Giovanni Cardone
Fino al 20 Aprile 2025 si potrà ammirare al Museo Maxxi di Roma la mostra monografica dedicata a Guido Guidi – Col Tempo a cura di Simona Antonacci, Pippo Ciorra e Antonello Frongia. L’esposizione e realizzata in collaborazione con l’Archivio Guido Guidi, la mostra, la più estesa mai realizzata, è il frutto di un intenso lavoro di ricerca condotto a fianco del fotografo nel suo studio e archivio a Ronta di Cesena. Il percorso dell’esposizione procede su due piani intrecciati: quello verticale delle stampe fotografiche, con oltre 400 opere e numerosi inediti, per un totale di 40 sequenze costruite dall’autore, e quello orizzontale delle teche, che ci porta a contatto con i densissimi materiali d’archivio. Ordinata cronologicamente, la mostra ripercorre le principali serie dell’autore: dagli esordi e le sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta, alle ricerche personali e alle committenze sul paesaggio degli anni Ottanta e Novanta, fino ai progetti più recenti degli anni 2000. La mostra, realizzata in collaborazione con importanti istituzioni italiane e internazionali che hanno sostenuto il lavoro di Guidi nel corso del tempo, come l’ICCD e il CCA, intende affrontare la ricerca di Guidi da un punto d’osservazione inedito, quello del suo archivio: casa, studio d’artista, luogo di lavoro, di vita e di incontro per giovani autori. La sua riflessione erudita intorno al linguaggio dell’immagine ha dato vita a una poetica della visione tra le più incisive della cultura fotografica contemporanea. Attraverso la fotografia, Guidi concettualizza il cuore delle questioni che riguardano il sistema della rappresentazione visiva: ogni immagine cela una riflessione sull’atto del vedere, sul mezzo utilizzato per registrarlo e sullo scorrere del tempo, indipendentemente se il suo sguardo si posi su un frammento di paesaggio familiare e quotidiano, sull’architettura dei grandi maestri o se il suo messaggio visivo debba passare per le sue fotografie e per l’attività di docente in cui è impegnato fin dagli anni Ottanta, fino ad essere considerato un “maestro” da più generazioni di autori. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Guido Guidi apro il mio saggio dicendo : Posso dire che Guido Guidi e la sua fotografia rappresenta una nuova concezione ad un’apertura al visivo e un approccio fenomenologicamente nuovo all’esterno e alla descrizione. Nella lezione ‘Leggerezza’, un testo pesantemente annotato nella biblioteca celatiana, Calvino sostiene: «Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica» termine che rimanda al titolo di un’importante serie fotografica di Ugo Mulas, Le verifiche, chiave di volta autoriflessiva per la fotografia italiana, proprio come le Lezioni americane lo sono per la letteratura, ed altre discipline. Sembra fare altrettanto nell’aprirsi alla fotografia quale nuova epistemologia, ma anche, contrariamente a Calvino, e in parte proprio in risposta ad una letteratura che egli reputa troppo cerebrale ed asfittica, come quella di Calvino, quale metodo di lavoro sul campo, come passaggio dall’idea alla pratica dell’arte, fatta sul momento, in linea con la pratica fotografica come suggerisce Elisabetta Rasy in una delle prime recensioni a Verso la foce un approccio che permette a Celati di dar vita a una nuova modalità narrativa imperniata su una maggiore risonanza con il paesaggio. L’autore iscrive la fotografia in un più ampio discorso sul ‘pensare per immagini’ che permetta di vedere e descrivere l’esterno con una lingua ‘necessaria’, che esuli dal pensiero discorsivo ma si apra invece all’indeterminatezza. Posso affermare che Guido Guidi è il fotografo che a partire dagli anni Settanta ha esplorato con maggior coerenza il paesaggio marginale e antispettacolare della provincia , ha voluto evitare ogni romanticismo nostalgico . In parallelo a Luigi Ghirri e altri fotografi della cosiddetta generazione del Sessantotto, Guidi ha dato vita a un’importante opera fotografica e a una riflessione sui luoghi cosiddetti marginali o qualsiasi, e sulla fotografia stessa, formando nuove generazioni di fotografi e una vera e propria “scuola guidiana”. Nato in provincia di Cesena nel 1941 da una famiglia di artigiani, dopo studi artistici Guidi si iscrive ad architettura poi a design allo IUAV di Venezia, dove segue le lezioni di Carlo Scarpa e Italo Zannier. Dalla fine degli anni Sessanta fotografa per lo più architettura vernacolare e luoghi liminari della Romagna orientale e attorno a Ronta di Cesena, dove vive; nel Veneto, dove ha insegnato a lungo allo IUAV; come pure all’estero, ad esempio sulla strada da San Pietroburgo a Santiago de Compostela esplorata per il progetto In Between Cities . Negli anni Ottanta partecipa a importanti progetti sui luoghi quotidiani coordinati da Ghirri, quali Viaggio in Italia, Esplorazioni sulla via Emilia e Traversate del deserto. Per Viaggio in Italia Guidi conia la nozione di “qualsiesità”, che diventa un’idea fondante della fotografia italiana contemporanea, in linea con l’idea ghirriana di viaggi minimi e luoghi qualsiasi, e prima ancora, come ci ricorda anche Antonello Frongia citando l’architetto Vittorio Savi, in linea con «l’idea zavattiniana del “viaggetto” in luoghi familiari, ripetuto e insistito» . Assieme a Paolo Costantini e William Guerrieri, Guidi è uno dei fondatori di Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea, con sede a Rubiera, Reggio Emilia, che dal 1989 organizza progetti di analisi del territorio «nei suoi aspetti marginali», nel tentativo di sprovincializzare la cultura fotografica italiana; ciò è in linea con la lezione della fotografia vernacolare americana, a partire dai New Topographers, dal nome dell’influente mostra del 1975 a Rochester, New York, a cui parteciparono tra gli altri Lewis Baltz e Stephen Shore . Guidi ha una forte consonanza con questi fotografi, frequentati sui libri fin dagli anni Settanta, per cui è stato accusato di «fotografare il brutto, lo sciatto, il banale, con uno stile altrettanto inestetico e casuale» da critici come Piero Orlandi, più sensibile all’opera di Ghirri e di Gabriele Basilico. In questo saggio intendo mostrare come la fotografia di Guidi non abbia niente d’inestetico o casuale, ma sia invece attentissima alla forma, e come sfrutti la nozione di qualsiasità come fondamento della propria estetica, al fine di riscrivere la fotografia come arte democratica del marginale, recuperando alla nostra visione luoghi prima esclusi dall’iconografia italiana. Evidentemente non esistono luoghi qualsiasi o marginali in sé, se non in rapporto a un ipotetico centro o norma; ogni luogo ha la sua storia e identità e la costruzione discorsiva di margini e periferie può servire da un lato a rafforzare la norma, dall’altro a recuperare il marginale o l’accidentale all’attenzione, allo sfruttamento o all’oblio. Nel campo della fotografia di paesaggio, come ci ricorda Liz Wells in Land Matters, il focus sul cosiddetto marginale può rispondere a una funzione intervenzionista verso un’azione di recupero o protesta. Come emerge da queste parole, nel sottolineare la natura polemica del proprio approccio, Guidi lo iscrive nella tradizione fotografica delle origini e lo assimila al paradigma indiziario di Ginzburg, un metodo teso a rivedere il canone alla luce di dettagli minori o inosservati, che qui sfrutterò per illuminare l’opera di Guidi. Nel contesto della fotografia di luoghi o paesaggi, a partire dagli anni Novanta la rinnovata attenzione per il cosiddetto marginale o vernacolare va di pari passo a quella per le aree di riqualificazione. Ciò si riscontra ad esempio in due opere a cui Guidi partecipa a fianco di altri fotografi: il progetto Venezia Marghera, sul polo industriale dismesso che Guidi fotografa a partire dal 1983, e l’importante commissione Archivio dello spazio, coordinata da Achille Sacconi e Roberta Valtorta, che coinvolge cinquantotto fotografi in circa duecento campagne fotografiche per documentare aree periferiche del milanese, a cui Guidi contribuisce con circa duecento fotografie . Se la fotografia italiana del dopoguerra si è spesso definita rispetto all’iconografia ufficiale e monumentale della Bell’Italia, l’approccio di Guidi si pone fin dagli anni Settanta in controtendenza a una tradizione aulica, seppur sempre nel rispetto dei canoni artistici, e in linea con la lezione di Walker Evans di «rinuncia alla bellezza» e «democraticità» dello sguardo, e con l’approccio distaccato dei nuovi topografi al vernacolare e al quotidiano. Questa visione emerge nel suo insistito prediligere luoghi non-iconici o qualsiasi, scarti postindustriali da recuperare all’abbandono, spostando l’attenzione dal soggetto classico e dagli edifici nella fotografia architettonica a oggetti minimi, e mettendo in luce l’alienazione o scomparsa del soggetto moderno, come nel cinema di Antonioni, di cui Guidi ammette una forte influenza. A livello formale, il posizionarsi in controtendenza di Guidi emerge nel suo sforzo di riscrivere la veduta prospettica, quale matrice della fotografia – secondo Guidi troppo «classica, centrale» in Ghirri e «troppo monumentale» in Basilico e nella determinazione a adottare piuttosto una veduta laterale, accidentale, su luoghi anonimi. Questo spostamento di attenzione dall’iconico all’anonimo è iscrivibile in un cambiamento di sensibilità verso il paesaggio che ha luogo negli anni Ottanta in varie arti e discipline, e che fa eco alla ridefinizione del paesaggio nel dopoguerra da «bellezze panoramiche considerate come quadri» (Legge Bottai, 1939), all’«aspetto estetico del territorio, di qualsiasi territorio» (Legge Galasso, 1985). In questo contesto propongo di leggere la fotografia di Guidi e la sua attenzione neofenomenologica ai cosiddetti luoghi qualsiasi o paesaggi interstiziali, come tentativo di riscrivere la fotografia quale “conoscenza accidentale” che parte dagli scarti, dai dettagli, in linea con la lezione di filosofi e storici dell’arte quali Georges Didi-Huberman e Daniel Arasse, come pure del già citato paradigma indiziario di Carlo Ginzburg, per cui dettagli inosservati diventano essenziali alla nostra interpretazione. Nell’analizzare alcune fotografie tratte da una delle prime serie di Guidi, Facciate, altre scattate a Ronta e pubblicate nel volume-catalogo Cinque paesaggi. 1983-1993, e altre ancora raccolte, come Facciate, in Veramente, prima monografia dell’artista, intendo mostrare come Guidi usi la prospettiva accidentale e il focus su dettagli di luoghi qualsiasi per «attivare la nostra capacità percettiva», spostandosi dal “soggetto” al marginale, che per Guidi è degno di essere fotografato come soggetto in sé, semplicemente in quanto esiste. In una recente intervista con Laura Gasparini, pubblicata nel volume Walker Evans Italia, oltre a Paul Strand, Guidi riconosce il profondo debito nei confronti di Evans, come molti fotografi suoi coetanei, per l’approccio alla fotografia come mezzo per «fare esperienza attraverso un “processo” di conoscenza», per la capacità di nascondere la propria arte e la «necessità di rendere trascendente ogni soggetto» tratti che Guidi fa propri. Pur nel riconoscere la lezione di Evans sulla sua prima serie, Facciate, del 1971-1972, Guidi si distanzia dalla visione frontale che vede come «assoluta, perentoria, sicura di sé», «unica», visto che «di vedute frontali ce n’è solo una», e quindi limitata, più povera di informazioni, rispetto a una «visione laterale», come Guidi definisce la propria fotografia, in quanto tesa a riprendere tanti “momenti decisivi” e non uno solo come nell’erronea traduzione del noto libro di Cartier-Bresson. Tale approccio pone la fotografia non come reperto documentario, ma come apparenza (un altro significato di facciata), come «dubbio reiterato», nelle parole di Paolo Costantini che Guidi fa proprie, come durata e processo infinito di apprendimento a vedere degli scarti. Nell’intervista con Gasparini, Guidi cita la fotografia di Evans intitolata School with separate bells, Alabama 1936 come esempio di «frontalità leggermente dissimulata», in quanto la macchina fotografica è posizionata frontalmente ma leggermente a sinistra e include sia la scuola che le campane alla sua sinistra. Se confrontiamo questa immagine con la fotografia di Guidi Fosso Ghiaia, Ravenna, 1972, nella serie Facciate, constatiamo come nel prediligere un’architettura vernacolare fin dagli anni Settanta Guidi sceglie una prospettiva accidentale, sottolineata in quest’immagine dalle linee diagonali delle ombre sotto il tetto e dalle linee in primo piano. Non meno importante è la densità di materiali di scarto inclusi da Guidi in primo piano, che attirano la nostra attenzione quanto la scuola, in linea con la lezione di John Szarkowski secondo cui, come ci ricorda Guidi stesso, «una fotografia inizia dal bordo e non dal centro» e con la lettura delle macchie di colore offerta da Didi-Huberman. Nelle fotografie di Guidi, ottenute da negativo di grande formato e stampate a contatto (tranne nei casi in cui il negativo sia di formato inferiore), il rapporto di stampa 1:1 permette di ottenere una qualità ottica del tutto particolare. In essa si addensa una grande quantità di «minuti particolari», agglutinando quella che Daniel Arasse, nel suo magistrale volume Il dettaglio, che Guidi ha molto frequentato, ha definito una «folla di sensazioni». Dobbiamo tuttavia notare come gli stessi «minuti particolari» non coincidano esclusivamente con l’iper-realismo garantito dalla precisione ottica dell’apparecchiatura fotografica, ma facciano piuttosto ricorso alla retorica dello «sguardo da vicino» dello spettatore. È lo stesso Arasse del resto a fornire questa interpretazione, ricordando le parole di Klee secondo le quali in questo avvicinamento all’opera pittorica avviene un qualcosa d’imprevisto e liberatorio, poiché la «superficie vibra» del 2007. Sulla superficie fotografica è spesso il dettaglio ad attirare lo spettatore, facendolo letteralmente impigliare. Ma è solo tramite l’avvicinamento che lo spettatore può fare un’esperienza particolare del dettaglio. Perché questo abbia luogo, non possiamo che supporre di trovarci di fronte a una superficie che ricorda quella che Klee aveva definito nel suo Punkt und Linie zu Fläche (1926) come «Grundfläche» e che nell’edizione italiana del 1984 è stata tradotta come «superficie fondamentale»: una superficie concreta, nella sua materialità, destinata ad accogliere il contenuto dell’opera in un modo sinergico e, in quanto tale, vibrante. Il tema della vibrazione, rimanda poi alle apparenze con le quali la fotografia sempre si misura e a quanto ha scritto Maurice Merleau-Ponty, autore ampiamente letto da Guidi, nel testo dedicato al Dubbio di Cézanne: Il pittore riprende e converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose. La ‘vibrazione delle apparenze’ è quanto viene trasferito nel piano della superficie fotografica, dove Guidi conduce a mio parere una sperimentazione linguistica particolare sul tema del dettaglio. Esso possiede la specifica qualità di essere antirivelatore: attira lo «sguardo da vicino», facendo avvicinare lo spettatore, e sebbene offra un supplemento visivo, la sua funzione non è quella di fornire un’aggiunta di senso, un particolare aneddotico o rivelatore, non spiega e non scioglie l’enigma della fotografia difficile non pensare a quanto scrive Anedda 2009: «Il dettaglio è isola del quadro. Per vedere meglio dobbiamo trasgredire lo spazio, abolire ogni distanza ragionevole». Il tema del dettaglio è perlustrato da Guidi principalmente attraverso due modalità. La prima riguarda un dettaglio visivo che agisce sulla superficie fotografica, lucida e vibrante. Qui Guidi può ricorrere a strategie che accrescono la visibilità dei dettagli visivi. Ad esempio con ‘sgrammaticature’ sul piano della messa a fuoco che, tramite basculaggio, risulta non parallelo al piano pellicola ma articolato lungo una diagonale, restituendo la sensazione visiva di una disarticolazione prospettica. Queste strategie figurative coinvolgono lo spettatore nella visione attraverso il riconoscimento del dettaglio che contemporaneamente, negando la propria funzione rivelatrice, non indica che il tema della visione stessa. In questo iato fra l’eccesso di vista e la mancanza di una denotazione e di un significato immediatamente decodificabili, Guidi individua una soglia fra il visibile affermando la relatività delle apparenze visibili e l’invisibile (che si manifesta attraverso esse), la cui ricerca è sempre precipua nella sua opera. La seconda modalità è una strategia che Guidi utilizza sin dalle prime opere, negli anni Settanta, in cui lavora sul nodo fotografie-testi-segni. Essa si presenta in relazione al codice verbale e segnico, in forma di testi e linee spesso collocati ai margini del frame fotografico, ma fortemente imbricati con l’immagine e il codice figurativo. In particolare, è la materia testuale che si eleva a dettaglio nel momento in cui, come il dettaglio stesso, appare affrancata dall’imposizione di rivelare un supplemento di senso o svelare un significato. Non si tratta più, pertanto, di un dettaglio sul piano figurativo del realismo o dell’iperrealismo fotografico, realizzato al momento della ripresa, poiché la sua evidenza si manifesta nel processo successivo alla stampa anche se prende corpo sul piano della superficie fotografica. E, in effetti, la superficie assume nell’opera di Guidi il valore di uno spazio tensivo, perché è qui che i valori del realismo dell’immagine, nella sua traduzione bidimensionale dello spazio tridimensionale, possono confliggere, anzi possono essere posti in conflitto dall’autore quasi con un colpo di teatro, rivelando la loro contraddizione. È proprio il piano della superficie fotografica a offrirsi come una nuova tabula rasa su cui sottoporre a verifica un antico nodo, che nella sua opera si presenta come un vero e proprio «plesso concettuale», accogliendo una definizione di Andrea Pinotti per il vasto campo dei verba picta (2018). Questo plesso è costituito dalla relazione dell’immagine fotografica con la materia testuale e grafica, in forma di parole, cifre e segni grafici apposti a matita, a inchiostro o china, o matita grassa litografica. Nell’opera di Guido Guidi testi, parole e cifre, si presentano su due piani. Su un piano prettamente figurativo, partecipano all’immagine come nella fotografia intitolata Senza titolo nella copertina di Veramente (2014) nella forma di scritte sui muri, cartelloni stradali, brandelli di giornali e altri frammenti testuali ritrovati negli spazi pubblici. Mentre sul piano extra-figurativo troviamo una materia testuale complessa, che comprende parole, lettere, numeri e anche i segni come le linee, a cui assegna un particolare valore iconico e un potere anti-iconico. La materia testuale compare più frequentemente ai bordi del frame dell’immagine, in quella periferia dove il senso della fotografia è affidato alle parole che ne guidano la lettura o la dinegano con l’ostinazione muta delle titolazioni Senza titolo. Guidi in questa periferia inserisce parole e numeri, ma li sottopone a processi di abrasione che esplorano un limite-tabù: quello dell’illeggibilità del tratto, spingendosi fino alla sua pressoché totale irriconoscibilità e cancellazione. Parole e numeri vengono de-intensificati fino a renderli appena riconoscibili, quanto basta per mantenere viva la loro possibilità di erogare un senso, se non di funzionare come didascalie. Ma, di fatto, i segni linguistici si dichiarano illeggibili, non decodificabili, incapaci a comunicare il senso, o anche solo il titolo della fotografia o la sua posizione espressa in cifre nella serie. Di essi, talvolta, rimangono solo le vestigia in forma di vaghi segni fantasmatici, che sembrano invitare lo spettatore a proiettare i propri desideri e fantasie. Questo processo di disinnescamento del segno e del senso della materia testuale, che fa irruzione ai bordi dell’immagine, provoca il cortocircuito fra il visivo e il testuale. È pertanto soprattutto il lavoro sul segno linguistico che permette a Guidi di lavorare sul significato dell’immagine fotografica, d’accordo con Merleau-Ponty, per il quale «come la parola non assomiglia a quel che designa, la pittura non è un’illusione» (2016). Cancellazioni e abrasioni di parole, cifre e linee, nel momento in cui sembrano far deflagrare il loro significato, che entra in collisione con quello dell’immagine fotografica, diventano operazioni primarie in grado di mostrare il farsi e disfarsi del processo creativo e, sottolineando le fasi del processo stesso, mettono in luce il valore del tempo e il valore relativo della fotografia come immagine delle apparenze. Nei due decenni in cui Guidi conduce maggiormente queste sperimentazioni, fra gli anni Settanta e Ottanta, la sua opera si misura con il tema della fotografia documentaria e con quello della sua veridicità anche attraverso opere meta-documentarie in cui l’oggetto è un documento vero e proprio, come un documento d’identità. Oppure il valore documentario della fotografia è affermato attraverso il ricorso a pratiche d’iscrizione che ricordano le pratiche d’archivio burocratiche, come l’uso di timbri a inchiostro recanti la data e il suo nome. Il timbro, spesso ripetuto, reso parzialmente leggibile perché trascinato o inserito fra la fotografia e la cornice, ha una funzione particolare. Soprattutto nelle serie dei primi anni Settanta, quando lo ritroviamo apposto sotto fotografie che sono state virate al tono seppia, che nella cultura visiva comune è sinonimo di antico. Anche se in questi casi si tratta di un antico artefatto, la cui funzione è quella di rimettere al centro sia il tema del tempo sia quello della veridicità dello stesso nella fotografia. Tramite le operazioni con la materia testuale Guidi trasforma il piano bidimensionale della fotografia in una «superficie fondamentale» che si espande oltre il perimetro dell’immagine per ricomprendere e attivare il valore dei bordi. Parole e numeri si collocano «al di sopra», «al di sotto», «a sinistra» e «a destra» dell’immagine (Klee 1984), nella stessa materia fotografica dove si stagliano con precisione geometrica i bordi della stessa. In quel bianco intonso del margine, che è ancora muta materia fotografica, dove la luce non è giunta, il segno della mano irrompe. Manifestandosi e negandosi, trasformandosi in materia iconica, introduce una sensibile effrazione di senso. Nell’opera degli anni Settanta e Ottanta di Guidi le parole e i segni costituiscono pertanto coppie di poli opposti all’immagine. Punti opposti di un incessante movimento, fra immagine e testo, fra testo e segno, fra segno e immagine, fra interno figurativo ed esterno testuale, fra interno figurativo ed esterno segnico, fra comprensione e intelligibilità, come nella sperimentazione dell’alfabeto dei segni dell’esistenza di Klee e nel suo riflesso nelle esperienze di Cy Twombly. Si tratta di punti opposti che con questo movimento stabiliscono una distanza fra il frame della fotografia, che isola e blocca un frammento spazio-temporale, e la materia testuale e segnica come indice della dimensione mobile e incerta dell’uomo nel mondo. Una distanza che intercorre fra il vecchio adagio ottocentesco di quel rapporto mimetico e quasi perfetto, sempre promesso dalla fotografia che restituisce un senso ottuso del reale, e l’abbandono trascinato del gesto della mano dell’uomo nel segno collocato ai margini della fotografia. Un gesto che parole e numeri redige, per poi confonderne il segno e denunciarne l’erosione di significato fino all’annullamento. In quel bilico che cogliamo nella trasmutazione fra segno linguistico e forma, il testo assume il ruolo di dettaglio: attira l’attenzione dello spettatore, lo compiace con la promessa di offrire un codice leggibile dell’immagine e, negando lo stesso, disattende le aspettative. Quel «movimento continuo e graduale» di cui scrive Paul Klee (1984 ), ruota attorno a un punto fermo e centrale. Punto che Guidi problematizza e interroga con uno sguardo ostinato sul reale. L’accenno a Klee è d’obbligo per i numerosi riferimenti fatti da Guidi sin dagli anni della formazione, forse proprio perché Klee aveva affermato e dimostrato l’autonomia dell’immagine scrivendo che la realtà dell’arte «con gli adeguati mezzi figurativi» può portare «a esistenza visibile un ente che per la prima volta viene al mondo attualizzandosi in quella figura». Mentre la materia testuale si fa incerta, a volte addirittura si sfalda nel segno, l’immagine sembra resistere salda e argentica, nella sua forma rettangolare o quadrata. Guidi rinuncia alla precisione del segno grafico, pur dominando la materia, lui che si è formato in ambito artistico, grafico e architettonico, o quanto meno la interroga, la mette in relazione alla precisione della fotografia per contrapporla alla veridicità. In tutti i casi in cui Guidi lavora con la materia testuale e segnica, dentro l’immagine, ai suoi bordi o secondo entrambe le modalità, il suo lavoro si compie sulla fotografia, smentendo la significazione primaria e culturale del significato riferibile al referente reale e alla mimesis, tramite un lavorio continuo che la ri-significa, tanto che potremmo parlare di un incessante «duplice esercizio» sulla materia testuale, segnica e figurativa, prendendo a prestito le parole che Emilio Villa aveva impiegato per l’opera del poeta visivo Luciano Caruso .Le prime due fotografie, collocate dopo la pagina di guardia prima del frontespizio, presentandosi sulla doppia pagina aperta, annunciano subito la specificità del fotolibro ‘Varianti’ . Ai loro bordi vediamo segni manuali a matita, testi cancellati e un lavoro sui margini dell’immagine fotografica. Il cartoncino d’invito alla mostra presenta la fotografia della pagina destra. I dettagli che ci vengono incontro sono collocati ai margini dell’immagine e in essa agiscono, assieme al titolo della mostra e al timbro a inchiostro con il nome dell’autore che, di sbieco, invade il bordo inferiore dell’immagine. La questione del margine per Guidi ci rimanda necessariamente al tema della modernità in pittura, come nel caso di Manet, il classico moderno, così come commentato da Michel Foucault, per il quale l’ékphrasis ci sposta a esplorare i bordi del quadro, fino a compierne il giro e trovare il verso . Per Guidi, al pari, il margine rappresenta una possibilità di significare l’immagine, è una zona da attivare per fare agire la fotografia nel tempo. Essa si attiva nello spazio di un bordo per collaborare a definire i valori della «superficie fondamentale» (Klee 1984). Nelle due fotografie prima del frontespizio di Varianti, siamo di fronte a una variatio della fotografia stessa, tanto che la singola immagine viene riquadrata a matita grassa, ma sempre entro lo spazio argentico non impressionato in fase di stampa, ove risiede ancora la possibilità di essere/diventare fotografia. In questo caso Guidi inventa o solo ipotizza un orizzonte all’immagine che ne è sprovvista, che ha la capacità di elevare in potenza la forma-fotografia: il segno indica il taglio, il taglio è metafotografico, parla ancora di fotografia come gesto, come scelta. Il percorso espositivo si apre con la serie Preganziol, manifesto del pensiero, seguito dalla video installazione realizzata da Alessandro Toscano durante le fasi preparatorie della mostra: un’interpretazione visiva dell’universo creativo e materiale di Guidi raccontato attraverso la casa-studio-archivio di Ronta di Cesena. Il percorso si dispiega poi come un lungo “leporello”, articolato in 5 sezioni che presentano 40 sequenze fotografiche definite dallo stesso Guidi: dal precoce interesse per la fotografia a metà degli anni Cinquanta alle serie degli anni Settanta, in cui prosegue la sua sperimentazione sul mezzo e sul linguaggio, lungo due linee di ricerca. Per un verso Guidi fotografa con apparecchi di piccolo formato il proprio microcosmo personale, per l’altro, influenzato anche da Walker Evans, avvia la sua indagine sul tema della facciata soffermandosi sull’edilizia ordinaria della provincia. Nel corso degli anni Ottanta e oltre Guidi privilegia poi l’uso del medio e grande formato e lavora sempre più sistematicamente con il colore mentre, a partire dai dintorni di Cesena, la sua geografia si amplia: dalla Romagna alla Via Emilia al resto dell’Italia, fino a progetti internazionali come il viaggio lungo la strada B1 in Europa. Una sezione dedicata all’architettura e all’urbanistica sottolinea come Guidi abbia affrontato anche la ricerca dei maestri «nella modalità dell’apprendere, cercando di entrare nel processo mentale dell’architetto». Di particolare interesse qui è il progetto dedicato a Carlo Scarpa, con il quale Guidi documenta con sensibilità unica la Tomba Brion, cogliendo configurazioni di materia e luce che riflettono il pensiero dell’architetto. L’ultima parte della mostra ritorna significativamente all’archivio, inteso come un’officina, un luogo di ricerca, di lavoro e anche di incontro per colleghi e autori più giovani. Concludono il percorso le serie Raccolta indifferenziata, assemblata da Guidi in occasione di questa mostra, e In Archivio, realizzata nel 2024 su incarico del MAXXI, sono le testimonianze più recenti della visione radicale e coerente con cui Guidi ha celebrato nel corso di sessant’anni il “pensiero” della fotografia. Le sequenze a parete dialogano con i materiali di approfondimento presentati una serie di teche tematiche. A introdurre il visitatore in mostra è una lunga panca-libreria che affronta il rapporto di Guidi con l’oggetto libro, attraverso una selezione di volumi dalla sua biblioteca nonché libri d’autore sfogliabili dai visitatori. Si prosegue poi con alcune “esercitazioni d grammatica della fotografia” degli anni Settanta, con lo studio di maestri come Walker Evans e Carlo Scarpa approfondito attraverso preziosi quaderni manoscritti, con le riflessioni intorno alla macchina fotografica come strumento dotato di una propria “intelligenza”, per arrivare al tema dell’insegnamento, in cui le lezioni di Guidi si configurano come liberi percorsi di senso attraverso le immagini, accompagnate da analisi formali e ipotesi di letture iconografiche, commenti e citazioni, in cui il fotografo esplicita il funzionamento dei temi visivi a lui cari. Al CCA è stato poi proposto di raccontare il rapporto dell’istituzione di Montreal con Guido Guidi, mentre l’ICCD di Roma, attraverso un caso di studio, affronta il tema dell’archivio fotografico in una pratica artistica che si sviluppa attraverso una riflessione continua su metodo e linguaggio. La mostra offre l’occasione di realizzare un’ampia pubblicazione su Guido Guidi che presenta i principali lavori dell’autore raccontati in mostra e qui approfonditi da testi curatoriali e saggi critici. Il libro, realizzato dall’editore MACK in collaborazione con il Museo MAXXI, rappresenta un importante strumento di studio e avvicinamento al lavoro del fotografo cesenate.
Biografia di Guido Guidi
E’ un pioniere della nuova fotografia Italiana di paesaggio. Allievo, tra gli altri, di Italo Zannier, comincia a sperimentare alla fine degli anni Sessanta l’obiettività della fotografia attraverso immagini di “stile documentario” e concentra il suo lavoro sull’indagine del significato stesso della pratica del guardare. Influenzato dal cinema Neorealista e dall’arte Concettuale, negli anni Settanta inizia a esplorare i paesaggi dell’Italia modificati dall’uomo e indirizza la sua attenzione sugli spazi marginali e anti-spettacolari della provincia italiana. In seguito, la sua ricerca si allarga all’architettura modernista, di cui documenta la vita e la morte attraverso progetti sulle opere di Carlo Scarpa, Ludwig Mies van der Rohe e Le Corbusier. Dalla fine degli anni Ottanta si dedica anche all’insegnamento presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna, l’ISIA di Urbino e lo IUAV di Venezia (dove in precedenza aveva studiato architettura). I lavori di Guido Guidi sono stati esposti in prestigiosi musei di fotografia e arte contemporanea di tutto il mondo – tra cui il Fotomuseum Winterthur, il Guggenheim e il Whitney Museum di New York, il Centre Pompidou di Parigi, La Biennale di Venezia, il MAXXI e Palazzo Barberini di Roma, la Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi, il museo Huis Marseille di Amsterdam, l’ICCD di Roma, la Fondation A Stichting di Bruxelles – e sono stati oggetto di numerose pubblicazioni collettive e personali. Inoltre, numerose sue opere fanno parte di collezioni di istituzioni italiane e internazionali, quali, la Bibliothèque Nationale e il Centre Georges Pompidou a Parigi, il Centro Studi e l’ Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino, l’ICCD di Roma, la Fondation A Stichting di Bruxelles, la Galleria Nazionale di Arti Estetiche a Pechino, il Canadian Centre for Architecture di Montreal e il San Francisco Museum of Modern Art.
Museo Maxxi di Roma
Guido Guidi. Col Tempo
dal 13 Dicembre 2024 al 20 Aprile 2025
dal Martedì alla Venerdì dalle ore 11.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 11.00 alle ore 20.00
Lunedì Chiuso
Guido Guidi. Col Tempo 1956-2024 Foto © Musacchio, Pasqualini & Fucilla / MUSA , courtesy Fondazione MAXXI.