Attraverso i suoi scritti ci ha lasciato un’Eredità Storico – Civile
Giovanni Cardone
Fino al 6 Gennaio 2025 si potrà ammirare al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna la mostra dedicata a Francesco Arcangeli Tramando. Le acquisizioni di Francesco Arcangeli per la Galleria d’Arte Moderna di Bologna a cura di Uliana Zanetti con la collaborazione di Lorenza Selleri. L’evento promossa dai Settore Musei Civici Bologna e dal MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna. In esposizione una sessantina di opere selezionate tra quelle proposte o approvate da Francesco Arcangeli per l’acquisto da parte del Comune di Bologna, dal quale ricevette incarichi di consulenza dal 1949 al 1958 e quello di direttore della Galleria Comunale d’Arte Moderna dall’agosto 1958 al gennaio 1968. La rassegna si propone di offrire una restituzione sufficientemente rappresentativa sia del disegno museologico di Arcangeli, basato principalmente su un cospicuo e significativo incremento della collezione, sia del suo particolare orientamento storico-critico. Nei suoi acquisti pur sorretti dall’intenzione di consegnare una panoramica esaustiva e imparziale dell’arte contemporanea a livello locale, nazionale e, per quanto possibile, internazionale è infatti possibile rintracciare le più autentiche inclinazioni personali, coltivate nei rapporti di stima e amicizia con alcuni pittori e critici. Nell’importante mostra Dal Romanticismo all’Informale, curata da Claudio Spadoni per il MAR – Museo d’Arte della Città di Ravenna nel 2006, sono stati ben rappresentati gli artisti che Arcangeli considerava cruciali per il corso dell’arte nell’età contemporanea, da William Turner a John Constable, da Gustave Courbet a Claude Monet, da Wols a Jackson Pollock. Se quel tracciato può essere considerato come una sorta di “museo ideale” di Arcangeli, la presente rassegna, basata su una ricerca documentaria mai tentata in precedenza e ancora in corso, è ora testimonianza tangibile del “museo reale” che lo studioso riuscì, tra mille difficoltà, a dare alla luce. Nonostante le scarse risorse disponibili non gli consentissero di acquistare lavori dei grandissimi artisti dell’Ottocento e del primo Novecento che più ammirava, lo studioso riuscì a delineare, attraverso le opere instancabilmente ricercate alle grandi mostre nazionali, come l’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia e la Quadriennale di Roma, o presso artisti e gallerie, un tracciato coerente con la sua visione storico-artistica. Una visione ad ampio spettro e priva di rigide preclusioni che, tuttavia, l’aveva portato a studiare, riconoscere e prediligere un particolare corso della storia dell’arte contemporanea, sintetizzato nella formula “dal Romanticismo all’Informale” che dà il titolo alle sue lezioni universitarie del 1970-1971 – pubblicate postume nel 1976 dalle Edizioni Alfa, poi ristampate in nuove edizioni da Minerva nel 2005 e dalla Società editrice il Mulino nel 2020 ripresa anche nel titolo della prima raccolta dei suoi saggi, pubblicata da Einaudi nel 1977. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Francesco Arcangeli apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che lo Storico dell’Arte bolognese Francesco Arcangeli, detto Momi , allievo di Roberto Longhi con cui si laurea nel 1937, ha messo a punto uno stile critico allo stesso tempo rigoroso e “anarchico” che ha inciso su molti critici d’arte ma anche su scrittori della sua generazione e di quelle future. Senza ignorare i raffinati spunti ecfrastici del maestro, egli ha sviluppato una lingua in grado di essere il più possibile esatta nella descrizione delle opere d’arte, ma anche di far emergere i tormenti esistenziali sottesi alla poetica di ciascun artista. È stato Ezio Raimondi ad individuare con precisione la differenza tra i due stili: «la prosa di Arcangeli era più provinciale, ma al tempo stesso più trepida e nuda, più incline allo scavo e all’erosione con un interno movimento drammatico che lo allontanava necessariamente dal grande gioco verbale di Longhi anche quando ne riproduceva certe cadenze» . Arcangeli assorbe gli stilemi della prosa del maestro, che abbina gli strumenti della critica d’arte a quelli della retorica, ma ne allenta gli estremismi aggettivali verso una medietà che favorisce l’intensità di scavo interiore dell’artista. Non si tratta di mero “provincialismo”, ma anzi l’interesse artistico e linguistico per la provincia emiliana diventa strumento per osservare da vicino il rapporto tra le tradizioni che sopravvivono all’erosione del tempo e le nuove istanze della società contemporanea. Va ricordato che la prima passione di Arcangeli è stata la letteratura, come testimoniano le poesie di Polvere nel tempo (1943) e le prose brevi raccolte postume in Incanto della città (1984). Anche come storico dell’arte, egli non abbandona mai la lingua della poesia e spesso nella sua prosa saggistica chiama in causa le invenzioni espressive dei poeti che più ama – da Rimbaud a Pascoli, da Montale a Dylan Thomas alla ricerca di una lingua che conservi la complicata simbiosi tra arte e vita. È per questa ragione che Arcangeli ha stretto un rapporto intenso con pittori e scrittori, che a partire dagli anni ’30 del Novecento hanno dovuto affrontare le stesse difficoltà (fascismo, guerra, minaccia atomica), trovando un conforto nell’arte e nella letteratura del passato. Questa necessità si configura non tanto come evasione dal quotidiano ma soprattutto come rifondazione di nuovi valori etici ed estetici. Arcangeli cerca disperatamente un principio di salvezza che rimetta in contatto l’umano con la vastità dell’universo, rivendicando la necessità dell’“anarchia” nell’accezione proposta da Camus nell’Uomo in rivolta (1951): non abbandono all’irrazionale ma «senso profondo del limite dell’uomo». Tale sensibilità critica e linguistica si riscontra già nel suo primo libro Tarsie (1942) ma giunge a maturità nei fondamentali volumi su Morlotti (1962), Bastianino (1963) e Natura ed Espressione nell’arte bolognese-emiliana (1970). Di certo la maggiore espressione della sua prosa è la travagliata monografia su Giorgio Morandi, pubblicata solo nel 1964 a causa dell’opposizione sia di Longhi sia dell’artista stesso. Si tratta di un libro stratificato e ibrido, che unisce critica d’arte e biografia, con l’ambizione di riuscire a cogliere la matrice unitaria dell’arte di Morandi, senza separare uomo e pittore, perché «collimano perfettamente; entrambi riaffermano quotidianamente, nella vita e nell’arte, il senso d’un limite spontaneamente accettato, della profondità, felicità e tristezza di questo limite» . Arcangeli dà vita a «un’opera sinfonica, variatissima nell’orchestrazione ma sempre fortemente richiamata al tema» , con l’obiettivo di dimostrare che le nature morte e i paesaggi appenninici di Grizzana si configurano non come fuga dal mondo ma al contrario come “correlativo oggettivo” di una realtà in rapido disfacimento (qui il legame con Eliot e Montale). Nonostante ciò, alcuni frammenti di vitalità e di umanità sopravvivo: una leggera variazione dell’ombra di una bottiglia o una tonalità di verde che lascia intuire un possibile legame con la natura. Per descrivere le nature morte morandiane, Arcangeli si avvale spesso di immagini metaforiche antitetiche e di litoti che affermano negando (anche per attenuare le ipotesi interpretative più ardite), come quando considera le bottiglie accostate tra loro su piano come una sorta di elementi totemici che «non si affacciano a nessuna ribalta, ma relitti d’una vita, d’un ininterrotto tramando secolare, sembrano approdati tacitamente alla tela, piccolo campo materiale, dalla profonda eternità del tempo umano» .
La prosa ecfrastica arcangeliana è volta a cogliere la patina opaca che si stende come un velo sulle nature morte, senza dissolverla ma rilevando la vitalità cristallizzata negli oggetti attraverso il leggero mutamento di luci e ombre sulla tela. Questo riverbero opaco diviene emblema della precarietà della condizione umana in una continuità di inafferrabili momenti di connessione con la natura. La lingua di Arcangeli si fa più evocativa e penetrante quando deve cogliere con estrema sensibilità l’esigua linea di confine tra forma e informe nei dipinti morandiani: «I problemi della composizione svaporano entro questo soffice magma, dove la materia è sognante crisalide, la forma sfuma inesorabilmente nell’informe, e l’informe riaffiora appena, in una estrema percettibilità, al formato . Morandi sperimentò in se stesso, con muto ma non meno forte dramma, la lotta, angosciosa per un latino, tra la forma e l’informe» . Morandi fa esperienza del limite dell’essere umano e lo mostra davanti ai nostri occhi in una immobilità di pacata sofferenza quotidiana, che secondo Arcangeli anticipa addirittura il “naturalismo informale” italiano. Probabilmente è stata proprio la capacità di Arcangeli di indagare l’anima del pittore ad aver spaventato Morandi, come se fosse stato smascherato dall’eccessiva intimità di quelle parole. Nella prosa di Arcangeli ogni elemento pittorico descritto corrisponde all’atteggiamento dell’artista di fronte al mondo. Il compito del critico d’arte è far emergere il contrasto angoscioso che determina le scelte artistiche, le contraddizioni e i paradossi che si agitano sotto ogni pennellata, tra la mano dell’artista e il colore sulla tela. La sensibilità “anarchica” della lingua di Arcangeli corrisponde alla discontinuità cronologica della sua ricerca storico-artistica (dall’Impressionismo all’Arte informale per poi tornare al Romanticismo), volta ad individuare i fili sottili che legano artisti di epoche diverse, al di là delle categorie estetiche convenzionali. Egli giunge così alla definizione del concetto di “tramando”: l’ininterrotta vitalità della tradizione artistica che viene rimessa in atto con soluzioni espressive di volta in volta differenti per indagare il complicato rapporto tra natura ed espressione. La lingua della prosa saggistica di Arcangeli risulta allo stesso tempo militante e controtempo, perché prova a dialogare non solo con gli artisti contemporanei impegnati a ritrovare un nuovo rapporto “sentimentale” con la natura, ma anche con quegli artisti della tradizione occidentale nei quali è possibile individuare elementi di una faticosa sintonia tra l’essere umano e il mondo. Quando, nel 1970, Francesco Arcangeli si accinse ad affrontare l’impresa di Natura ed Espressione, lo fece con la piena consapevolezza di compendiare la sua intera attività di critico e storico dell’arte, e insieme la sua intera vita. Storia e critica, infatti, arte e vita erano sempre state per lui assolutamente sovrapponibili, e non per determinazione intellettuale, bensì per necessità principalmente interiore. Poiché la presente ricerca ha l’intenzione di risalire alle ragioni ultime di questa esposizione, non è sembrato fuori luogo entrare subito in medias res. Ci si servirà della mostra, infatti, come punto di riferimento per approfondire le tematiche affrontate da Arcangeli nel corso della sua attività. Si procederà su un triplice binario interpretativo: l’analisi delle opere esposte, i concetti che in esse trovano espressione, e i momenti della vita di Arcangeli in cui questi concetti sono stati elaborati. Si tenterà in questo modo di restituire l’immagine completa di tre elementi assolutamente impossibili da scindere. Questa non sarà da intendere quale opera esaustiva, né in ambito biografico, né in ambito storico-critico; tuttavia ci si potrà ritenere soddisfatti se al termine di questo ideale ‘viaggio’, saremo riusciti a far intuire il complicato gioco di rimandi tra arte antica, arte contemporanea, ed esperienza di vita, all’interno del profondissimo universo dello storico che ne ha seguito le tracce. Rivisitando virtualmente l’esposizione, guidati dalle parole del saggio introduttivo, scopriremo, artista per artista, opera per opera, quali esperienze, quali visioni del mondo, quali “motivi profondi” hanno generato le scelte espositive. La spartizione del discorso sulle diverse tematiche tra gli artisti esposti sarà un artificio necessario, volto a una chiara illustrazione dei concetti, anche in relazione ai momenti dell’esperienza di Arcangeli in cui questi hanno preso corpo. Si tenterà, inoltre, di non perdere mai il contatto diretto con le opere, seguendo l’indicazione di metodo dello stesso Arcangeli, poiché siamo consapevoli che esse soltanto, attraverso il linguaggio potente e insondabile delle forme e dei colori, sono in grado di comunicare veramente la pienezza del messaggio arcangeliano. Arcangeli apriva il suo saggio introduttivo con un’azione che oggi si usa di rado: illustrare i motivi della mostra. Una ricerca sull’arte bolognese, presentata ai bolognesi da uno studioso bolognese aveva inaspettatamente bisogno di palesare la sua ragione. Non si parlerà, infatti, genericamente di “cose in comune”: esse verranno indagate a fondo, nelle loro cause e nelle conseguenze. Sarà un’operazione, come vedremo, che investirà entrambe le sfere della vita umana: da un lato, quella profondamente personale della propria visione esistenziale, e dall’altro quella “necessariamente sociale”. della vita etica di una comunità. Tutto ciò di cui si parlava, infatti, riguardava artisti che avevano creato, sviluppato e incarnato lo spirito della città, e, dunque, riguardava anche il cittadino dell’oggi, chiamato a vivere la stessa città, ed elaborare la sua personale sintesi di tradizione e futuro. L’obiettivo ultimo di Natura ed Espressione non era altro che rendere questa sintesi più consapevole. L’unica via riconosciuta da Arcangeli per raggiungere l’obiettivo era quella di indagare il proprio passato per trovare i solchi nei quali si poteva muovere, le spalle che lo sorreggevano. Cercava, così, in primo luogo le tradizioni cittadine, e le individuava in quelle particolari costanti di comportamento che con il loro perdurare nel tempo avevano costruito l’identità di una comunità. Le chiamava “strutture psicologiche e di costume”. Non sono altro che tratti comuni alle persone che hanno condiviso ed amato gli stessi luoghi, i quali, secondo la visione di Arcangeli, influiscono sui loro comportamenti, sul loro carattere, persino sul loro modo di intendere la vita. Un ruolo fondamentale giocano anche i luoghi stessi e la loro conformazione, poiché con un rapporto biunivoco si compenetrano ai tratti di coloro che li abitano, tanto a fondo che sarebbe difficile dire quale influenza e quale è influenzato. “La stessa conformazione della città, il suo colore, la sua cucina, le sue donne, il suo costume” sono accostati in una comunanza di aspetto e di caratteristiche. Arcangeli riconosceva come costante comune dei luoghi e dei popoli a cui lui stesso apparteneva, la manifestazione di “passione, sentimento, espressione, calore umano”, che riuniva sotto il nome di “cordialità”. Il popolo bolognese era caratterizzato ai suoi occhi dalla genuinità di cordiali rapporti umani e appassionato “stare al mondo”. Questo non poteva avere un’origine aristocratica, a cui sarebbe corrisposta un’impronta quantomeno più raffinata, e nemmeno, come molti credono, poteva avere origine nella lunga e ‘grassa’ pace della dominazione pontificia. L’origine unica e incontrastata della cordialità bolognese era, per Arcangeli, esclusivamente ‘popolare’ . Popolare ovvero contadina, se si intende quel tipo di vita, appartenuto alla civiltà dell’alto medioevo (quella dello scultore Wiligelmo, prima pietra dell’edificio arcangeliano) e a poche altre, talmente legato ai ritmi naturali da fondersi quasi con essi. Per risalire alla sorgente, dunque, si doveva risalire a un ideale contadino medievale, un ‘atavico antenato’, che viveva le sue giornate e le sue stagioni a stretto contatto con la terra, la sua sostentazione e la sua felicità dovute alle piogge, la natura stessa come unico interlocutore di un dialogo profondo. Era un rapporto strettissimo con la natura, che si esprimeva nel “calore e presenza di immediata, invincibile fisicità”. Nei secoli, sorpassata questa civiltà ideale, la stessa fisicità diventò più mite, spostandosi dalla terra verso la città, ma non perse il suo principio di fùsein, di vita, di natura dinamica. Fu proprio questo principio a essere condiviso in maniera così stretta dagli artisti dei secoli seguenti, anche se, di volta in volta, esso fu declinato in consonanza con le esigenze della propria epoca. In che modo il rapporto con la natura possa rispecchiarsi nel modo di vivere, e poi nell’arte, Arcangeli cercò di spiegarlo diffusamente attraverso la mostra stessa. Il rapporto con la natura e il suo ritmo venivano a influenzare la sfera esistenziale dell’uomo, e necessariamente ne condizionavano l’espressione, l’arte, e infine l’etica ed i rapporti sociali. L’opera d’arte, di conseguenza, risvegliando o rispecchiando profonde affinità condivise da una determinata comunità, poteva agire sulla comunità stessa nel renderla consapevole delle sue origini e guidandola nella scelta di un futuro adatto a esse. Furono quindi le origini popolari, le tradizioni, e insieme il forte sentimento di appartenenza a una comunità le ‘ragioni sociali’ che spinsero il nostro ad avventurarsi in un viaggio così vasto nel tempo. Arcangeli non amava le facili astrazioni. Ogni suo pensiero aveva origine nel profondo, e nel profondo indagava. Per comprendere appieno l’importanza che riveste la tematica delle origini, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, e immaginarlo, non ancora trentenne, passeggiare per le strade del centro di Bologna in una serata di luglio. Non si allarmino gli storicisti, questo non è un volo pindarico, ma la ripresa di uno dei frequenti scritti autobiografici, quasi poetici, che il critico vergò in tempo di guerra. Una serata di luglio, dicevamo, passata a gironzolare, a osservare e a pensare: …E poi, a tratti, dal folto si staccava qualche ragazza appoggiata alla madre. Io le guardavo, e cercavo il senso della loro vita. Erano brune, avevano l’occhio febbricitante e deluso: se non la mente, il loro sangue sentiva l’angustia del vivere. Si appoggiavano alle madri; si fermavano davanti agli assiti che portavano le fotografie di qualche cinema. Si accontentavano di sognare senza mostrarlo. Io, dal mio canto, mi accontentavo di adorarle in silenzio. Non le ho mai cercate; sapevo che non avrei portato felicità, e che non mi appartenevano. Io non ero più popolo, e non potevo che guardarle. Non le avrei mai contese ai loro uguali in oscuri scontenti: agli operai, ai meccanici in tuta, dai capelli lisci sotto la striscia tesa di latta. Ma la loro bellezza! Chi ne saprà dire qualche cosa, veramente? Tante erano e sono, di traccia così antica, che le facili qualifiche di piacevolezza, di procacità, di eleganza vistosa non le sfiorano nemmeno: quelle che toccano, di solito, alle donne della mia città. Vadano per le piccole bolognesi che verso sera affollano le passeggiate del centro: forse appartengono a un altro sangue, mescolato, facile a confondersi con la bellezza mutevole delle borghesi. Ma quelle delle strade che amo! Se avrete l’animo di soffermarvi alla soglia di certe osterie, potrete veder conversare lentamente, con i suoi compari, qualche dea famigliare e accogliente in veste di ostessa. Brune e altere, ma dolcemente, di pelle pallida e talvolta perlata, di corpi grandi e gravi, ma senza peso, le potrete aureolare, attribuirle di sfondi di nubi dorate e argentine, e torneranno senza fatica ai loro empirei da cui i secoli le hanno distaccate giorno per giorno: Immacolate di Guido, Annunciate dell’Albani. Guardano fermamente e poi si volgono, appena arrossite. Non presumono troppo, né troppo poco, di sé e dei loro corpi. (Una volta, ma fu eccezione sublime, vidi la Muta di Raffaello rinata sotto i panni di una fantesca malinconica). Il giovane Arcangeli rivedeva l’arte che amava nella vita, nella gente. Ritrovava i quadri nelle strade, e in un particolare genere di ragazze che le popolavano. Diverse dalle borghesi dal sangue «mescolato», le ragazze “d’osteria” erano le vere portatrici inconsapevoli di una tradizione antica. Si potevano riconoscere dai volti, così simili a quelli delle modelle del Reni e dell’Albani, e dagli occhi, che rivelavano l’”angustia del vivere”. Eppure questo suo amore per loro non trovava espressione se non in una venerazione distante. Non osava avvicinarsi a queste ragazze perché sapeva di non essere come loro (“Io non sono più popolo”), di avere passato la linea che segna il passaggio dalla genuinità popolare dei meccanici in tuta all’artificio intellettuale di quel mondo di professori, studenti e studiosi che lui stesso aveva scelto. Il mondo popolare resterà, tuttavia, il prediletto, proprio perché in esso Arcangeli ritrovava le radici della sua gente, e quindi anche le sue proprie, pur nell’amara consapevolezza di non poterne più far parte. Chiamerà più avanti questa tensione il “richiamo profondo e continuo della povertà” . Povera era certamente stata, in origine, anche la sua famiglia naturale, di cui aveva quasi perso le tracce nel tempo. Francesco non era mai riuscito a esaurire in essa la sua ricerca di radici. Individuò, sin da giovanissimo, la più vasta ‘famiglia d’elezione’ in quella comunità ideale di coloro che avevano frequentato e amato le sue stesse strade, e che come lui avevano sentito forte il ‘sentimento del luogo’ e profonda la connessione con la propria terra, seguendo in nuce lo stesso principio che lo avrebbe portato, molto più tardi, a comporre la ‘famiglia spirituale’ degli artisti di Natura ed Espressione: Io non ho tradizioni. I miei nonni non so più chi erano, se non a fatica, per qualche ricordo imprestato. Ma, fin dai primi anni di ragione, ho incontrato sulla mia strada la storia d’Italia; non la conosco che malamente, ma sento, so che cos’è. Me ne sono abbeverato a tratti irregolari, quasi di malavoglia, ma inevitabilmente. Sono della parrocchia di cui fu cavaliere Vitale da Bologna, dove nacque Ludovico Carracci. Eppure, è una storia che ho conosciuta inevitabilmente, ma anche spontaneamente; non è un legame di sangue, è un legame della mia mente. Frutto di una scelta obbligata, il legame portava con sé alcuni lati negativi: l’amarezza e la consapevolezza di appartenere a una “provincia”: Forse, per me, è amaro; ma agli altri non cercherò mai di darne l’amarezza; soltanto quello che di vivo porta in sé. Credo, anche, che questo amore non sia provincia. So commuovermi anche ai fatti diversi e sublimi, e può essere che li comprenda. Ma non rinnegherò mai, neppure il senso della mia città: qui sento battere i ‘menomi polsi’ della civiltà del mondo. La famiglia, quella naturale, di Arcangeli, in effetti non aveva tradizioni particolarmente radicate. Diventò conosciuta nell’ambiente bolognese solo grazie alla generazione di Francesco e dei suoi fratelli: Gaetano, il maggiore, fu poeta e scrittore, Nino fu pianista e critico musicale e Bianca fu pittrice . Forse anche grazie all’eccezionalità del rapporto con i fratelli, Francesco si sentì legato, per tutta la vita, ai luoghi della sua infanzia. Quando voleva raccontare se stesso, lo faceva per luoghi, ricordando le case e le strade che aveva amato. Nello scritto La mia casa, del 1952, Arcangeli ripercorre la sua infanzia e la sua giovinezza attraverso la descrizione delle sue abitazioni, in particolare della prima di queste, in cui era nato il 10 luglio 1915, una casa buia tra via Schiavonia e via Nazario Sauro: La casa dove son nato è rimasta la mia vera casa, la mia natura da portare con me e da vincere, potendo. Là è nato tutto, di me, della parte che mi porta avanti nella vita senza ch’io me ne accorga: quella casa, è come la malinconia inguaribile di mia madre .Cominciamo ad avvertire la caratteristica forse più personale della critica di Francesco Arcangeli: essa è sempre intimamente connessa con la sua esperienza di vita. Una mostra come Natura ed Espressione, ponendosi al culmine di un percorso iniziato decenni prima, sarà quindi inevitabilmente un fatto esistenziale, che va molto al di là della semplice storia dell’arte. Non è lasciata senza spiegazione nemmeno la scelta dell’arte visiva quale veicolo per una meditazione esistenziale. Nell’introduzione del corso universitario Corpo, azione, sentimento, fantasia: naturalismo ed espressionismo nella tradizione artistica emiliano-bolognese, tenuto a Bologna tra il 1967 e il 1968 nonché preludio alla mostra, Arcangeli ricorda un passo di un suo scritto di qualche anno precedente e ne chiarisce il significato: Mi permetto a questo punto di inserirvi, dato che sono io che vi parlo, qualche riga tratta da un mio volume su Giorgio Morandi qualche riga scritta nel ’61 e che io considero ancora abbastanza esauriente rispetto a ciò che penso in proposito: “…quel che sembra alla mia generazione d’aver capito (per noi, credo definitivamente) è che l’arte, prima che un momento autonomo e distinto dello spirito umano, è una traduzione ‘specifica’ e adeguata d’una determinata concezione della vita generata da un determinato esistere nella vita. Insisto sulla ‘specificità’, che difenderemo sempre, altrimenti noi storici dell’arte dovremmo cambiar professione e farci semplicemente storici della cultura o della civiltà; ma insisto anche sul fatto che questa ‘specificità’, per cui l’arte è l’arte e non altra cosa, è anche legata, con radice profonda a un certo esistere nella vita.” Di qui la connessione tra forme d’arte e la vita stessa. È un concetto assolutamente basilare, che sarebbe utile precedesse ogni tipo di intervento che si definisce storico-artistico. Arcangeli si pose la questione già da studente, quando entrò in contatto con Roberto Longhi, l’uomo che sempre riconoscerà come suo incontrastato maestro. Arcangeli aveva conosciuto Longhi nel 1934, quando questi era stato chiamato a rivestire il ruolo che era stato di Igino Benvenuto Supino. Al secondo anno di Università, ancora indeciso sulla strada da seguire (meditò, come vedremo, una tesi in Storia), il giovane Arcangeli fu come folgorato dal discorso pronunciato dal maestro, in occasione dell’apertura dell’anno accademico: A me è toccata la fortuna di essere allievo di Roberto Longhi; e fin da quell’ormai lontano autunno del 1934 in cui io – che ancora non lo conoscevo personalmente – gli intesi leggere la famosa prolusione sui “Momenti della pittura bolognese” , seppi che cosa era la specificità della disciplina che poi avrei scelto come mio campo di lavoro; credo d’averlo saputo, almeno in nuce. Alte ed appassionate, pur nella apparente imperturbabilità della dizione, suonarono queste parole di Longhi: “condotto dalla mia conformazione mentale ad un amore per la lettura diretta dell’opera come documento parlante, non mai stanco di spremerne i significati quasi inesausti…” (Arcangeli, 1969) L’opera, pur rimanendo l’unico soggetto, si offriva anche per Longhi a più gradi di interpretazione: il primo coglie i significati più vasti, di cultura e di storia, il secondo consiste nella lettura degli elementi formali. Questi ultimi, nella loro “specificità, contengono ed esprimono anche i suddetti significati, e si devono quindi porre come termine costante di un dialogo, volto a evitare il fraintendimento o la strumentalizzazione dell’opera stessa. È come se si riconoscesse appartenente alla scuola di Longhi non per decisione meditata, per approdo di pensiero, ma quasi per un destino, un’eredità che gli è toccata in sorte, proprio come era successo con la ‘cordialità’ e la ‘passione’ della sua città: Io credo, infatti, profondamente che, accanto allo schema dialettico della vita e del pensiero, ne possa esistere, anzi ne esista, un altro: che è quello che potrebbe definirsi del tramando. ‘Tramando’ è per Arcangeli l’insieme di tutto ciò che le generazioni passate sono riuscite a trasmettere a quelle presenti, attraverso un’azione secolare ed inconscia. È il solco nel quale si è nati e si cammina, ma è anche ciò che si lascerà alle generazioni che seguiranno . Arcangeli lo riteneva un obbligo morale. Per ‘tramando’ aveva ricevuto la dimensione vitale della ‘cordialità’ bolognese, e quella più intellettuale della longhiana fedeltà all’opera, ed entrambi rielaborava in uno studio volto di tramandarli nuovamente, con l’obiettivo di essere utile alla sua comunità: Se è necessario per me, per l’oscura necessità cui alludevo (dove oscuro è ciò che non è immediatamente razionale e razionalizzabile, ciò che ci aiuta a vivere per impulso interno e irriflesso), credo sia altrettanto necessario per la comunità cui appartengo , se vorrà indagare sulle proprie strutture psicologiche e di costume. Si è scritto molto sul rapporto tra Longhi e Arcangeli e sulla diversità sostanziale del loro metodo critico il maestro era legato a una dimensione quasi ‘purovisibilistica’ dell’arte, impegnato nella ricostruzione del puzzle di una storia che egli stesso aveva ereditato malconcia e lacunosa, e che mirava a riportare all’antica grandezza. Individuava i grandi artisti, le loro aree di formazione e le loro cerchie d’influenza sulla base di affinità stilistiche. Raramente si avventurava fuori dalla sfera creativa degli artisti stessi, o da quella, parallela, delle sensazioni prodotte nell’osservatore. Questa stessa linea interpretativa fu seguita anche da Arcangeli fino alla sua tesi di laurea, dal titolo Iacopo di Paolo nello svolgimento della pittura bolognese , discussa il 10 novembre 1937. In essa si analizzavano formazione, influssi, attività dell’artista, per poi culminare nell’attribuzione a Iacopo di Paolo degli affreschi del Capitolo di Pomposa, sulla base dello stile e delle analogie formali. La scelta del tema trecentesco non fu casuale. Nella citata ‘prolusione’, Longhi aveva definito il Trecento bolognese “l’unico Lazzaro dimenticato nella tomba” nell’ambito della “resurrezione dei Trecentisti italiani operata dalla taumaturgica critica moderna” (Longhi, 1934). Quel giorno, in Arcangeli, si innestò il germe di una doppia rivelazione: le sue radici e tutto ciò che aveva sempre cercato e sentito suo trovavano riscontro visivo in artisti di una forza e di una bellezza insospettata; ma questi secoli d’arte giacevano sotto una coltre di indifferenza, che aspettava di essere dissolta affinchè fosse restituito loro il posto che meritavano nel firmamento della storia dell’arte. Ci piace pensare a questo come l’elemento decisivo che portò alla scelta di Arcangeli di votarsi alla storia dell’arte: uno stimolante banco di prova si offriva ai suoi occhi, fatto di artisti da riscoprire, opere da attribuire, e una tradizione da riscattare. La missione storico-artistica impegnò Francesco tanto quanto la politica, la guerra, la militanza, impegnarono alcuni suoi compagni: “agli amici, storici dell’arte, come Cesare Gnudi e Giorgio Bassani, che allora militavano nel Partito d’Azione, rispondeva che la sua “Azione” doveva essere tutta nell’arte.”. Le sue ‘azioni di guerra’ furono infatti il trasportare le opere attraverso la Pianura Padana, in camionette, come armi clandestine, per salvarle dai bombardamenti. Non abbiamo notizie che militasse in nessun partito, o che avesse sposato alcuna causa, se non quella dell’arte. In quel momento, dunque, era longhiano in più di un aspetto della sua vita. L’attenzione per il Trecento, punta di diamante della riscoperta operata da Longhi, si prolungò nel maestro e negli allievi anche oltre gli anni del conflitto, fino a sfociare nella grande mostra del 1950, e in Arcangeli non trovò mai esaurimento, come dimostra l’ampia sezione di Natura ed Espressione dedicata, vent’anni più tardi, ai trecentisti bolognesi. Arcangeli scoprì la scultura di Wiligelmo intorno all’anno 1951, reduce da una sorta di “viaggio di iniziazione critica” che l’aveva visto spaziare vorticosamente tra gli artisti e tra le epoche. Ne ripercorriamo in breve le tappe per accedere all’universo critico di Arcangeli a partire dalle sue vere origini. Sarebbe stato sufficiente sostituire “spazio dei fisici” con “spazio dei mistici”, scriveva Arcangeli nell’introduzione alla mostra, per immaginare Wiligelmo pronunciare la stessa frase. Non era infrequente che Arcangeli formulasse i propri concetti a proposito dell’arte contemporanea, per poi ritrovarne un riflesso, in un secondo momento, negli artisti più antichi. Come risalendo la corrente della propria tradizione, egli cercava nel passato le ragioni della propria attualità. Lo scultore romanico era stato ‘trovato’ alle origini di un sentimento che Arcangeli cominciò a percepire in se stesso e negli artisti a cui si avvicinò, a partire dal 1948. Fino a quella data, infatti, i suoi scritti, anche quando si erano occupati di arte contemporanea, erano rimasti generalmente nella carreggiata di Longhi, senza allontanarsi dall’attenzione quasi esclusiva per le questioni formali ed estetiche. Solo dal 1948 Arcangeli cominciò a intuire una visione più intima dell’atto creativo. Ne trovò dapprima corrispondenza in artisti, a lui quasi coetanei, che in quegli anni si stavano arrischiando al di fuori dell’unica “retta via” indicata da Longhi, e cioè la scia di Carrà e di Morandi. I giovani pittori, similmente a De Kooning, erano accomunati dalla ricerca del proprio spazio entro i confini della loro stessa persona fisica. Operavano per la maggior parte nell’area bolognese, ed erano tutti conosciuti personalmente dal nostro, che spesso li presentava in occasione delle esposizioni Tra questi, una particolare e duratura amicizia lo legò a Pompilio Mandelli. Fu a proposito delle figure di quest’ultimo che il giovane critico elaborò probabilmente per la prima volta quei concetti che poi allargherà anche agli altri, ed è quindi in Mandelli che anche noi andiamo a cercare l’inizio del sentiero personale di Arcangeli. Allievo di Giorgio Morandi e Virgilio Guidi, Mandelli aveva visitato Parigi nell’estate del 1947, e lì era stato talmente folgorato dalla pittura degli impressionisti, di Soutine e di Utrillo, da decidersi ad abbandonare definitivamente l’equilibrato stile dei suoi maestri. Sulla scia dell’Ottocento francese, sentì l’esigenza di abbracciare la totalità della realtà attraverso un’espressione che connettesse direttamente le forme e i colori sulla tela alla propria sfera emozionale . Questo era l’aspetto che Arcangeli, quasi testimone di una rivelazione, sottolineava nella presentazione dell’amico pittore alla sua mostra personale nel 1948. Scrisse a proposito del Quartiere Saint Michel, dipinto in Francia l’anno precedente: “il barbaglio ottico dei riflessi si muta in un emotivo miraggio di larve che trascorrono” (Arcangeli, 1948). La metafora comunicava immediatamente la trasfigurazione del dato reale in una “condizione di potenzialità, di ombra, di pre-forma”. Dimenticando il disegno, la tecnica e le proporzioni, spontaneamente, Mandelli riproduceva l’uomo come se lo vedesse sfuocato, come se ne percepisse la presenza e ne cercasse la sensazione fisica. Questa percezione pre-razionale dovette sembrare ad Arcangeli non solo una svolta positiva, ma l’unico modo per rapportarsi al mondo reale senza imprigionarlo in insincere astrazioni del pensiero. Ciò che aveva scritto per Mandelli “qualche cosa albeggiava in lui, luci, delicate larve, sentimenti” (Arcangeli, 1949) sarebbe potuto valere perfettamente anche per Monet, il suo modello, di cui il critico si occupò più tardi nello stesso anno, parlandone in termini singolarmente simili. Fu quello uno dei primi collegamenti tra artisti di epoche e stili differenti, che caratterizzeranno tutta la critica di Arcangeli fino a Natura ed Espressione. Arcangeli avrebbe fatto delle analogie tra gli artisti la spina dorsale della propria poetica, seppur rispettando sempre l’originalità di ogni artista, le diversità delle epoche in cui questi si trovavano a operare, così come le personali elaborazioni di sensazioni e di forme. Il metodo, in verità, non era dissimile da quello di Longhi, che per primo aveva lavorato su grandi filoni espressivi, determinandone le caratteristiche formali e scoprendone i maestri che ne avevano segnato le tappe. Anche Arcangeli si serviva di simili collegamenti tra i pittori, ma diversamente da Longhi, aveva creato una sola ‘famiglia spirituale quella, in ultima analisi, a cui lui stesso apparteneva. Padana per nascita, essa non conosceva limiti nel confronto con territori lontani si arriverà fino in America , né con epoche lontane. Così Mandelli, bolognese, poteva essere simile al parigino Monet, come il medievale Wiligelmo al coetaneo De Kooning, dal momento che tutti partecipavano all’”elementare universalità” del ritorno alla natura. Correva ancora l’anno 1948, quando, indagando più a fondo nella pittura impressionista che Mandelli aveva preso ad esempio, Arcangeli scrisse un articolo opponendosi genuinamente alla maggior parte delle precedenti valutazioni critiche sull’argomento. Sulle pagine de L’impressionismo a Venezia avvenne una svolta fondamentale per il nostro critico quel ‘sentire la natura’ aveva acquistato una forza tale nel suo pensiero, da essere posto a principale ragione della rivalutazione dell’intero movimento impressionista e dell’opera di Monet, soprattutto. Nè Monet era stato il primo tra i moderni. Nel decennio dal 1850 al 1860, Courbet aveva già espresso un proposito “capitale nella storia pittorica del secolo” (Arcangeli, 1948), quello di “faire de l’art vivant”. L’arte, cioè, doveva essere espressione della vita moderna in tutti i suoi aspetti, non solo in quelli ritenuti degni di essere esposti nei musei. Courbet si mosse a tal punto in questa direzione, che con lui assunsero dignità artistica anche il popolo, nei suoi mestieri più quotidiani (Gli Spaccapietre, 1849; Pompieri che corrono a spegnere l’incendio, 1850), o la morte, nel suo momento volgare di un funerale di campagna (Funerali a Ornans, 1850). Dal momento che nessuna cosa era considerata indegna di essere dipinta, nessuna gerarchia aveva più senso. Non solo i quadri ‘di genere’ diventavano importanti quanto quelli ‘di storia’, ma cadevano anche le distinzioni tra i soggetti all’interno degli stessi quadri: figure umane ed oggetti godevano dello stesso interesse da parte dell’artista. Di nuovo, come nel caso di Mandelli e, lo vedremo, di Wiligelmo, la natura umana non era innalzata in sfere metafisiche in virtù del suo intelletto, ma, al contrario, come limitata al mondo naturale e materico. Tutto ciò, sia chiaro fin da ora, era visto come un’azione estremamente positiva: solo così l’uomo poteva spogliarsi del proprio ingiustificato orgoglio e immergersi nella verità. In questo modo Courbet, “massacratore di gerarchie ufficiali” diventava il diretto precedente di Monet, in quanto entrambi avevano adottato soluzioni analoghe a proposito del rapporto tra uomo e natura. Dopo l’abolizione delle differenze tra oggetti, natura e persone, tutti ugualmente partecipanti alla stessa materia del mondo, Monet aveva compiuto un ulteriore passo avanti: aveva trasferito la materia dalla sfera della percezione a quella del sentimento. Attraverso l’utilizzo di mezzi puramente ottici, come le ombre colorate, il pittore era diventato capace di ricreare sulla tela la visione diretta dei suoi paesaggi. Tuttavia solo grazie alla percezione emotiva dei suoi soggetti, nei quali si immergeva anima e corpo “en plein air”, era riuscito a sottrarli alla riproduzione scientifica per trasmetterne finalmente la poesia. Il particolare e poetico utilizzo della luce dava il definitivo carattere di “tranche de vie” alle scene di Monet, e ancora la luce era l’elemento espressivo che permise al pittore di comunicare la potenza e l’inquietudine della sua visione (“l’obiettività apparentemente scientifica della scoperta luministica di Monet già si veniva colmando di poesia”). Con una innovazione inversa a quella di Brunelleschi, ma ugualmente potente, attraverso il libero uso della luce, Monet svincolava la pittura da ogni considerazione matematica preventiva, da ogni calcolo, in una parola, dalla prospettiva rinascimentale, per ricreare una naturale sensazione della visione, una vera e propria “impressione”. L’opposizione alle “certezze umanistiche e antropocentriche” era evidente, così come l’impossibilità di ridurre il mondo a formule matematiche o filosofiche. Comincia ora a farsi più nitido il fil rouge che univa Mandelli, Monet e Courbet. Tutti erano accomunati dal rapporto diretto con la natura, dalla caduta delle gerarchie iconografiche, dal sentimento nel suo senso più vasto e infine dallo spontaneo utilizzo della luce come strumento di interpretazione del mondo materiale. Lo sguardo del critico non poteva che volgersi ora, con un salto di quasi tre secoli verso un altro grande della pittura, che proprio su questi elementi aveva fondato il suo stile. Anche Caravaggio, infatti, aveva combattuto lo stesso nemico (le certezze umanistiche) con la stessa arma (la luce). Insoddisfatto dalla cultura dominante della sua epoca, egli fu riluttante a imprigionare la varietà del reale in forme “di maniera”, idealizzate. Si ribellò alla radice abbandonando la prospettiva rigorosa e il disegno, generatori dell’aborrita ‘maniera moderna’ tosco romana. Come Courbet, si rifiutò di obbedire al decorum, che imponeva l’accurata selezione dei propri soggetti, e non disdegnò di dipingere alcun particolare rispondente a verità. Se l’interpretazione di Caravaggio come anti-umanistico era la stessa che aveva dato Roberto Longhi, totalmente innovativa risultava la connessione con Monet, insieme alla rivalutazione di quest’ultimo e dell’impressionismo tutto. All’inizio degli anni ’50, dunque, Arcangeli cominciava a fare i primi passi sulla propria strada. Come guidato da ‘affinità elettive’ egli vi aveva incontrato artisti che rispondevano ad alcune caratteristiche e a una particolare visione del mondo, e solo in un secondo momento aveva ricostruito i primi passi della storia di questa visione. In Mandelli, Monet, Courbet e Caravaggio aveva trovato analogie talmente forti da legittimare una sostanziale unità di intenti: il “tentativo di rifondare in termini di piena, accostabile umanità il primigenio e imprescindibile rapporto con la natura”. Al principio di quella strada aveva riconosciuto, sin dal 1951, proprio Wiligelmo. Davanti a una così evidente insistenza nel ritorno a determinati artisti e alle loro caratteristiche comuni, sarebbe quantomeno superficiale non chiedersi il perché. Da ciò che possiamo leggere fino a queste date, sembra che il giovane Arcangeli non si interrogasse ancora sui motivi delle sue scelte critiche, che percepiva semplicemente come necessarie. Eppure queste scelte erano tanto precisamente orientate, e nello stesso tempo tanto sentite e spontanee, che viene naturale pensare, come ha fatto Arianna Brunetti, che fossero una “’convalida in immagini’ delle riflessioni che impegnavano il critico sulla relazione tra coscienza razionale e coscienza profonda”. Indubbiamente l’intuizione, la poesia, il sentimento, la natura – e quindi la ‘coscienza profonda’ uscivano nel suo pensiero puntualmente vincitori da un’ideale sfida contro la razionalità o schema mentale, ma questo fatto doveva avere una radice se è permesso il gioco di parole ancora più profonda. Possiamo trovarne un accenno in uno scritto a proposito di Picasso, artista all’epoca acclamato e famoso come nessuno, ma che aveva tutt’altra impostazione ideologica. Arcangeli non esitò a dichiarare Picasso estremamente sopravvalutato e sostanzialmente superficiale: era colpevole di aver contaminato la diretta espressione del dramma e delle emozioni con il calcolo e la pura estetica. Lo stesso Guernica, da tutti considerato l’emblema moderno dei disastri della guerra, agli occhi del critico risultava troppo preparato e complesso per essere una vera espressione di tragedia. In chiusura dell’articolo, offrendosi a un collegamento diretto tra la propria personale esperienza di vita e l’artista, Arcangeli lo poneva ad esempio di una generazione da cui prendeva le distanze: ci sono ancora molti nel mondo – ne siamo certi – che non identificano né il proprio dolore né la propria speranza con quel che si può esprimere nell’opera di Picasso e degli uomini della sua specie; di cui la geniale, ma terribile generazione che ci ha preceduti, la quale ci ha dato guerre tremende, e ci ha lasciato un avvenire con poche speranze, è stata fin troppo ricca. (…) Vorremmo che ci lasciassero in pace col vecchio demiurgo mediterraneo, che non ci obbligassero a pensare a lui; perché crediamo che l’umanità abbia ormai altro da fare che ascoltarlo. C’è da difendere qualcosa di più modesto, forse, ma di radicalmente «diverso» da quello che ci propone: le speranze contro le fedi, il dubbio contro le false certezze, la meditazione contro la fretta; e una forza vera, se mai sarà ancora possibile, contro la violenza. (Arcangeli, 1953) Se identifichiamo le fedi, le false certezze, la fretta – intesa come subitanea adesione a un’idea non meditata – con quelle “certezze umanistiche e antropocentriche” contro cui si sono mossi gli artisti finora presi in esame, ecco che troviamo una ragione straordinariamente profonda nelle scelte critiche di Arcangeli. Appena uscito da una guerra, egli ne imputava le tragedie “la violenza” a una generazione di uomini che presentavano lo stesso orgoglio e la stessa superbia di chi si poneva, nel Rinascimento e non solo, al centro del mondo, come se fosse padrone della vita e della morte. La ferrea condanna di tutto questo, dunque, insieme alla promozione di un’altra, opposta, forma mentis, non era un fatto puramente estetico, ma aveva l’ultimo obiettivo di ricostruire una personalità, se non una intera società, su basi veramente umane, riallacciandosi alla natura originaria dell’esistenza. Esattamente questa operazione era stata ravvisata in tutti gli artisti di cui si era occupato, primo fra loro Wiligelmo. Abbiamo già ricordato come la Prolusione di Roberto Longhi nel 1934 diede inizio alla rivalutazione dell’arte bolognese, e la grande passione con cui gli allievi si dedicarono alla riscoperta di questa tradizione. Ricordiamo anche che la tesi di laurea di Arcangeli trattò un argomento trecentesco. Gli artisti del XIV secolo, primi veri portavoce delle “strutture ideologiche e di costume” identitarie della loro terra, ebbero infatti in questo contesto il ruolo di protagonisti: per gli storici erano il migliore trampolino di lancio nella riscoperta della tradizione emiliana nel suo complesso. Cercheremo ora di capire quale fosse la bandiera sotto la quale tutti questi artisti venivano riuniti; in virtù di cosa, cioè, la tradizione lombarda fosse ritenuta meritevole di essere riportata alla luce. Le ricerche condotte dalla cerchia bolognese di Longhi si concretizzarono nell’anno 1950 in una mostra, Trecento Bolognese, nata dal proposito di rivelare al grande pubblico soprattutto la pittura di Vitale da Bologna e la miniatura dell’Illustratore, e poi Dalmasio, Jacopino di Francesco, e Giovanni da Modena. L’espressione grande pubblico non è usata a caso, poiché una delle peculiarità dell’arte che si andava a proporre era quella di essere accessibile ‘ai più’, di parlare agli uomini assai più che agli studiosi – dai quali, infatti, era stata a lungo trascurata. A questo punto è bene precisare una questione fondamentale. Quelle appena riportate avrebbero potuto essere, per la forma e per il contenuto, parole di Arcangeli. L’adesione totale all’interpretazione di Longhi su questi argomenti nell’opera del più giovane critico è evidente, così come l’approfondimento di intuizioni che appartennero al maestro nella stagione in cui diresse gli studi sul Trecento bolognese. Né mai, bisogna dirlo, Arcangeli negò il suo debito. La differenza sostanziale tra i due studiosi è piuttosto da ricercare nell’angolazione dalla quale essi hanno osservato Bologna. Longhi l’aveva indubbiamente capita per primo nelle sue spinte più profonde, e ne aveva tracciato un penetrante profilo, ma Arcangeli era quella città; quel profilo, come una psicanalisi, era anche il suo. Una differenza di intenzioni stava alla base delle due attività critiche: quella che per Longhi era una tradizione, diversa nella struttura, ma identica alle altre nell’interesse con cui doveva essere studiata, per Arcangeli era un’identità, una tradizione personale e appartenente alla sua propria comunità, e come tale doveva erigersi a parte attiva di una vita in costruzione. Se però prescindiamo dalle intenzioni,e consideriamo il punto di vista strettamente storico-artistico, le visioni dei due storici sono quasi del tutto sovrapponibili. Si può dire che le fondamenta trecentesche di Natura ed Espressione erano state gettate sin dal 1950. Già in Longhi si trovava il riferimento al “sottosuolo romanico dell’arte padana”, cioè quel rimando all’alto medioevo, ricondotto poi da Arcangeli alla figura di Wiligelmo, come inesauribile polmone dei pittori trecenteschi bolognesi durante la conquista dell’indipendenza dai principi d’equilibrio e di armonia propugnati dai toscani. Dal “precedente remoto di Wiligelmo” (Arcangeli, 1970) aveva preso vita l’arte dell’intera regione della valle padana chiamata spesso generalmente ‘lombardia’, attraverso una “tradizione inconsapevole, di costume e di vita altrettanto che d’arte”, che nell’universo arcangeliano prendeva il nome di ‘tramando’. Soltanto a partire dal Trecento le due regioni, Lombardia ed Emilia, intrapresero due strade diverse. Mentre la prima sviluppò un carattere introverso e malinconico, in Emilia si esplose in “qualche cosa di estroverso e d’ardente, d’immaginoso e d’abnorme, di sensuale e di patetico” , e cioè parola chiave dell’arte che comincia con Vitale l’espressione. L’espressione di Vitale da Bologna era spontanea, immaginifica, violenta, ma nello stesso tempo estremamente complessa nel ricreare tutte le ombre della vita reale. Essa si distingueva per l’azione repentina e improvvisa delle figure, e trovava riscontro nel ritmo quasi sincopato delle coreografie compositive. Il San Giorgio e il drago ne era la dimostrazione più evidente: tramite la singolare posizione del cavallo e del suo cavaliere, tutta giocata su diagonali contrapposte, non poteva darsi “violenza più attimale, più sfrenatamente appuntata al culmine d’uno scatto di vita”. Un concerto di simili gesti si era riunito anche sulla parete dell’oratorio di Mezzaratta, quando Vitale vi aveva dipinto il Presepe . Fonte inesauribile di particolari, di piccoli tranche de vie, l’affresco era per Arcangeli una prodigiosa adunanza di figure e di gesti originali. L’andamento della composizione, così fluido e vivace, ricordava talmente una facciata di cattedrale, da guadagnarsi a pieno titolo l’appellativo di gotico. Con una preferenza che riscontreremo spesso in Vitale, partecipava alle forme contratte e dinamiche delle cattedrali d’oltralpe, piuttosto che al gotico calmo e spazioso delle facciate di Siena o di Orvieto. Degli elementi di grande novità del dipingere di Vitale, mentre le azioni improvvise e repentine rimasero prerogativa del suo personale genio, altri si depositarono nell’eredità artistica della città configurandosi come costanti tipiche dell’arte ‘espressiva’. Già Malvasia aveva individuato come novità destinate a una grande diffusione, le invenzioni particolari, i raptus di fantasia, che Vitale condivideva con l’arte tedesca e nordica in genere. Il modo di disporre i personaggi sulla scena, inoltre, sarà ricordato da molti bolognesi, fino al Crespi: ogni personaggio, secondo Arcangeli,si creava per se stesso il proprio “spazio vitale”, affermando così la propria esistenza fisica. Un altro espediente figurativo di grande impatto, quello che Arcangeli chiamava “brano di vita”, consisteva nel non completare la rappresentazione all’interno del bordo dell’opera, cosicché alcune figure rimanessero per metà come tagliate dalla cornice, alludendo a una realtà che esisteva al di là della figurazione, e di cui l’opera non rappresentava che un frammento. Queste ed altre ancora erano le costanti che permisero di tradurre in immagini l’espressione, la fantasia e la naturalità ricondotte alla tradizione ‘popolare’ emiliana e bolognese. Sebbene da Longhi e Arcangeli fosse considerata come la più originale e distintiva della zona, nel panorama della storia artistica emiliana l’arte espressiva e ‘popolare’ non rappresentò che uno degli orientamenti possibili. Essa ebbe, anzi, un carattere episodico, in quanto fu riproposta tra grandi intervalli di tempo, e minoritario, perché sempre in contrasto con la cultura dominante. Come era successo per Wiligelmo, anche le novità di Vitale non saranno accolte se non da pochi suoi seguaci, per riaffiorare poi nei secoli seguenti, ‘ripescate’ da spiriti affini. La tradizione che Arcangeli andava ricostruendo era quindi soltanto una parte della totalità dell’arte di Bologna, e nella fattispecie una parte ‘di opposizione’. Ciononostante, anzi forse proprio in virtù di questa lateralità, Arcangeli aveva sentito il bisogno di riproporla a se stesso e alla sua città. Abbiamo analizzato con Wiligelmo il significato di natura, e con Vitale quello di espressione. Come recita il titolo, saranno questi due concetti a condurre il viaggio ideale della mostra, durante il quale, se da un lato si esploreranno periodi estremamente distanti tra loro, dall’altro non si godrà della stessa elasticità per i luoghi. Bologna, infatti, sarà da ora in poi l’unico punto fermo dell’esposizione. Sarà paragonata ad altre realtà, vicine come Milano o distanti come l’America, ma sempre nell’ordine di chiarire una cultura profondamente legata al territorio, che cominciò a delinearsi proprio con Vitale da Bologna. A questo punto della trattazione, è arrivato il momento di avventurarci su un terreno piuttosto minato. Poiché necessariamente dobbiamo addentrarci nella complessa vicenda Morandi-Arcangeli, avvertiamo sin d’ora che la prospettiva che adotteremo per tentarne una comprensione è lontana dalla pretesa di offrire un’opinione risolutiva: si pone, se mai, come naturale conseguenza del percorso che abbiamo seguito fino a qui, e come tale, sarà da prendere con le dovute riserve. Detto questo, possiamo avvicinarci all’ultimo, grande artista che Arcangeli scelse per concludere la sua trasvolata sulla tradizione bolognese: Giorgio Morandi. Se fino a qui non abbiamo avuto occasione di pronunciarne il nome, nonostante le frequenti incursioni nell’arte contemporanea, il fatto non è casuale. L’intera parte del saggio introduttivo dedicata a Morandi suona, sin dall’esordio, come una giustificazione verso immaginarie accuse. Prima di tutto, il critico sentì di dover motivare l’inserzione di una propaggine novecentesca in una mostra che, a occhi altrui, poteva già sembrare completa. La ragione è di nuovo sociale: la rivolta dei naturalisti contro la forzosa ragione si era prolungata sotto forma di lotta tra provincia e città (“una lotta alla radice, una lotta per la condizione umana”), e ciò era accaduto fino a poco tempo prima, fino a ‘ieri’, “e di questo ‘ieri’ è importante che la gente abbia nozione, per giudicare se stessa e il punto del suo cammino, o della sorte cui viene condotta” (Arcangeli, 1970). Era dunque importante che figurasse anche il Novecento, se si voleva fare della mostra l’uso civile per cui era stata pensata. Più complessa era la motivazione della preferenza accordata a Morandi, spiegando la quale il critico tocca a volte i toni della vera e propria difesa. Il pittore non era certo un artista così ‘naturale’ come quelli esaminati finora, né impremeditato, tanto meno Informale. Anzi, come ricorda Mandelli, “quel ‘naturalismo di partecipazione’ Morandi forse lo vedeva con un po’ di fastidio e trovò l’occasione per definirlo: ‘Una natura vista con l’occhio della gallina quando becca l’erba’”. Eppure anch’egli, agli occhi del critico, aveva condotto una rivolta, seppur non apertamente indirizzata verso un ‘nemico’ preciso, ma interna alla sua stessa personalità, intima, interiore. Non sfuggiva ad Arcangeli che il pittore aveva effettivamente fatto parte della cultura umanistica e idealistica durante gli anni della sua formazione si pensi alla sua fase metafisica, e, in fondo, non se ne era mai allontanato. Eppure la natura, come elemento sentito, come evidenza di materia, si era parallelamente fatta strada nella poetica del pittore fin dai primi anni di attività: Già nel 1913 e nel 1914, soprattutto in alcuni paesaggi che mancano qui in mostra, era cominciata una sorta di lotta, di contestazione interna fra le ragioni dell’intelletto e della cultura, e quelle di una vocazione a un dialogo segregato, difficile, affascinante con la natura. Il dissidio tra mente e natura era la fonte principale e inesauribile di poesia nelle pitture di Morandi, una volta superata la fase giovanile. La tensione tra equilibrio intellettuale da un lato e attrazione verso la natura materiale dall’altro, insita nei paesaggi e negli oggetti delle sue nature morte, aveva il potere di renderli sublimi. Questa era “una delle ragioni essenziali della sua grandezza”, ma anche il motivo per cui Arcangeli sentiva legittimo porlo al termine di Natura ed Espressione. L’elevatissima qualità delle nature morte di quel periodo , oltre che a un’impeccabile tecnica pittorica, era dovuta secondo Arcangeli al porre profondamente in discussione le ‘sovrastrutture mentali’ attraverso un contatto diretto con l’oggetto, il quale, in quanto materia terrena, riportava alla coscienza dell’uomo la sua condizione mortale. Le forme di Morandi si rivestivano così di una riflessione lacerante e appassionata sul contrasto tra mortalità e infinito, un’”indagine sull’eternità della materia”. L’atto di costringere l’oggetto materico all’interno di una griglia geometrica non era raro infatti che le sue nature morte fossero disposte su piante rigorose e calcolate rivelava l’intimo conflitto tra la deperibilità del reale e l’eternità dell’equilibrio assoluto, e dunque, la disperazione del pensiero davanti alla presa di coscienza della mortalità della materia. Arcangeli concluse con una nota amara il suo itinerario nella tradizione pittorica bolognese, che sinora era stato invece quasi un inno alla vita, seppur cosciente della propria umana condizione. Affidò l’epilogo della mostra all’incisione della Grande natura morta scura e rifacendosi alle parole di Leopardi, La lotta tra materialità ed eternità era il nodo principale della lettura morandiana da parte del nostro, o almeno così era sulle pagine di Natura ed Espressione. In realtà, la vicenda del rapporto tra Arcangeli e Morandi ebbe radici in tempi molto più precoci, e presentò verso la fine un risvolto a dir poco spiacevole. Sin da quando il critico, ancora giovanissimo, aveva udito Longhi pronunciarne il nome al termine della celebre Prolusione, Morandi era diventato per lui una sorta d’eroe, un grandissimo artista che prodigiosamente innalzava a vette europee la fama della propria città di provincia. La sua altissima qualità artistica e la sua schiva condotta di vita Morandi era un uomo che rifuggiva le compromissioni con gli affari del mondo, a volte persino i contatti con il mondo, per dedicarsi esclusivamente al suo lavoro erano fonte di sconfinata ammirazione in Arcangeli, che ne fece “un punto di riferimento qualitativo e morale per la sua azione culturale”. E d’altro canto non era solo in questa venerazione: con il passare degli anni si creò intorno al pittore una sorta di aura; le poche e selezionate persone che erano ammesse nella sua cerchia di frequentazioni assistevano ammirati alla sua integerrima compostezza, imperturbabilità e dedizione totale a un’arte talmente stupefacente da sembrare miracolosa. Arcangeli, ovviamente, figurava tra quei giovani. Anche quando, più maturo, cominciò ad allontanarsi dalla strada di Longhi, non smise mai di stimare il suo illustre concittadino. L’ammirazione per il pittore, anzi, non si limitò più all’apprezzamento della sua opera, che pure era profondo e sincero, ma si estese fino a toccare la sfera etica, fino a fare di Morandi l’esempio più autorevole di quella meditata solitudine che il critico chiamava “anarchia”. Eppure, se “morandiano” voleva essere Arcangeli, “arcangeliano” non poteva essere Morandi. Nella dimensione di strettissima correlazione tra forme artistiche e vita civile, che era saldo presupposto dell’opera critica del più giovane, il pittore era elevato a modello ideale, quasi un faro per Arcangeli stesso e soprattutto per i suoi Ultimi Naturalisti , ma nella realtà, quella perfezione equilibrata che faceva la forza delle sue pitture non era compatibile con l’irruenza e la vitalità del dipingere informale. Non si può dire che Arcangeli non avesse nozione di questa sostanziale distanza tra Morandi e i “suoi” pittori naturalisti: ne è prova, tra le altre, l’interpretazione della sua pittura posta al termine di Natura ed Espressione: una lotta tra materia e intelletto, e non pura ‘natura’, come negli altri. Già nel 1954 aveva scritto all’amico Morlotti: Vedi, io non sono di Lombardia, sono di Bologna; e qua, abbiamo cominciato con Vitale da Bologna, ma ora abbiamo avuto Morandi; una tradizione complessa che ha finito quasi col capovolgere i termini di un antico naturalismo . “Capovolgere i termini di un antico naturalismo”: se Arcangeli si avventurava nell’arte di Morandi, dunque, non poteva sperare in quella “comunanza o congenialità di destino” che aveva reso così appassionata l’avventura critica, ad esempio, a proposito di un Morlotti, e che, come sappiamo, arricchiva la sua opinione di studioso di una profonda condivisione con gli artisti. Ciononostante, nel 1960, l’editore Gino Ghiringhelli chiese ad Arcangeli di scrivere una monografia su Morandi, la prima che si pubblicasse da molto tempo. Il pittore non obiettò la scelta di Ghiringhelli, e inizialmente offrì tutta la sua collaborazione al giovane critico. Accadde però che dopo aver letto le prime cartelle che Arcangeli gli mandò nel 1961, Morandi sollevasse alcune questioni, le quali diventarono più forti alla lettura della seconda parte del libro, per farsi, infine, insormontabili al termine della stesura: il pittore non poteva accettare alcune opinioni espresse tra le pagine, e d’altra parte il critico non poteva recedere su questioni che a suo avviso erano essenziali alla lettura dell’opera del pittore. La monografia fu così definitivamente rifiutata. Arcangeli, che riconduceva al pittore quasi una figura paterna, non si riebbe mai dal colpo subito. La situazione precipitò ulteriormente a causa di alcuni malintesi che decretarono l’esclusione di Arcangeli, e di chiunque provasse a perorare la sua causa come fece Cesare Gnudi dalla prestigiosa cerchia di frequentazioni di Morandi. I punti fondamentali di contrasto, almeno quelli dichiarati, si riconducono generalmente a certi riferimenti di Arcangeli alle interpretazioni precedenti da parte di alcuni critici, in particolare Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan, ma non era tutto qui. Le polemiche dunque, nel campo della critica d’arte e in quello politico, costituivano la pietra della discordia: ma guardando al fondo della questione, mentre a Morandi parevano vuote, inutili e addirittura ingiustificatamente astiose, per Arcangeli esse erano la naturale conseguenza di una rispettosa presa di posizione nei confronti di interpretazioni che non poteva condividere, nonché il risultato di aver tentato di calare l’arte di Morandi nel suo contesto storico, sociale e politico. Alla luce di ciò il contrasto che divise Arcangeli e Morandi può considerarsi, con Emiliani, dovuto alla diversa concezione dell’arte e del ruolo della critica d’arte. Arcangeli si era accostato all’opera di Morandi nello stesso modo, devoto sino all’ingenuità, con cui si avvicinava ai ‘suoi’ pittori, i Naturalisti e gli Informali. Tentò di rendere un quadro verosimile del ruolo del pittore nel suo tempo, supportando ogni tesi con un esteso e attento ritratto dell’epoca e della sua arte. Non nascose mai, tuttavia, la sua intenzione di aprire una nuova finestra sulla questione, rivelando, come mai era stato fatto prima, una nuova dimensione umana dell’arte di Morandi. L’interpretazione delle opere stesse era condizionata dall’esempio morale che il critico aveva sempre ravvisato nel pittore, secondo il principio, fondamentale per Arcangeli, che l’arte, soprattutto quando era alta e sincera, non poteva essere se non un’espressione della propria filosofia di vita e del proprio modo di “essere uomo”. Il particolare intreccio di arte e vita, a cui si era letteralmente votato, quando applicato agli artisti come abbiamo potuto evincere anche dall’analisi della mostra, consisteva in una profonda commistione tra forme artistiche ed esperienza di vita. Per il critico, invece, era rappresentato dall’inevitabile, ma consapevole, collocazione delle opere all’interno di una più vasta visione del mondo. Ne risultava che egli giudicasse e sentiva il dovere di farlo, se voleva che la sua critica non fosse vana letteratura – la validità di un artista in base alla sua rispondenza o meno a certe tematiche che Arcangeli riteneva essenziali. Ecco allora che, in un pittore di indubitata grandezza come Morandi, era naturale che il critico ricercasse le tracce di un contatto con la natura e di una meditazione esistenziale, in assenza dei quali egli non sapeva considerare un’opera veramente grande. Era come se tentasse di ‘portarlo dalla sua parte’, ma in questo, ne siamo convinti, non era spinto da nessun tipo di malafede. Per un uomo come lui che non poteva concepire un distacco tra qualità dell’arte e qualità dell’uomo, la tendenza a equiparare la perfezione artistica a quella morale era naturale. Il suo mito di un Morandi solitario e moralmente irreprensibile, doveva rispondere anche al suo ideale di uomo-artista, e alle caratteristiche esistenziali e civili che ogni parola della sua attività intellettuale era rivolta ad affermare. Non stupisce, allora, che il rifiuto perentorio del pittore nei confronti dell’astrattismo fosse da Arcangeli riconosciuto come la prova di un “senso del limite spontaneamente accettato”, anche se inconfessato, che preferiva gli oggetti quotidiani della vita alle astratte allusioni a mondi soprannaturali. E via discorrendo: la sostanziale estraneità di Morandi dal patriottismo, che aveva invece infiammato, ad esempio, un Soffici, diventava simile alla concezione arcangeliana di “anarchia”, e cioè un’azione profonda, solitaria, super partes, volta alla ricerca di duraturi valori al di là delle dialettiche contingenti: “Morandi è stato un vero, profondo riformatore, non un rivoluzionario rientrato». Non era accettabile per un uomo come Arcangeli che un maestro come Morandi rifiutasse l’impegno civile. Egli non vi era indifferente, dunque, ma superiore. Il dissidio, a questo punto, che sorse tra i due, non è più da considerarsi esclusivamente relativo alle troppe polemiche, né soltanto a una possibile interpretazione non condivisa: erano in questione il metodo e la poetica critica di Arcangeli. La lettura di un Morandi storico era decisamente contraria a tutte le interpretazioni che ne erano state date finora. In parte favorita dallo stesso artista, la lezione dominante era quella di un pittore classico, addirittura apollineo, che vedeva la sua arte partecipare di quella “sintesi prospettica di forme e colori106” che Longhi aveva rintracciato da Piero della Francesca a Cézanne. Subito dopo la guerra, Ragghianti aveva ravvisato nel nome di Morandi “assolutezza e perennità di poesia”, e su questo piano, di sublimazione della natura fino alla poesia, avevano continuato gli altri critici. Il pittore stesso, in una lettera ad Arcangeli, dichiarava di approvare pienamente, in particolare, la monografia che Brandi aveva scritto su di lui. Arcangeli rispose a quella lettera con cinque facciate dattiloscritte. “Io personalmente farò (…) il possibile per accontentarLa”, scriveva, “Questo mi pare tuttavia che non comporti, da parte mia, rinunzia alle mie idee, perché in tal caso non avrei mai accettato questo compito, anche se mi onorava”. Rifiutando categoricamente la critica crociana, Arcangeli dichiarava di essere un uomo attivo e calato nel suo tempo, e ugualmente calata nel tempo dichiarava anche l’arte. Per Morandi, invece, il crocianesimo aveva avuto il merito di investire l’arte di valori assoluti latinamente ab-soluti, e cioè sciolti, slegati dalla relatività della vita. Alla luce di queste considerazioni, la questione della controversia tra Arcangeli e Morandi ci sembra frutto di una inevitabile divergenza tra due visioni opposte ed inconciliabili dell’arte, della critica, e soprattutto del loro ruolo all’interno della società. Mentre il pittore sembrava rifugiarsi in un Olimpo classico e assoluto, che rappresentava l’unica garanzia di una eterna libertà dell’arte, Arcangeli, ricercando una simile libertà, la trovava compresa nella partecipazione, seppure sommessa e meditata, alla vita civile: L’arte è, per fortuna, cosa religiosamente umana, se si vuole; ma umana. Non mi interesserebbe affatto, altrimenti, tentare queste pagine, che soltanto una decina di anni fa avrei vergate diversamente. Non mi pare più il tempo per gli elisi, e per me è molto più utile ed emozionante ritrovare Morandi al traguardo delle sue lotte segrete che a quello del suo olimpo. (Arcangeli, 1961). Come dice la parola stessa, la caratteristica principale di una mostra è quella di “mostrare”. Ciò significa che comunicare efficacemente con il pubblico è una delle prime e fondamentali finalità di chiunque organizzi un’esposizione. Perché una mostra abbia successo, di conseguenza, è necessario che i suoi spettatori ne siano interessati e, più o meno direttamente, siano toccati nella sfera della propria esperienza personale e collettiva dalle questioni illustrate o proposte. Entrambe le mostre di cui abbiamo trattato, Natura ed Espressione e Bologna Centro Storico, riscossero un buon successo di pubblico anche perché, pur nel ripercorrere una tradizione storica, rispondevano a un’esigenza estremamente attuale. Il 18 e il 19 aprile 1970, in concomitanza con l’istituzione dell’ente Regione, si svolse a Bologna un convegno promosso dal consiglio regionale di Italia Nostra, dal titolo La tutela dei beni culturali nella pianificazione territoriale dell’Emilia Romagna. L’intervento di Arcangeli si intitolava Profilo storico-artistico generale, ma in realtà celava una questione vitale: era una vera e propria affermazione del perché un profilo storico-artistico dovesse essere preso in considerazione dalla pianificazione territoriale. La motivazione verteva proprio su quell’opinione pubblica che si tentava di formare attraverso le mostre: Non c’è libero fiorire della vita politica senza opinione pubblica; e non c’è opinione pubblica senza coscienza politica. Così, nell’ambito di quella che sarà la Regione, che noi vediamo come un più libero ed autonomo campo dell’organizzarsi della vita civile, è assolutamente necessario che, anche nel campo dei valori artistico-culturali si alimenti ulteriormente una opinione pubblica. (Arcangeli, 1970) Natura ed Espressione era il contributo di Arcangeli per inserirsi attivamente nella realtà “necessariamente sociale” in cui si era trovato a vivere. Ripercorrere e divulgare le forme del ‘tramando’, da Wiligelmo a Morandi, era un modo per dare alla comunità gli strumenti per reagire al “livellamento della civiltà tecnologica, urbana” , in nome di una tradizione che riportasse il cittadino moderno al necessario contatto con la natura, con la fisicità e con lo schietto costume popolare. Attraverso il medium delle opere d’arte, scelte e accostate in modo che dessero vita a un discorso profondo, Arcangeli si proponeva di sollecitare una cultura “che consolidi e promuova la nozione dei grandi valori d’una tradizione”. Sul piano, imprescindibile, della conservazione fisica delle opere, egli riconobbe che le istituzioni esistenti bastavano a proteggere le testimonianze artistiche: correvano invece un pericolo più grave tutti quei piccoli centri architettonico-urbanistici che al pari delle opere d’arte erano portatori dei valori di continuità storica i “valori del popolo e della terra”, ma non potevano contare sullo status di beni culturali per salvaguardare il loro particolare, popolare, identitario carattere . Minacciata in misura sempre maggiore dal dilagare della civiltà industriale, quella continuità storica avrebbe dovuto essere conservata affinché anche i luoghi fossero testimoni, come già lo erano le opere d’arte, dell’identità e della tradizione della comunità cui appartenevano, e continuassero di conseguenza a guidarne le scelte verso un futuro più compatibile con la propria natura: Non permettere che si distrugga la traccia viva dei secoli senza per questo cristallizzare la vita moderna diventa, allora, una impresa così difficile da parer quasi disperata; ma è ovvio che una società civile non può non tentarla. L’intervento di Pier Luigi Cervellati, il quale subito dopo Arcangeli illustrò Il ruolo dei centri storici nell’ambito della pianificazione e programmazione regionale, sembrò rispondere direttamente all’appello. L’operazione che egli promuoveva, la conservazione integrale dei centri storici, affondava le sue radici non soltanto nella volontà di tutela del patrimonio, ma anche e soprattutto nella sentita necessità di contrastare, attraverso il recupero della continuità storica degli ambienti e della società, la modernizzazione perseguita come fine a se stessa, degenerata negli ultimi decenni in speculazione edilizia e indifferenza verso la dimensione pubblica e sociale della vita quotidiana. Per Arcangeli il recupero si realizzava a livello esistenziale: il ‘tramando’ di valori compiuto da determinate opere d’arte, dal romanico padano fino all’arte ‘informale’, avrebbe dovuto avvicinare lo spettatore alla propria natura fisica, alla propria umanità. Era questo l’unico modo dato all’uomo per resistere al perentorio avanzare della civiltà tecnologica e ai suoi tentativi di ridurre l’essere umano a una macchina o a un mero soggetto di consumo: era chiaro dalle forme recenti della pop-art e dell’arte industriale che il processo era già in atto, e che si stava perdendo la dimensione più fisicamente umana in favore di una fredda meccanizzazione dell’espressione, e, di riflesso, dell’uomo stesso. Non diverso ero lo scenario a cui si opponevano gli autori di Bologna Centro Storico. L’incontrollata crescita che dal dopoguerra in poi aveva trasfigurato il panorama urbano di Bologna, rispondendo alle richieste della speculazione edilizia piuttosto che a quelle dei cittadini, rischiava di cancellare i valori della convivenza, della collettività, della cultura. Quegli stessi valori, invece, si trovavano ancora vivi nelle parti del tessuto urbano del centro storico che erano riuscite fortunatamente a sopravvivere attraverso i secoli. Conservare quel centro storico significava opporsi concretamente alla cementificazione e alla speculazione, e ripensare una modernità che non travolgesse, bensì rivitalizzasse le forme antiche dal punto di vista architettonico e urbanistico, ma anche sociale e culturale. Al fine di inserirsi veramente in una tradizione, e dunque avanzare una proposta coerente con la propria identità, il critico d’arte e l’urbanista si rifacevano a un presupposto comune: il senso del limite. Per Arcangeli, accettare i propri limiti era ciò che permetteva all’uomo di muoversi all’interno della condizione umana senza perdersi in inconsistenti illusioni di divinità o di ideologia. Era il risultato della ‘rivoluzione copernicana’, presa di coscienza fondamentale, necessaria al ridimensionamento da parte dell’orgoglio umano delle sue effettive possibilità, nonché il primo passo verso quella sensazione profonda di appartenenza alla natura che era l’unica direzione considerata veramente umana e onesta. L’uomo è, per sua natura, soggetto a limiti. Non sempre, tuttavia, ciò costituisce un freno, anzi così come succede per le strade, che limitano le direzioni possibili ma indicano quella giusta qualora un limite venga coltivato nel modo migliore, esso può rivelarsi l’unico modo per mettere a frutto le proprie potenzialità. Non si hanno solide basi per la costruzione del proprio futuro senza la conoscenza e l’accettazione del proprio passato: è questo un principio valido per l’esperienza di ogni singolo uomo vi si fonda la psicanalisi , così come per una società: soltanto se saprà riconoscere e farsi forte della propria cultura, della propria storia, del proprio passato, della propria identità, sarà in grado di andare veramente avanti e di costruire un futuro degno di questo nome. Alla luce di tutto ciò possiamo affermare che Natura ed Espressione e Bologna Centro Storico non sono state semplicemente il risultato di approfondite riflessioni e indagini storiche, ma un significativo passo avanti nella direzione della riscoperta dell’identità come una vera e costruttiva risorsa sociale. Allestita come una quadreria, l’esposizione consente di apprezzare in un colpo d’occhio la consistenza, gli orientamenti e la qualità delle acquisizioni di Arcangeli attraverso una campionatura ragionata, che – pur nei limiti che hanno imposto l’esclusione di molti artisti e opere significativi – cerca di dare conto dell’ampiezza e della complessità del suo peculiare approccio all’arte. La mostra inizia quindi con un paesaggio romantico, che lo storico dell’arte aveva sperato di poter attribuire a Théodore Géricault, e prosegue con Giovanni Dupré e Luigi Bertelli, per poi passare al post-impressionismo intimista di Carlo Corsi, al calligrafismo Jugendstil di Gustav Klimt e alla veduta urbana di stampo futurista di Athos Casarini. Al dipinto di Fritz Winter, memore dell’opera di Paul Klee, seguono in mostra le atmosfere rarefatte e luminose dei quadri di Virgilio Guidi, Vasco Bendini e Sergio Romiti. Il nucleo più consistente è naturalmente dedicato all’Informale e all’“ultimo naturalismo”, espressione con cui Arcangeli indica il clima artistico che lo coinvolge più intimamente e che delinea in due tra i suoi scritti più noti: Gli ultimi naturalisti del 1954 e Una situazione non improbabile del 1956, entrambi pubblicati su “Paragone”. Se Alberto Burri, Antoni Tàpies, Rafael Canogar ed Emilio Scanavino rappresentano l’Informale nelle sue accezioni più ampie, Pompilio Mandelli, Mattia Moreni, Ennio Morlotti, Ilario Rossi e Sergio Vacchi ne esemplificano una declinazione prettamente “padana”, nel solco dei “tramandi” di un’“arte di settentrione” che per Arcangeli rimane radicata in un intenso e caratterizzante rapporto tra l’uomo e la natura. Il piccolo paesaggio di Graham Sutherland del 1952, come i monumentali Comizio di Renato Guttuso e L’Être ouvert ou l’Être est vert di Roberto Sebastian Matta, entrambi del 1962, documentano l’opera di tre maestri ai quali, negli anni Sessanta, è ancora possibile, dopo la fine dell’Informale, fare riferimento per mantenere vivo e attuale l’approccio alla pittura. Delle ricerche in questo campo sono testimoni le opere di Pier Achille Cuniberti, Franco Francese, Piero Giunni, Titina Maselli (esposta in collezione), Mario Nanni, Concetto Pozzati e Maurizio Bottarelli, mentre per documentare i nuovi corsi artistici che si aprono negli anni Sessanta sono presenti lavori di Getulio Alviani, Enrico Castellani, Gianni Colombo e Lucio Saffaro. Una sezione a parte è dedicata a un rilevante gruppo di opere su carta di Giorgio Morandi, amico di Arcangeli fin dagli anni Trenta, al quale il critico dedicò una fondamentale monografia, riconoscendo sempre in lui uno dei maggiori artisti del Novecento. Al 1961 risale l’acquisto, presso la Libreria Prandi di Reggio Emilia, di cinque acqueforti, mentre nel 1965 entrano a far parte del patrimonio comunale (congiuntamente ad una sanguigna di René Magritte, qui esposta) due disegni del 1960 e un’acquaforte del 1931 provenienti dalla Galleria La Medusa di Roma. Questo corpus di opere, insieme alla donazione di due acqueforti da parte delle sorelle di Morandi del gennaio 1965 (esposte per l’occasione in una sala del Museo Morandi), costituisce di fatto il primissimo nucleo della ricca collezione ora appartenente al Museo Morandi, la più vasta raccolta pubblica al mondo di opere dell’artista. Le grandissime dimensioni di opere particolarmente rilevanti, come Pasifae e il toro (1964) di Giannetto Fieschi o Il vento nel campo come sempre (1964) di Mattia Moreni, acquistate nel 1965 in occasione delle personali dei due artisti curate da Arcangeli rispettivamente per l’Ente Bolognese Manifestazioni Artistiche e per la Galleria d’Arte Moderna, non ne hanno consentito l’esposizione in mostra, si è però ovviato alla loro assenza attraverso l’esposizione dei cataloghi in cui sono riprodotte. Per supplire alla mancanza di alcune opere purtroppo trafugate nel 1987, si è fatto invece ricorso alle fotografie in bianco e nero utilizzate per la catalogazione: si tratta di lavori di Osvaldo Licini, Jean-François Millet, Jackson Pollock e Wols, che, seppur da ritenersi opere “minori”, risultano essere di cruciale importanza per comprendere l’impostazione museologica di Francesco Arcangeli. Quasi tutte le opere incluse nel progetto espositivo sono state raramente esposte negli ultimi decenni. Per l’occasione è stato quindi effettuato un consistente recupero conservativo, che ha consentito di valorizzare un nucleo collezionistico di importanza determinante per la storia e l’identità del museo.
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Francesco Arcangeli Tramando. Le acquisizioni di Francesco Arcangeli per la Galleria d’Arte Moderna di Bologna
Martedì dalle ore 14.00 alle ore 19.00
Giovedì dalle ore 14.00 alle ore 20.00
dal Venerdì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto Francesco Arcangeli
Courtesy Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna, Fondo Arcangeli
Si ringrazia Nadia Arcangeli per l’utilizzo della foto.