Giovanni Cardone
Fino al 31 Dicembre 2024 si potrà ammirare al Museo RISO – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Palermo la mostra dedicata a Salvatore Quasimodo – ‘Oltre Quasimodo. Le 27 gouaches. Sapevo già tutto, e volli peccare’ . Negli anni Cinquanta, Milano ha vissuto una stagione di cambiamenti profondi e intenso dinamismo culturale: le Torri Velasca e Galfa, insieme all’iconico Pirellone, iniziano a disegnare la città moderna, rendendola eclettica, verticale e proiettata verso il futuro. È in questo clima di ricerche astratte e informali denso di fermenti, rinascita e fiorimento del pensiero che Salvatore Quasimodo, profondamente e appassionatamente interessato alle arti visive, realizza ventisette gouaches, plurale del termine francese che indica un tipo di colore a tempera reso ancora più pesante e opaco con l’aggiunta di un pigmento bianco unico. I guazzi, datati 1953, sono l’unico esperimento pittorico ufficiale del Premio Nobel siciliano nativo di Modica. La raccolta accende i riflettori sulla cultura italiana del Dopoguerra, tra il neorealismo al capolinea da un lato e le suggestioni dall’astrattismo all’informale. Una sorprendente incursione del poeta nel mondo delle arti visive, che offre al pubblico l’opportunità di scoprire un lato inedito e inaspettato del principale esponente dell’ermetismo, corrente poetica che s’impose nel periodo compreso tra le due guerre mondiali. Se i versi di Salvatore Quasimodo erano solitari, assoluti, chiusi in se stessi, scarni e immediati, altrettanto “blindata” appare la sua espressione pittorica caratterizzata da segni astratti. Cambiano le modalità espressive, ma la visione del mondo rimane inalterata, all’insegna di un’interessante corrispondenza tra composizione poetica e pittorica. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Salvatore Quasimodo apro il mio saggio dicendo: Posso affermare che analizzare la poesia senza una minima conoscenza biografica del poeta manca un senso di completezza. Trattandosi di poesia ermetica, cioè il genere poetico più assoluto per quanto riguarda la forza della parola, i dati biografici non sono mai ridondanti, specialmente nel caso dei poeti italiani. Anche si è detto che Quasimodo aveva una mente matematica, essendo stato geometra impiegato nel Genio Civile, lo scrittore siciliano mostra nel lungo termine che dentro la sua opera si trova una versatilità che lo porta alla fuoriuscita del suo ermetismo – verso il neorealismo, con note di neoromanticismo anche, dimostrando un orizzonte ampio nel campo della poesia – rispetto, per esempio, a un altro scrittore ermetico stimato nel Novecento, il francese Paul Valéry; l’ultimo è restato, conformemente a Francesco Flora «innanzi tutto, ermetico a se stesso: e non ha ancor fatta la fatica di chiarirsi» , a differenza chiara di Salvatore Quasimodo, poeta che ha effettuato sempre un lavoro duro di autoanalisi e autocritica. Comunque, l’espressività pare più umana nella parte finale dell’opera quasimodiana, mentre il primo Quasimodo scrive per ritrovare e per ritrovarsi. Perché doveva Salvatore Quasimodo ritrovare – qualcosa o qualcuno – è una domanda alla quale si risponde con le informazioni biografiche raccolte dalle varie persone di cui Quasimodo veniva circondato: prima dai compagni di scuola come Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira; poi dalle donne amate, Bice Donetti, la prima moglie di Quasimodo, Maria Clementina Cumani, la seconda e Curzia Ferrari, la donna con cui il poeta ha condiviso gli ultimi anni della sua vita. Un compatto riassunto dell’infanzia e dell’adolescenza vissute da Salvatore Quasimodo rende limpide le ragioni per cui la poetica del primo Quasimodo è criptica; si parla di una poesia che mette l’accento sul dolore più che il colore. Le cause della cosìddetta scienza di dolore sono numerossisime e non si può puntualizzare in una maniera esaustiva la loro gravità. Malgrado che Quasimodo sia stato un appassionato del cosmo, astrologicamente si potrebbe dire che gli astri non sono stati favorevoli a lui. Innanzitutto, Quasimodo era il secondo di una famiglia che contava quattro figli. Nato nel 1901, vive il momento più disastroso nella storia naturale di Sicilia: il terremoto di Messina, successo il 28 dicembre 1908. La tragedia tettonica è stata la maggiore tragedia dell’Europa di tutti i tempi, in quanto si prendono in considerazione gli avvenimenti non provocati dagli uomini. Più di novantamila morti e duecentomila feriti. Salvatore aveva sette anni, quattro mesi e otto giorni al momento di questo orrendo accaduto. Senza rifugio in una terra adesso veramente impareggiabile, paragonandola con la terra siciliana prima del 1908, la famiglia Quasimodo si trovava obbligata a vivere parecchi mesi assieme ad altri sopravviventi, in carozze freddissime di treni abbandonati su binari morti. Tutto questo al tempo stesso in cui, guardando dalla finestra, il bambino Salvatore Quasimodo non poteva rimarcare che «il paesaggio devastato, i morti, la fucilazione, da parte dei soldati, dei ladri sorpresi a rubare». Questo primo trauma dell’infanzia di Salvatore Quasimodo, sfortunatamente, non è rimasto l’unico vissuto dallo scrittore. Quando aveva quindici anni, è diventato indirettamente vittima della Prima Guerra Mondiale. Due anni dopo l’inizio della guerra, l’adolescente Quasimodo viene stranamente catturato da un gruppo di vedove che attentano alla sua sessualità precoce. Secondo quanto riportato, Quasimodo è stato violentato e anche a causa di questa pessima faccenda non è riuscito mai a trovare tranquilità nell’inizio della sua vita. Curzia Ferrara nota nel suo libro Una donna e Quasimodo che «di quella guerra non parlò mai volentieri. “È come sprofondare nella merda”». Da questo punto di partenza in poi, Quasimodo ebbe sempre un atteggiamento misto verso le donne, che a volte venivano da lui chiamate femmine. Aveva cercato una soluzione alla sua nevrosi nello statuto di salvatore di tutti gli uomini. Diceva che l’aveva fatto nel nome di tutti i maschi, come un sacrificio che riporta il concetto di imitatio Christi. Quasimodo si ricorda di questo orripilante evento nei seguenti versi della poesia Dove morti stanno ad occhi aperti, parte del volume Òboe sommerso, scritto tra gli anni 1930-1932: Seguiremo case silenziose dove morti stanno ad occhi aperti e bambini già adulti nel riso che li attrista. Provando a oltrepassare i suoi traumi, Salvatore Quasimodo fin dalla sua giovinezza mostra l’inizio dello sviluppo di una potente personalità, di qualcosa che alla fine della sua vita Curzia definisce come culto di personalità: «Il culto della personalità in lui era fortissimo» . Anche suo figlio, Alessandro Quasimodo mette in evidenza quest’aspetto del carattere di suo padre, permettendo a Roberto De Monticelli di accennare nell’introduzione del suo libro, Il poeta a teatro, la seguente dichiarazione di Salvatore Quasimodo fatta nel periodo successivo alla consegna del Premio Nobel: «È colpa mia se fra i poeti italiani viventi io sono il più noto nel mondo?
».Anche se non ha partecipato direttamente alla Prima Guerra Mondiale nel tempo della sua adolescenza, essa ha segnato una cicatrice sull’adolescenza quasimodiana; ma allo stesso tempo, Salvatore fu da giovane un uomo che si ribellava contro i suoi avversari e per questo motivo ha cercato sempre ragioni per cui amare la vita. Parlando di avversari come dei traumi psicologici, dei nevrosi, riuscì per un certo tempo a non lasciarsi sconfitto dall’angoscia esistenziale. Subito dopo questo episodio, cominciò ad incontrarsi con Pugliatti e La Pira per formare una piccola comunità letteraria dove Salvatore inizia a camminare suo sentiero verso la poesia ermetica: «Intorno ai tre si viene formando una piccola comunità letteraria, in cui si discute di politica, si leggono Dante, Platone, la Bibbia, Moro, Campanella, Erasmo da Rotterdam, gli scrittori russi, soprattutto Dostoevskij e Gorki, i simbolisti francesi, in particolare Baudelaire, Mallarmé, Verlaine e ci si incoraggia a scrivere» . Così Quasimodo trovò in politica e in letteratura risposte ai suoi problemi ed iniziò a scrivere sin dall’età di sedici anni. Per concludere, l’adolescenza di Quasimodo può essere interpretata come una miniatura della sua intera vita, includendo sia traumi che soluzioni per essi. Gli sforzi quasimodiani di fare poesia vengono assimilati dal mondo letterario nel 1930, quando la rivista Solaria di Firenze pubblica il suo primo volume, Acque e terre. Anche se viene generalmente accettato dai critici che l’ermetismo di Salvatore Quasimodo si è sviluppato tra 1930 e 1942 a questo periodo appartengono i primi quattro volumi: Acque e terre, Òboe sommerso, Erato e Apòllion e Nuove poesie , ogni volume consiste per Quasimodo in una nuova modalità di scrivere poesia. È discutibile se l’ermetismo di Quasimodo sia finito nel 1936 con le Nuove poesie che rappresenterebbero la graduale trasformazione della poesia quasimodiana. Quasimodo si è dichiarato l’iniziatore dell’ermetismo, lo accenna Gilberto Finzi in Quasimodo e la critica; è una proposta che allude al suo culto di personalità, al suo orgoglio di poeta; una pretesa che almeno ignora, se non infatti respinge la rilevanza ermetica della scrittura dell’ottocentesco Stephane Mallarmé; per di più, è un rifiuto di valutare l’influsso contemporaneo della poesia dannunziana o pascoliana. Peraltro, «Il primissimo Quasimodo» dice Finzi «non si distacca da Pascoli e D’Annunzio, con accademismi e inevitabili cadute di gusto» . Cade cioè nell’usanza tipica per un poeta ermetico, quella di codificare il suo testo poetico in maniera esagerata, tramite la scelta del lessico. Iniziando negli anni Venti a scrivere poesia in una maniera più rigorosa, la scrittura quasimodiana porta con sé due tempi passati, diversi tra di loro. Prima di tutto, c’è il passato remoto, siciliano, irraggiungibile mai, che si può ricreare e rivivere solo mediante la poesia; è un passato dell’«infanzia imposseduta»10, ricordata con un tono grave, triste, che denota una beatitudine edenica vissuta dallo scrittore nei suoi primi anni di vita. In seguito, si deve notare il passato prossimo al tempo della scrittura di questi volumi; un periodo in cui, come già precisato, l’uomo Quasimodo ebbe un tempo duro in negoziare con la sofferenza che ha dovuto subire. L’ermetismo quasimodiano parte prima di tutto dalla sua esperienza umana. Nella prima metà della sua opera si pone in primo piano un atteggiamento di chiusura verso la realtà. Leggendo il primo Quasimodo si sente l’impossibilità di ritrovare quel senso di solitudine plenaria; si trasmette che esclusivamente il contatto intimo dello scrittore con la natura siciliana mitica potrebbe in questo momento riparare i danni prodotti dal vivere stesso. Difatti, la malinconia e il senso di sconfitta sono inseriti spesso nel modo quasimodiano di scrivere poesia. In Quasimodo e la critica, Gioacchino Paparelli vede nel primo Quasimodo la «tendenza a “concepire il mondo come ‘parola’, di poesia ‘scarna e immediata’… in cui piu che l’immagine, più che il verso, l’organismo costitutivo, la cellula elementare, è la parola”» . Con l’ermetismo, allora, Quasimodo celebra la supremazia della parola in rapporto con l’azione. Si capisce meglio cosa significa la poetica della parola per Quasimodo seguendo le parole dette proprio dallo scrittore: «La mia ricerca è della quantità della parola, del suo peso e della sua collocazione; D’Annunzio ha insistito sulla qualità della parola» . Salvatore accentua perciò l’essenza delle parole, declina gli ornamenti aggettivali e distacca i sostantivi dagli articoli. Così scrive una poesia che abbia un ritmo sempre interrotto, una linea melodica piena di fermate. Non per caso Salvatore era un amante del mondo classico; provando di tornare alle origini – anche dei suoi antenati, non soltanto le origini della civilizzazione – lui sta cercando la nascita della parola. Le riduce al senso primitivo, togliendo le connotazioni quantitative accumulate durante i secoli scorsi. Allontana tutta la spirale degli usi di una parola, che accrescono l’emotività e abbassano la sua capacità di evocare; procede ugualmente con il suo passato personale, nevrotico, reso rifiutato e nascosto. Dunque, si può dire che la poesia ermetica quasimodiana è un’immagine di un mondo interiorizzato in assoluto; è la riflessione di un possibile Quasimodo solo, muto nel mondo, l’essere assoluto – l’unico uomo tra dei mitologici -, circondato solamente dalla natura e dai suoi pensieri. Non c’è nessun elemento che può disturbare; il quadro natuarale siciliano conferisce quel ruolo significativo, necessario nella poesia del primo Quasimodo. Il vento, l’albero, il cielo, l’acqua, il mare sono motivi ricorrenti che riproducono una Sicilia che si assomiglia alla bellezza pura in cui Salvatore credeva religiosamente, come se fosse il dono dato da Dio a lui. Sicilia è simile anche allo stato edenico del mondo è un territorio, secondo Maria Gabriela Riccobono, di splendore naturale ammirato dal primo Quasimodo e al piacere carnale di cui si è goduto il poeta durante la sua giovinezza. Per questa ragione, alcune poesie della prima fase poetica hanno un valore universale nel senso che non selezionano secondo certi criteri il pubblico che sia in grado di leggerle. Il discorso quasimodiano della prima fase, come risulta dalle poesie da noi analizzate, viene espresso con un tono di resistenza contro la disarmonia dell’esistenza attuale; c’è passione per la parola, per la natura e per la donna, ma oltretutto c’è il grido fortissimo di un uomo ferito. È un quadro della versione umana di Quasimodo che non si sente ascoltata, capita e neanche aiutata, conseguentemente intraprende un’ostinata ricerca dell’io perduto, di un’identità che è adesso ridotta a nulla; è forse lo sforzo di un uomo che avrebbe piuttosto voluto essere nato qualche mille anni fa, sulla terra ellenica di sua nonna. Quasimodo si considera catturato in un tempo passato impegnativo dal punto di vista umano; come accennato sopra, Quasimodo ha vissuto un’adolescenza perduta; nonostante il primo Quasimodo si mostra nostalgico verso la pura infanzia, ma anche verso l’adolescenza chiamata “delusa”. Oltre la chiusura verso la realtà, si può dibattere qui per uno stato di continuo tormento interiore, che potrebbe renderlo illogico; la parola è illogico perché Quasimodo aveva una mente matematica, che doveva sempre sistemare; l’illogicità potrebbe consistere di bramare quel ricordo di un’adolescenza che non era stata generalmente comoda per lui. Nondimeno, Salvatore scrive questi versi nel periodo interbellico, un altro tempo duro per lui e l’umanità intera. Trentenne, il poeta già sente la realtà allontanandosi da lui. E la sua realtà non era altra che Sicilia, il luogo dove ha iniziato fare tutto: vivere, dolere, scrivere. Nella poesia Vento a Tìndari, del volume Acque e terre, il poeta vuole vivere nel passato, si dole nel presente e scrive per un futuro in cui il passato ridiventerà presente. Ma l’ultimo, anche il poeta lo sa che è impossibile. Sicilia viene evocata con un distacco, con una rassegnazione che garantisce l’infelicità e l’incapacità di toccare la serenità posseduta tanti anni fa. Inoltre, l’albero, motivo ricorrente nei primi tre volumi, è fonte di tristezza; la prima strofa della poesia Nessuno, Acque e terre si chiude con questa prospettiva dell’albero, che “ha cuore di tristezza”. Si tratta, quindi, di un’interiorità frammentata e perduta in uno sfondo atemporale in cui neanche la psicanalisi non può raggiungere il suo scopo curativo. Poeticamente, il primo Quasimodo ricorre alla filosofia dell’assolutizzazione della parola. Inserisce i sostantivi solitamente senza articoli, offrendogli un valore di mito; sole, amore, ombre, vita, angeli, giovinezza, giorno, notte, terra, acqua, cuore, voci, luce, cielo, carne, pena, sera, ali, adolescenza, erba, alberi; tutti questi nomi sono di norma inseriti senza articoli nei volumi Acque e terre ed Òboe sommerso. In quella tappa c’è un distanziamento tra la capacità quasimodiana di esprimersi in una maniera plastica e la sua scelta di non farlo. L’ultima prevale sempre nel primo Quasimodo. Oltre alla mancanza degli articoli determinativi si trova un numero scarso di aggettivi che accompagnano i sostantivi. È spessa anche la preferenza dell’uso dei participi passati invece degli aggettivi. Anche se è una poesia che contiene tanti verbi, Òboe sommerso, per esempio, si apre con una strofa senza nessun predicato verbale e solo “sospirati” ha valore di verbo. In generale, la prima poesia di Quasimodo si basa su un numero considerevole di verbi, la maggioranza dei quali sono coniugati al modo indicativo, tempo presente. Così Quasimodo stabilisce per la sua poesia un tono di atemporalità, un tempo assoluto in cui la parola può esprimere l’essenza più pura delle intenzioni quasimodiane di poetare. È un modo elittico di fare poesia, che obbliga il lettore di riempire gli spazi vuoti lasciati per forza dallo scrittore. L’effetto è di coinvolgere modernisticamente il lettore nel processo di leggere; è una missione ben riuscita da Quasimodo, almeno al livello emozionale. La sua prima scrittura emana tristezza, ma con enfasi più sulla secchezza della tristezza. Una tristezza sorda, sentita di continuo ed evocata quasi ugualmente. Secondo Pugliatti, «La secchezza può consistere nella progressiva riduzione all’essenza, con la eliminazione di ogni nota estranea all’intimo nucleo del canto, al motivo lirico compiutamente realizzato» . L’assenza di plasticità si trova anche nei versi di dimensione breve che hanno di solito un unico nome, un fatto che rende evidenti il sentimento e le idee che Quasimodo vuole evocare. Se poesia significa qualcosa per il primo Quasimodo, essa significa parola. Meglio spiegato da Oreste Macri, «la parola è l’elemento base della tecnica quasimodiana, il principio di valore cosciente, il desideratum finale, il significato catartico in cui si vuole essenzializzare e risolvere e puntualizzare tutta l’interna corrente dell’ispirazione e del pathos» . L’amore per la parola porta con sé anche una relazione petrarchesca di sinonimia con l’amore per la donna e con l’amore per la poesia. Cioè con l’amore della bellezza. Osserveremo questi temi mediante il filtro della memoria quasimodiana, come evocata nel volume Nuove poesie che finisce la prima fase poetica del poeta siciliano. L’apertura del volume introduce una consapevolezza subitanea della rilevanza della memoria di fronte allo sforzo di trovare una sorta di felicità. Ride la gazza, nera sugli aranci comincia con la parola “forse”, che sottolinea il tono incerto usato dal poeta. Si evocano i temi della fanciullezza, della purezza fisica e, per di più, di una sessualità imperativa, basilare per fare il contatto tra la natura e i fanciulli. Nella prima parte viene espressa una fanciullezza totalmente innocente; c’è una chiara opposizione tra la “pietà della sera” e il “fuoco della luna”. Il poeta suggerisce la sessualità storica, la natura che chiede tramite la “memoria”. I fanciulli si trovano, secondo Quasimodo, in uno stato di sonno e invita al risveglio, al scrosciare, alla “prima marea”; e tutto questo, può darsi, in un tempo che si assomiglia a quel biblico della salvazione, suggerito da: «Questa è l’ora».40 In un certo senso, il poeta affretta il destino inevitabile dei fanciulli e richiede direttamente, sotto forma di ordine, l’aiuto della natura. È il “vento del sud” quello che spingerà la sessualità oltre le chiusure. Cromaticamente, il rapporto contrastante fra il nero della gazza e gli aranci conferma di nuovo la dualità dell’essere umano, la sessualità sordida che ride nel mezzo di una fanciullezza immacolata; la gazza, denominata anche uccello che ruba, sarà quella che ruberà anche l’ingenuità dei fanciulli. Inoltre, in Ora che sale il giorno Quasimodo compie una riflessione sui temi della temporalità e del ricordo. La poesia viene evocata per una donna, prendendo in considerazione il genere dell’aggettivo “lontana” nell’ultima strofa. Il “tempo specchiato” è un passato compianto, in cui Quasimodo si poteva godire della donna amata; la sua partenza, in passo indolente colpisce la serenità interiore del poeta, mentre gli alberi conferiscono alla sera un tono di abbandono anche più accentuato. Già da questo punto, Quasimodo rinnega la felicità, la gioia, ammettendo che tutto è difatti un’imitazione di essa, una copia della copia platonica, ma specialmente accettando, rassegnandosi con realtà in cui lui non ha neanche ragioni per sentire una sorta di gioia mimata. Non accidentalmente la natura si associa a questo stato d’animo quasimodiano e gli alberi costituiscono il primo componente che rende chiaro il contorno dell’infelicità del poeta. In conclusione, in questo capitolo abbiamo presentato l’evoluzione biografica di Salvatore Quasimodo dalla sua infanzia fino all’età di circa trenta anni e la poesia scritta in stretto rapporto con questo periodo della sua vita. Abbiamo visto come si manifesta l’ermetismo quasimodiano sia dal punto di vista formale che dal punto di vista tematico. La forma ci ha mostrato la poetica della parola come caratteristica principale, risultata in una poesia di tipo breve, mentre tematicamente si ricordano come ricorrenti i temi della solitudine, della tristezza e dell’amore, collegati al tema della natura che porta in primo piano l’immagine di una Sicilia edenica, adesso fuori della possessione di Quasimodo, raggiungibile solo mediante la principale fonte della poesia quasimodiana, cioè la memoria. Salvatore Quasimodo si è immerso durante la sua transizione da ermetismo a poesia sociale. Notiamo sia la sua trasformazione di pensiero riguardante il modo di poetare – prendendo in considerazione i volumi Acque e terre ed Òboe sommerso per la prima fase poetica, Giorno dopo giorno e Dare e avere per la seconda fase poetica – che la sua valutazione verso il ruolo del poeta e della poesia all’interno del collettivo sociale. Cambiare l’identità di poeta ermetico è stato per Quasimodo un modo di staccarsi dal dolore personale e, conseguentemente, di avvicinarsi alla società di cui faceva parte. Le vicende della Seconda Guerra Mondiale trasformano Salvatore Quasimodo in un poeta che vuole coinvolgersi all’interno del suo cerchio sociale, anche se lui era ovviamente contro la sua epoca, specialmente in termini della politica. La delimitazione totale dalla società, trovata nei volumi Acque e terre ed Òboe sommerso, che mostra un poeta forse troppo preoccupato di meditare all’infanzia allontanata da lui si toglie gradualmente una volta che si affonda in un percorso durevole di leggere e tradurre lirici greci. Vediamo prima un Quasimodo appassionato dalla poetica della parola, che non esita di dedicare suo tempo nella ricerca della parola giusta, del ritmo che non lascia spazio per un possibile dialogo e delle proprie idee che colpiscono il lettore: «Io tutta la vita ho cercato il ritmo perfetto, chiuso; quello che non ammette un ritardo nella sua folgorazione». Si tratta di una modalità di poetare che richiede una cura petrarchesca nella scelta del lessico che deve evocare precisamente i sentimenti, l’interiorità del poeta; nei termini di Gilberto Finzi, è una scrittura che ha l’eloquenza come la sua fonte principale. Si può dire, quindi, che il secondo Quasimodo comincia a non voler ancora controllare completamente l’intero processo tra emozione e scrittura, lasciando più aperto il suo impulso nei confronti della sua analisi interiore. Questo fenomeno avrà ripercussioni anche nel linguaggio usato, che sarà più comprensibile e meno cifrato. Comunque, la Seconda Guerra Mondiale ha la potenza di estrarre dall’interiorità quasimodiana la volontà di essere capito, ascoltato e forse anche seguito. È questo il momento quando Quasimodo finalmente cessa di evocare e comincia a invocare: la sua influenza nella società, i pezzi dell’umanità rimasta nella gente del suo tempo, la forza collettiva della società italiana postbellica, la sua credenza nel popolo italiano ecc. Questa manifestazione inizia ad accadere nel più eloquente modo possibile con il volume Giorno dopo giorno. «All’interno della raccolta è possibile rintracciare due tematiche principali: quella in cui il poeta si fa portavoce del dolore di un intero popolo e quella in cui al dolore collettivo si aggiunge, in tono drammatico o elegiaco, il dolore individuale», come osservato da Gilberto Finzi nello studio Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito e oltre. La poesia postbellica di Quasimodo inserisce in ruolo principale il valore della condivisione del dolore. La condizione universale in quei giorni era quella di dolersi, cioè la condizione quasimodiana stessa. Perciò, lo scrittore siciliano si mette assieme al popolo, ma piuttosto che lui diventi uno di loro sia vero che loro adottino per obbligatorietà il pensiero quasimodiano di vivere. Fuori dell’impurità di questa alterazione, è socialmente incoraggiante il modo in cui Quasimodo prova di formare anche mediante la sua poesia una solidarietà, una fraternità di cui l’Italia più precisamente, i sopravviventi italiani del secondo dopoguerra aveva bisogno in quel tempo spietato. Non a caso in Giorno dopo giorno, che conta venti poesie, il pronome personale “noi” appare cinque volte, a differenza di Òboe sommerso, che comprende trentotto poesie ma solo un unico pronome personale della prima persona plurale. L’assunzione di un ruolo più impegnato nella società significa per Quasimodo il cambiamento drastico dell’uso dei pronomi personali. L’uso egocentrico del pronome “io”, che raccoglie diciotto accenni in Acque e terre ed Òboe sommerso sarà sostituito in Giorno dopo giorno con il pronome “noi”, che conta sei occorrenze, in opposizione ai primi due volumi che radunano solo due accenni del pronome “noi”. L’oratorietà della seconda fase poetica di Quasimodo è rassicurata dalla tematica, che, invece di evocare la propria angoscia, invoca la condivisione della condizione del poeta con la condizione dell’uomo comune della società. Anche la lunghezza dei versi è significativamente ingrandita dal poeta appunto per farsi capito di più, per aprire se stesso di più di fronte agli uomini comuni, conformemente a Robert Vivier. Da una ricerca pazzesca e continua di un passato esausto che ha danneggiato l’interiorità del poeta, Quasimodo passa a un coinvolgimento diretto con le persone accanto a lui, rispettando la tradizione imposta da poeti come Petrarca, Dante o Leopardi nel senso che scrive una poesia necessaria, adeguata al contesto storico. Scrivendo Giorno dopo giorno e criticando i signori della guerra, Quasimodo rivendica le sue credenze politiche, umane direi, e si rende da un viaggiatore nella memoria fra paesaggi siciliani sublimi un giudice aspro della sua epoca, individuando la follia che stava dietro al loro caos. Insomma, Salvatore intraprende questo avvicinamento all’uomo comune della sua società per rendere la sua poesia più commovente e per trasmettere il messaggio universale che la vita è un bene di gran preziosità ed il rispetto che si deve ad esso significa automaticamente la disapprovazione della guerra. Le opere esposte a Palermo raccontano un Quasimodo non solo Poeta ma colui che per un periodo della sua vita si confronta con le Arti visive, egli fu amico di musicisti, pittori e scultori con cui amava dialogare: era il periodo del dibattito tra astrattismo e figurativismo. E, sebbene più interessato a quest’ultimo, per caso inizierà a dipingere le opere astratte. Una sorprendente incursione del poeta nel mondo delle arti visive, che offre al pubblico l’opportunità di scoprire un lato inedito e inaspettato del principale esponente dell’ermetismo, corrente poetica che s’impose nel periodo compreso tra le due guerre mondiali. Se i versi di Salvatore Quasimodo erano solitari, assoluti, chiusi in se stessi, scarni e immediati, altrettanto “blindata” appare la sua espressione pittorica caratterizzata da segni astratti. Cambiano le modalità espressive, ma la visione del mondo rimane inalterata, all’insegna di un’interessante corrispondenza tra composizione poetica e pittorica. Per l’autore, si trattò di un gioco intellettuale senza pretese destinato a esaurirsi in breve tempo: il poeta siciliano avrebbe addirittura voluto distruggere i guazzi. Tutto nacque dalla visita ricevuta da Alberto Lùcia nel suo studio milanese: l’amico e poeta aveva in mano un pacchetto, dentro c’erano una scatola di colori e un pennello in procinto di essere spediti a Parigi, all’indirizzo del drammaturgo messinese Beniamino Joppolo, che aveva appena abbracciato la pittura astratta. Salvatore Quasimodo è curioso e apre il pacchetto e a quel punto nasce la sfida: il poeta vuole probabilmente dimostrare quanto sia “facile”, anche per una persona inesperta, esprimersi con i modelli dell’arte astratta. Passano i giorni e in breve tempo realizza ben ventisette gouaches: il probabile inizio in tono scherzoso si trasformò in una lunga serie di piccole composizioni e aprì all’autore la strada verso la “comprensione dell’immagine come segno-astrazione”. L’autore siciliano, non appena decise di non proseguire nell’esperimento, pensò di distruggere le gouaches, ma poi le donò all’amico Alberto Lùcia. L’amico, scomparso nel 1995, le conservò con cura. Nel 1953 il figlio del Premio Nobel Alessandro Quasimodo le riunì in un pregiato volume, “La visione poetica del sogno: ventisette gouaches e ventisette poesie di Salvatore Quasimodo”, in cui le opere sono associate ad altrettante poesie unite dalla parola “cuore”. Si tratta dello stesso abbinamento proposto dalla mostra. A distanza di trent’anni dall’esposizione sul poeta a Roma, dove per la prima volta furono presentate le opere originali, gli eredi del pittore ne hanno concesso il momentaneo trasferimento al Riso. Nel 1993 Alessandro Quasimodo, figlio del poeta e della danzatrice Maria Cumani, cura la pubblicazione di un prezioso libro – “La visione poetica del sogno: ventisette gouaches e ventisette poesie di Salvatore Quasimodo” Bologna, Sintesi in cui associa le opere a versi del padre dove ricorre la parola “cuore”. È lo stesso abbinamento riproposto in questa mostra. Comitato scientifico: Carola Arrivas Bajardi, Cristina Costanzo, Evelina De Castro, Rosaria Raffaele Addamo. Contributi in catalogo: Carola Arrivas Bajardi, Giuseppe Cipolla, Cristina Costanzo, Evelina De Castro, Salvatore Ferlita, Rosaria Raffaele Addamo.
Museo RISO – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea Palermo
Oltre Quasimodo. Le 27 gouaches. Sapevo già tutto, e volli peccare
dal 6 Dicembre 2024 al 31 Dicembre 2024
dal Martedì al Sabato dalle ore 9.00 alle ore 18.30
Domenica dalle ore 9.00 alle ore 13.00
Lunedì e Giovedì Chiuso
Foto di Salvatore Quasimodo
Le gouaches di Salvatore Quasimodo in mostra a Palazzo-Riso Palermo