Giovanni Cardone
Fino al 16 Febbraio 2025 si potrà ammirare al Museo Mudec di Milano la mostra dedicata all’ Art Brut – Dubuffet e l’Art Brut. L’arte degli outsider a cura di Sarah Lombardi e Anic Zanzi con la consulenza scientifica per la sezione dedicata a Jean Dubuffet da Baptiste Brun. L’esposizione prodotta da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE, promossa dal Comune di Milano-Cultura con il patrocinio del Consolato Generale Svizzera a Milano e che vede come Institutional Partner Fondazione Deloitte, è in collaborazione con la Collection de l’Art Brut, Lausanne, che possiede una straordinaria raccolta di oltre 70.000 opere di Art Brut nata dal nucleo storico raccolto da Dubuffet e donato alla Città di Losanna nel 1971. Disegni, dipinti, sculture e opere tessili, che crescono ancora oggi grazie ad acquisti e donazioni. Dal museo svizzero provengono più di 70 opere esposte, tra cui alcune opere “storiche” appartenenti al nucleo della collezione, come le magnifiche composizioni di figure maggiori svizzere dell’Art Brut, quali Aloïse Corbaz e Adolf Wölfli, insieme a sculture di Émile Ratier e a dipinti di Carlo Zinelli (l’autore italiano d’Art Brut più celebre). Nel cuore di una Parigi postbellica, lontano dalle sale dei musei d’arte e dai salotti raffinati, emerge una nuova, inaspettata quanto scardinante concezione dell’arte: l’Art Brut. Un’arte ‘grezza’, ‘pura’, ‘non filtrata’, letteralmente, ma non certo nel significato profondo attraverso cui la identificava il suo inventore, l’artista e teorico francese Jean Dubuffet. Questa non è infatti l’arte dei dilettanti o dei principianti. È l’arte dell’istinto, dell’anima nuda, dell’espressione incontaminata, che non si preoccupa delle regole, delle tecniche accademiche o delle convenzioni. È l’arte di chi non ha mai frequentato una scuola d’arte, ma ha imparato da sé, dai sogni, dalle visioni. Dubuffet iniziò a collezionare opere di artisti non professionisti ed autodidatti e di persone spesso ai margini della società che riuscivano, senza filtri culturali e preconcetti artistici accademici, ad andare oltre le convenzioni raccontando sé stessi e il mondo attraverso l’illustrazione di idee non convenzionali e di mondi di fantasia elaborati. Artisti che creavano solo per sé stessi, alla ricerca di una libera espressione e libera tecnica, utilizzando materiali e materie prime che casualmente avevano sottomano e servendosi così, inconsciamente, di mezzi artistici nuovi, non tradizionali e non codificati, fuori dagli schemi. Una presa di posizione radicale di Dubuffet contro il sistema dell’arte, lontano e al margine sia dai centri dell’arte tradizionale sia dai centri delle avanguardie. Grazie alla donazione della sua collezione, iniziata nel ’45, alla Città di Losanna, la Collection de l’Art Brut a Losanna è stata inaugurata nel 1976 e ancora oggi continua ad arricchirsi di nuove opere, oggi le istituzioni pubbliche, le collezioni private, le gallerie, le fiere e le mostre dedicate a questa forma d’arte si sono moltiplicate. Critici e storici dell’arte italiani hanno organizzato mostre e convegni che comprendevano in particolare opere d’Art Brut, come la Biennale di Venezia a partire dal 2013 fino alla Biennale appena apertasi, e pubblicato cataloghi su questo tema. Nonostante tale lavoro e il fatto che in questo ambito gli autori di origine italiana siano molti, sono ancora poche in Italia ad oggi le istituzioni pubbliche dedicate all’Art Brut, e sebbene sia riconosciuto dall’ambiente artistico e dal suo mercato, il concetto di Art Brut rimane relativamente estraneo al grande pubblico. In una mia ricerca storiografia e scientifica sull’Art Brut e sulla figura di Dubuffet apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che ciò che differenzia quella di Lombroso da altre teorie è il segno positivo che egli assegna al genio. Quest’ultimo ha uno spirito “altruistico” per il medico torinese, è colui che sente come un imperativo il desiderio di cambiare le cose. La maggior parte dei geni riesce ad “aprire gli occhi” alla gente comune in quanto percorre vie diverse da quelle tradizionali e “normali”. In poche parole il genio porta inconsapevolmente il fardello di essere diverso, ma grazie a ciò la civiltà progredisce. Lombroso chiama questa categoria di persone “rivoluzionario nato”, proprio per queste caratteristiche. Il genio è una persona eccezionale: “la genialità esprime il massimo dei poteri umani e dello sviluppo mentale” . Si può quindi dire che se il concetto di degenerazione comunemente porta con sé l’idea di una regressione negativa, non è così per Lombroso che vede in questa lo sviluppo verso altre direzioni produttive, come eventualmente anche quella creativa. Egli scrive infatti: “Vi hanno individui di genio, che sono o diventano pazzi; vi ebbero pazzi che diedero lampi di genio; ma il volere dedurne, che tutti i geni debbano essere pazzi, è uno storpiare, per troppa fretta, i giudizi, rifacendo l’errore dei selvaggi” , ecco le sfumature che introduce Lombroso tra il genio e il genio alienato. Non è detto che un genio per essere tale debba soffrire di malattie mentali, ma è vero che alcuni sono già patologici quando scoprono l’arte ed altri impazziscono dopo aver iniziato la loro attività artistica. Esistono però personalità geniali senza malattie mentali ed è per questo che la genialità non si può considerare una varietà di alienazione. Ciò che differenzia queste tre casistiche, cioè i geni post malattia, i geni anche pre malattia e i geni, secondo lo studioso, è una causa biologica. Gli squilibri fisici provocherebbero un’eccessiva attività cerebrale causando, in combinazione con la sensibilità dei soggetti, dei momenti creativi e dei comportamenti tipici facilmente confondibili con quelli dell’alienato; “Gli uni, i pazzi ci danno la sostanza o l’eccitazione, almeno geniale, senza la forma” . Per esempio notiamo in comune tra pazzi e geni l’alternanza e l’esagerazione di stati d’animo, la confusione tra simbolo e realtà. Genio e mattoide (le altre due casistiche) sono spesso impulsivi. La linea di confine tra malattia e sanità è molto sottile ed è per questo che Lombroso conduce uno studio di confronto tra arte dei geni e degli alienati per definire le caratteristiche dell’arte irregolare. E’ importante notare che queste conclusioni sono tratte a partire dall’analisi condotta da un alienista sulle opere di pazienti psichiatrici usando un criterio interpretativo che parte dal tipo di alienazione del soggetto malato (il cosiddetto metodo comparativo). Ad esempio se il malato soffre di depressione, i suoi disegni saranno caretterizzati da colori cupi e tratti ossessivi. Solamente quando cambierà il valore dato al paziente e alle sue opere prevarrà l’aspetto artistico rispetto a quello diagnostico, dando così un diverso valore a queste produzioni grafiche. La lista delle caratteristiche contenuta in L’uomo di genio (1896) contiene originalità e bizzarria: essendo il soggetto senza freni nell’immaginazione, la sua produzione sfocia nell’illogico e nell’assurdo, Lombroso cita come esempio Walt Whitman, che ha creato poesie senza rima e apparentemente senza ritmo, dando secondo lui allo scritto un’impronta selvaggia e originale. Oppure sottolinea la tecnica di una paziente di Pesaro che dipingeva e ricamava, come scrive l’autore, «sfilacciando i fili sulla carta colla saliva» e anche «un’altra ricamatrice, già beona ideava delle farfalle che parevano alitare. Essa aveva applicato il metodo del ricamo a colori al ricamo in bianco, in cui faceva risaltare i chiaroscuri, come fossero tinte diverse» . Egli prosegue con questo esempio, dimostrando come l’originalità degradi in bizzarria: “La bizzarria non é altro che la degenerazione inevitabile dell’originalità nel tempo. Quest’ultima può sicuramente notarsi nelle rappresentazioni di animali con più di quattro zampe. Ne è però un esempio più particolare quello che riguarda il paziente di nome M.L. , il quale aveva grande desiderio di ritornare a casa che si costruì un mezzo tutto suo per spostarsi dal manicomio al luogo dove risiedeva la sua famiglia: un carro a quattro ruote con sopravi un palo, sulla cui estremità libera fornita d’una carrucola scorreva una cordicella fissata all’asse delle ruote posteriori per un capo e per l’altro a quello delle ruote anteriori: alla fune, poi per un tratto di 4 o 5 cm, stava unito un cordoncino elastico con cui stava sul carro, traendo da un lato all’altro capo, facevalo scorrere» . Anche la genialità dunque è in questa lista e Lombroso purtroppo non la definisce in modo sistematico, ma riporta altri esempi che sono accomunati dall’abbondanza di particolari e dettagli, come quando analizza plastici e modellini creati da ricoverati che non avevano avuto nessuna formazione architettonica.
Qui in realtà la genialità diventa secondo le sue teorie sinonimo di prodigiosità, cioè capacità che si manifestano senza avere ricevuto apparentemente nessuna educazione a proposito, come nei pazienti che hanno creato un modellino del manicomio di Reggio che si scompone in modo che, aprendolo si possano esaminare le stanze, i mobili, le scale, con persino gli alberi riprodotti in maniera fedele. Quando vi è oscenità nei soggetti disegnati è sia esplicita, ovvero vengono disegnate delle vere e proprie scene di atti sessuali, che implicita. Riporta Lombroso: «é curioso che due artisti, uno di Torino e l’altro di Reggio, tutti megalomaniaci, concordassero nell’avere istinti sodomiaci, ch’essi fondevano coll’idea delirante d’esser Dei, padroni del mondo, cui creavano ed emettevano dall’ano come dalla cloaca degli uccelli; in tale attitudine uno di essi che aveva un vero senso artistico si dipinge escerando in piena erezione, nudo fra donne, il mondo, mentre era circondato da tutti i simboli del potere. Ciò riproduce e spiega il dio Itifallo egli Egizi» . Un altro tratto distintivo della produzione del genio alienato è il mischiare segni grafici, cioè qualcosa che assomiglia alle lettere dell’alfabeto, con il disegno. Questo processo viene chiamato simbolismo. E in particolare le opere appaiono come “mescolanza dello scritto col disegno, e, nei disegni stessi, la ricchezza di simboli, di geroglifici” e ancora “questo miscuglio di lettere, geroglifici e di segni figurativi costituisce una scrittura interessante, perché ricorda il periodo fonoideografico per cui passarono certamente i primi popoli”. Il caso di G.L. illustra esattamente questo. Il paziente era anche chiamato «il padrone del mondo», un malato megalomane: un contadino di 63 anni «dal portamento sicuro, zigomi prominenti, fronte spaziosa, sguardo espressivo, e penetrante, capacità cranica 1544. Indice 82, temperatura 37, 6º. era caratteristica la manifestazione grafica del delirio. Egli aveva imparato da giovane a leggere e scrivere, ma ora sdegnava l’uso della scrittura volgare. Vergava spesso lettere, ordini cambiali, ora al sole, ora alla morte, ora alle autorità civili e militari, ed aveva sempre una tasca piena di questi fogli la firma poi é sostituita da un’aquila con una faccia in mezzo, che é uno dei suoi prediletti stemmi, che porta anche sul cappello e sugli abiti.». La spiegazione di Lombroso riconduce questi suoi segni a una sorta di scrittura: «é chiaro che , oltre il salto di alcune lettere, specie vocali, come normalmente fanno i semiti, vi é qui l’uso di quelli che nei geroglifici egiziani si chiamano determinativi. La morte per esempio, é segnata con le ossa da morto» . Questo carattere in particolare verrà sviluppato in una teoria più ampia dallo psichiatra Hans Prinzhorn, ad Heidelberg, di cui si tratterà nel prossimo capitolo. L’uniformità e la ripetizione quasi ossessiva dei simboli, altri caratteri distintivi del genio, pervadono le opere degli alienati. Questi tratti sono dovuti alla permanenza di un problema irrisolto (psicologico) che provoca disagio nel malato e che si nasconde sotto le sembianze del simbolo. La persistenza fa nascere il bisogno di esprimere il disagio del soggetto, che trova in questo gesto sollievo. Ciò che Lombroso chiama minuzie è quello che oggi più comunemente è definito con il termine horror vacui e cioè la ricchezza esagerata di dettagli nel tentativo di riempire ogni spazio disponibile. Egli annota e annovera tra i tratti tipici quello che al giorno d’oggi è la caratteristica quasi necessaria per essere definito irregolare, ovvero il “non avere pubblico”. L’inutilità, come la chiama l’alienista, indica esattamente la noncuranza nel preservare o nel mostrare a terzi le opere prodotte. È questo il caso della paziente M. che impiega tempi lunghissimi per creare le sue opere su uova e limoni ma non le mostra a nessuno. “L’atavismo” inoltre è un elemento che ritorna sempre nella descrizione di produzioni irregolari e si collega a quell’apparente semplicità di forme e approccio poco naturalistico degli elementi che ricorda la rappresentazione spaziale “intuitiva” e anche simbolica dei primitivi e dei bambini. L’importanza del lavoro di Lombroso dunque sta nell’aver diffuso e portato all’attenzione di un vasto pubblico i suoi studi sulla personalità del genio con una prima e importante distinzione tra il malato con manifestazioni di genialità e il genio stesso. Nel percorso delle avanguardie si inserisce la figura di Jean Dubuffet ,possiamo dire che l’espressionismo è un movimento europeo che ha due centri di sviluppo: la Francia con i fauves e la Germania, Dresda in particolare, con il gruppo Die Brücke che nascono quasi contemporaneamente attorno al 1905 ma avranno vita piuttosto breve. Riescono a ripensare l’arte. Anche loro mettono in discussione il rapporto tra artista e realtà. La realtà è l’interpretazione dello stesso soggetto che osserva e con il suo volere può modificarla. Questo significa che non può più esistere l’unità artistica, tante e diverse sono le coscienze che “creano” la realtà tanti e diversi saranno i risultati artistici. Ciò in pratica significa rifiutare l’impostazione dalle scuole classiciste in Francia e romantiche in Germania. L’esponente principale dei fauves, Henri Matisse, userà un linguaggio originale e ispirato anche a miti classicheggianti, che esprime valori universali, ma privo dei contenuti storici tradizionali. Il quadro La Joie de vivre è un’immagine di come si vorrebbe il mondo, un logo dove uomo e natura non sono scissi e in cui tutti sono in armonia. L’immagine riprende un tema classico della pittura francese (come Le grandi bagnanti” di Cézanne, 1890) ma con la sensibilità e la mitologia primitivista dei suoi predecessori postimpressionisti. Il risultato è un’immagine che funge da critica storica contro il progresso. In Germania invece si cerca di allontanarsi dalla natura romantica. Ernst L. Kirchner , il principale esponente del movimento, afferma in maniera netta che bisogna rompere i legami con l’utilitarismo dominante del tempo, con la cultura del progresso e dell’illimitata espansione industriale. Sono queste circostanze che stanno trasformando il paese. È dunque compito dell’artista mettere davanti agli occhi della società la sua condizione. Tradotto in immagini il soggetto, per provocare una riflessione sociale, spesso è quasi banale ma tuttavia punta ad alcuni temi collettivi, ad esempio i temi dei tabù sociali come la sessualità, strettamente connessi con le teorie psicoanalitiche che si stanno diffondendo nella cultura in questo periodo.
Ciò che ne risulta è un realismo che ha un impatto notevole sulla realtà sociale. Ad esempio si può fare riferimento al quadro di Kirchner intitolato “Maezella” (1909-10): un nudo femminile di una giovanissima ragazza dalle forme ancora acerbe. Lo spettatore viene messo davanti all’ambiguità del suo desiderio (sopratutto negli spettatori maschi) provocando un forte scandalo. Il linguaggio e la tecnica sono inoltre “istintive”, primitive, infatti se il mondo che si rifiuta è quello ufficiale (compreso anche quello dell’arte accademica), di conseguenza ci si avvicina di più alle classi lavoratrici, ovvero a un linguaggio popolare e non-razionale (che si traduce in nuove tecniche, come la xilografia che lascia nell’incisione i segni netti del lavoro dell’artista e del legno sul prodotto finale). Anche il linguaggio del colore deve portare il segno del lavoro e dell’emozione, la sua violenza brutale. Deve essere evidente che l’opera è il frutto dell’azione dell’artista, e per esprimere ciò si stendono masse e macchie, la materia grezza, che solo grazie alla tecnica-manualità diventano immagine. Ed inoltre essendo la realtà distorta di conseguenza lo sono anche le immagini che la rappresentano. Entrambi i movimenti sono attratti dall’arte primitivista perché riconoscono in questi manufatti l’azione di un creatore che è ritenuto libero nel suo atto creativo, tanto libero da sembrare un atto mistico. Questa caratteristica attira particolarmente gli espressionisti poiché le immagini, spesso con funzione “religiosa”, non sono orientate a principi di verosimiglianza, non ci sono tracce psicologiche né caratterizzazioni psicologiche, ma piuttosto a creare icone e immagini “feticcio”. Con queste premesse l’artista diventa l’intermediario tra il mondo “spirituale” e quello reale (tratto che caratterizza l’interesse anche per l’arte irregolare), praticamente un sacerdote. È proprio questo sistema che gli artisti espressionisti vogliono imitare. Questo interesse per un’arte ritenuta “originaria” non è nuovo e precisamente deriva dalla passione del XIX secolo per l’esotismo, inteso come un atteggiamento anticonformista. La sostanziale differenza sta nel fatto che questi predecessori, come ad esempio Gauguin, vedevano in questi oggetti una civiltà più autentica, in accordo armonico con la realtà . Anche Pablo Picasso affascinato dai reperti delle cosiddette “popolazioni primitive” ne viene suggestionato, basti pensare a come nel 1907 con “Les madamoiselles d’Avignon” in questo dipinto le maschere primitive in qualità di oggetti intermedi tra “il mondo oscuro e noi”, ovvero oggetti che sono capaci di dare una forma alle paure e ai desideri contemporaneamente. Non è un caso che l’opera che preannuncia la rivoluzione cubista venga realizzata dopo un soggiorno nel lontano villaggio sui pirenei di Gosol, dove l’artista entra in contatto anche con l’arte primitiva iberica. Anche per il gruppo Der Blaue Reiter, nato nel 1911 e impostato su suggestioni date dal movimento di Dresda, il colore assume valenze altamente simboliche e si basa su un impianto idealistico che si allontana dal naturalismo, per affermare invece i significati simbolici e mistici della realtà. Si “apre la mente” a una riscoperta del potere spirituale delle armonie, come insegna un importante artista membro di questo gruppo, Vassillij Kandisnkij , per il quale la spiritualità dell’arte è il punto essenziale della creazione artistica come scrive nel suo fondamentale libro Lo spirituale nell’arte (1912). Per lui ogni oggetto ha un suo intrinseco contenuto (spirito), ed è grazie all’attenta selezione dell’oggetto che si trasmette a chi guarda il contenuto desiderato. Un altro fondatore del gruppo, lo svizzero Paul Klee , crede che la comunicazione si basi sull’intersoggettività, cioè da uomo a uomo senza mediazione dell’oggetto, e ha fiducia nella capacità comunicativa dei disegni dei bambini e dei malati poiché secondo lui partendo da sentimenti repressi nel processo di crescita è possibile creare una nuova arte. forse il fatto che abbia vissuto in Svizzera determina questa sottile differenza. È infatti da attribuire ad un ginevrino il primo testo sul disegno dei bambini: nel 1848 Rodolphe Töpffer nel libro Réflexions et menus propos d’un peintre genevois pone attenzione per la prima volta ai disegni dei bambini perché li considera dei modi di espressione non legati alla formalità, e pensa quindi che possano esprimere liberamente dei concetti basandosi solamente su una idea istintiva e creativa. Questo tipo di considerazione si diffonde anche nel gruppo Der Blaue Reiter che riproduce nel suo Almanacco del 1912 delle opere di bambini tratte dalla collezione dell’espressionista Gabriele Münter. Nello stesso testo erano presenti anche immagini di arte folk e naïve. Una cosa molto importante è che queste realizzazioni erano paragonate a quelle di Picasso e Braque. Si può notare inoltre che alcuni tratti dell’arte irregolare trovano delle consonanze nello stile degli artisti di questo gruppo: distorsioni spaziali, colore dato a “blocco” senza sfumature, colori forti. Le teorie sull’arte primitiva e infantile erano diffuse anche in altri campi come l’etnografia e la medicina, ma rispetto a questi, gli artisti non avevano un approccio evoluzionistico. Non le valutavano come un oggetto di studio al fine di approfondirne il livello di “primitività” o d’ignoranza, ma come forma originaria alla quale bisognava assolutamente fare ritorno. Due casi particolari hanno poi influenzato a lungo raggio l’arte del XX secolo: uno è quello di Henri Rousseau il secondo quello di Ferdinand Cheval . Il primo è un artista autodidatta, soprannominato dai suoi amici artisti “il doganiere”, che grazie alla sua pittura intuitiva, ma ricca di allegorie, ha fortemente impressionato i suoi amici artisti e i critici già contemporanei e ha permesso, come scrive anche Giulio C. Argan di “ripartire dal grado zero”56 come possiamo vedere ad esempio nel suo “Il sogno” (1910). La sua arte ha interessato molti (tra cui Picasso) perché è una via alternativa per ripensare l’arte che colpisce molto emotivamente, sia per le forme, il colore, che per la ricchezza di dettagli. Il secondo, Fernand Chaval ha una storia simile a quella del Doganiere con l’unica differenza che invece di professione era un postino. È l’architetto del “Palais idéal”, una struttura di ventisei metri per dodici che ha richiesto trentatré anni di tempo per la sua costruzione, dal 1879 al 1912. Pare che un giorno il postino fosse inciampato su una pietra e così racconta: “scoprii di aver fatto uscire con il piede dalla terra una pietra di forma strana e attraente e che il luogo ne era pieno. L’avvolsi allora nel fazzoletto e con molta cura me la portai a casa, ripromettendomi di cercarne altre nei momenti liberi del lavoro”. Come annota Bedoni, Cheval “ha saputo interrogare la pietra, ‘vedendo’ come solo certe figure mitiche descritte dalle tradizioni popolari hanno saputo fare. Figure infantili come le bimbe del monte Tmolo”. L’interesse che suscita questo artista autodidatta, ma certamente anche Rousseau, è dovuto alla “freschezza” di visione artistica. Essi Vedono la realtà “per la prima volta” come se avessero gli occhi di un bambino, ed è così che la rappresentano. Avevano “quello stupore mitizzato da molti esponenti della avanguardie artistiche del primo novecento”. In particolare Cheval ha suscitato molto interesse nell’ambiente surrealista, e il suo palazzo sperduto nel paesino di Hauterives è stato visitato dai membri delle avanguardie.
André Breton lo visita ad esempio nel 1931, su indicazione dello scrittore Jaques Brunius che aveva raccolto documenti sul palazzo, e vide in esso un caso esemplare di surrealismo realizzato. Vi erano tutti gli elementi per definirlo un’opera surrealista tout court.e da quel momento Cheval diventa un maestro di “arte medianica”. Queste esperienze europee di inizio secolo hanno in comune l’interesse per le “arti primitive”, anche perché in questi anni si sviluppa anche la ricerca etnologica e l’antropologia. Una raccolta importante di oggetti etnologici era custodita infatti a Parigi nel “Musée d’ethnographie del Trocadéro”. Picasso lo visita più volte, affascinato, e la passione per tali reperti diventa pure una moda. I reperti colpiscono anche artisti come Derain e Matisse, diventando un campo di interesse che si sviluppa notevolmente tra gli intellettuali di questo periodo, che catena addirittura delle rivalità tra gli artisti che vorrebbero avere il primato della “scoperta” di quest’arte. È dalla ricerca in questi campi che nasce il successo dei libri di Morgenthaler e Prinzhorn, ed è proprio Klee a dare inizio alla loro diffusione. L’artista infatti conosce la collezione dell’ospedale di Waldau, in quanto il fratello di Walter, Ernst Morgentaler, è un pittore noto e amico di Paul Klee. E ancora lo stesso Klee dice che la sua arte è stata molto influenzata da un paziente citato nel libro di Prinzhorn, ovvero Brendel. Un artista irregolare che lo accompagna anche nell’insegnamento al Bauhaus, a cui durante le sue lezioni faceva molto riferimento per trasmettere l’importanza della spontaneità nell’atto creativo. Anche Max Ernst è un conoscitore della collezione di Heidelberg, che visitò spesso prima dell’uscita del libro di Prinzhorn. Lui stesso aveva una collezione di disegni di pazienti affetti da malattia mentale e quando organizza una mostra a Colonia nel 1919 mischia le opere dada con quelle primitive, infantili e irregolari. È sempre dovuta a un passaparola la diffusione del testo di Prinzhorn in Francia: grazie alla donazione del libro a Paul Eluard, questo testo passa per le mani di molti altri come Jean Arp, Jean Dubuffet e André Breton. Tutti artisti che di lì a qualche anno fonderanno l’esperienza della compagnia de l’Art Brut. L’arte irregolare, infantile e in generale brut continua dunque a rientrare negli interessi dei movimenti artistici del XX secolo, e si lega in particolare anche alle esperienze surrealiste, il ruolo dell’inconscio per i surrealisti ad esempio è fondamentale, poiché in questo “spazio” si nascondono idee e forze che normalmente vengono occultate, che vanno riscoperte per creare opere d’arte. Solamente tramite dei sistemi e delle tecniche nuove è possibile rivelare questa fonte creativa come nel caso della “scrittura automatica” sperimentata da Breton assieme a Philippe Soupault. Lo stesso Ernst usa due tecniche che verranno usate anche da Dubuffet, il collages (che viene spesso impiegato anche nelle opere irregolari ma che era stata già introdotta di recente dai cubitsti), e il frottage (una specie di ricalco di texture che formano un’immagine nuova e inedita). Vennero percorse da altri vie alternative, legate all’uso di sostanze allucinatorie, ad esempio quelle percorse da Henri Michaux . Il testo di Prinzhorn si inserisce in un contesto di ricerca artistica di questo tipo e per di più è nelle sue stesse intenzioni inserirsi in questo dialogo, nel suo libro dichiara infatti il voler “fare chiarezza nel caos dell’arte contemporanea”. Nel suo testo definisce che cosa sono le espressioni figurative e da dove nascono (ovvero dal mondo interiore). L’importanza e la diffusione del libro è dovuta anche all’apparato fotografico molto ampio, che fornisce il materiale visuale con cui gli artisti si vogliono confrontare. Come per esempio riporta Klee, dal suo libro “Confessione creatrice” del 1920, l’influenza che le immagini di arte irregolare hanno sugli espressionisti è tanta: “Vedete questi quadri religiosi! Una profondità e una forza espressiva, che non si potrebbe mai raggiungere nel tema religioso. Veramente arte sublime. Una visione direttamente spirituale. Sono io dunque sulla strada del manicomio? A parte il fatto che tutto il mondo è un manicomio” L’importanza della diffusione delle teorie prinzohrniane emerge dal fatto che gli artisti di impossessino del termine e del significato clinico di “automatismo”, un processo che, nonostante quello che affermasse Breton, è stato introdotto dallo psichiatra Pierre Janet e non da Freud, che si è sempre distanziato dal movimento surrealista.
L’automatismo è un fenomeno subcosciente, espresso attraverso un’attività ripetitiva e conservativa che si sviluppa in modo abnorme quando le funzioni sintetiche superiori sono ridotte. Un po’ come quelle stereotipie che si sviluppano in segno, André Breton lo inserisce nel manifesto surrealista del 1924 e afferma che grazie a questo preciso processo si rivelano i contenuti “surreali”, ovvero quelli dell’inconscio. L’interesse nei confronti di questo libro scema anzi si capovolge nella Germania degli anni ’30 a causa del clima e degli avvenimenti storici in corso. Il nazionalsocialismo propugna infatti ideali che allontanano la diversità artistica degli outsider come dei comportamenti disturbati di menti inferiori. Il dott. Wilhelm Weygardt fa di questa posizione una tesi “razionale” scrivendo su questo tema nel testo intitolato Kunst und Rasse (1928). In questo testo sono presenti confronti fotografici tra opere dei pazienti (ovviamente le immagini sono state scelte ad hoc) e le opere degli espressionisti. La stampa nazista nel 1931 a proposito della collezione di Prinzhorn scrive: erano forse seguaci del capo tribù indiano e saggio della relatività di Einstein coloro i quali ‘prove schiaccianti’ alla mano, volevano dimostrare a noi, ingenui sprovveduti, persuasi della necessità di una mente sana in un corpo sano quale presupposto necessario alla creazione artistica, che sotto questo sole ‘nulla si sa con certezza’, e quindi nemmeno dove finisce la ragione e inizia l’assurdo, o, detto altrimenti, quanto siano legate da stretta affinità le opere degli espressionisti, già mezzo defunto con prodotti usciti da menti obnubilate? É importante tenere presente che, come afferma Antonello Negri nel testo L’arte in mostra, il giudizio del partito su quest’arte era dovuto al fatto che l’immagine artistica era scelta per rappresentare il Reich, e poiché secondo la loro ideologia doveva esistere solo una razza superiore senza difetti, l’arte degenerata diventa automaticamente il nemico da debellare. Il Reich quindi non poteva essere rappresentato da arte di malati mentali o bambini. Questa posizione culmina nel 1937 con l’apertura della mostra itinerante “Entartene Kunst” (arte degenerata) creata dal partito nazionalsocialista per dimostrare l’abominio prodotto dalle menti disturbate e avviata in contamporanea con la prima “Grande esposizione dell’arte tedesca”. La mostra parte da Monaco e quando arriva a Berlino sono presenti le immagini della collezione di Prinzhorn . Mette inoltre a confronto le opere di artisti delle avanguardie con quelle considerate “ariane”, ovviamente con l’intenzione di mostrare la superiorità di quest’ultima sezione. Le opere ariane erano state scelte direttamente da Hitler e godevano di un allestimento accurato. Le opere moderne invece erano volutamente accatastate e poste, in uno spazio marginale del percorso, e accompagnate da didascalie denigratorie alcune statue addirittura non avevano piedistallo, i quadri erano appesi a tutta parete uno attaccato all’altro. In catalogo le opere erano suddivise (senza un filo conduttore specifico) in nove sezioni, come riportato nel testo Arte totalitaria” (1990) di Igor Golomstock: la prima parte è una panoramica generale sulle tecniche pittoriche “barbare” moderne (come vengono designate dal linguaggio nazista le opere primitive), che hanno portato alla distruzione della forma e del colore (tra gli artisti esempi di degenerazione spiccano Otto Dix e Kirchner ); seguono le nuove concezioni religiose (Emil Nolde, scrittore spiegare meglio ), che vengono derise, e le opere moderne che secondo i nazisti hanno un riferimento politico, tra cui spiccano gli espressionisti considerati anarchici; segue poi la sezione dedicata alla propaganda marxista, che si pone contro le forze armate, rappresentata delle immagini di Grosz e Dix. Un altro settore è quello che mostra come la realtà, senza più la struttura, diventa un bordello: in questa sezione e in quella successiva vengono esposte le maschere africane e i quadri degli espressionisti come esempio della coscienza razziale, non intesa come barriera; vengono poi mostrate delle tipologie di viso ebreo e per concludere, viene messa in mostra quella che è considerata la follia totale, ovvero le opere più degenerate: l’astrattismo e il costruttivismo. La mostra circola nel territorio nazista fino al 1941 passando varie città tedesche e austriache. É stata una delle esposizioni più frequentate del XX secolo. 650 opere e 110 artisti per oltre due milioni di visitatori a Monaco e più di un milione nel resto del tour tra Austria e Polonia.
È in Francia dunque che procedono che le ricerche sull’arte primitiva e infantile anche in questo periodo: Gaston Ferdière è un medico e psichiatra che porta la diffusione di queste teorie in ambiente parigino. Ad esempio organizza a Rodez una mostra di opere realizzate da pazienti psicotici e ancora nel 1946 crea una mostra che raccoglie vari artisti provenienti dai manicomi di tutta la Francia. Il nome di questo psichiatra è collegato ad artisti e intellettuali dell’avanguardia francese degli anni trenta come il surrealista André Breton e Marcel Duchamp. Spesso accadeva che questo gruppo di amici si ritrovasse presso il manicomio di Sainte-Anne per discutere dell’arte irregolare. Amavano confrontarsi con il testo “Bildnerei der Geistkranken” (1921) dello psichiatra svizzero Morgenthaler. È proprio intorno a questi anni che Dubuffet inizia a viaggiare per la Francia e la Svizzera, quella francese in particolare, per raccogliere le opere destinate alla sua collezione, facendo conoscenze, tra gli altri, con Ferdiére (1943/45). Importantissimo è anche il contatto con il mondo culturale svizzero: negli anni trenta nei musei della svizzera francese, soprattutto a Ginevra, vennero realizzate mostre che espongono alcune opere delle collezioni private di psichiatri svizzeri e francesi. Fondamentale è anche la pubblicazione della rivista “Minotaure” tra il 1933 e il 1939, sempre a Ginevra. Questa rivista era stata creata da Albert Skira e coinvolgeva artisti, scrittori, critici poeti, filosofi, etnologi con lo scopo di far luce su argomenti poco conosciuti dell’arte e pubblicava immagini di disegni di pazienti psichiatrici, ma anche di artisti medianici, oggetti africani, cartoline.. Tutte queste esperienze fanno presa sull’opinione pubblica e che “abituano” il pubblico a pensare all’arte dei malati sotto un’altra luce, di riflesso da quella dell’avanguardia. Scrive infatti anche Lucienne Peiry in Art Brut (2001): “This review undoubtly influenced cultural life in Switzerland with its open-mindness and new ideas” . Il primo viaggio di ricerca di Dubuffet in Svizzera avviene nel 1945. Vi si reca in diverse occasioni e inoltre prima di questa data aveva vissuto a Losanna nel 1923 e 1934, e mantiene per più di vent’anni i contatti con lo scrittore Paul Budry e anche René Auberjonois , che conobbe tramite degli amici che vivevano a Parigi ma originari della Svizzera (Charles-Albert Cingria e Blaise Cendrars). L’interesse per l’arte e soprattutto per quella brut nasce per caso, quasi come un’epifania: mentre era in servizio militare, all’ufficio meteorologico di Parigi (1923), riceve un quadernetto di Clementine Rimpoche, inviato come materiale per un concorso bandito dall’ufficio in cui si richiedeva di fare una foto del cielo sempre alla stessa ora. La signora Clementine invece disegnava il cielo che vedeva dalla propria finestra. Dubuffet rimase talmente colpito che le fece visita e per un certo periodo continuò a raccogliere i suoi scritti e i suoi disegni. La signora era affetta da demenza con episodi di allucinazione. Si può dire quindi che il primo approccio di Dubuffet all’Art Brut avviene con l’arte medianica – spirituale, un tipo di produzione artistica in uno stato di alterazione psicologica in cui il soggetto cade in trance, uno stato che ricorda quello in atto nelle psicosi. La definizione di questo genere di arte sarà sviluppata da Dubuffet solo a vent’anni di distanza. Bisogna notare però che c’è un precedente nel pensiero artistico di Dubuffet, dimostrando così che il concetto dell’Art Brut ha radici forti nell’estetica dell’artista. Si tratta dell’idea dell’ “uomo comune”. Infatti egli definisce l’uomo comune colui che fa arte partendo da tecniche espressive popolari e basilari, ovvero tutti coloro al di fuori del circuito ufficiale. Scrive infatti: “Di sicuro l’arte non è fatta per sbadigliare. Un’arte che fa sbadigliare potete buttarla nel cestino immediatamente. Non c’è bisogno di spiegazioni. La sentenza era pronunciata fin da prima. La frusta! La frusta subito per un artista che annoia il suo pubblico, qualunque sia la fatica che ha fatto o gli studi che ha svolto. Le gallerie di arte sono le botteghe dei mercanti di quadri; l’ingresso è libero, questo è l’uso bisogna allontanarsi dalla propria strada per entrare in queste gallerie, bisogna aver preso l’abitudine di andarci , e quelli che lo fanno, in fin dei conti, sono soltanto i fanatici della pittura cui alludevo. Essi formano una piccola cerchia assai ristretta. Ma il grosso pubblico non vi ha parte alcuna, niente di tutto questo gli capita sotto gli occhi. E a me dispiace perché quando lavoro non miro all’esclusivo diletto dei un gruppetto di specialisti, anzi vorrei piuttosto che i miei quadri divertissero e interessassero l’uomo della strada, quando esce dal lavoro, non certo il fanatico, l’iniziato, ma l’uomo privo di istruzione o di disposizioni particolari. É con l’uomo della strada che vorrei farmela, è a lui che mi sento simile, è a lui che mi sento simile” . E solamente quando cambierà radicalmente la concezione di arte, sarà possibile avere un pubblico diverso. Ovvero quando: “l’arte a mio avviso consiste essenzialmente in questa esteriorizzazione dei movimenti di umore più intimi, più profondamente inerenti sll’animo dell’artista. E siccome tali movimenti interni li abbiamo denro di noi, sempre gli stessi, é per noi assai toccante trovarci di fronte alla loro proiezione”. E ancora: “il punto di partenza è la superficie da animare – tela o foglio di carta-e la prima macchia di colore o di inchiostro che vi si getta: l’effetto che si produce , l’avvehtuna che ne risulta. É questa macchia, a man mano che la si arricchisce e la si ori3nta, che deve guidare il lavoro. e tu pittore, macchie e tracciati, guarda le tue tavolozze e i tuoi stracci, in essi, é la chiave che vai cercando!” E il discorso si amplia anche al mezzo principale della produzione artistica, il colore: “più che scegliere o giustapporre impasti di colori diversi, al pittore spetterà applicare il suo impasto in certe maniere che devono essere espressive e imprimergli certi movimenti che devono costituire un linguaggio, il più toccante e il più parlante dei linguaggi, non analitico, come quello delle parole, ma tanto più immediato e spontaneo, tanto più ricco, svelando in tutta la loro vita, come un diagramma o un’iscrizione cinematica ottenuta per impressione diretta del gesto, i ritmi più intimi, i movimenti viscerali o circolatori che animano l’operatore, le correnti e gli impulsi che percorrono il suo essere.” . L’idea dell’uomo comune ha come punto di riferimento le comunità primitive, che hanno un approccio rispetto all’espressione creativa di completa libertà. “Dell’ incanto dell’arte , dal genio, ce n’è dappertutto , ne viene fuori da ogni parte. Ogni uomo ne dimostra continua mente, nei più umili lavori, nei discorsi più futili, nei gesti e nella mimica. Nelle società semploci e sane, fra i negri d’ Africa e d’Oceania, per esempio (almeno finché i marescialli degli zuavi e i missionari non arrivano ad abbruttirli) non si fanno tutti i complimenti che si fan da noi con la pittura e la scultura.” Ed è partendo da questa base che nasce l’aspra critica al sistema occidentale, come dice lo stesso Dubuffet in questa citazione: “é straordinariamente ingenuo credere, come pure comunemente si crede, che l’uomo moderno dipinga i suoi noiosi e brutti quadri perché ormai ha imparato a disegnare e a dipingere, mentre l’uomo d’una volta faceva della pittura divertente perché non sapeva disegnare o dipingere. È completamente falso e assurdo, credetemi. Si senta , anzi accettare che simili assurdità saltino in testa alla gente. I pittori antichi sarebbero stati tanto stupidi e maldestri da non essere stati capaci di fare un disegnino d’un oggetto in prospettiva mettendo bene le ombre e i riflessi in modo da dar risalto e rilievo alla figura, magari con uno sfumino ) cosa di cui è capace un qualunque quindicenne con licenza elementare ? Sarebbe per lo meno strano a pensarci bene.” Solamente a posteriori, come afferma anche Lucienne Peiry nel testo Art Brut. The origins of outsider art (2001), questa figura, cioè l’uomo comune, diventa l’artista brut nella visione di Dubuffet. Sembra quasi, a causa dei vent’anni che passano dall’incontro con Clementine alle prime raccolte di opere di artisti come Aloise, che l’accostamento nasca più per un’esigenza intellettuale che per una vera passione nei confronti dell’arte irregolare. Altri indizi fanno pensare a un accostamento di convenienza all’arte di artisti irregolari e in particolare riguardano il fatto che nei suoi testi teorici non ci siano riferimenti ad artisti specifici, con nome e cognome, ma che siano illustrati e discussi nelle pubblicazioni a loro dedicate dei “Cahiers de l’Art Brut”. In questo modo non traspare ufficialmente così forte la connessione tra l’arte irregolare e il lavoro di Dubuffet artista. Ecco come, tramite le sue parole prese da una conferenza del 1951, collega l’art brut, con un filo sottilissimo, alla vera natura dell’arte, quella che presumibilmente crea lui stesso: “é soltanto in questa art brut, che si trovano a mio avviso i processi naturali e normali della creazione artistica, nel loro stato puro ed elementare.”
Dopo la guerra l’artista è deciso ad abbandonare l’attività di pittore per prendersi le responsibilità di padre e marito lavorando presso l’impresa vinicola di famiglia ma nel 1933 si lascia tutto questo alle spalle e si trasferisce a Parigi, dove riprende con la pittura, ispirandosi agli artisti che collezionava usa per esempio una tecnica povera come la cartapesta, che appartiene alle arti popolari. Interrompe la produzione per prendere parte alla seconda guerra mondiale, ma esce dal servizio nel 1942. È in questo periodo che entra in possesso del testo di Prinzhorn, ricevuto in regalo dallo scrittore Paul Baudry . Non essendo capace di leggere in tedesco, e poiché la traduzione non era ancora stata fatta, il libro gli servì principalmente come catalogo d’immagini. La sua ricerca sull’art brut è lunga tutta la vita ed è anche un costante riferimento per la sua produzione pittorica. Forme, colori e tecniche si ispirano a quelle tipiche del linguaggio disturbato: come non vedere nella serie di quadri dedicati alla città di Parigi del 1961 elementi e forme tipiche dei pazienti? Dubuffet conia però il termine Art Brut solamente nel 1945, e contemporaneamente inizia la ricerca sistematica di opere nei manicomi. Visita le raccolte delle cliniche, quella di Waldau per esempio, e successivamente visita il “Piccolo museo della follia” a Ginevra. Trova così Aloise e Wölfli. Altri artisti fanno segnalazioni a Dubuffet, che oramai era conosciuto nel settore. È a questo punto che la ricerca si amplia all’arte popolare, arte etnica oceanica e dipinti e disegni di autodidatti e bambini. In un secondo momento però verrà “fatta pulizia” di questi poiché secondo lui l’ Art Brut non si collega alle fasi primitive e infantili ma significa: “un lavoro eseguito da una persona del tutto priva di cultura artistica, lavoro nel quale il mimetismo, diversamente da ciò che accade con gli intellettuali, non ha alcun ruolo. Così il creatore di un opera di questo genere trae ogni cosa (soggetti, scelta dei materiali impiegati, metodi di trasposizione, ritmi, modi di scrivere etc…) da sé stesso e non dalle convenzioni dell’arte classica o dell’arte contemporanea alla moda” Gli autori irregolari per lui non sono né pazienti né artisti, sono semplicemente gli esecutori delle opere. Questo fa capire che posizione di giudizio prende nei confronti dell’arte irregolare: nessuna. Né quella medica né quella dei surrealisti. Ciò che apprezza è la distanza dagli schemi artistici fin ora esistiti. Per Dubuffet non esiste un tipo di arte migliore dell’altra, e se esiste è sbagliato non mettere in discussione la definizione di cosa sia migliore. Nel mondo culturale ci sono criteri di selezione, ciò che definisce l’ammissione o il rifiuto dipende dalla definizione che le strutture tradizionali, storici dell’arte, accademie, intellettuali danno al termine “cultura” e “bello”. Nel libro intitolato Asfissiante cultura (1967), Dubuffet cerca di far riflettere il lettore per fargli prendere coscienza del fatto che “ogni epoca tende a fossilizzarsi in un interpretazione di se stessa” ma sopratutto che questa interpretazione, che per vocabolario significa attribuire (arbitrariamente) un significato a ciò che si manifesta o è espresso in modo simbolico, non è l’unica voce, non è indiscutibile. Anzi va discussa e smantellata se lo si ritiene opportuno; “la grande questione non consiste nel far tabula rasa, ma nell’imparare a disimparare, nell’apprendere modi sempre più adeguati per smantellare le sovrastrutture soffocanti edificate dagli specialisti”. L’uomo troverà libertà solamente nel momento in cui si allontanerà e ripenserà queste imposizioni. In arte questa purezza è quella dell’artista brut, da cui bisogna prendere esempio perché non ha interessi nella produzione se non quello di soddisfare un suo istinto naturale. Non cerca riconoscimento, non cerca soldi: è un individuo libero da queste strutture e il pittore emerge grazie al suo status di isolamento imposto dalla sua malattia. È in questo spazio, che si crea grazie al porre la relatività di opinioni sulla cultura, che l’arte Brut trova la sua prima strada di diffusione veramente e semplicemente artistica. Nel 1948 nasce la “Compagnie de L’Art Brut”, un gruppo di artisti provenienti da diversi ambiti artistici tutti interessati all’ espressione brut. Ne fa parte, tra i tanti, anche André Breton e dieci anni più tardi anche Vittorino Andreoli. Potevano parteciparvi tutti coloro che avevano un forte interesse in questo argomento.
L’attività di questo gruppo era focalizzata sulla produzione, promozione e la ricerca nel campo dell’arte irregolare: con esposizioni presso la galleria parigina di Drouin (1949) e presso la Galerie des Beaux-Art (1967) e la pubblicazione dei Cahier de L’Art Brut, un giornale che conteneva le ricerche più aggiornate appunto sull’Art Brut. Come si è notato in precedenza, la teoria e l’arte di Dubuffet sembrano viaggiare su due binari separati, che divengono paralleli solamente quando si parla della necessità di pensare all’arte in termini non culturali. Ma spesso succede che non vengano portati esempi di artisti perché in un certo modo Dubuffet vuole tenerli anonimi. Anche la donazione della sua collezione alla città di Losanna é avvenuta in questi termini, le opere dovevano rimanere segregate in questo luogo, non potevano essere prestate e nemmeno vendute. L’eventualità che questo accadesse, secondo l’artista, avrebbe fatto cadere la condizione necessaria per parlare di Art Brut, ovvero quella di essere al di fuori della mercificazione artistica. Questo spiega anche perché sia reticente nel citare nomi e portare esempi. “credo che l’arte andrebbe molto meglio nei nostri paesi se nessuno vi facesse attenzione, se non se ne facesse il minimo caso. Anche soltanto la semplice parola arte non mi piace; preferire che non esistesse o che la cosa non avesse un nome.” La direzione della collezione di Art Brut di Losanna però al giorno d’oggi valuta in termini diversi le opere, ormai l’importanza storica della collezione è assodata e le opere della collezione hanno un valore e un alto riconoscimento culturale. Nel momento in cui queste opere sono divenute importanti per un artista così famoso come Dubuffet non sono più state solo opere di arte marginale come la intendeva lui. La sostanziale differenza sta dunque nel fatto che ora i nuovi artisti marginali che vengono di volta in volta scoperti vengono subito inseriti in un contesto culturale e vengono catalogati, pubblicati in cataloghi di mostre e vengono magari anche organizzate per loro delle personali. Dopo due anni dalla definizione del termine art brut nasce il “Foyer de l’Art Brut” nei sotterranei della galleria di René Provin, che a quel tempo rappresentava artisti come Kandinskij, Dubuffet stesso e anche Michaux, come un logo deputato all’esposizione e la collezione di solo arte brut. Questo spazio è una voce forte contro l’astrattismo che si stava affermando a Parigi, ed era gestito dal musicista, membro della compagine, Michel Tapié. Solo dopo quattro anni viene sciolta la compagnia degli artisti per divergenze di pensiero tra Bréton e Dubuffet e la collezione nel 1951 nel frattempo viene portata negli Stati Uniti (1951) dove la gestione della collezione viene data ad Alfonso Ossorio. Nel 1955 la famiglia Dubuffet si sposta nel sud della Francia per motivi di salute della moglie, a Vence. L’artista odia il posto, pensa di trovarsi tra zoticoni che non capiscono nulla di arte. La vita che tanto cercava quando era a Parigi, lontano dalla mondanità artistica e la chiusura culturale, non lo stimola e questo lo influnza notevolmente. La ricerca rimane bloccata fino a quando non consce Alphonse Chave, un piccolo gallerista (“Les Mages”, i magi è il nome della galleria) con cui parla quotidianamente di arte e che lo stimola a riprendere le ricerche. Organizzano delle piccole mostre nella gallerie di Chave, mettendo anche in vendita delle opere , quasi dimenticandosi delle regole che aveva imposto durante l’esperienza della compagnia di Parigi. Il rapporto con l’amico gallerista purtroppo però si logora e Dubuffet riprende in mano la gestione della sua collezione secondo i suoi termini e ritorna a Parigi. La collezione ritorna così nella capitale dopo dieci anni di esilio e trova casa in rue de Sèvres 137. Viene esposta ma purtroppo senza una corretta disposizione La collezione passa da uno stato di reclusione (poiché di nuovo non accessibile al pubblico) all’altro. Da questo momento le opere non vennero né prestate né vendute (condizioni anche per la futura cessione al museo di Losanna). Ci furono però svariate nuove acquisizioni, soprattutto nel campo dell’arte degli spiritualisti, di cui fanno parte ad esempio Madge Gill, Augustin Lesage, Tripier e Lonné. Viene anche ricreata la compagnia. In questo nuovo tentativo viene ripresa anche l’idea delle pubblicazioni, nasce così la pubblicazione di L’Art Brut, si tratta di monografie illustrate dedicate a una cinquantina di artisti, quelli ritenuti più interessanti, con lo scopo di illustrare la vita e la storia degli autori della collezione, non solo per la diffusione teorica, ma ben più specifico, ovvero interpretativo.
I primi volumi vennero pubblicati direttamente dalla compagnia fino al 1973, in nove numeri in totale. Poi, quando la collezione venne donata, toccò al museo della “Collection de l’Art Brut” continuare con questo lavoro. Attualmente la pubblicazione è arrivata fino al numero 24 . Dubuffet riprende anche con la pratica allestitiva, è così che nasce la mostra del 1967 al Musée d’Art Decoratifs a Parigi intitolata semplicemente “L’Art Brut”. La mostra venne organizzata per ridare una giusta e più reale prospettiva a questa tipologia d’arte e raccoglie 200 artisti per un totale di circa 5000 opere. Da questo momento Dubuffet realizza di aver dato storicità a queste opere, facendole entrare nella storia dell’arte, una cosa che si era sempre riproposto di non fare. Decide quindi di donare la sua collezione. Ci sono trattative che prevedevano l’accorpamento dell’art brut al nuovo Centre Georges Pompidou, ma la prospettiva di far entrare le opere in un’istituzione così “pubblica”, non attraeva Dubuffet. Michael Thévoz, un giovane curatore svizzero si fa avanti e propone a Dubuffet la soluzione ideale. Garantisce che la collezione avrà un suo spazio autonomo e indipendente a Losanna, che aprirà al pubblico nel 1976. Con la donazione si conclude il lavoro di ricerca di una vita. È convenzione comune ritenere che dal momento della donazione alla città di Losanna (non molto lontana dalla mostra di Parigi), gli artisti brut in un certo senso “cambiano di generazione” poiché ormai sono stati istituzionalizzati. e questo “processo di istituzionalizzazione” del nucleo centrale delle opere di Dubuffet prosegue ulteriormente con la creazione di due sezioni del museo di Losanna. Una dedicata alla ricerca ormai storica dell’artista. L’altra chiamata “Collection neuve invention”. Negli anni cinquanta infatti la ricerca di artisti nei manicomi subisce un grosso arresto. L’utilizzo di psicofarmaci che inibiscono l’attività artistica e l’introduzione dell’art theraphy, ovvero uno spazio dove l’arte viene “educata” e usata con fini precisi, coadiuvanti alla terapia, bloccano la scoperta di personalità artistiche nei manicomi e obbligano la ricerca in nuovi e diversi ambienti dove la cultura non è stata intaccata. La “Collection neuve invention” raccoglie questi nuovi artisti, e la ricerca parte dai punti di definizione dlel’art brut, ma con delle novità inevitabili . La collezione di Art Brut di Dubuffet è attualmente conservata presso lo Chateau Beaulieu di Losanna. La sua donazione è stata voluta dallo stesso creatore nel 1971 il quale ha scelto la città di Losanna, del canton Losanna in Svizzera, come depositario. La decisione, come dice lo stesso artista, è stata naturale visti i rapporti di amicizia che lo legano ad abitanti di questa regione, da dove tra l’altro ha iniziato la sua ricerca. Per lui è stato determinante l’ambiente svizzero, che ha una sensibilità e comprensione maggiore nei confronti dell’arte irregolare. Sicuramente la larghezza di vedute della società svizzera rispetto a queste manifestazioni espressive ha avuto un grosso peso nella carriera dell’artista, ma è altrettanto vero che solamente la città di Losanna, tra le varie opzioni che si prospettavano anche da enti con sede a Parigi, garantiva quella marginalità che Dubuffet ha sempre cercato di riservare ai suoi artisti. Non appena nel 1970 ha dichiato di voler donare la collezione per assicurare la sua preservazione e renderla accessibile al pubblico, il ministero della cultura francese è intervenuto con diverse offerte per l’acquisizione. L’idea principale era quella di annettere la raccolta al “Center Georges Pompidou”, esponendo le opere in esposizioni con cadenza periodica. L’idea di aver riservato solo poco spazio all’anno nelle mostre temporee non piaceva a Dubuffet, e per questo motivo rifiutò la proposta. Altri scenari prevedevano come sedi lo Chateau de Carouge in Normandia, o il “Museé d’Art Decoratifs” di Parigi. Non solo la Francia si mostrò interessata ma anche altre nazioni si mostrarono entusiaste per l’eventuale acquisizione, Germania e America sono tra queste. Per la Svizzera si fa avanti Michel Thévoz, un giovane storico dell’arte e curatore che aveva fatto degli studi su Luois Soutter e all’epoca stava scrivendo il libro che sarebbe uscito nel 1975 con il titolo di “L’Art Brut”. È stato lui a sottoporre il caso all’attenzione di alcune amministrazioni delle città del canton Vaud, per poi giungere all’ufficio del sindaco di Losanna, il quale consapevole dei vantaggi che avrebbe portato alla comunità, garantisce il suo supporto economico e amministrativo al fine di realizzare una struttura di accoglienza per la collezione secondo i desideri dello stesso artista.
Il 13 giugno 1971 la città di Losanna firma il contratto della donazione. Da questo momento inizia una collaborazione tra il nuovo direttore della collezione, Thévoz, e Dubuffet. Nonostante il curatore sia stato un buon interprete delle volontà e dei principi originari della collezione e abbia fatto gran parte del lavoro in autonomia, l’allestimento porta il tocco di Dubuffet che continua a seguire a distanza la sua collezione, come una figlia ormai cresciuta, sempre informato ma mai invadente. L’artista continua a sostenere con donazioni di denaro la collezione, permettendo così l’acquisizione di nuovi materiali. Un esempio della loro collaborazione è la scelta di non usare la parola “museo” per definire il luogo di conservazione delle opere e dei suoi documenti, poiché questo gesto avrebbe immediatamente richiamato l’idea di un’istituzione culturale, quindi la connessione al mercato dell’arte. A questo, Dubuffet in particolare, preferisce “Collection de l’Art Brut”, che evoca un semplice raggruppamento in un luogo unico delle opere. Inoltre, come spiega la storica dell’arte Lucienne Peiry, la collezione è un antimuseo, cioè il materiale di per sé, i suoi contenuti, sono intrinsecamente incongrui con la nozione di “museificazione”. E quindi l’unica cosa da fare è fondere questo aspetto nell’allestimento. Thévoz dunque decide che il percorso ha lo scopo di mettere in crisi e aprire la mente a nuove prospettive sull’arte, quasi come fosse un viaggio iniziatico, trasformando l’allestimento in una materializzazione dell’idea originaria di Dubuffet di Art Brut. Il percorso espositivo non mira cioè a trasmettere contenuti, perché la maggior parte delle opere sono di difficile interpretazioni. La caratteristica principale dell’opera secondo le intenzioni dei creatori dell’allestimento è la misteriosità. Addirittura a volte infatti sono rappresentati elementi paradossali che hanno la capacità di colpire il visitatore in modo totalizzante, senza una spiegazione specifica. Ed è proprio perché la loro interpretazione sfugge che non può essere trasmessa. Ciò crea nel visitatore una situazione particolare, una sensazione forte d’inspiegabilità. Come curatore quindi Thévoz decide di assecondare e di incitare questo processo che non è controllabile. Questo percorso “antinformativo” dovrebbe richiamare solamente visitatori che conoscono l’art brut abbastanza approfonditamente da non aver bisogno di una guida nei contenuti dell’allestimento. Questa limitazione però viene meno grazie all’importanza storica che ha avuto l’arte irregolare nell’arte del novecento, permettendo così di ampliare le categorie di visitatori. Poiché non è contemplata una parte didattica, non è necessario specificare la malattia mentale. Questo dettaglio ha come risultato quello di presentare gli autori come artisti tout court. L’allestimento prevede il preventivo riadattamento di un’ala di una villa abitativa in uno spazio espositivo. Gli architetti Bernard Vouga e Jean de Martini, dividono lo spazio in quattro livelli con aperture in ogni piano. Il sistema delle scale è stato adottato per distribuire il percorso sui vari piani in modo tale da poter mostrare gli elementi della collezioni nel migliore dei modi: alcune opere sono alte due o tre piani, occupando dunque molto spazio. Il sistema a scale ideato lascia quindi la libertà di usare gli spazi vuoti attorno alla scala principale, è questo il sistema adottato ad esempio per un’opera di Aloise che di 7.5 m situato nell’atrio direttamente davanti alle scale. Solitamente le opere originarie della collezione di Dubuffet sono considerate opere storiche. Questo significa che godono dello spazio espositivo centrale, quello caratterizzato dalla scalinata. Affiancati a questi spazi sono presenti degli ambienti extra dove hanno luogo gli allestimenti temporanei della collezione “annessa”, che raccoglie artisti “solamente” borderline. Ogni artista della collezione è esposto con una selezione di sue opere a fianco alle quali si trova una scheda informativa con la foto dell’artista in bianco e nero e delle informazioni biografiche (omettendo intenzionalmente il titolo e le indicazioni tecniche dell’opera). Questi dettagli possono essere interpretati secondo diverse prospettive, artistiche, mediche, sociologiche e anche estetiche, senza togliere risalto all’oggetto in mostra. L’idea di voler immergere i visitatori nelle immagini è accentuata dall’atmosfera che crea l’allestimento: non c’è luce naturale necessario anche per motivi di conservazione, le pareti sono nere e creano così un ambiente soffuso che coinvolge il visitatore.
Attualmente il museo ospita 63.000 opere. Il criterio con cui si scelgono le opere nuove non si discosta di molto dalla definizione originaria. In linea con il pensiero dell’artista francese, Thévoz, parla degli artisti come soggetti che non hanno una formazione educativa e senza alcun condizionamento culturale. Questi artisti non creano per il mercato, sono anzi delle persone contro questo sistema, e che per essere ulteriormente “contro” usano solo materiali mai usati prima. La loro creazione è impulsiva e del tutto intuitiva secondo i loro schemi mentali. Tendono ad essere isolati e introspettivi, queste caratteristiche per la maggior parte sono amplificate, in alcuni casi, dalle patologie che portano l’artista all’estremo dell’introspezione, nel suo mondo immaginario, creando un linguaggio visivo ma anche verbale con delle regole solamente a loro comprensibili. Lucienne Peiry, la direttrice succeduta a Thévoz nel 1992, condivide il pensiero del suo predecessore: l’artista brut è emarginato, al di fuori delle norme culturali e di mercato perché non ha un pubblico se non lui stesso. I temi delle sue opere sono il suo mondo interiore e, spesso frutto di una vicenda bibliografica non indifferente, dunque necessitano di essere spiegati e raccontati. In conclusione il lavoro fatto da Michel Thévoz e dal suo assistente Geneviéve Roulin hanno rispettato i voleri di Dubuffet, che ha donato la sua collezione per mantenere intatta la proprietà intellettuale del termine “Art Brut” ma hanno saputo anche adattare questa visione al bisogno di ampliamento dell’istituzione. Sotto la direzione di questi due curatori il museo di Losanna è diventato un marchio quasi, un centro a livello internazionale sull’arte irregolare. Il loro giudizio su nuovi artisti, influenza notevolmente le opinioni di altri studiosi. L’Art Brut è ancora oggi relativamente poco conosciuta dal grande pubblico. Per questo motivo, gli organizzatori hanno pensato di offrire ai visitatori un ulteriore strumento universale di accompagnamento alla visita, che possa facilitare la fruizione della mostra e una più ampia comprensione di quest’arte attraverso una lettura più approfondita e tematica delle opere esposte.
La mostra è suddivisa in quattro sezioni :
La prima sezione. Jean Dubuffet
Nel corso della sua carriera professionale di artista, iniziata relativamente tardi, ovvero alla fine del 1944 con la sua prima mostra personale, il francese Jean Dubuffet coltiva un’ossessione radicale per la creazione libera dalle norme e dai precetti della cultura artistica, che considerava asfissianti. Pittore, scultore, scrittore e musicista, è anche un instancabile ricercatore di opere prodotte al di fuori dei circuiti artistici tradizionali. A questo proposito, fin dal periodo tra le due guerre, Dubuffet si interessa a disegni, dipinti, sculture e assemblaggi realizzati da artisti non professionisti, affinando il suo gusto e la sua conoscenza dell’arte popolare, del disegno infantile, in un lavoro di visione che considera sullo stesso piano orizzontale cose a priori incomparabili. Era affascinato da quelle creazioni che riuscivano a essere meno intaccate dalla cultura artistica delle scuole, delle accademie e dal mercato dell’arte. Fin dall’autunno del 1944, Dubuffet cerca ogni tipo di documento che possa testimoniare quella che rimane la sua affermazione più forte, programmatica di tutta la sua opera, che nel 1946 condensa in una frase: “Tout le monde est peintre”, “Ognuno è pittore”.Dubuffet crede che ‘La vera arte è sempre dove non ci aspettiamo di trovarla’ egli cerca fuori dai circuiti tradizionali e istituzionali le tracce di una creazione che definisce con un ossimoro, intrecciando due nozioni antitetiche fino all’indistinzione: Art Brut. E cerca di definirla: “Con questo intendiamo un’arte di opere eseguite da persone prive di cultura artistica, nella quale quindi il mimetismo, contrariamente a quanto avviene tra gli intellettuali, ha poca o nessuna parte, sicché i loro autori attingono tutto (soggetti, scelta dei materiali utilizzati, dei mezzi di trasposizione, dei ritmi, dei modi di scrivere, ecc.) dal proprio background e non dai cliché dell’arte classica o dell’arte à la mode”.
Di conseguenza, per Dubuffet ogni uomo comune è un artista in nuce. E aggiunge: “Siamo di fronte ad un’operazione artistica pura, cruda, reinventata in tutte le sue fasi dal suo autore, basandosi esclusivamente sui propri impulsi.” Da questo concetto fondamentale, alla base dell’Art Brut, si può dunque comprendere l’allargamento e l’interesse di Dubuffet nei confronti di tutte le scienze umane e sociali (come antropologia, etnografia, studio del folklore e ancora psichiatria, psicologia, pedagogia) che potessero aiutarlo a portare avanti le sue indagini per capire al meglio l’uomo e il filo invisibile che connette ognuno di noi al concetto di arte ‘pura’, dell’impulso, ‘grezza’, contrapposta all’arte ‘culturale’. Dubuffet mobilita, quindi, un’ampia rete di cooperazione. Si interfaccia continuamente con etnografi, psichiatri e altri studiosi dell’alterità artistica. In Svizzera, nell’estate del 1945, Dubuffet incontra il direttore del Museo etnografico di Ginevra, Eugène Pittard, e gli alienisti Charles Ladame e Walter Morgenthaler. A Parigi, i suoi rapporti con Charles Ratton e Jean Paulhan gli aprono le porte del Musée de l’Homme. Dubuffet parla lì con l’oceanista Patrick O’Reilly, attirando la simpatia di Claude Lévi-Strauss e Georges Henri Rivière del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari. Frequenta anche surrealisti come André Breton e Paul Eluard. Attraverso le sue ricerche e durante i suoi viaggi – dal Sahara alla metropolitana di Parigi – e nelle sue opere, rielabora in una nuova ottica estetico-artistica le nozioni di ‘vicino’ e ‘lontano’, affinando così le sue concezioni artistiche, supportate dal proprio lavoro di artista e dalle sue collezioni. Metodico e coscienzioso, Dubuffet mette insieme tutta questa documentazione, soprattutto fotografica e bibliografica, che raccoglie i risultati della sua ricerca. Le opere della sua biblioteca testimoniano la sua curiosità e i suoi album fotografici l’esercizio dello sguardo, le sue lettere parlano di uno spirito critico. Questo lavoro costante di ricerca gli permetterà di chiarire cosa egli intendeva per “Art Brut” così come lo incoraggerà a prendere le distanze dal concetto di “arte primitiva” o addirittura dalla definizione di “arte degl’insani”. L’arte di Dubuffet è caratterizzata da un contrappunto e da una vera e propria cultura del paradosso; non si lascia mai rinchiudere in formule collaudate, oscilla tra un materialismo manifesto e un’alta concettualità, fa dell’eterogeneità e della diversità una condizione della sua esistenza. Così, per quasi quattro decenni, una serie si è susseguita all’altra, combinando, a volte contemporaneamente, l’elogio di una figura umana archetipica e la celebrazione della materia nel suo stato più elementare, l’apologia del visibile e la celebrazione dello spirito, con l’Art Brut come orizzonte della vera creazione. Un sorprendente movimento di andata e ritorno, dove le sue esplorazioni hanno alimentato la sua concezione e pratica dell’arte, così come la sua stessa creazione ha alimentato le sue esplorazioni. Ma attenzione: per lo stesso Dubuffet il proprio lavoro come artista non va confuso o assimilato con l’Art Brut. La sezione dedicata a Dubuffet nella mostra del Mudec presenta un’ampia panoramica del suo lavoro di artista 18 tra dipinti, disegni, e sculture prodotti tra il 1947 e il 1982 e provenienti da prestigiose collezioni come il Musée des Arts Décoratifs di Parigi, il Musée Cantonal des Beaux-Arts di Losanna o ancora la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma- insieme a un corpus di materiale documentario libri, cataloghi, lettere, manifesti e fotografie – che introducono il visitatore alla seconda sezione, dando un’idea della eterogeneità degli stili e della portata del lavoro svolto da Dubuffet per scovare e valorizzare gli autori di Art Brut e le loro opere, che egli non smise mai di collezionare.
La seconda sezione. L’Art Brut.
La raccolta storica di Dubuffet, poi donata nel 1971 alla Collection de l’Art Brut di Losanna, è frutto di un viaggio di ricerca iniziato in Svizzera e in Francia nel 1945, poi proseguito in altri paesi, sfociato in un florilegio di lavori prodotti da artisti outsider autodidatti. La storia personale e il rapporto con la società hanno profondamente influito e caratterizzato la produzione artistica di questi autori, i quali creavano senza preoccuparsi né del giudizio del pubblico né dello sguardo altrui. Non avendo bisogno di riconoscimento né di approvazione, gli autori dell’Art Brut concepiscono universi, spesso enigmatici, non destinati ad altri che a loro stessi. Molto forte è l’attenzione a tematiche personalmente vissute e che influenzano le loro creazioni: per questo motivo, se si vuole davvero comprendere in pieno la poetica degli artisti di Art Brut è impensabile scindere l’osservazione delle loro opere dalla conoscenza della loro vita e del loro vissuto personale. La mostra “Dubuffet e l’Art Brut. L’arte degli outsider” offre al pubblico l’affascinante prospettiva di immergersi nel mondo spesso forte, estremo di ogni autore, collegando il fil rouge della vita all’opera. La seconda sezione ospita le composizioni delle figure più importanti e storiche dell’Art Brut. Aloïse Corbaz, internata in un ospedale psichiatrico, inizia a disegnare e a scrivere segretamente, utilizzando materiali insoliti come petali di fiori e foglie schiacciate. La sua opera è una cosmogonia personale, popolata da figure principesche e temi festivi. Carlo Zinelli, le cui gouache, con figure umane stilizzate e dettagli anatomici, sono un viaggio nella sua mente complessa e affascinante. Adolf Wölfli, colorista geniale e autore di un’opera colossale, con 25.000 pagine di composizioni grafiche a pastello, collage, creazioni letterarie e partiture musicali. Emile Ratier,artista cieco che – spinto dall’esigenza di “vedere” in maniera alternativa – crea sculture mobili animate con manovelle e meccanismi sonori, scolpendo il legno, sua grande passione. I rumori e i cigolii guidano la sua finitura, mentre i soggetti delle sue opere spaziano da carri e giostre ad animali.
La terza e la quarta sezione: Credenze e Corpo
In queste due sezioni viene presentato un insieme di opere provenienti dai cinque continenti il cui focus è legato alle tematiche delle credenze e del corpo. La tematica delle credenze, intesa in un senso molto più ampio della sola dimensione religiosa, coinvolge qui anche credenze personali, vere e proprie mitologie individuali. Cercando spiegazioni sui fondamenti dell’essere, sulla vita e sulla morte nonché sul proprio destino individuale, gli autori d’Art Brut non trovano risposte a priori nei dogmi usuali, oppure, a volte, se ne riappropriano reinterpretandoli. Marie Bouttier, il cui fortissimo interesse per l’occulto a sessant’anni la stimola – durante momenti di trance medianica – a realizzare disegni automatici a matita che ritraggono strane creature dalla forma indistinta, in cui fogliame e vari motivi vegetali si confondono e si trasformano in insetti, pesci o larve. Giovanni Battista Podestà, profondamente segnato dalla religione cattolica, è pervaso da una visione manichea dell’esistenza e sente il dovere di denunciare la corruzione sociale, mentre Madge Gill, così come altri, crede in relazioni durevoli con i defunti e affida la responsabilità del proprio lavoro artistico a un’entità altra, lasciando che la sua mano venga guidata da ciò che gli spiriti le dettano. Tra le molteplici rappresentazioni della tematica del corpo, e i significati che queste hanno per gli autori d’Art Brut, in mostra i lavori della cinese Guo Fengyi illustrano i fluidi che lo attraversano, mentre quelli di Giovanni Bosco svelano anatomie frammentate; il maschile e il femminile si coniugano nei disegni di Giovanni Galli, mentre Sylvain Fusco evoca il corpo dal punto di vista dell’erotismo e del piacere carnale. Le molte opere grafiche e plastiche nonché quelle tessili selezionate per questa mostra sono state realizzate da uomini e donne originari di diverse parti del mondo. Rivelano la ricchezza e la grande varietà delle collezioni del museo di Losanna, così come la potenza estetica di lavori concepiti ai margini del mondo dell’arte da creatrici e creatori autodidatti che dimostrano fantasia, ingegnosità, talento e capacità che hanno acquisito da sé. La mostra dunque intende dare voce alle diverse forme di cultura e di arte nel mondo, e accendere un faro sulla libertà dell’arte e sulle espressioni artistiche dei cinque continenti. In occasione della mostra, 24 ORE Cultura ha pubblicato il catalogo “Dubuffet e l’Art Brut. L’arte degli outsider”.
Museo Mudec Milano
Dubuffet e l’Art Brut. L’arte degli outsider
dal 12 Ottobre 2024 al 16 Febbraio 2025
Lunedì dalle ore 14.30 alle ore 19.30
Martedì alla Domenica dalle ore 9.30 alle ore 19.30
Giovedì e Sabato dalle ore 9.30 alle ore 22.30
Dubuffet e l’Art Brut al Mudec, allestimento ph. Carlotta Coppo