Govanni Cardone
Fino al 2 Giugno 2025 si potrà ammirare a Forte Bard Aosta la mostra dedicata ad Emilio Vedova – Emilio Vedova. Questa è Pittura a cura di Gabriella Belli. L’esposizione è promossa dall’Associazione Forte di Bard in collaborazione con 24 Ore Cultura e Fondazione Emilio e Annabianca Vedova. Il progetto vuole presentare l’opera di Vedova nella sua valenza pittorica, sfuggendo da ogni tentazione di lettura dettagliatamente storica o socio-politica, per indirizzare lo sguardo verso l’eccellenza della sua pittura, che sempre stupisce per la folgorazione del colore e la vitalità della sua materia, espressione tra le più alte dell’Informale europeo. Emilio Vedova è stato uno degli artisti d’avanguardia più influenti del ’900. Libero, dissidente, curioso e ribelle, ha tradotto nelle sue opere il suo impegno civile. Un intreccio per certi aspetti indissolubile che restituisce il profilo di un artista di altissimo talento e nello stesso tempo di una rara capacità d’essere dentro il farsi della storia. Difficile distinguere in lui il punto di caduta tra il suo essere uomo di militanza civile e il suo essere un grande pittore. La mostra presenta 31 grandi dipinti e 22 opere su carta dell’artista veneziano, per la maggior parte prestate dalla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova. Una decina di opere sono in prestito da prestigiose collezioni pubbliche italiane come il Comune di Firenze – Musei civici fiorentini, la Peggy Guggenheim Collectiondi Venezia, il Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, e da alcune collezioni private. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Emilio Vedova apro il mio saggio dicendo : Potrebbe sembrare oziosa la ragione per cui ho pensato forse, di mutare la datazione tradizionale del periodo artistico più recente , che parte in genere dal secondo dopoguerra, cioè dal 1945: considerando quindi gli anni delle guerra quasi una coda, o una logica conseguenza degli sviluppi del decennio precedente, se non, quasi, un’interruzione nel flusso degli eventi artistici. Se in parte sono vere tutte e tre queste cose , è anche vero che per ragioni magari contingenti, il periodo bellico, più ancora della vittoria finale americana, è stato quello che ha determinato lo spostamento della capitale internazionale dell’arte da Parigi a New York ed ha rappresentato un importante momento di incubazione di esperienze che sono esplose nel periodo immediatamente successivo, come la grande fase internazionale dell’ Informale. In questo periodo siamo nei primi anni quaranta dove un gruppo di artisti e fotografi europei andarono in esilio in America ed in particolar modo a New York . Da tante fotografie dell’epoca si evince che erano di nazionalità francese iniziando dal capo storico del Surrealismo Andrè Breton , gli artisti Masson , Tanguy , Ernest, Duchamp e Matta tra loro è presente anche Piet Mondrian che avrebbe vissuto gli ultimi anni nella città di New York lascandovi l’eredità della sua complessa speculazione sullo spazio e sulla superficie pittorica. Inoltre erano tornati in America anche come emigranti altri esponenti della cultura surrel-dada , oppure astratta e costruttovista , come Man Ray, Laslò Monholy – Nagy, e Hans Hofmann, un artista tedesco sottovalutato ma che la sua influenza fu determinante per la nuova generazione degli artisti americani. Altri artisti arrivarono in America come l’armeno Gorky e l’olandase De Koorning ma nel contempo molti di loro furono influenzati anche da Mirò, Picasso ed arrivarono anche gli echi di Kandiskij. Ecco perché nasce il dripping grazie al giovane Pollock, egli fu influenzato in parte dai colori di Marx Ernest. Bisognerà attendere il 1947 prima che questo procedimento diventi per lui abituale, con le dirompenti conseguenze che lo hanno reso celebre . Definiamo con il termine onnicomprensivo di ‘Informale’ tutta una serie di esperienze verificatesi negli Stati Uniti e in Europa tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni sessanta. E’evidente che, nello spazio di tempo di un quindicennio , in una situazione tanto articolata e vasta quanto quella intercontinentale presa in esame, non ha quasi senso parlare di ‘un’ solo ‘movimento artistico’ ; ed evidente che le sfaccettature sono tante e molteplici da risultare in alcuni casi incomprensibili tra loro. Dobbiamo pensare che in questo periodo vennero battezzate numerose etichette che solo oggi comprendiamo lo stesso temine: Action Painting e Abstract Expressionism in America , ovvero: ‘Pittura Materica o gestuale’ in Italia ‘Tachisme’ in Francia ecc….E’ ovvio in questo senso , che non solo il termine ‘Informale’ , come verrà qui usato , ha un suo valore ‘riassuntivo’ rispetto a queste esperienze diverse limitiamoci per ora a constatare delle differenze che sono solo fondamentalmente di orientamento e di scelta puramente formale dividendo tra gestuale , materica e segnica . Possiamo dire che l’Informale risolve il suo approccio all’arte apparentemente in modo formale con un ritorno al quadro, alla pittura, e alla scultura. Questo ritorno alla pittura consiste quindi nel coprire la superficie della tela con materie colorate questa distinzione tradizionale tra fondo e figura e tra forma e spazio che era sopravvissuta in linea di massima in ogni caso tutto è cambiato c’è quasi un’aggressione al quadro ed inoltre la pittura ‘veloce’ come l’informale richiedeva una trasformazione tra ‘forma e dinamica’ tutto diviene un movimento tralasciando la staticità che c’era nella tradizione astratta. La pittura è un’attività ‘autografica’ , quindi quasi una ‘scrittura’ , privata del pittore , determinata nel tempo ( che coincide col tempo, in genere veloce , di esecuzione del quadro ) , una pulsione interna che viene espressa attraverso il gesto oppure attraverso una sequenza di gesti. Alla base c’è il gesto questa è la novità della nuova ‘pittura’ che si evince in primis dal gesto, ma anche dal concetto di ‘improvvisazione’ come avviene anche nella musica ‘jazz’. Poiché la superficie del dipinto si presenta come un insieme in cui non sono realmente distinguibili figura e sfondo , il disegno, quando compare , non si presenta come contorno di una campitura ben delineata , ma come ‘struttura di segni’, che innerva la superficie del dipinto , così come il colore non riempie nessuna forma, ma si contrappone liberamente ad altri colori , facendosi esso stesso disegno , figura’, o superficie , o tutte e tre le cose contemporamente. In effetti tutti i residui di illusionismo spaziale che è dato di cogliere sono dovuti alla libera contrapposizione dei colori tra loro. Dato che la superficie è alla base del nuovo percorso comunicativo dell’artista e nel contempo si denota una differenza tra l’astrazione e la pittura informale alla base, c’è un linguaggio lirico di ascendenza espressionista. Negli Stati Uniti si inizia ha definire un tipo di pittura ‘Espressionismo astratto’ , come quella di De Kooning che cerca di percorrere sia il linguaggio figurativo e astratto la stessa cosa avviene in Europa dove si afferma il gesto e l’improvvisazione. Molti sono gli esempi l’informale figurativo è una pittura che procede con larghe stesure di superficie , in cui il disegno interviene spesso come una struttura ulteriore , che ricopre la superficie ‘a griglia’ . La gabbia dei segni non è necessariamente astratta , pur opponendosi alla nozione di ‘forma’ . Anche la linea paradossalmente si fa superficie. Appaiono quindi , a volto, delle ‘figure’ : quasi dei graffiti infantili, come nei quadri di Dubuffet , di De Kooning e di Antonio Saura. La seconda Guerra Mondiale porta un mutamento all’interno dell’arte, perché l’arte non è indifferente alla storia degli uomini. Mutamento che riguarda soprattutto la fiducia nel progresso e nella scienza che ha portato alla bomba di Hiroshima, con una conseguente idea di sfiducia nella possibilità di riscatto per la razza umana e di sfiducia nel futuro. La scienza non è sempre evoluzione, ma può essere anche morte e distruzione, può portare una idea di futuro radioso o disastroso. Basti pensare a tutto il periodo della guerra fredda, all’ipotizzato futuro pieno di alieni comunisti, basti pensare alla nascita dell’esistenzialismo di Sartre (che tanta influenza ha nel cinema, nel teatro ed in molte manifestazioni dell’arte), con il suo senso del tragico, con una idea di impotenza rispetto ad un mondo che sta andando verso distruzione e depressione. E’ un mutamento negativo, ma non rassegnato né depresso: c’è una ricerca di nuove forme espressive da parte degli artisti, che creano una via di uscita e si danno una possibilità attraverso la codificazione dell’Informale. ‘Informale’ è storicamente definita una tendenza più che una corrente o movimento dell’arte contemporanea che si distacca dalle forme artistiche delle precedenti avanguardie ed i cui attori, per risultati, caratteri e temperamenti del tutto imparagonabili e specifici, pongono in luce le ragioni esistenziali della propria ‘rivolta’ nelle singole poetiche meditative e vanno alla ricerca di un senso del ‘profondo’ con svariate tecniche, al di là delle apparenze nelle storiche modificazioni delle forme. Occorre comprendere una esatta definizione di ‘Informale’ anche attraverso una analisi delle premesse linguistiche, storiche e culturali che l’hanno caratterizzata, prima di tentare di tracciarne un percorso. Con il termine ‘Informale’ vengono indicati quegli artisti e quelle personalità che danno vita a movimenti che, dopo le avanguardie storiche ed il loro intrinseco formalismo (che caratterizzano l’arte fino al 1940-1945), riportano in luce in maniera certamente individuale il primato dell’espressione nelle arti figurative, centrando l’attenzione sulle tensioni gestuali, sul recupero di una immagine non necessariamente colta, ingenua, sul recupero della materia. Il termine viene indicato nel testo teorico di Michel Tapié ‘Un art autre’ del 1952 (illustrato da opere di Fautrier, Dubuffet, Wols, Soulages, Hofmann, Pollock, Francis e altri), testo che con chiarezza mette a fuoco le istanze fondamentali della ricerca di questa nuova dimensione ed entra in uso in Europa con riferimenti all’action painting ed all’espressionismo astratto americani, nonché alla pittura materica e all’ art brut. “Il problema – scrive Tapié – non consiste più nel sostituire un tema figurativo con una assenza di tema e cioè con l’arte cosiddetta astratta, non figurativa, non oggettiva, ma piuttosto nel creare un’opera, con o senza tema, davanti alla quale, qualunque sia l’aggressività o la banalità del contatto epidermico, ci si accorga a poco a poco che si perde terreno e che inesorabilmente si è chiamati ad entrare in uno stato di estasi o di demenza, perché uno dopo l’altro tutti i criteri tradizionali sono rimessi in causa; e tuttavia una tale opera porta in se stessa una proposta di avventura nel vero senso della parola, ossia qualche cosa è assolutamente sconosciuto di cui è impossibile predire l’esito futuro”.
Quel termine, informale, va a comprendere un’area che va a fare perno sulle individuali situazioni esistenziali di ciascun artista, come comune denominatore circa la soggettiva percezione rispetto ai tragici problemi del mondo in quegli anni. E’ il periodo dell’esistenzialismo di Jean Paul Sartre in cui è espresso uno stato d’animo di incombente scacco alla razionalità ed all’individuo. Comincia a circolare un senso di impotenza della coscienza nel cogliere ciò che è vissuto come se “…L’esistenza è un pieno che l’uomo non può abbandonare”, come indicato da J.P.Sartre nel suo libro La Nausea del 1938. Tale è una delle caratteristiche che si formano nella cultura europea di quegli anni. Ogni settore dell’arte e della cultura (filosofia, letteratura, cinema, musica, etc.) fin dai primi decenni del novecento viene invasa, in qualche modo, dalla percezione di incomunicabilità abissale che separa la vita dell’uomo dal concetto tradizionale di razionalità: l’impossibilità di comprendere la realtà da parte dell’uomo verso il reale stesso. Nella scena culturale più ampia di quel periodo storico, l’Informale non è un fenomeno isolato e relegato all’interno del mondo dell’arte visiva, ma è ovviamente collegato, congiuntamente alle problematiche filosofiche, esistenzialistiche e letterarie dell’epoca (Heidegger, Bachelard, Sartre, etc.), con le teorizzazioni degli anni Trenta di filosofi come Martin Heidegger , circa la scomparsa di punti di riferimento nella morale, sviluppata successivamente, come già accennato, come ‘filosofia della crisi’ dall’esistenzialismo di Jean Paul Sartre , e lo stesso Albert Camus nei suoi scritti, preso da profondo turbamento di fronte alla vita e dalla sua continua lotta contro ‘l’assurdo’ , contrassegna una idea filosofica atea e pessimista che ha largo assenso e seguito nell’Europa postbellica. In Italia, in ambito cinematografico, mentre il cinema hollywoodiano inizia ad esportare oltre oceano i propri divi come Marilyn Monroe e James Dean, vi è una grande vitalità con l’arrivo del Neorealismo ed il suo nuovo linguaggio politicamente e socialmente impegnato e che si avvale di uno stile semplice e diretto, scarno e incisivo per rappresentare la realtà del paese nel dopoguerra. Confronto con il dramma della guerra che va a toccare oltre che il campo della letteratura, con la sua poetica intrisa di angoscia esistenziale, anche la musica con i nuovi linguaggi del Jazz (Dizzy Gillespie, Miles Davis, John Coltrane) e del Rock and Roll (Elvis Presley e Bill Haley), provenienti dall’America e che molto vanno a significare soprattutto per la nuova cultura giovanile. Nel dopoguerra la scienza ha richiesto una profonda riflessione sul mondo, sulla possibilità che la scienza stessa possa essere portatrice di progresso o di morte (come la bomba atomica su Hiroshima). Consideriamo il pensiero francese, l’esistenzialismo di Sartre, come accennato appunto, con il suo senso del tragico, non metafisico di De Chirico, ma di incapacità nei confronti di un genere umano che sta imbattendosi nella sua devastazione, nella totale crisi per ciò che succede intorno. Gli artisti devono cercare una via d’uscita ed una di queste possibilità sarà l’Informale, cioè senza forma, la cosa che non parte da un’idea di formalità. Gli informali cominciano a pensare che la forma può essere altro rispetto alle catalogazioni precedenti. Nell’Informale viene messo tutto quanto, tutto ciò che in quegli anni non si può catalogare. Per quanto riguarda le premesse storiche e linguistiche specifiche, occorre in qualche modo risalire un po’ più al passato. Certamente, però, in concreto le premesse storiche più interessanti vanno ricercate dopo la crisi nell’arte figurativa durante tutto l’ottocento, dopo che si è cominciata ad affermare l’esigenza di nuovi linguaggi rispetto ai rispecchiamenti della forma e dell’immagine della figura iconica del passato, che approda alle proposte formali delle avanguardie storiche, dal cubismo al neoplasticismo. Negli anni 40-45 vengono superate le dicotomie ‘forma-contenuto’ da parte dei protagonisti dell’informale, negando il valore della compiutezza formale e ponendo l’accento su una sorta di continuità tra natura e coscienza, annullando i confini tra iconico e aniconico, immaginando la materia svincolata da simboli e stili e superando ogni questione stilistica e di linguaggio a partire dagli impressionisti e fino alle avanguardie storiche. Giulio Carlo Argan sostiene che gli artisti informali considerano come la fine di un linguaggio e di una civiltà le guerre e le rivoluzioni. Essi sentono la condizione dell’uomo non come un percorso limitato dal passato. Il passato perde la sua logicità nello sviluppo di una vita, qualora non esista una giusta collocazione della coscienza dell’uomo nel suo presente. Da questo nasce la consapevolezza del gesto espressivo come nuova pretesa di assolutezza morale e… “se questa non è un’arte d’avanguardia – conclude Argan – qualche volta tocca alle retroguardie decidere la sorte della battaglia” D’altronde, nel 1952, Michel Tapié, quando analizza l’area dell’ art autre o informel, sostiene che le opere degli informali si affermano al di là delle nozioni tradizionali di Forma, Bellezza, Spazio ed Estetica, concetti contro i quali si sono scontrate le opere dell’avanguardia. Le opere informali ignorano volutamente tali nozioni come se non fossero mai esistite, rimanendo del tutto indifferenti davanti ad esse. Come detto, il termine informale viene usato per la prima volta in Francia quasi specificamente riferito alle opere di artisti come Wols, Dubuffet, Fautrier ed altri e rispecchia perfettamente sia il tipo di tecniche usate dagli artisti, che la percezione visiva della totale distruzione di una qualsiasi forma geometrica o naturalistica, come segno di una diversa ontologia nell’arte. Nell’area delle arti figurative, quindi, le tragiche circostanze dei conflitti degli anni 30-40 sono alla base di importanti cambiamenti, in maniera complessa e problematica, per la completa crisi di sfiducia nelle teorie e metodologie su cui si fondano le precedenti ricerche, contraddistinte dalla volontà di totale trasformazione della visione del mondo, sia quelle più razionali di tipo ‘astratto-geometrico’ che meno di tipo ‘surrealista’. Le nuove consapevolezze del reale portano alla sola certezza del crollo del senso della continuità storica. L’uomo-artista è solo con sé stesso, con la sua individualità di fronte all’immanenza ‘esistenziale’, impossibilitato ad utilizzare l’esperienza come traccia progettuale fra soggetto ed oggetto. L’artista sente imporsi il presente nella propria coscienza, seppur inquietante e con la propria frammentarietà del contingente, ovvero il presente che preme con urgenza sulla ricerca di reazione estetica. Tutto questo, come già accennato, non contribuisce a far sì che vengano imposti tentativi di programmi e progetti, né singoli né di gruppo, andando a validare l’opera come fatto in sé, unico, come testimonianza creativa irripetibile. In quel clima culturale, in quel particolare momento storico, di crisi e di rinnovamento insieme, tale atteggiamento critico e creativo appare in genere, a mio parere, una delle chiavi di lettura dell’atteggiamento ‘informale’ rispetto all’affermazione dell’arte in quelle condizioni di emergenza. In quel clima culturale, politico, sociale, quindi, emergono in Europa le poetiche ‘informali’ di artisti come Fautrier, Hartung, Wols, Dubuffet, Michaux, Mathieu, Soulages, nonché Antoni Tàpies in Spagna e quelli nordeuropei del Gruppo CoBrA (tra cui Asger Jorn, Karel Happel, Pierre Alechinsky, Corneille, etc.).Nel panorama italiano troviamo Burri e Fontana, due, amici-nemici, che vanno a connotare una situazione artistica di grande interesse, nonché artisti componenti del ‘Gruppo Origine’ come Colla e Capogrossi e quelli del ‘Gruppo degli Otto’ composto da Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato e Vedova, i quali seppur nelle proprie diversità sono protagonisti di quella stagione artistica. Detto ciò, è anche opportuno precisare che anche la tendenza, corrente o movimento che sia, ‘informale’ è soggetta ad assenza di dogmatismi di appartenenza. Se i citati protagonisti si siano di fatto riconosciuti o meno nell’informale non è cosa di per sé rilevante: si sa bene come gli artisti, tranne poche eccezioni, abbiano sempre rifiutato e rifiutino tuttora di avere etichette e classificazioni: lo stesso Dubuffet ha sempre contestato di essere considerato in quella tendenza, pur se da considerare ‘informale’ per eccellenza, come Fautrier. Solenne e sofferente sconfitta dell’io, al pari delle scene di un dramma, nel riscontrare come vera la incapacità della ragione sulla realtà, o pacifica contemplazione di tale sconfitta, vissuta quasi come liberazione, attraverso tecniche originate in una cultura primitiva e, ancora, non accettazione della forma proposta o richiesta, dello stile, di linguaggi antichi metabolizzati da prerogative di una tradizione ormai defunta, ma anche dalle precedenti avanguardie storiche: tali caratteristiche, a volte in contraddizione le une con le altre, competono genericamente all’informale, sia come tale esperienza si è manifestata in Europa, sia come, pur in parte e con diverse denominazioni, si è manifestata in America. Non è mai semplice descrivere l’opera degli artisti, e degli informali in particolare, che spesso sfuggono alle definizioni critiche e che appaiono a volte difficilmente catalogabili da un punto di vista storico. In questo senso, però, possono considerarsi una esperienza fenomenica e significativa dell’arte moderna più di altri movimenti successivi, a partire dalla pop art. L’informale, in qualche modo, nella sua intera complessità, è l’ultimo tentativo, l’ultima prova fatta con incertezza di riuscita di una tradizione espressiva, ancora alla ricerca di un nuovo tipo di pensiero come atteggiamento intellettuale. L’Informale non ha un progetto ideologico, non ha un progetto. Sono artisti che sentono la necessità di esprimere uno stato d‘animo anche esistenzialista, che non hanno una configurazione naturalistica. A tal proposito, il nostro sguardo all’arte deve essere disincantato, libero dal gusto che deve restare fuori dalla porta fino a che non lo abbiamo affinato a puntino. Occorre ascoltare ciò che l’arte ci dice: gli artisti sono intellettuali, fanno operazioni intellettuali e nel loro linguaggio, definito o in fase di ricerca, sono le persone più colte che esistono, parlando direttamente ‘della’ propria arte o parlando soltanto ‘con’ la propria arte. Mentre negli Anni tra il1940 e il 1950 a New York un gruppo formato da svariati artisti anche piuttosto diversi nelle individuali personalità, comincia ad affermarsi sulla scena artistica americana, determinandone indubitabilmente una assoluta innovazione, con uno specifico timbro ‘americano’. E’ una vera e propria nuova tendenza che si forma all’interno della cosiddetta Scuola di New York. Questa denominazione correttamente indica un luogo, New York appunto, che è teatro dei fenomeni artistici in questione, piuttosto che un gruppo di artisti dalle caratteristiche unitarie. E’ il pittore e critico Robert Motherwell ad usare per primo tale espressione nel corso di una conferenza nel 1949, sottolineandone alcune caratteristiche, quali l’origine nel surrealismo (dal quale poi gli artisti americani si sarebbero affrancati) e un atteggiamento nei confronti dell’arte di tipo emotivo ed emozionale, avendo a che fare con la sfera sensitiva, piuttosto che di tipo evocativo/intellettuale. Robert Motherwell individua nella Scuola di New York, oltre a sé stesso, pittori come Arshile Gorky, William Baziotes, Adolph Gottlieb, Hans Hofmann, Willem de Kooning, Jackson Pollock, Ad Reinhardt, Mark Rothko. Questa tendenza viene denominata Espressionismo astratto americano e vede un gruppo di artisti che vogliono uscire dai canoni del realismo della pittura americana dell’epoca ed allo stesso tempo intendono andare oltre i linguaggi delle avanguardie europee di quel periodo, tentando di superarle attraverso la elaborazione di linguaggi originali. L’etichetta ‘espressionismo astratto’, creata in precedenza da Alfred Barr direttore del MoMA nel 1929 in riferimento a Kandinskij, viene poi definitivamente introdotta da R.Coates nel 1946, quando questi intende fondere due concezioni dell’arte che provengono dalle avanguardie storiche, quella dell’espressionismo e quella dell’astrattismo Clement Greenberg sottolineerà nel suo trattato ‘Astratto e rappresentazionale’ del 1954 che quest’arte è astratta “non perché sintomo di decadenza, ma semplicemente perché accompagna per caso una decadenza della storia dell’arte”, avanguardie ritenute rappresentative nella loro globalità di quegli artisti che operano a New York, senza peraltro sottolinearne le evidenti individuali differenze stilistiche.Da quel momento il termine viene utilizzato sia nei confronti di artisti con l’indole più anarchica come De Kooning e Pollock, quanto per artisti più riflessivi come Rothko e Motherwell. Si afferma, quindi, una diversa iconografia dell’arte astratta, con la scomparsa delle forme geometriche dipinte su uno sfondo e con una pittura definita da pennellate libere, segni e sbavature, in un ‘campo’ che non rinvia più ad una idea di figura-sfondo. Gli artisti, ora, affermano di prelevare dalle emozioni, dai sentimenti e dall’inconscio, con esplicito richiamo alle teorie psicanalitiche di Jung che conosce l’arte e per il quale é importante come sogniamo, diversamente dalle teorie freudiane che del sogno fanno un racconto attraverso i comprensibili codici archetipici dell’arte.Il critico e gallerista americano Sidney Janis nel suo saggio Abstract and Surrealist Art in America del 1944 individua nella inusuale mescolanza di surrealismo e astrattismo il timbro identificativo della nuova pittura americana, riferendosi in particolare a pittori come Rothko, Gottlieb, Gorky e Motherwell, creatori secondo lui di un nuovo linguaggio portato a rappresentare la soggettiva esperienza di ciascuno mediante un uso più libero del colore, mediante visioni biomorfiche, mediante l’automatismo, già elemento classico per i surrealisti. Tale iniziale entusiasmo per il Surrealismo fa sì che molti di tali artisti indirizzano comunque quella ispirazione verso un segno fortemente individuale che per molti di loro si trasformerà in uno stile personalissimo protratto con continuità nelle loro opere. Ma il momento più significativo in relazione ai futuri sviluppi dell’espressionismo astratto (che determina anche la differenza con ciò che tende verso il profondo inconscio del surrealismo e delle sue tecniche di automatismo) avviene quando si dichiara: “Noi sosteniamo l’espressione semplice del pensiero complesso. Noi siamo per la forma ampia, perché essa possiede l’impatto dell’inequivocabile. Noi desideriamo riaffermare la superficie del dipinto. Noi siamo per le forme piatte poiché esse distruggono l’illusione e rivelano la verità”. E’ all’interno dell’Informale che in America si colloca il fenomeno dell’action painting, basato su un rapporto energetico con il supporto. Avviene in quel periodo storico-artistico un vero e proprio passaggio di poteri: l’espressionismo astratto determina la nascita dell’arte americana, spostando nettamente il centro del mondo dell’arte da Parigi a New York, come ad affermare anche nel campo dell’arte l’America quale nazione più potente del mondo. Diversamente da quanto accaduto in Europa durante la guerra, con il logorante esilio di tanti artisti e intellettuali, negli Stati Uniti la fine della guerra dà inizio ad una fase di costruzione del nuovo modello culturale nordamericano in rapporto alla situazione egemonica del paese nel nuovo scenario mondiale: nei sussidi alla ricostruzione dell’Europa, in campo artistico rientra anche la grande promozione della nuova pittura dell’ ‘Espressionismo astratto’, eretta a emblema dell’identità nazionale nordamericana da figure di altissimo livello, come Clement Greenberg, famoso critico che sin dagli inizi degli anni ’40 se ne presenta come il difensore, contribuendo a far divenire quel fenomeno come un riferimento mondiale di modernità per tanti artisti. Vero è che quel passaggio di testimone da Parigi a New York si afferma anche, come accennato, attraverso l’arrivo in America, a New York in particolare, di molti artisti, letterati ed intellettuali europei (soprattutto delle tendenze astratte e surrealiste) che fuggono dalla barbarie nazista e dalla guerra. Dopo la chiusura del Bauhaus nel 1933 da parte dei nazisti molti artisti si portano a New York e tra questi, una delle figure più importanti per quello che sarà poi l’Espressionismo astratto è quella di Hans Hofmann, anche lui in fuga dalle persecuzioni naziste. Negli anni successivi arrivano a New York anche Fernand Léger, André Breton, Marcel Duchamp, Piet Mondrian, Max Ernst e sua moglie Peggy Guggenheim, conosciutissima collezionista d’arte e mecenate, fuggita nel 1941 dalla Francia occupata dai nazisti. Molto si attivano i surrealisti e vengono organizzate mostre e conferenze e si dà vita ad un dibattito culturale che coinvolge anche giovani artisti americani. In particolare l’opera di Peggy Guggenheim è fondamentale in questa fase con la creazione della ‘Galleria Art of this Century’, nella quale espone assieme opere di artisti surrealisti e di artisti astratti in un ambiente assolutamente nuovo e innovativo per l’epoca, con dipinti sospesi per aria, con pareti curve ed altri lavori poggiati semplicemente in terra. E in quella Galleria vengono esposti anche i primi lavori di artisti americani, che saranno poi gli artefici ed i massimi rappresentanti del nuovo linguaggio newyorkese come Jackson Pollock, Clyfford Still, Mark Rothko, Arshile Gorky, Willem de Kooning, tutti pittori della stessa generazione e che abitano a New York, cresciuti in un clima culturale simile e tutti con lo scopo di superare i canoni espressivi codificati per giungere, seppur per vie diverse ad una nuova visione e riflessione sul mondo contemporaneo. Le loro esperienze individuali o collettive, seppur manifestando le loro diversità, dimostrano atteggiamenti simili di rivolta esistenziale contro tutto ciò che è standardizzato e tradizionale, con un rifiuto di tutto ciò che è figurativo e, quindi, con la ricerca di un linguaggio pittorico astratto e attraverso una strada di libera individualità. In questa fase storico/culturale la figura di Peggy Guggenheim assume davvero tutta la sua centralità per l’affermazione dell’arte americana contemporanea nel panorama internazionale. Dopo aver fatto sì che la sua collezione cominciasse ad assumere il carattere di un documento storico con la creazione di svariate mostre con la sua ‘Art of This Century’, nel 1948 la Guggenheim (dopo un precedente breve passaggio a Venezia) viene chiamata ad esporre la sua collezione alla Biennale. Accade per la prima volta che in Europa vengano presentate opere cubiste, astratte e surrealiste insieme ad opere di artisti come Pollock, Rothko e Gorky, che ancora non sono conosciuti, formando quindi una esposizione complessiva ed illuminata di tutto ciò che rappresenta il modernismo dell’epoca. E dopo quella prima esposizione, la sua collezione viene presentata a Palazzo Reale a Milano, a Palazzo Strozzi a Firenze e, nel 1950 contemporaneamente al Museo Correr di Venezia (l’intera collezione dei quadri di Pollock) ed al padiglione statunitense della Biennale di Venezia con il debutto dello stesso Pollock in quell’evento. In quegli anni c’è un dualismo tra New York e Roma, anche per merito degli Oscar del cinema neorealista italiano. I giovani artisti Turcato, Vedova, Dorazio, Sanfilippo, Accardi, ecc si affacciano sulla scena dell’arte, grazie alla illuminata figura di Palma Bucarelli, direttrice della GNAM di Roma, che con borse di studio ne invia molti a Parigi a conoscere le opere di Braque, di Kandinskij e di Picasso. A Roma, oltre all’alleanza Bucarelli-Argan-Prampolini, ci sono artisti della generazione precedente come Mafai, Guttuso, De Chirico, anch’essi interessati al cambiamento anche se il perbenismo corrente era in evidente disaccordo Emilio Vedova è molto contrastato dal Partito Comunista che rifiuta l’astrattismo è ben noto un articolo su Rinascita di Rodrigo di Castiglia, pseudonimo di Palmiro Togliatti, che dopo una mostra a Bologna attacca fortemente gli astrattisti, sostenendo che l’oggetto dell’arte deve essere la realtà e che avrebbe voluto solo la rappresentazione del mondo comunista, con i canoni classici del lavoratore con falce e martello. Malgrado ciò, tutti quegli artisti, dopo le emozioni parigine e la scoperta di Picasso, cominciano a guardare il reale in maniera nuova, non retorica, con una idea di astrattismo. E creano un Gruppo con la ‘Rivista Forma’, che fa solo un numero e, quindi, ‘Forma 1’, scrivendo nel loro manifesto “ ci interessa la forma del limone , non il limone”, intendendo affermare la loro particolare attenzione al sociale e l’allontanamento dall’espressionismo, con un distacco comunque dalla realtà, come sarebbe stato inimmaginabile da parte di artisti di sinistra. Contemporaneamente Palma Bucarelli crea il Gruppo Origine, che da spazio e cavalca la via dell’astrazione (anche Burri ne fa parte seppur con scarsa convinzione e per brevissimo tempo), mentre, per ritornare ad una scena più allargata, la Guggenheim crea all’isola tiberina di Roma la ‘Galleria La Tartaruga’ (poi divenuta L’Obelisco), dove espone Pollock e De Kooning.Tutto questo nuovo ambiente culturale è fondamentale per la nascita e la affermazione transnazionale della nuova avanguardia americana, il cui processo di sviluppo afferma, come già accennato, valori di libertà, individualità e intraprendenza, quale american way of life, intesa come nuova esperienza di vita. In questo senso, la pittura d’azione, ‘l’action painting’, particolarmente con Hofmann precursore europeo delle nuove tendenze americane, Pollock, De Kooning, Gorky e Kline sottolineanofilosoficamente che l’atto del dipingere, l’atto in sé più che il risultato, è autenticamente dimostrativo della creatività dell’artista, con un linguaggio soggettivo, violento anche, improvviso e improvvisato e soprattutto libero dai precedenti canoni stilistici e da schemi identificativi di una ricercata razionalità. E’ il grande critico Clement Greenberg ad inventare il termine ‘action painting’ per specificare una maniera così esclusiva di dipingere, nella quale non vi è un punto centrale né un verso di osservazione, e la composizione si mostra senza una determinata direzione, a tutto campo. E’ un nuovo modo di dipingere che vede in Pollock il simbolo riconosciuto unanimemente che esprime ‘l’atto puro’, ‘l’azione pura’, come essenza autentica all’interno di una nuova dimensione fenomenologica. Certamente fuori da ogni quotidiano conformismo, come forma individualistica di opposizione, non necessariamente caratterizzata da esplicite scelte politiche, che finisce per confermare ideologie e valori dominanti il senso di libertà individuale del nuovo sistema capitalistico americano, traslati in una idea di società così libera e aperta da legittimare anche coloro che vi si pongono contro. In Italia per la maggioranza degli artisti , l’Astrazione e l’Informale sono punti di arrivo , dopo un tentativo di percorrere a tappe forzate un percorso di aggiornamento , altrove più scontato , attraverso una figurazione neocubista o picassiana , e una fase di iniziazione /sperimentazione su nuovi materiali della pittura , spesso basata su suggerimenti provenienti dalla Francia o dall’America . Questo premessa non deve tuttavia far pensare a una situazione povera e provinciale. In effetti l’Italia vive , nell’immediato dopoguerra , un’intensa stagione creativa , che la porta in pochi anni a un dialogo intenso e alla pari con altri paesi europei. Come si è detto , molti dei futuri pittorici informali attraversano, durante e subito dopo la guerra , una fase figurativa : alcuni come Morlotti , non la lasceranno mai, dando vita a un curioso ‘linguaggio ibrido’. Artisti provenienti dal clima della scuola romana , come Afro e gli scultori Leoncillo e Mirko che era il fratello di Afro, dopo una fase ‘figurativa e neocubista’ , affogheranno sempre più le loro suggestioni figurative in linguaggio astratto e, in seguito , informale , che tocca il suo apice creativo tra la metà degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta . Artisti origine o formazione veneziana , come Vedova o Turcato daranno una visione nuova all’ informale in Italia. Lo stesso succederà in seguito con Lucio Fontana con i suoi concetti spaziali e Alberto Burri che nella sua arte la materia diviene la sua pittura . Nella storia dell’arte moderna italiana pochi hanno incarnato come Emilio Vedova il prototipo dell’artista che ha espresso nella pratica pittorica, nella narrazione autobiografica, nel discorso critico e nell’immagine pubblica il vissuto emotivo dell’“uomo in rivolta”. Vedova condivise con gli artisti della propria generazione l’idea che il sentire soggettivo e la libertà nell’esprimerlo fossero il fondamento dell’atto artistico ma più di altri esacerbò la semantica della passione sociale, facendo di sé un modello di coscienza sdegnata. Su Vedova è stato scritto molto; le fonti della sua evoluzione stilistica (il barocco, l’espressionismo, il futurismo) sono diventate dei luoghi comuni; la critica formalista si è compiaciuta di descrivere le turbolenze della sua pennellata come “energia segnica”, “vitalità del segno”, “sensibilissimo sismografo”. È altrettanto canonico interpretare la sua pittura come indice di tensione emotiva ed esistenziale, dotata di una dimensione morale, e come manifestazioni dell’“esserci” nel mondo. Eppure raramente queste letture hanno superato una certa genericità discorsiva; né gli scritti di Vedova, tanto frammentari e circonvoluti quanto i suoi segni pittorici, aiutano a chiarire. Questo saggio, privilegiando soprattutto le fonti primarie, tenta di leggere il lavoro di Vedova in una prospettiva più storica, come indice delle emozioni conflittuali rispondenti al contesto politico e alla storia intellettuale dell’idea di rivolta, propri degli anni in cui Vedova ha definito il suo stile maturo, ossia dai turbolenti anni della guerra mondiale a tutti gli anni cinquanta. Inoltre, si propone di leggere la fenomenologia delle emozioni non solo nel ductus pittorico ma anche nel corpo dell’artista, abbozzando un’analisi su come Vedova abbia contribuito a impersonare anche pubblicamente l’intellettuale in rivolta. Nel 1946 Vedova ritenne che l’impegno politico dovesse tramutarsi nell’atto culturale. Insofferente a ogni autoritarismo, non divenne un intellettuale organico del PCI anche per la sua indisciplina al canone realista raccomandato dal partito il fatto che Palmiro Togliatti nel dicembre 1948, recensendo su «Rinascita» la Prima mostra nazionale d’arte contemporanea a Bologna, liquidò l’astrattismo come “scarabocchi” e pubblicò come illustrazione Il combattimento di Vedova non poté che allontanare di più il pittore. Fedele allo spirito del manifesto del 1943, Vedova “compromise” la “bella arte”: «Non ho mai avuto l’ambizione di fare della pittura disse nel 1961. Ho sempre preferito rendermi conto della situazione storica e tentare di interpretare. Noi siamo prima di tutto dei documenti» . Il critico e storico dell’arte Rodolfo Pallucchini nel 1951 fu tra i primi a psicologizzare l’emotività di Vedova come disagio proprio di un artista della generazione maturata durante la guerra e interprete della «crisi della civiltà europea» iniziata con il fascismo e il nazismo ma perdurante nelle dittature comuniste. L’ex partigiano Vedova, «tutto istinto, impeto ed emozione», non si era ritirato nella torre d’avorio, e se i suoi drammatici disegni ignoravano le convenzioni e rapporti cromatici edonisticamente piacevoli è perché «Egli soffre il tormento angoscioso del nostro tempo». «La sua sensibilità artistica registra le emozioni che vengono dall’esterno e come un sismografo egli le trasforma in contrasti di superficie, segno, colore e volume» il sismografo divenne da allora un topos, di cui lo stesso Vedova si compiacque, definendo nel 1954 il proprio segno pittorico come «disperato sismografo dell’esistere», e nel 1956 «sismografo del sentire», e che poi ha avuto fortuna nella critica, insieme alle metafore della pittografia e della grafologia. Se consideriamo comunque le vicende storiche tra il 1946 e il 1951, gli anni in cui Vedova arrivò a definire il proprio stile, risulta evidente quanto la semantica delle forze in tumulto espressa da Vedova “documentasse” una realtà sociale e politica fortemente attraversata dal conflitto. Vedova visse il passaggio tra la Resistenza, la Liberazione e l’istituzione della Repubblica, e vide la transizione dalla fase di concordia partitica nel 1945 all’esacerbarsi dello scontro tra visioni politiche antagoniste e le loro basi sociali. L’irenismo intravisto nei vertici tra Roosevelt (poi Truman), Stalin e Churchill del 1945 degenerò presto nel sospetto reciproco, nello scontro ideologico, fino alla sindrome d’assedio. Per uomini come Vedova, l’instaurazione della democrazia e la ricostruzione e, dai primi anni cinquanta, l’avvio della ripresa economica del Paese non furono sufficienti a non leggere la storia come dinamica di conflitti e fondamentali iniquità. Per usare le sue parole, «Dalla guerra ero uscito in malo modo. Depresso anche moralmente. Troppo presto avevo visto il riaffacciarsi dell’opportunismo e delle ambiguità dello ieri». Immagini ed emozioni del conflitto non solo erano nella memoria collettiva di una generazione che visse la guerra, i bombardamenti, gli sfollamenti, ma rimanevano nel paesaggio fisico di milioni di cittadini in Europa, insieme alla penuria in Italia il tesseramento sul pane fu abolito solo il primo agosto 1949 e la disoccupazione, come documentavano anche i film del neorealismo che ebbero a soggetto storie di povertà, sfruttamento, arretratezza e ingiustizia sociale, e i reportage sulle riviste illustrate da una Calabria di casupole di argilla e priva di strade, o da Comacchio senza acqua potabile e tra acquitrini malarici, per fare degli esempi. L’Italia era fortemente divisa dopo la vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni politiche dell’aprile 1948, contestate dal PCI in un clima di discredito reciproco, che implicarono anche la cruciale scelta atlantista rispetto alla possibile alternativa filosovietica. Il 1948 inoltre vide l’inizio di una stagione di lotte sindacali per migliori condizioni lavorative dei braccianti agricoli, attraverso scioperi, manifestazioni e occupazioni di terre demaniali o latifondi incolti, dalla Val Padana fino alla Sicilia, spesso represse dalla polizia dietro le direttive del ministro dell’Interno, Mario Scelba. Mentre Pizzinato, l’ex compagno partigiano e sodale artistico di Vedova, decise di difendere la causa della giustizia sociale dipingendo gli eventi storici in uno stile che da post-cubista tornò progressivamente realista (come per esempio nei quadri Bracciante ucciso del 1949 o Terra non guerra del 1950), Vedova rimase fedele a una trasfigurazione del reale in significanti astratti di emozione e passione civile, convinto che «il gesto diviene il modo più onesto ed immediato per linearmente dare senso a questa responsabilità [dell’artista]» nei confronti del proprio tempo18 . Mentre nella critica d’arte italiana una delle parole d’ordine fu “l’aggiornamento” alle esperienze del modernismo europeo e quindi la fusione dell’arte contemporanea italiana in una dimensione transnazionale, tra il 1946 al 1949 la “cortina di ferro” calò a separare politicamente l’Europa occidentale dall’Europa centro-orientale sotto l’egemonia di Mosca. Le manovre di riposizionamento politico e diplomatico, dalla fine della guerra effettiva all’inizio della guerra fredda, con fratture anche tra i satelliti sovietici (con la Jugoslavia accusata dal Cominform di compiere una politica nazionalista), rappresentano bene la dialettica che precedette la cristallizzazione nei due blocchi. Soprattutto la cultura pubblica alla fine degli anni Quaranta era condizionata da una crescente ansia collettiva di una nuova guerra mondiale tra stati liberi e comunisti, alimentata a livello popolare dai rotocalchi che divulgavano ipotesi di tattica militare, ipotizzavano localizzazioni di schieramenti nemici e strategie di sfondamento del fronte, discettavano sul potere deterrente o l’uso pratico di nuove testate atomiche contro le truppe sovietiche per massimizzarne la carneficina, dispensando mappe con le divisioni corazzate disponibili a ciascuno dei due blocchi europei, tanto da fare sentire a molti che la pace successiva alla Seconda Guerra mondiale era più un armistizio. Come ebbe a dire Carlo Bo nel 1949, «In fondo dal ’45 ad oggi non abbiamo ancora goduto veramente la pace; il clima, la polvere della guerra rimangono, più o meno forti a seconda degli avvenimenti e dei giorni, sopra di noi». Vedova fu sensibile a questi “scontri di situazioni”, per usare il titolo di un ciclo di quadri. Il 1 novembre 1948 partecipò al congresso degli intellettuali italiani per la pace, al Teatro Adriano a Roma, che sebbene egemonizzato dai comunisti, in continuità con il precedente congresso mondiale di Wroclaw si concluse con un appello che mobilitava tutti gli uomini di cultura a demistificare i poteri economici e le ideologie belliciste e imperialiste e a investire le scienze, le arti e la filosofia nella causa della pace e della libertà . Nel dipingere in caotiche pennellate l’Immagine del tempo, Vedova metaforizzò tale dialettica di forze antagoniste dentro ciascun paese (tra comunisti, socialisti e partiti borghesi), o nella Germania divisa (nel 1949 i russi bloccarono l’accesso a Berlino ovest, determinando il controblocco della Germania controllata dall’URSS da parte della Germania tripartita), o nell’Europa scissa tra governi atlantisti e satelliti di Mosca, e nella stessa Europa occidentale tra democrazie e dittature. Riguardo all’uso della tecnologia, Vedova fu affascinato dalle nuove possibilità formali che questa poteva fornire (amò cimentarsi nella multimedialità nelle scenografie di Intolleranza 1960 di Luigi Nono, e prestò suoi quadri per sperimentazioni sulla televisione a colori, per esempio), ma allo stesso tempo rifletté l’inquietudine tipica del dopoguerra per i potenziali esiti distruttivi della scienza e della tecnologia. L’utilizzo libero che Vedova fece del vocabolo del lessico della fisica “quanto” per designare cose diverse come l’eccitazione cinestetica creata in lui da ragazzo dagli interni barocchi (definiti «‘quanti’ plastico-spaziali») e le proprie emozioni (definite «‘quanti’ di sensibilità», o «miei quanti sotterranei») suggerisce il grado di assimilazione di concetti rilevanti per la meccanica dell’energia atomica. Vedova spiegò in una lettera al critico Nello Ponente che Lotta 1 (1949) un intrico di lamelle meccanomorfe grigio-nere, nacque dal senso di minaccia avvertito nei riguardi dei «robot-macchina» e la disumanizzazione indotta dal predomino della «vita meccanica». Altri quadri della serie, similmente caratterizzati da aguzzi profili neri stratificati, pur nella loro sinistra bellezza riflettono l’allarme per la hybris tecno-scientifica che, dopo aver alimentato la guerra mondiale, continuava nella corsa agli armanti e nel programma nucleare sovietico (proprio nell’agosto 1949 l’Unione Sovietica testò con successo la bomba al plutonio). A proposito di alcune composizioni più geometriche del 1946, per le quali si era servito anche di carte lucide e colorate al posto dei pennelli, l’artista commentò che: «volendo razionalizzare quei segni, li disumanizzai nel senso che una mente fredda razionale contenuta staccata faceva sì che li organizzassi quanto una macchina», tradendo così una sua ansiosa associazione tra razionalità, macchina e disumanizzazione . In effetti la fase più meccanomorfa fu un breve interludio concluso nel 1951, dopodiché Vedova tornò al suo segno viscerale. Il suo stile più tipico riflette anche l’apocalittismo del dopoguerra in analogia a esempi dell’espressionismo astratto americano, come Heat in the Eyes di Jackson Pollock; come suggerì la critica e storica dell’arte Juliane Roh nel 1955: «Quando nella descrizione dei quadri di Vedova ci si abbandona involontariamente a parallelismi con il mondo atomico, non sia detto con ciò che siano presenti analogie consapevoli. Sembra solo confermare che le soggettive tensioni dell’artista siano in segreto accordo con gli avvenimenti contemporanei grazie a un evoluto compendio di sottili strumenti psicografici» . In effetti non si trattava di associazioni inconsapevoli, visto che Vedova affermò: «L’Occidente è quello che è, corrotto, ambiguo, disperato, cinico ma l’artista non ha evaso il suo inferno, l’ha vissuto, lo vive, toccando un fondo non con soluzioni metafisiche ma raggiungendo invece un umano inedito da inedite prove di disumano (Auschwitz-Hiroshima)» . Vedova è forse l’artista italiano in cui è più evidente il nesso tra emozioni dell’essere-nel-mondo storico e motilità corporea. Anche prima che sviluppasse il suo vitalistico stile astratto, l’irruente passionalità di Vedova ancora diciottenne si era fatta strada nelle prime opere note caratterizzate da un segno grafico incontenibile. Negli studi di figure del 1936-37, spesso tratti da opere di Tintoretto o altri maestri, per esempio Figure di desolazione , i contorni si dissolvono letteralmente in un groviglio di segni o macchie di colore, suggerendo che dai corpi emani la stessa energia, vitale ed emotiva, che attiva il fare pittorico. «Nuclei di energia in espansione», Vedova li definì anni dopo, riconoscendo in essi i precursori di una ricerca culminante nei Plurimi, ossia le istallazioni realizzate a partire dal 1962, che sono l’espansione dell’irruente pittura dalla superficie bidimensionale a supporti tridimensionali. Inoltre, Vedova ha ricordato che anche i primi disegni sull’architettura barocca coevi agli studi da Tintoretto nacquero da un «impeto di sensibilità che mi porta[va] a segnare con la saliva, col dito, con uno stecco, in modo immediato», testimoniando un’urgenza emotiva che esigeva di essere subito fisicamente trascritta, fluidificando il colore con la bava, stendendolo col polpastrello, per ovviare ai tempi di una tecnica meticolosa che avrebbe raffreddato l’emozione. Nel primo autoritratto del 1937 Vedova decise di rappresentarsi in quanto pittore, nell’atto di dipingersi osservandosi allo specchio, e nel farlo scelse (anche se forse inconsciamente) di mettere in primo piano la parte bassa del corpo, segnalando che è dal ventre, dai genitali, dal torso, cioè dalle parti più associate alla vita delle emozioni e delle passioni – più che dalla testa, ossia dalla razionalità – che origina la pittura. Le fotografie di studio che Vedova evidentemente commissionò e scelse lo ritraggono spesso, anche negli ultimi anni, impegnato nella concitata distesa di pennellate, fino a imbrattarsi completamente di colore . Alcune lo rappresentano visivamente compenetrato nella pittura, un effetto accentuato anche dal contrastato bianco e nero . È eloquente una deliberata manipolazione che Vedova fece su una di queste fotografie che si trova nella copia delle Pagine di diario che donò al critico Francesco Vincitorio . La foto originale raffigurava l’artista a torso nudo al lavoro, ma intervenendo con un pennarello nero solo sulle parti nude della propria figura, Vedova l’ha coperta di segni che visivamente annullano la differenza di piani tra il corpo e la tela retrostante, amalgamando l’uomo con la sua pittura. Qui davvero Vedova ha fatto di sé pittura incorporata. Questa identificazione tra sé-come-pittore e la pittura quasi come trasmutazione del proprio corpo, che ha un significato più viscerale della ovvia questione che la pittura è una tecnica manuale, stimolò il progressivo scardinamento dei limiti del quadro tradizionale. Nel 1958 nella importante personale alla galleria nazionale Zachęta a Varsavia, Vedova decise di trasgredire la consueta fruizione frontale del quadro alla parete, attaccandone uno al soffitto, per farlo incombere zenitalmente sullo spettatore e nell’agosto 1959 alla mostra Vitalità dell’arte a Palazzo Grassi a Venezia «dipinse per tre notti a torso nudo», in modo estemporaneo, quadri che circondarono una sala del palazzo facendone un’arena dove il pubblico che vi entrava «avesse subito, in concreto, per l’urto visivo il senso di un’esplosione di sentimenti, di una violenza, qualcosa che bruciasse della fiamma immaginativa». L’esito di questi tentativi sono i Plurimi, probabilmente la quintessenza dell’estetica di Vedova . Egli infatti li definì «proiezione diretta di me pittore, come io stesso fossi da potersi toccare, leggere qui presente (oggettivazione come incorporazione) rappresentativo dei ‘quanti’ della mia energia». Possiamo pensare ai Plurimi come a un’estroflessione architettonica della passione morale di Vedova, che ottenne un rapporto più diretto tra lo spazio dell’opera e quello dello spettatore, rompendo la separatezza del piano pittorico rispetto all’ambiente reale e passando dal primato del canale visivo a una fruizione che coinvolge cinestesicamente anche le sensazioni corporee. La fisicità di Vedova è sempre stata un tratto rimarchevole. A differenza di altri artisti, fotografati in abiti borghesi, o nei loro studi con il tipico berretto floscio, secondo la moda del mestiere del tempo, si è fatto spesso fotografare a torso nudo , implicitamente presentando un’associazione tra virilità della sua figura e turgidità del suo segno pittorico. Soprattutto Vedova era inconfondibile per la lunga barba che portava orgogliosamente da quando era ventenne, e che accettò che fosse tagliata solo una volta nelle settimane nella Resistenza romana (per mano dell’amico pittore Giulio Turcato «con un sadismo che non dimenticherò mai»), perché era un «richiamo troppo carbonaro» che poteva dare nell’occhio e mettere in pericolo le azioni dei compagni partigiani. La lunga barba e l’abbigliamento informale più che conformarsi al modello dell’intellettualoide esistenzialista e nottambulo delle caves di Parigi, i cui avventori indossavano spesso camicie a scacchi fuori dai pantaloni e aperte sul petto, suggerisce che Vedova rimase fedele allo stile semplice dell’uomo del popolo, ossia all’ambiente di provenienza. Inoltre, quella di Vedova non era una barbetta esistenzialista alla Lincoln, bensì una fluente barba “profetica”. Diverse fotografie, sia private, sia date alla stampa, ritraggono Vedova in rustiche camicie a scacchi o a torso nudo all’aperto (in montagna), o spesso a lavoro, e letteralmente sembrano illustrare l’affermazione dello stesso Vedova che rifiutò il cliché del pittore «come una figura pallida e fuori da ogni responsabilità vitale». Lo vediamo per esempio con l’amico Pizzinato in posa sul bordo di un precipizio davanti alle Tre Cime di Lavaredo , in uno scatto del 1946 fornito due anni dopo al quotidiano «Il Mattino del popolo», che suggerisce una prova di atletismo, passione per la natura e, simbolicamente, ascesa sopra la medietà; oppure abbronzato e aitante afferrare in costume da bagno una tela vergine a Santa Cristina in Val Gardena nel 1951 in una foto fatta dalla moglie Annabianca. Oltre al controllo che Vedova ebbe della propria immagine fotografica, la sua fisicità contribuì all’icona pubblica nei commenti giornalistici, che spesso indugiavano nel descrivere la sua altezza, la sua voce, il gesticolare, la barba. La rivista americana «Vogue», fotografandolo a passeggio, torreggiante, in una calle di Venezia lo descrisse con la didascalia enfant terrible. La sua figura «di Nazareno scrisse Raffaele Carrieri sul rotocalco «Epoca» nel 1962 sventolava più in alto di tutti i pedoni della laguna nel comportamento flessibile, lineare e zingaresco. Un’antenna d’alta tensione» . In un’intervista del 1950, il giornalista che si recò a trovarlo ad Auronzo (Ampezzo), dove Vedova si era ritirato in «isolamento e travaglio artistico», fu tra i primi a divulgare l’immagine di uomo ispirato e appassionato del suo credo estetico: «Un uomo alto e magro, dalla barba più che folta, incolta, e dai capelli alla nazzarena, dagli occhi vivissimi bisogna sentire la sua parola calda e suasiva. Vedova crede religiosamente nella sua arte . Ho visto negli occhi di Vedova la fede viva sincera». La barba fu il tratto che rimaneva più impresso dell’aspetto dell’artista: recensendo la personale alla Galleria Blu di Milano nel 1960, il critico Marco Valsecchi riferì che Vedova «vi comparve per una sera col suo barbone incolto da cacciatore di balene: sembravano tornati i tempi dei convegni clandestini, quando Vedova veniva giù dalla Carnia con nella barba e nei capelli i fili di paglia dei bivacchi notturni». E Carrieri lo descrisse come «Mezzo soldato di ventura e mezzo trappista: il tutto avvolto in una grande barba nera fluente e quadrata che gli arrivava al petto come quella dei falegnami apostoli della settimana santa in Val Gardena». La stessa fisionomia imponente e iconica dell’artista fu utilizzata anche in senso antifrastico da quei critici che obiettarono al suo stile come autoindulgente e contenutisticamente vuoto. Già nel 1947 «Il Mattino del popolo» appellò in modo ironico Vedova «barba sacrilega», solo per sminuire come ribellismo di maniera ma inconsistente il suo stile «eretico»; «Un giovanottone grande così, con una barba alla nazzarena folta e nera da far paura a chi non conosca la sua pittura, la quale è invece innocua come l’acqua che viene dal mulino», scrisse un giornalista di Modena . I reiterati epiteti di nazareno e gli altri suggeriscono che la fisionomia di Vedova si distingueva nell’immaginario di allora come quella di un irregolare, un temerario, forse un invasato Achab se non un profeta. Di questo Vedova dovette essere consapevole e suggerisco che il portamento e il vestiario, le immagini fotografiche, insieme alla retorica modernista e agli annunci umanisti dei suoi interventi teorici hanno complessivamente contribuito a definire la figura pubblica del profeta-ribelle. «Si tratta di salvare l’uomo», affermò perentoriamente Vedova nell’incipit di una sua autopresentazione per una mostra di pastelli, ancora parzialmente figurativi, illustranti scene di vita popolare a Venezia nel novembre 1946 e fu solo la prima di una serie di dichiarazioni sull’impegno e la responsabilità dell’artista a favore di valori umani da recuperare nell’inferno della storia presente. Questo imperativo morale, echeggiato nei commenti di critici, contribuì ad ammantare il pittore di un’aura profetica. Per esempio, Silvio Branzi in un articolo del 1954 spiegò che Vedova nel suo modo di dipingere aveva progressivamente liberato la propria coscienza dai condizionamenti culturali, fino a far coincidere il proprio «mondo intenzionale e il mondo effettuale», ma il lessico incentrato sui termini “uomo” e “salvezza” e le loro reiterazioni sembrano trasformare una riflessione ispirata probabilmente dal concetto husserliano di epochè volontaria del singolo Vedova in una quasi apologia della missione salvifica dell’umanità «badava soprattutto a riconoscere l’uomo che egli era, e a salvarlo, con un controllo sull’istinto e un’attenzione verso quegli stimoli che gli potessero venire dall’esistenza contemporanea»; «l’urgenza di salvarsi, di salvar l’uomo, appariva nel dipingere, nel parlare, nell’agire»; «codesto suo lavoro un richiamo pungente e necessario alla salvazione». A questo si può aggiungere che soprattutto ai tempi del Fronte Nuovo delle Arti Vedova rispolverò la retorica pugnace delle avanguardie storiche, per accentuare il contrasto tra la propria missione di rinnovamento della pittura e le forze avverse. Nel febbraio 1948 un momento strategicamente importante nel definire la nuova mappatura dell’arte contemporanea scrivendo un lungo pezzo su «Il Mattino del popolo», Vedova definì il programma del Fronte Nuovo delle Arti nei termini di una volitiva minoranza che annunciava il nuovo, contro «il pantano» della maggioranza. Vedova eroicizzò sé e i compagni del Fronte come «bestie rare, come personaggi scandalistici» agli occhi di una maggioranza incapace di leggere la protesta e l’«estrema necessità di rivelazione» nei loro quadri. Riferendosi indirettamente al dilemma sulla priorità tra astrattismo o realismo come arte socialmente significativa e al clima della campagna elettorale allora in corso Vedova aggiunse: «in questo momento così teso dipingere una nostra azione all’infuori delle convenzionalità significa per noi costruire, attraverso un primordio, una ragione che ci spinga a credere». Non esitò a definire il Fronte Nuovo delle Arti «trampolino verso la Terra Promessa», un «gridare nel deserto», di «uomini nel deserto, legati alla nostra sorte di uomini di punta». Tuttavia mitigò l’antagonismo e profetismo avanguardisti con i temi, già sartriani, dell’umanismo esistenzialista e dell’impegno dell’intellettuale (di lì a qualche mese, Sartre sarebbe stato evocato a difesa dell’astrattismo anche dagli espositori alla mostra nazionale d’arte contemporanea di Bologna nella nota polemica con Togliatti su «Rinascita»). Infatti fece appello alla responsabilità, che ciascuno deve assumersi, di dare testimonianza di sé come «uomini nuovi»; al compito degli intellettuali «di liberarci e di portarci parole strette nel pugno»; alla volontà di «risolversi nella morale dei suoi compagni e con essi», come base di un nuovo umanismo solidarista. L’annuncio avvenirista così evidente portava il discorso dalla contingenza della politica o dai semplici proclami estetici a un livello più alto di implicazioni per l’umanità. Per il catalogo della personale al museo nazionale di Poznan, in Polonia , nel 1958 Vedova si compiacque di utilizzare un primissimo piano, fattogli dal fotografo Nino Migliorini, pubblicandolo in posizione di assoluta evidenza subito dopo l’apertura della copertina, come iconica auto-presentazione. Il volto che occupa l’intera pagina, affiancato dai grandi caratteri del cognome in verticale sulla bandella, l’intensità dello sguardo che intercetta quello del lettore implicando un contatto empatico, suggeriscono una consapevole regia della propria immagine carismatica, e il confronto con una famosa xilografia di Emil Nolde di un profeta dal volto emaciato e gli occhi brucianti in orbite incavate, che veicolano l’idea di un’ispirazione interiore, non mi pare peregrino . Nel 1961 Vedova collaborò a Intolleranza 1960, un’azione scenica per soli, coro e orchestra musicata da Luigi Nono da un’idea di Angelo Maria Ripellino, rappresentata il 13 aprile di quell’anno alla Fenice. L’opera gli era congeniale non solo perché gli permise di sperimentare con proiezioni luminose e schermi metallici traforati, in movimento e sospesi sulla scena, ma perché la vicenda drammatizzava una storia di scontri di forze antitetiche tra uomini che prendono coscienza di sé e si ribellano e le forze dell’oppressione, economica e di classe che egli condivideva. La vicenda narra le traversie di un minatore emigrato che decide di rimpatriare, per trovarsi ad assistere lungo il viaggio a un comizio antinazista, venire arrestato, torturato, portato in un campo di concentramento, da cui poi fugge e infine solidarizza con un non meglio identificato algerino. Nel secondo tempo, l’emigrante si aggira tra proiezioni, voci, mimi simboleggianti le assurdità, le idiozie massmediatiche e le minacce della società contemporanea, e la scena culmina con un’esplosione atomica; subentra quindi il canto della compagna dell’emigrante, che inneggia alla vita, all’amore e alla fraternità perduti dall’uomo imbestiato. Seguono episodi di violenza e fanatismo razziale, finché l’emigrante e la compagna giungono al paese natale che però trovano sommerso dalla piena del fiume, mentre una voce dirama il palesemente assurdo comunicato ufficiale: «Il Governo ha provveduto, la colpa è del metano». Solo sul sipario finale sono proiettate parole di Bertolt Brecht che schiudono un po’ di speranza nella solidarietà tra gli uomini: Voi che siete immersi dai gorghi dove fummo travolti, pensate anche ai tempi bui da cui siete scampati. Andammo noi, più spesso cambiando paese, che scarpe, attraverso guerre di classe, disperati, quando solo l’ingiustizia c’era. Voi, quando sarà venuta l’ora che all’uomo un aiuto sia l’uomo, pensate a noi con indulgenza . Il collage di testi da cui Nono compose il libretto sono un florilegio di letteratura materialista, rivoluzionaria, e inchieste di controinformazione inclusi Brecht, Vladimir Majakovskij, Paul Eluard, Sartre, Julius Fucik e Henri Alleg. Ripellino e Nono trassero spunto da episodi odiosi della storia recente, incluse la strage di minatori (molti emigrati italiani) a Marcinelles, l’alluvione in Polesine, le torture della polizia francese a Parigi e in Algeria, le repressioni di lotte sindacali. Secondo Argan, in questo episodio di teatro d’avanguardia la musica di Nono e le violente mutazioni scenografiche di Vedova, nel drammatizzare i misfatti della reazione, sottoponevano il pubblico a uno shock sensoriale che lo avrebbe scosso dal torpore emotivo e dall’inerzia morale che costituiscono il tipo umano borghese, eterno spettatore indolente. «La forza e la successione incessante delle emozioni» avrebbe riscattato il borghese, spingendolo all’azione al fianco degli oppressi del mondo . Al di là delle aspettative eccessivamente ottimistiche di Argan sull’efficacia rivoluzionaria di uno spettacolo d’avanguardia, Vedova condivise con Nono il lugubre scenario storico e una visione pessimista che trascurava che gli ultimi quindici anni potevano anche essere letti come storie di ricostruzione, di progressivo aumento del benessere, di avvio del processo di integrazione europea, e anche col citato metano estratto dall’ENI a Cortemaggiore di prospettive di sviluppo industriale. L’enfatico stile gestuale di Vedova, che negli anni ha raggiunto dimensioni spettacolari per il gigantismo delle tele, declinando sempre convulsi significanti di indignazione, denuncia, e ribellione, è diventato ampiamente ripetitivo. Assumendosi la responsabilità del ribelle che si solleva in nome della salvezza dell’uomo contro la violenza, le ingiustizie e la disumanità del sistema, Vedova rimase fedele al rifiuto della figurazione. Seguendo implicitamente l’estetica di Theodor Adorno, Vedova riteneva che il principio strutturale dell’opera d’arte non-organica fosse già in sé stimolo di emancipazione, in quanto permette il disgregarsi della struttura chiusa, quindi del principio di autorità che Vedova detestava. Tuttavia la Terra Promessa ai tempi del Fronte Nuovo delle Arti cedette il passo all’eterno conflitto storico della libertà e dell’oppressione; non arrivando mai a costruire un’immagine intellegibile, Vedova non ha intravisto alcuna evoluzione e rimase essenzialmente il sismografo di perduranti emozioni negative. Il percorso espositivo si snoda nelle sale delle Cannoniere con una sequenza non strettamente cronologica, volta a sostenere la tesi dell’esposizione, indirizzata ad esplorare quei periodi-episodi della vita artistica di Vedova in cui – tralasciando il suo forte impegno civile e silenziando quella sua ben nota, carismatica voce di protesta davanti alle tragedie della storia e agli eventi della cronaca – l’artista sembra dedicarsi all’esercizio della pittura, lasciandoci così prove straordinarie di quella sua impetuosa energia creativa, che ha incontestabilmente segnato la pittura europea del secondo dopoguerra.
La mosta è suddivisa in Otto Sale :
Nella Sala 1, intitolata Nascita di un pittore. I Maestri, è centrale il riferimento alla sua prima formazione artistica, non accademica, ma alimentata dalla lezione dei grandi pittori del passato, in particolare i veneziani Tintoretto, Veronese, Tiepolo, i cui testi erano alla sua portata nel girovagare, giovanissimo, tra calli e chiese della Laguna. La lezione cubista, che nel secondo dopoguerra allena alla geometria astratta la mano di molti pittori in Europa, fa parte della Sala 2 (Cercare una via), dove si possono ammirare almeno tre opere dal singolare costruttivismo geometrico.
Nella Sala 3 intitolata Astrazione per sempre, il visitatore può osservare una sequenza di opere che testimoniano il giuramento di fedeltà alla pittura astratta, non più con velleità geometriche, ma già gravida di gesto e materia, una aurora che contiene tutto il linguaggio della sua pittura.
Occupare lo spazio è il titolo della Sala 4, in cui l’invenzione forse tra le più interessanti della sua arte, quella dei Plurimi, si mostra nell’originalità di nuove forme dipinte, legni carichi di materia pittorica e assemblati con cerniere, strane e inquietanti costruzioni che occupano il centro della stanza, pittura che si fa tridimensionale e, deflagrando dalla parete, invade lo spazio.
Nella Sala 5Lasciare libero il segno, Vedova si svela nell’esercizio del mestiere, nella preparazione dei grandi lavori, nella forza espressiva che anche le opere di piccole dimensioni – molte inedite – acquistano nel suo lavoro: lavori di compiuta, straordinaria vitalità che offrono la possibilità di studiare da vicino il suo processo creativo, l’esuberanza del segno, la simbologia dei colori.
Come se questo dolore fosse insopportabile è il titolo della Sala 6, che riporta il visitatore dentro quel “tragico esistenziale” che ha segnato tutto il percorso di Vedova. Il tragico è una cifra sempre presente nel suo lavoro, che nasce da una sensibilità emotiva che, come carne viva, freme ad ogni contatto con il dramma della vita.
Intitolata Vertigine Piranesi la Sala 7, accoglie il visitatore con tre opere magistrali dei primi anni Ottanta, dove la pittura si fa architettura di forme allucinate, urti della materia rosso sangue solcata da neri in netto contrasto, tagli e sporgenze, sciabolate di pasta cromatica che sembrano rievocare, in una subliminale esplorazione della memoria, le Carceridi Piranesi, un altro veneziano al pari suo aperto agli inganni della visione.
Circolare infinito è il titolo della Sala 8, tre grandi Tondi disallineati al centro della stanza mostrano, nell’impavido confronto con una delle più sacre forme geometriche della storia dell’arte, il cerchio appunto, l’irriverenza inquieta e geniale di un artista che ha sempre sfidato se stesso. La mostra è corredata da un catalogo edito da 24 Ore Cultura.
Biografia
Nato a Venezia nel 1919 da una famiglia di artigiani-operai, Emilio Vedova inizia a lavorare intensamente da autodidatta fin dagli anni trenta. Nel 1942 aderisce al movimento antinovecentista Corrente. Antifascista, partecipa tra il 1944 e il 1945 alla Resistenza e nel 1946, a Milano, è tra i firmatari del manifesto “Oltre Guernica”. Nello stesso anno, a Venezia, è tra i fondatori della Nuova Secessione Italiana poi Fronte Nuovo delle Arti. Nel 1948 partecipa alla sua prima Biennale di Venezia, manifestazione che lo vedrà spesso protagonista: nel 1952 gli viene dedicata una sala personale, nel 1960 riceve il Gran Premio per la pittura, nel 1997 riceve il Leone d’Oro alla carriera. All’inizio degli anni cinquanta realizza i suoi celebri cicli di opere: Scontro di situazioni, ciclo della Protesta, ciclo della Natura. Nel 1954, alla II Biennale di San Paolo, vince un premio che gli permetterà di trascorrere tre mesi in Brasile, la cui difficile realtà lo colpirà profondamente. Nel 1961 realizza al Teatro La Fenice le scenografie e i costumi per Intolleranza 1960 di Luigi Nono, con il quale collaborerà anche nel 1984 per Prometeo. Tragedia dell’ascolto. Dal 1961 lavora ai Plurimi, prima quelli veneziani poi quelli realizzati a Berlino tra il 1963 e il 1964, tra cui i sette dell’Absurdes Berliner Tagebuch ’64, esposti per la prima volta a Kassel, durante documenta III, manifestazione cui ha partecipato per diverse edizioni. Tra il 1965 e il 1967 lavora a Percorso/Plurimo/Luce per l’Expo di Montreal. Svolge un’intensa attività didattica nelle Università americane oltre che alla Internationale Sommerakademie für Bildende Kunst di Salisburgo e all’Accademia di Belle Arti Venezia. La sua carriera artistica è caratterizzata da una costante volontà di ricerca e forza innovatrice. Negli anni Settanta realizza i Plurimi/Binari del ciclo Lacerazione e i Carnevali, negli anni Ottanta i grandi cicli di “teleri”, tra cui …Da dove…, …Als Ob…, Rosso, Emerging, Registrazione, il ciclo …in continuum, e la sua elaborazione sul tondo coi Dischi, i Tondi, e gli Oltre. Tra le grandi antologiche: Palazzo dei Congressi di San Marino, 1981; Museo Correr e Magazzino del Sale, Venezia, 1984; Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Trento, 1996; Castello di Rivoli, 1998.Dopo la sua scomparsa nel 2006: Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, 2007 e itinerante alla Berlinische Galerie di Berlino, 2008; Palazzo Reale, Milano, 2019; «Rivoluzione Vedova», M9 – Museo del 900, Venezia-Mestre, 2023.
Forte Bard Aosta
Emilio Vedova .Questa è Pittura
dal 30 Novembre 2024 al 2 Giugno 2025
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto allestimento mostra Emilio Vedova. Questa è Pittura dal 30 Novembre 2024 al 2 Giugno 2025 credit. Archivio Forte di Bard / Foto Jean-Claude Chincheré