Le scienze naturali hanno da tempo riconosciuto che le piante possiedono composti chimici con proprietà terapeutiche che le popolazioni umane hanno iniziato a usare prima che la nostra specie, Homo sapiens, conquistasse l’intero Pianeta. Ciò che, però, ha sorpreso gli scienziati negli ultimi quaranta anni è stato scoprire che anche gli animali selvatici ricorrono a queste risorse per trattare le malattie e che anche loro sono in grado di individuare un principio attivo (una sostanza chimica alla base delle capacità curative di un medicinale – Ndr) in grado di contrastare un male. Insomma, anche gli animali sanno il fatto loro, e non sembra essere solo una questione di apprendimento, ma frutto di comportamenti ormai «fissati» a livello genetico. Dalle scimmie che utilizzano apposite foglie per calmare il dolore alle formiche che sfruttano la resina degli abeti per proteggersi da parassiti, davvero sembra che ci sia un’inesauribile collezione di «farmaci naturali» a disposizione delle specie che li sanno sfruttare. È il campo della «zoofarmacognosia», lo studio delle pratiche che gli animali usano per curarsi da soli. Le scimmie, come ci si può aspettare, hanno messo a punto le procedure mediche più sofisticate. Nelle foreste tropicali, infatti, i primati si trovano a dover affrontare pericolose infezioni dell’intestino causate da parassiti, quasi sempre microscopici vermi, che vengono ingeriti con il cibo e possono causare forti mal di pancia. Gli scimpanzé (Pan troglodytes) hanno trattamenti specifici contro questi «invasori»: li eliminano assumendo Aspilia, una pianta con grandi foglie rivestite da una peluria che rimuove una parte degli organismi dannosi attaccati alle pareti dell’intestino. Trascorrono una parte della giornata a ingerire le foglie intere, piegandole tra la lingua e il palato e stando ben attenti a non masticare, in modo che raggiungano intere il tratto digerente. In Tanzania queste scimmie utilizzano anche un piccolo albero, Vernonia amygdalina, come antiparassitario, proprio come noi prendiamo uno sciroppo curativo. Prelevano le foglie per succhiarne la linfa, che è efficace contro le infezioni intestinali. La sostanza è tossica per i primati, ma se viene assunta in ridotte quantità non risulta dannosa ed elimina un buon numero di parassiti. Negli escrementi delle scimmie che hanno fatto il trattamento, infatti, la quantità di vermi è molto modesta. Questi comportamenti così speciali sono appresi e spesso molto localizzati: piccoli gruppi di scimpanzé si tramandano l’uso delle piante medicinali di generazione in generazione, esattamente come faremmo noi. Spesso le popolazioni umane che vivono nella stessa area e abbracciano uno stile di vita primitivo impiegano quei vegetali per curarsi ed è facile immaginare che in alcuni casi abbiano imparato proprio osservando questi primati. In generale gli scimpanzé utilizzano più di una trentina di piante curative che cambiano secondo i luoghi dove vivono. Alcune segnalazioni sembrano suggerire che questi primati e i gorilla ricorrano anche a impacchi curativi sulle ferite, applicando cioè parti di piante, trattate o masticate, sulle piaghe aperte per favorire la guarigione, ma mancano indicazioni precise. Un caso molto recente, reso pubblico nel 2017, riguarda alcuni oranghi del Borneo (Pongo pygmaeus), i quali applicano sulla pelle un impasto di una pianta (Dracena cantleyi) mescolato con la saliva. Sembra la utilizzino per ridurre le infiammazioni dei muscoli, prodotte da un eccessivo sforzo, proprio come fanno alcune popolazioni del Borneo, che forse potrebbero avere preso spunto proprio dai primati.
Franco Tomasinelli