature mobili, ardite, dinamiche e sempre diverse, con tagli prospettici quasi ’fotografici’ in De Nittis, entrambi gli artisti avevano cercato di fissare l’istante, di documentarlo e di bloccare lo scorrere del tempo insaisissable, con la differenza che, se Monet si servì della luce cercando di dipingere quasi ossessivamente l’aria infinita e transitoria, De Nittis la interpretò, invece, come un veicolo di creazione e di definizione dei volumi delle rocce del vulcano in eruzione, soluzioni maturate già nei suoi anni giovanili della Scuola di Resina. Le sue riprese vesuviane, caratterizzate da attente e rapide annotazioni delle variazioni del dato reale attorno a un solo e unico soggetto la montagna in condizioni atmosferiche e luminose sempre differenti, per l’approccio metodologico innovativo nell’osservazione della natura, segnano un primo momento di apertura nella sua cerchia artistica francese verso l’idea della ’serie’. Attraverso questa idea, De Nittis, rinnovando il «metro delle sue vecchie esperienze napoletane» (Causa 1975, 8) grazie a un bagaglio tecnico ormai maturato ed evolutosi negli anni parigini, sembra realizzare una moderna reinterpretazione delle stesse ricerche sul paesaggio che aveva condotto proprio nei suoi anni giovanili a Portici. L’artista pugliese recuperò, infatti, i soggetti con cui si era relazionato nella primissima fase della sua carriera, operando, questa volta, non più per sole giustapposizioni di toni e di macchie di colore, bensì attraverso uno studio sempre diverso del carattere peculiare di ogni suolo rappresentato. E se in generale le successive serie di Monet furono a ragione considerate dalla critica alla stregua di un programma scientifico, chi scrive ritiene che in qualche modo l’approccio di De Nittis al Vesuvio riveli un’attenzione, più o meno cosciente, al dato luministico certamente meno empirica, ma analoga per sistematicità nell’indagine attorno al vero. Pur non potendo costituire l’unico tipo di approccio nell’analisi dei complessi e numerosi stimoli che un artista dell’epoca poté sedimentare e metabolizzare, ancor più in un ambiente fervido e dinamico come quello parigino, è oggi impossibile non considerare le reciproche influenze verificatesi tra personalità appartenenti a una stessa cerchia culturale, siano esse tecniche o semplicemente visive. Quanto questo tipo di approccio sia da ritenersi invece valido è testimoniato dalle corrispondenze private degli stessi artisti, dalle loro memorie, o ancora dai moderni studi sulla circolazione e sulla conseguente ricezione di opere e di modelli a livello internazionale per tutto il corso del secondo Ottocento. La riflessione sulle possibili influenze può talvolta risultare rischiosa, ma sarebbe d’altra parte anacronistico, e metodologicamente lacunoso, non considerare i contatti personali e artistici certamente avvenuti tra personaggi che agirono nel medesimo contesto culturale. L’analisi qui condotta non vuole in alcun modo presentare De Nittis come un esempio per Monet, o come un mediatore tra lui e la genesi di quelli che sono oggi i suoi più noti capolavori, né tantomeno si cerca di paragonarne le rispettive incidenze sulla storia dell’arte in senso globale. Essa vuole piuttosto invitare alla riflessione sulla tangibile vicinanza tra i due pittori, specialmente in alcuni loro linguaggi, mettendo in luce lo spessore di un artista italiano che, pur provenendo da un ambiente ancora marcatamente ’provinciale’ come quello napoletano, fu presto capace di recepire quanto stava partorendo il vortiginoso tessuto culturale della capitale mondiale dell’arte e di interpretarlo attraverso nuove soluzioni sperimentali. Il progetto espositivo si articola in 11 sezioni introdotte da un omaggio alla moglie Léontine, musa e figura fondamentale per la sua ascesa artistica e mondana. Le sezioni successive ripercorrono l’intera vicenda creativa, a partire dalla sua formazione a Napoli, per approdare al clamoroso successo internazionale tra Parigi e Londra, fino agli ultimi anni di attività. La mostra consacra la statura internazionale di un artista che è stato, insieme a Giovanni Boldini, il più grande degli italiani a Parigi, dove è riuscito a reggere il confronto con Manet, Degas e gli impressionisti, con cui ha condiviso, pur nella diversità del linguaggio pittorico, l’aspirazione a rivoluzionare l’idea stessa della pittura, scardinando una volta per sempre la gerarchia dei generi, per raggiungere quell’autonomia dell’arte che è stata la massima aspirazione della modernità. Come gli Impressionisti, De Nittis ha privilegiato il paesaggio, il ritratto e soprattutto la rappresentazione della vita moderna, osservata lungo le strade affollate delle due grandi capitali europee dell’arte e della mondanità: Parigi e Londra. In uno straordinario repertorio di pittura en plein air, l’artista ha saputo rappresentare i luoghi e i riti privilegiati della modernità, che la mostra pone al centro del suo percorso, sviluppato nel breve arco temporale della sua vicenda artistica conclusasi prematuramente con la scomparsa a soli 38 anni di età nel 1884. I risultati raggiunti da De Nittis si devono a un’innata genialità, alla capacità di sapersi confrontare con i maggiori artisti del suo tempo, alla sua curiosità intellettuale, alla sua disponibilità verso altri linguaggi. È inoltre tra gli artisti dell’epoca che meglio si è saputo misurare con gli stimoli dell’arte dell’estremo Oriente, in particolare del Giappone, allora diventata di grande moda . Il paesaggio e la luce d’Italia Giunto a Napoli nel 1860, Giuseppe De Nittis si iscrive all’Istituto di Belle Arti, superando l’iniziale resistenza della sua famiglia. Appena tre anni dopo, però, insofferente all’insegnamento accademico, De Nittis abbandona l’Istituto per proseguire la sua formazione in orgogliosa autonomia, grazie alla frequentazione di Marco De Gregorio e Federico Rossano. Gli aspiranti pittori dipingono nel bosco e nella campagna attorno alla Reggia di Portici, al confine con Resina, e, aggiornati sulle istanze dei Macchiaioli dal fiorentino Adriano Cecioni, fondano la Scuola di Resina. Immergersi nella natura e recuperarne una visione essenziale, quotidiana ma partecipe, senza sovrastrutture colte o letterarie: ecco il loro obiettivo, da raggiungere in comunanza profonda con l’ambiente naturale. Nascono così tele giovanili come Appuntamento nel bosco di Portici, L’Ofantino e La piana dell’Ofanto, eppure la luce tersa, i cieli vasti, le strade terrose e i muri calcinati dell’entroterra italiano resteranno per sempre nella tavolozza del pittore, riapparendo con costanza nei decenni a seguire. Sarà lo stesso De Nittis a ricordare con nostalgia questi anni giovanili e sfrenati: “Che bei tempi! Con tanta libertà, tanta aria libera, tante corse senza fine! E il mare, il gran cielo e i vasti orizzonti! Lontano le isole di Ischia e di Procida; Sorrento e Castellammare in una nebbia rosea che, a poco a poco, veniva dissolta dal sole. E da per tutto, un profumo di menta selvatica e di aranceti”. Lasciata Parigi nel novembre del 1870 a causa della guerra franco-prussiana e dei disordini della Comune, De Nittis trascorre lunghi periodi in Italia. Si dedica allora a degli studi di paesaggio che realizza recandosi quotidianamente sulle pendici del Vesuvio, per nulla scoraggiato dalla fatica o dalla pericolosità del viaggio. Come dichiarato dallo stesso pittore: “Mi aveva preso, come accade a molti, l’amore per la montagna, per il Vesuvio”. Il risultato è una numerosa serie di piccoli studi, intitolati Sulle pendici del Vesuvio e Sulle falde del Vesuvio, straordinari per il taglio compositivo, la tecnica e il colore: uno degli esiti più originali del vedutismo ottocentesco. De Nittis coglie dal vero la montagna in diverse condizioni di luce, ne indaga i profili, i crepacci, le creste, la vegetazione rada, in vedute ravvicinate e poco panoramiche, sottoponendo così il paesaggio a un processo di rigorosa semplificazione formale, in cui anche le rare figure umane sono quasi interamente assorbite dall’ambiente. Nei colori, le dominanti terrose rinunciano agli accordi raffinati per una pittura strutturale e robusta, che spesso lascia a vista le venature del legno. Attraverso lo sguardo attento di De Nittis è raccontata anche l’eruzione del Vesuvio, avvenuta il 26 aprile 1872 e immortalata dal pittore in Pioggia di cenere e L’eruzione del Vesuvio (sotto il Vesuvio). Un evento drammatico che colpisce con violenza gli amati paesi vicini, in particolare Resina e Portici. De Nittis giunge a Parigi per la prima volta nell’estate del 1867: ci resta solo due mesi, ha appena il tempo di visitare l’Esposizione Universale di quell’anno, ma è per lui una folgorazione. La città è in quegli anni la brillante capitale del Secondo Impero di Napoleone III. Moderna, caotica, mondana e vivacissima, seduce immediatamente il pittore, che vi torna l’anno successivo e vi si trasferisce: a parte i numerosi viaggi in Italia e Inghilterra, passerà il resto della sua vita nella capitale francese, tanto da arrivare ad affermare che “nessun francese ama la Francia con una passione più alta e disinteressata di me”. Inizialmente privo di contatti e di riferimenti – non parla nemmeno francese , in breve De Nittis si inserisce nel competitivo ambiente artistico cittadino: conosce Ernest Meissonier, Edmond De Goncourt, che ritrae in un pastello su carta in mostra in questa sala, e soprattutto Léontine Gruvelle, che nel 1869 diventa sua moglie. Lavora per il mercante Gerard Reitlinger e poi per il più celebre Adolphe Goupil, con cui firma un contratto in esclusiva nel 1872, che durerà però solo due anni. Abbandonando le facili scenette in costume tanto apprezzate dal pubblico e richieste da Goupil, De Nittis decide ben presto di dedicarsi a descrivere la vita moderna, di cui diventerà uno dei pittori migliori, capace di raccontarne con vivacità gli svaghi e i protagonisti, al pari dell’altro italien de Paris, Giovanni Boldini. Giuseppe De Nittis diventa il cantore della modernità e della mondanità parigina, registrando con occhio acuto l’energia di una città in trasformazione. Al pittore non interessa la classica veduta urbana né la celebrazione dei monumenti storici come memoria di un passato glorioso; al contrario, è orientato alla registrazione in presa diretta della vita e della società nei luoghi pubblici, dove anche i monumenti più celebri – l’Arc du Triomphe, la Place de la Madelaine, les Invalides – rappresentano solo un fondale per la vita della città, descritta con vedute dal taglio fotografico e ritratta in diverse condizioni atmosferiche e di luce, di cui splendidi esempi sono Giardini di Parigi con sole pallido, Paesaggio della Sena con sole grigio ed Effetto di brina. Nelle vibranti tele di De Nittis sono raccontati gli svaghi dell’aristocrazia e della classe borghese in ascesa. E, ancora, la lucentezza della pioggia lungo i boulevards, il traffico degli omnibus, le eleganti passeggiate a cavallo al Bois de Boulogne ritratte nella splendida L’amazzone al Bois de Boulogne, il chiacchiericcio intorno agli specchi d’acqua al Luxembourg immortalato in Accanto al laghetto dei giardini del Luxembourg, i caffè, le serate mondane… è Parigi la protagonista dell’arte francese dell’epoca e De Nittis ne è un maestro indiscusso. Le sue tele sono l’ode alla città di un uomo innamorato di ogni suo angolo, di ogni sua frenetica giornata. Nessuno, in definitiva, seppe rappresentare l’essenza della vita moderna come questo giovane pittore italiano. Dalla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, De Nittis inizia a studiare gli effetti della luce artificiale in interno, in un tipo di ricerca parallela ma complementare a quella condotta en plein air. Nascono così numerose scene di salotti ripresi a lume di candela o di lampade a gas, interni riccamente decorati e popolati da una folla elegante e distinta. Sono gli anni della più completa affermazione di De Nittis – che nel 1878 ha trionfato all’Esposizione Universale di Parigi e ottenuto la Legion d’Onore – non solo nell’ambiente artistico, ma anche in quello aristocratico e mondano, nel quale si muove con grande disinvoltura. Il pittore frequenta artisti e letterati nella sua casa in rue Viète, ma soprattutto è ospite abituale dei migliori salotti parigini, tra cui spicca quello della principessa Mathilde Bonaparte, cugina dell’imperatore Napoleone III, alla cui residenza in rue de Berry si incontrano nobili, artisti, scrittori, musicisti, politici. Una di queste serate è immortalata da Peppino in Salotto della principessa Mathilde. De Nittis viene riconosciuto dalla critica come “il pittore dell’eleganza di oggi”, secondo una definizione di André Michel. In questi raffinati interni, specchio del gusto fastoso del Secondo Impero, chiacchierano sommessamente distinti uomini in smoking, ma soprattutto elegantissime signore, avvolte in abiti da sera dai lunghi strascichi e dalle scollature vertiginose, descritti con una incredibile attenzione alla resa delle lucenti stoffe. A partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, Parigi viene investita da una serie di rivolgimenti urbanistici che modificano per sempre il volto della città. Tra le realizzazioni più importanti è il Bois de Boulogne, il gigantesco parco cittadino già riserva di caccia dei reali francesi, ora trasformato in uno dei luoghi più frequentati dalla buona società dell’epoca, tra i cui svaghi iniziano a diffondersi l’equitazione e le corse. Al margine sud del parco vengono dunque realizzati due ippodromi, Longchamp e Auteuil, inaugurati rispettivamente nel 1857 e nel 1873, dove si svolgevano le corse dei cavalli, passatempo prediletto dalla ricca borghesia parigina. De Nittis registra con occhio attento l’immagine di una società elegante che si assiepa sulle tribune, segue con attenzione la gara in bilico sulle seggiole come in Alle corse di Auteuil. Sulla seggiola o si distrae, persa nelle frivole chiacchiere di società, come in Studio per le corse I. Una splendida tela quale è Il ritorno dalle corse (La signora col cane) racconta di come le corse fossero un evento mondano, a cui si quasi sfilando indossando l’abito migliore. Grande risalto è infatti dato alle figure femminili: De Nittis, noto come “il pittore delle parigine” coglie con disinvoltura la loro immagine, a fuoco contro una folla resa con pennellate sbrigative, in quelle che appaiono come istantanee rubate al rapido fluire della vita moderna. L’eccezionale nevicata che ricopre Parigi nell’inverno tra il 1874 e il 1875 sorprende il giovane pittore, abituato al caldo sole del meridione italiano. Ad attirare l’occhio dell’artista non è solamente il candore dei bianchi, l’atmosfera rarefatta e luminosa, la dimensione soffusa e impalpabile che la neve dona alla grande metropoli: la nevicata dà il via a una serie di dipinti in cui De Nittis, sempre abile osservatore degli svaghi della grande città, raffigura una Parigi in bianco, percorsa da eleganti signore avvolte in pesanti mantelle di pelliccia, accompagnate da cagnolini o intente nel pattinaggio sul ghiaccio, come in Sulla neve, La pattinatrice o Léontine che pattina, ritratti di spensierata gioia invernale. Sono opere che segnano il progressivo allineamento alle ricerche degli impressionisti, nello studio meticoloso della resa atmosferica e della rifrazione della luce. Giocati su una gamma ristretta di colori e sul contrasto tra le figure in abiti scuri in primo piano e i fondi luminosissimi e spesso volutamente sfocati, questi dipinti sono caratterizzati dal grande virtuosismo nella tessitura di accordi cromatici, basati sulle mille variazioni di bianchi, beige, grigi e violetti. Nell’aprile del 1874, De Nittis parte per Londra alla ricerca di nuovi committenti, mentre si compie la rottura definitiva con il mercante Adolphe Goupil. Nella capitale inglese ritrova il pittore James Tissot, che lo introduce nell’ambiente londinese, favorendo la conoscenza col ricco banchiere Kaye Knowles – che Peppino chiama affettuosamente “Mr. K.” -, tra i più grandi sostenitori dell’artista. Si apre così una stagione proficua per il pittore, che ricorderà: “ho lavorato tanto in Inghilterra e ho voluto tanto bene a Londra” e, ancora, “sin dal primo giorno, Londra mi fu propizia”. La Londra che il pittore dipinge è quella delle istituzioni, dei luoghi simbolici, come La National Gallery e la chiesa di Saint Martin a Londra, Westminster e Westminster Bridge, Buckingham Palace e Trafalgar Square, centri nevralgici dove il traffico urbano e umano si mescolano fino a confondersi, fremendo di vitalità. Benché turbato dalle condizioni di vita miserevoli dei bassifondi, De Nittis fotografa la vita brulicante delle strade e delle piazze, la varietà e il traffico di cose e di persone affaccendate in questa capitale della vita moderna, registrandone le variazioni atmosferiche e di luce. De Nittis coglie lo spirito del luogo, che si ritrova nei volti e nei movimenti della folla, nelle aperture scenografiche delle piazze dominate dalle silhouettes dei monumenti scuri, e, soprattutto, nella tipica nebbia inglese, così diversa dall’atmosfera parigina o italiana, che avvolge gli edifici sfocandone le sagome. Il gusto per l’arte orientale che nell’Ottocento invase l’Europa ebbe a Parigi la propria capitale, da quando il Giappone partecipò per la prima volta all’Esposizione Universale del 1867, conquistando artisti, letterati, critici e pubblico. È però soprattutto grazie ai pittori che la moda si radica nella sfera artistica. Lo stesso De Nittis dal 1869 si cimenta in soggetti giapponesizzanti, introducendo in scene d’interni elementi orientali, come paraventi, incisioni o kimono, di cui tre splendidi esempi sono Il paravento giapponese, Tra i paraventi e Il kimono color arancio, oppure dipingendo ad acquerello delicati ventagli di seta. Se pure il pittore, al pari dei suoi contemporanei, non può fare a meno di arredare la sua nuova dimora in rue Viète con un’esplosione di “giapponeserie di fantasia”, per lui non si tratta solamente di un’esotica moda: le soluzioni formali dell’arte giapponese che si apprestavano a sconvolgere la tradizione occidentale sono da De Nittis acutamente comprese e si ritrovano nelle asimmetrie, nelle figure quasi ritagliate su fondi a contrasto, nella ricerca di bidimensionalità evidente anche nei paesaggi come in Pioppi nell’acqua, nelle stesure à plat, nel rifiuto della prospettiva tradizionale, sostituita da ampie campiture vuote e da vibranti di sfumature. Come osservava la critica dell’epoca, nella penna di Buisson, l’arte di De Nittis “è uno scroscio, un’esplosione di giapponismo in piena Parigi, in piena pittura parigina”. Fin dagli esordi a Napoli e dalla partecipazione alla Scuola di Resina, De Nittis si dedica assiduamente alla pittura en plein air, un tipo di pittura condotta direttamente all’aria aperta che, lontana dalla pratica di atelier, consente non solo l’abbandono dei soggetti della tradizione storica per una presa diretta della realtà, ma soprattutto un approccio completamente nuovo alla luce e ai colori. A Parigi De Nittis trova i maggiori sostenitori di questa pittura negli impressionisti, che frequenta a partire dal suo trasferimento in Francia, stringendo rapporti con artisti vicini al movimento come Édouard Manet, Gustave Caillebotte ed Edgar Degas. Nel 1874, sarà proprio Degas a invitarlo a partecipare alla storica prima mostra del gruppo presso lo studio del fotografo Félix Nadar, alla quale De Nittis invia cinque opere, quasi tutte esempi di pittura en plein air. È nella pittura all’aria aperta che più si avverte la comunanza di intenti tra De Nittis e l’impressionismo. La tavolozza si rischiara e si accende di toni luminosissimi, la pennellata, sempre più libera, costruisce i volumi non tramite il chiaroscuro ma attraverso il contrasto cromatico, le composizioni acquistano ariosità, mentre gli intensi effetti di controluce, le trasparenze e le ombre colorate mostrano gli esiti di accurate ricerche sulla luce. Eppure, De Nittis certo non disdegnava le ombre scure e l’uso del disegno, qualcosa che i più intransigenti tra gli impressionisti non potevano allora accettare. Nei primi anni Ottanta, De Nittis è all’apice della sua carriera, ma inizia a mostrare insofferenza per i ritmi frenetici della città che pure tanto aveva amato. Passerà sempre più tempo in campagna, a Saint-Germain-en-Laye, complici gli incalzanti problemi alla vista. “Quanti bei progetti ho per l’avvenire!”, scrive nelle ultime pagine del Taccuino nell’agosto del 1884, “Prima di tutto ce ne andremo da Parigi, dove la vita mi soffoca: Parigi distrugge tutti. E se poi, un bel giorno, mi dovessi ritrovare simile agli altri, immeschinito dall’ambizione, dalla stanchezza e dalla collera?”. Così alle vivaci vedute cittadine che lo avevano reso famoso si sostituiscono luminose scene en plein air, intime istantanee famigliari, tra cui spicca l’ultimo capolavoro, La colazione in giardino, presentato al Salon del 1884, l’ultimo, dove torna dopo quattro anni di assenza. De Nittis muore improvvisamente il 21 agosto 1884, nella casa di campagna. Nello studio restano le ultime opere, di cui si occuperà con amore la moglie, e i dipinti incompiuti, come l’ultimo ritratto di Léontine, di cui esistono diverse versioni, L’amaca e Sull’amaca II: “voglio cominciare un nuovo ritratto di mia moglie. Ella posa in un’amaca sospesa sotto gli alberi”. Verrà sepolto, come i veri parigini, nel celebre cimitero di Père Lachaise, sotto un epitaffio dettato da Alexandre Dumas figlio: “Qui giace il pittore Giuseppe De Nittis, morto a 38 anni, in piena giovinezza, in piena gloria, come gli eroi e i semidei”. Ad arricchire la schiera degli Italiens de Paris, giunge nel 1874, il veneziano Federico Zandomeneghi, con alle spalle l’avanguardia macchiaiola grazie alla quale si è consolidato come pittore di figura e si è cimentato anche nella pittura di paesaggio en plein air. Già nel 1876, le sue prove pittoriche rivelano un’apertura verso l’impressionismo che si traduce nei primi anni ottanta in straordinari capolavori come Al caffè Nouvelle Athènes (1885), Visita in camerino (1886), Place du Tertre (1880), Il tè (1892); in queste opere, Zandomeneghi predilige i temi tratti dalla realtà urbana e domestica contemporanea e dà vita ad una sorta di “moderno umanesimo”, equidistante dall’arte di puri valori degli impressionisti maggiori e dalla vena narrativa dei naturalisti. La mostra si completa, ripercorrendo le vicende artistiche di due autori quali Antonio Mancini che, con i suoi scugnizzi napoletani, commuove e incanta per il suo eccezionale virtuosismo pittorico (Scugnizzo con chitarra, 1877; Il piccolo Savoiardo, 1877), e Vittorio Corcos, qui presente con alcuni dei suoi capolavori più famosi (Le istitutrici ai Campi Elisi, 1892; Messaggio d’amore, 1889; Neron Blessé, 1899) capaci di trasmettere la felicità di un’epoca, segnata dal trionfo dell’eleganza e del lusso, in una Parigi, città mitizzata, sognata e agognata in ogni luogo del pianeta. A questo elenco, non potevano mancare alcune prove della sua perizia nel genere del ritratto. Oltre ai dipinti, a Palazzo Martinengo sarà possibile immergersi nel clima artistico e culturale della Belle Époque grazie alla selezione di elegantissimi abiti femminili, prodotti nelle Maison di Haute Couture più raffinate, che divennero luoghi di ritrovo esclusivi dell’alta società, di affiche che pubblicizzavano i locali alla moda, cabaret, le prime automobili, i quotidiani, spettacoli teatrali e grandi magazzini, disegnati da illustratori quali Cappiello, Dudovich e Metlicovitz e di vetri artistici dai decori ispirati alla natura, impreziositi da smalti, dorature e incisioni, realizzati da Emile Gallé e dai fratelli Daum per arredare le case della ricca borghesia.
Il Catalogo della mostra La Belle Epoque . L’Arte Nella Parigi di Boldini e De Nittis edito da Silvana Editoriale.
La Belle Epoque . L’Arte Nella Parigi di Boldini e De Nittis
Palazzo Martinengo – Brescia
dal Mercoledì al Venerdì dalle ore 9.00 alle ore 17.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Lunedì e Martedì Chiuso
Giovanni-Boldini-Ritratto-della-principessa-Radziwill-1910.-Collezione-privata
Giuseppe-De-Nittis-Accanto-al-laghetto-dei-giardini-del-Lussemburgo-1875-circa.-Collezione-privata-courtesy-Galleria-Bottegantica
De-Nittis-Leontine In barca Collezione Privata
Boldini-Berthe-esce-per-la-passeggiata.-Collezione-privata
Antonio-Mancini-Saltimbanco-con-chitarra.-Collezione-privata