Giovanni Cardone
Fino al 30 Marzo 2025 si potrà ammirare al Palazzo delle Esposizioni Roma una mostra dedicata a Francesco Clemente – ‘Francesco Clemente. Anima Nomade’ a cura di Bartolomeo Pietromarchi. L’esposizione è promossa da Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo, prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo. La mostra è concepita come una grande installazione, che senza soluzione di continuità si snoda nelle sale del piano nobile di Palazzo Esposizioni, composta da tre gruppi di opere – le sei Tende, le dodici Bandiere e il ciclo dei wall painting Oceano di storie. Il percorso espositivo immerge i visitatori e le visitatrici nella tradizione indiana e orientale, da sempre fonte di ispirazione per Francesco Clemente, e li avvolge in una materia densa di riferimenti iconografici e della sensibilità privata e diaristica delle sue opere. Napoletano di nascita ma nomade per vocazione, fortemente influenzato dalla letteratura e dalla poesia, Clemente è un poeta a pieno titolo, con un vasto lessico di immagini simboliche e metaforiche. Le sue opere si delineano in un paesaggio estetico totalizzante, metafisico e mistico, cadenzato dalla rappresentazione del sé, spesso intrecciata a riferimenti erotici, sempre lirica ed emotiva ed espressa attraverso un senso totalizzante del colore. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Francesco Clemente e sulla Transavanguardia apro dicendo : Come affermo nel saggio posso definire le caratteristiche della Transavanguardia seguendo un metodo basato nella ricognizione del percorso compiuto dal movimento al suo esordio. I punti di riferimento sono le principali mostre che via a via fecero conoscere gli artisti e infine decretarono il successo del gruppo in Italia e in Europa, e gli inquadramenti affidati agli interventi in catalogo dei curatori delle mostre stesse. Descriverò e analizzerò le dichiarazioni di “poetica”, parola per altro sempre rifiutata dai transavanguardisti, contenute nei testi prodotti, a stretto contatto con i momenti espositivi, da Achille Bonito Oliva, il riconosciuto teorico del gruppo. Questa impostazione mi sembra la più adatta a un primo approccio al tema mentre le più vaste implicazioni teoriche connesse al rapporto tra la Transavanguardia e la cosiddetta “condizione postmoderna” verranno affrontate in un successivo capitolo dedicato ai tentativi condotti da alcuni critici americani (Frederic Jameson, Hal Foster, Arthur Danto) di indagare i rapporti tra estetica e postmodernità. Premetto un solo dato a indicare la necessità di questo allargamento: non è un caso che proprio nel 1979, anno cruciale nel percorso di identificazione della Transavanguardia, venga pubblicato il saggio che segnala l’ingresso delle società occidentali in una fase storica nuova: La condizione postmoderna di Jean Francois Lyotard. Il percorso prende avvio per iniziativa di due coraggiosi galleristi: Emilio Mazzoli e Gian Enzo Sperone. E’ proprio Mazzoli a curare la pubblicazione di quello che si può considerare il primo testo teorico del gruppo: Tre o quattro artisti secchi e soprattutto a far da tramite per la prima importante sortita all’estero di alcuni dei futuri transavanguardisti. Si tratta della mostra che si apre a Colonia il 21 Giugno del 1979 nella galleria di Paul Maenz col titolo Arte Cifra sottotitolata Licht und Honig Kampf und Dreck. Vengono presentati sei artisti italiani: Sandro Chia, Francesco Clemente, Nicola De Maria, Mimmo Paladino, Nino Longobardi ed Ernesto Tatafiore. Fra questi i primi quattro entreranno a far parte insieme a Cucchi del quintetto che costituirà la “squadra” transavanguardista. Questa mostra segna una tappa molto importante nel cammino del movimento non solo perché ne avvia l’esordio europeo ma anche perché è accompagnata da una presentazione del curatore Wolfang Max Faust che propone un’interpretazione di notevole impatto critico da cui le successive elaborazioni non prescinderanno . Riassumiamone i punti fondamentali evidenziando le opposizioni che li costituiscono: innanzi tutto il non costituirsi di questi artisti in un gruppo ed il conseguente rifiuto di considerarsi una Nuova-avanguardia denotando un’opposizione con le avanguardie storiche. Quindi l’emergere di un “soggettivismo estremo” nel “volgersi verso la propria persona quale luogo e centro di partenza del proprio linguaggio”. Questo percorso verso la soggettività va, secondo Faust, contestualizzato: esso nasce da una “latente coscienza della crisi”, dalla sensazione della fine di un’epoca della storia mondiale, una crisi che si innesta sulla consapevolezza dei limiti dello sviluppo capitalistico, ma anche delle illusioni di un suo possibile rovesciamento. La parola chiave diventa “desiderio” come frutto di concatenazioni complesse e ambivalenti di cui Faust non nasconde i pericoli di atteggiamenti “regressivi”. Sul più stretto terreno della storiografia artistica Faust stabilisce un’altra delle opposizioni fondanti delle teorie transavanguardistiche “in fieri”: quella con l’Arte concettuale che aveva dominato gli anni sessanta e con la sua specifica configurazione italiana ovvero l’Arte Povera. “Concettualità” e “poverismo” sono infatti ancora legate a una prospettiva progressista e illuminista, anche se un “illuminismo poetico”, guardano “in avanti”, perseguono una “volontà di verità” che non cessa di postulare un utopico “telos”. Verità e finalità rifiutate da questi artisti: all’ “intenzionalità” si oppone l’ “intensità”, tutta giocata nel “qui ed ora” dell’investimento pulsionale, capace di suscitare flussi energetici. A livello segnico loro strumento è la cifra. Ma che cosa intende Faust con “cifra”? Un segno che si pone al di là della tirannica antitesi fra mimetico e simbolico. “La cifra permette un’arte che non è né apparenza , né conoscenza nascosta ma libero gioco di intensità e di ideali” . Dobbiamo prendere in accurata e attenta considerazione questa definizione di Faust, vedremo, infatti, come questa componente ludica verrà ampiamente sottolineata da Achille Bonito Oliva e come, aspetto ancora più importante, questa libertà si traduca in immagini sconcertanti e sorprendenti che giocano con figurazioni oniriche ed esperienze quotidiane, con concetti artistici e con variazioni iconografiche. “Alla rigidità programmatica dell’arte concettuale l’Arte Cifra oppone opere in cui forme espressive esagerate si accompagnano a simboli resi convenzionali, elementi allegorici a gesti figurativi astratti”, è individuato qui un altro superamento: quello della antitesi astratto/figurativo. Infine, concetto fra i più importanti, Faust indica l’aspetto che, nella sua inattualità, era destinato a suscitare in alcuni critici la più violenta opposizione: il ritorno alla pratica della pittura e del disegno. Disegnare e dipingere, la ripresa del rapporto artigianale con il materiale, permettono, secondo il critico, una spontaneità che in larga misura manca ai mezzi tecnici quali il video, il film o la fotografia. Contemporaneamente, questi procedimenti manuali permettono l’elaborazione di una produzione artistica che in un processo continuo, unisce tra loro testa e mano, sicché l’opera appare come un riflesso immediato di una coazione all’espressione. La guerra alla tradizione duchampiana era apertamente dichiarata. Nello scritto di Wolfang Max Faust sono, a mio avviso, già delineate, a tutti i livelli socio-politici, culturali, estetico-formali, le categorie teoriche fondanti in cui si collocherà in maniera estesa e compiuta la Transavanguardia. Un’ultima considerazione: che Faust evochi a conclusione della sua pertinente analisi, come sfondo dell’Arte Cifra, strategie e aspetti delle politiche della sinistra italiana (terza via, femminismo, emancipazione delle minoranze)appare atteggiamento dettato dalla cautela preventiva di chi teme di essere tacciato come reazionario, cosa che puntualmente avvenne. In questo senso, come cautela di critico d’arte, va interpretato secondo me il richiamo a Mario Merz, capofila dell’Arte Povera, come autore con cui l’Arte Cifra istituiva un confronto critico. La mostra di Colonia può essere considerata la riuscita entrata in scena europea di alcuni artisti destinati ad entrare stabilmente nel novero dei transavanguardisti. Come abbiamo visto Arte Cifra è il nome che Faust elabora per gli artisti in mostra, “Transavanguardia” è la definizione che venne coniata di lì a poco dal critico che diverrà il suo più acuto e appassionato sostenitore, Achille Bonito Oliva.
La discesa in campo, con vasto spiegamento di forze, avviene con la pubblicazione dell’articolo Trans-avanguardia (destinato poi a scomparire) sul numero 92-93 dell’anno 1979 della rivista “Flash Art”. L’articolo esce praticamente in concomitanza con una mostra chiamata Opere fatte ad arte presso il Palazzo di Città ad Acireale, che viene presentata dal 4 Novembre al 15 Dicembre 1979. Nella mostra si delimita il numero delle personalità artistiche che faranno parte stabilmente della Transavanguardia italiana: Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino. Il testo può ben considerarsi il “manifesto” della Transavanguardia come movimento. Questa definizione che sarebbe certamente rifiutata dal critico poiché rimanda immediatamente alle pratiche delle avanguardie novecentesche, costituisce senza dubbio il punto di riferimento decisivo per l’approccio teorico al fenomeno. “Ancora oggi l’intervento, il cui ruolo fu anche quello di legittimare teoricamente l’incedere dei successivi eventi espositivi, viene indicato dalla critica quale espressione quintessenziale della ideologia artistica della Transavanguardia”. Innanzi tutto quello che emerge fin dall’inizio è il tono di chi vuole proclamare una svolta ma, si badi bene, non in avanti, come proponeva l’avanguardia, bensì, all’indietro verso le “ragioni costitutive” dell’opera artistica. E’ la riconquista di un “pericoloso piacere”: quello di “tenere le mani in pasta”, di un movimento nomadico che rifiuta un approdo definitivo, che non si reprime davanti a niente, neppure davanti alla storia. Segue un attacco estremamente duro all’ arte povera, almeno nelle sue espressioni teoriche, definita “repressiva e masochista”, incapace di sottrarsi alla censura imposta dalla dominante psicoanalisi freudiana. Non “povera” ma “opulenta” deve essere l’arte, ricca cioè di quella materia immaginale che procede come un flusso, zigzagante e discontinuo. Tale flusso è ora sottratto a quella “coazione al nuovo” di cui l’avanguardia è stata vittima, prodotto di un “darwinismo linguistico” e di un evoluzionismo culturale perseguito con rigore puritano. A questa cattiva spinta in avanti la Transavanguardia oppone un percorso fatto di accelerazioni e rallentamenti, si volge ad un’autonoma evoluzione interna. Alle poetiche di gruppo si sostituisce la ricerca individuale come salutare antidoto ai sovrastanti sistemi a vocazione totalitaria: ideologie politiche, psicoanalisi, scienze. Di fronte all’austera immobilità del concetto produttivo, la Transavanguardia, afferma Achille Bonito Oliva, tende a far valere la soggettività dell’artista espressa attraverso le modalità interne del linguaggio: è, in sintesi, una “creatività nomade” che non rifugge dal ricorso alle tecniche tradizionali, alla manualità sperimentale al richiamo al patrimonio del passato. Per questa arte vale l’affermazione di Nietzsche: “Zarathustra non vuole perdere nulla del passato dell’Umanità, vuole gettare ogni cosa nel crogiolo.” Si tratta di una nuova temporalità estetica che conduce a non avere nostalgia di niente, in quanto tutto è continuamente raggiungibile senza più categorie gerarchiche di presente e passato, (come invece avveniva secondo la concezione lineare del tempo che era proprio delle avanguardie). La sintesi perfetta della posizione teorica espressa, può riassumersi in questa frase: “Trans-avanguardia significa assunzione di una posizione nomade che non aspetta nessun impegno definitivo, che non ha alcuna etica privilegiata se non quella di seguire i dettami di una temperatura mentale e materiale sincronica all’istantaneità dell’opera l’arte degli anni settanta tende a riportare l’opera nel luogo di una contemplazione appagante, dove la lontananza mitica, la distanza della contemplazione, si carica di erotismo e di energia tutta promanante dall’intensità dell’opera”. Il movimento aveva ora un nome e i suoi componenti erano stati definitivamente individuati, infatti l’articolo si conclude con una rassegna critica dei cinque artisti che avevano esposto alla collettiva di Acireale, la sua piattaforma era ora definita, seppure in prima battuta, con notevole forza teorica. In linea con quanto detto ad apertura di capitolo non ne indagherò qui i presupposti estetico-filosofici, una sola anticipazione: non si può non avvertire nel testo di Achille Bonito Oliva la presenza di due autori in quegli anni assai in voga: G. Deleuze, il cui L’anti-edipo è del 1972, da cui proviene l’idea del liberatorio superamento del modello psicanalitico freudiano, nonché l’affermazione di una soggettività “nomade” o “rizomatica” e R. Barthes (Il piacere del testo è del 1973), da cui proviene l’idea della necessità di ristabilire un rapporto di piacere fra l’opera e il lettore o l’osservatore, un piacere che non nasca dalla percezione della “unicità” del segno, ma piuttosto da quella della pluralità di codici che intersecandosi ne determinano la forma. Ancora a Roland Barthes e in particolare al breve saggio L’immaginazione del segno comparso nel 1962 sulla rivista Arguments, rimanda la propensione transavanguardista verso una produzione di segni “metonimici” piuttosto che “metaforici” . Così strutturato il movimento poteva riprendere con nuovo impeto il suo percorso espositivo all’estero. Ciò avvenne nuovamente in Germania dove troviamo l’esistenza di fenomeni artistici affini.16 Artisti quali Anslem Kiefer, Georg Baselitz, Markus Lüpertz, A. R. Penck, e Jorg Immendorf, di una generazione più anziana rispetto ai trans-avanguardisti, e i cosidetti Neuen Wilden mostrano una produzione assimilabile a quella della Transavanguardia italiana. I cosiddetti “Nuovi Selvaggi” tra i quali Helmut Middendorf, Rainer Fetting, Salomé, e i pittori più anziani che vengono etichettati come neo-espressionisti, saranno spesso compagni di strada degli artisti italiani nelle mostre all’estero e in patria, proprio per le affinità e le scelte di mezzi di produzione, disegno e pittura, come per il contenuto visivo delle opere. Si tratta di una mostra itinerante, le città in cui si espose furono Bonn, Wolfsburg, Groningen fra Gennaio e Luglio 1980. La mostra, esclusivamente dedicata al disegno, viene curata da Margarethe Joachimsen, autrice assieme a Wolfang Max Faust e Achille Bonito Oliva dei saggi raccolti nel catalogo. Vi compaiono appunto disegni di quattro dei cinque transavanguardisti: Chia, Clemente, Cucchi e Paladino, l’unico assente dunque è De Maria. La mostra reca l’inquietante ed enigmatico titolo Die Enthauptete Hand seguito dal più tranquillizzante sottotitolo 100 Zeichnungen aus Italien. Tradotto in italiano, il titolo è La mano decapitata sottotitolata 100 disegni italiani. Va subito messa in luce una caratteristica che differenzia questa mostra da Arte Cifra: in quest’ultimo caso la presenza di artisti che in seguito avrebbero seguito percorsi diversi, non consentiva la precisa individuazione di un gruppo. La mostra che si apriva a Bonn, invece, fatta salva l’assenza di De Maria, poteva farlo e lo dichiarava apertamente nel sottotitolo italiano: La Transavanguardia nel disegno. C’è anche da rilevare che all’altezza cronologica di Arte Cifra il movimento non aveva ancora ricevuto una definizione che lo identificasse e difatti i suoi presupposti estetici erano delineati per la prima volta, all’ estero, nel catalogo stesso della mostra. Ognuno degli artisti presenti esponeva venticinque lavori, tutti su supporto cartaceo: acquarelli, inchiostri, pastelli, oli, polimaterici e soprattutto disegni. Questa precisa scelta offre l’occasione di inquadrare con più precisione una fondamentale caratteristica della pratica creativa degli esponenti della Transavanguardia, a cui si è fin qui solo accennato. Si tratta invece di una delle più vistose opzioni in opposizione alle varie declinazioni dell’arte concettuale: il “riprendere in mano il pennello”, il recupero delle pratiche pittoriche tradizionali come reazione al predominio dei mezzi tecnici extra-artistici di specie fotoelettronica. Un atteggiamento che oppone alla “coazione innovativa” il recupero della tradizione, con annesso ricorso alla citazione, alla retrospezione e a quella che Renato Barilli chiamerà “ripetizione differente”. Un’operazione che il critico bolognese paragona a quella compiuta da Giorgio De Chirico negli anni trenta del Novecento e che viene analizzata, all’interno della dialettica delle opposizioni bipolari, teorizzata da Heinrich Wolfllin, come una sorta di inevitabile movimento pendolare nella dialettica della forma artistica. Prima di avviare il capitolo che esaminerà la ricezione della Transavanguardia negli Stati Uniti, mi sembra utile riassumere il quadro concettuale con cui Achille Bonito Oliva stabilizza e dà definitiva consistenza all’esperienza di questi anni frenetici. Si tratta di un’opera uscita nel 1980, La Transavanguardia italiana. In questo volume, infatti, si chiariscono e definiscono le prospettive estetiche episodicamente espresse in articoli e cataloghi e ad esso rimanderanno costantemente tutti coloro che si occuperanno del fenomeno. Ne estrarrò alcuni punti cercando di essere sintetica, al limite di una esposizione didascalica, per isolare alcune emergenze concettuali a cui fare riferimento nel proseguimento del lavoro. Diremo dunque che, secondo Bonito Oliva, l’avvento della Transavanguardia segna una novità di rilievo in quanto all’idea sperimentale è subentrata una diversa mentalità più legata alle emozioni intense dell’ individualità e di una pittura che ritrova il suo valore all’interno dei propri procedimenti. Il lavoro creativo è legato a una ricerca individuale e non di gruppo. L’artista con un procedimento “a ventaglio” si impossessa delle cose al di fuori di ogni obbligo di fedeltà e di poetica. L’artista è attento a trasmettere un’etica dell’arte come fare e non come progetto: l’arte cioè non è progetto ma processo fondato sull’ aggregazione di materiali eterogenei adatti comunque a sollecitare una risposta sensoriale. L’artista non mira a un futuro liberato ma ad un presente liberato, permanentemente liberato. Perciò è necessario l’allargamento della dimensione estetica a condizione antropologica. Questo “qui ed ora” antropologico cerca di superare la concezione di un’arte come zona privilegiata di linguaggi soggetti all’evoluzionismo linguistico delle forme e tende ad operare concentrandosi sulla libertà della propria azione. L’artista deve allontanarsi da ogni pretesa funzionale se non vuole assimilarsi a sovrastanti sistemi totalitari (ideologie politiche, psicanalisi, scienza). In sostanza deve respingere ogni moralismo nel suo rapporto con la politica che lo conduce a dogmatismi ingenui e didascalici (come faceva l’arte povera). Ai linguaggi astratti e non figurativi, con riferimento al progressismo delle avanguardie storiche, la Transavanguardia oppone una tensione verso la rappresentazione, verso la narrazione figurativa che riporta il riferimento alla natura nell’ambito della citazione, di un recupero reso colto e filtrato dalla memoria storica dei linguaggi dell’arte. La Transavanguardia avvia un salutare processo di de-ideologizzazione e ridimensiona la drammaticità dello statuto dell’arte, inevitabile portato del confronto/scontro col mondo. Ne consegue l’introduzione di una vena di ironico distacco. Crolla l’ottimismo e la fiducia nel progresso, si genera uno stato di indeterminazione politica, scompare la convinzione di poter cogliere una percepibile direzione del processo storico. Con gli anni ottanta l’arte entra nella fase, propriamente detta della Transavanguardia: dal darwinismo linguistico si scivola in una mentalità nomade e transitoria (che sa, cioè, transitare da un’immagine all’altra e assumere ogni direzione). Non si vanta il privilegio di una lineare genealogia, ma ci si apre a ventaglio per scegliere antenati e provenienze. Quest’ arte cerca nella storia degli stili fra i quali si arroga libertà di scelta e produce citazioni su cui si opera per scarti e differenze. Al compatto, corrispettivo formale della superbia compatta dell’ideologia, si oppone il frammentario come possibilità di tenere l’opera sotto il segno di un volubile eclettismo. Al procedimento metaforico si sostituisce il procedimento metonimico. Il significato simbolico dell’immagine viene neutralizzato a favore di una ricerca di una contiguità di linguaggi posti in orizzontale. Alla forma (condensato indistricabile di idea e segno visivo) si oppone ora l’immagine come metamorfosi del concetto in figura. Alla composta rigidità dell’opera intesa come unità ideale si oppone una compresenza di vari “climi” non spiegabili secondo una programmata poetica. All’uso di materiali reali si preferisce l’ambito della rappresentazione, l’artificio connesso ai materiali strettamente pittorici. L’artista della Transavanguardia risponde alla crisi dello storicismo presentandosi come il “nichilista” compiuto, un nichilista nietzschiano, liberato però da ogni componente drammatica, che gode e non soffre per la perdita di un centro. Sua temperie ideale è il manierismo come atteggiamento di chi si pone in un’ottica di citazione decentrante (ideologia del traditore). Tutti gli stili possono essere “macinati” nella pratica creativa, citati e nello stesso tempo conservati e traditi. Ciò implica la fuoruscita dalla contrapposizione fra avanguardia e tradizione e nello stesso tempo, eliminando anche ogni distinzione fra cultura alta e cultura bassa, si cerca di favorire un rapporto cordiale e seduttivo fra arte e pubblico. L’arte nella sua dimensione antropologica è necessariamente legata a peculiarità nazionali. Il “genius loci” la caratterizza in contrapposizione al cosmopolitismo del linguaggio dell’arte concettuale. In conclusione possiamo riassumere questo complesso concettuale in una serie di opposizioni binarie, in cui il primo termine caratterizza il clima artistico dominante negli anni sessanta e il secondo quello dominante nella seconda metà degli anni settanta per poi esplodere nella Transavanguardia.
Possiamo inquadrare le recensioni o letture critiche sugli artisti della Transavanguardia italiana nell’ambito del fenomeno che vede la pittura come protagonista di questo periodo. Ai pittori italiani, tedeschi e locali, protagonisti di questo revival del “medium” pittorico, vengono dedicate parole di consenso e di dissenso che innescano, a mio avviso un interessante riflessione sulle arti visive. I debutti degli artisti a New York si svolgono in gallerie del “Soho” particolarmente nella Galleria Sperone-Westwater-Fischer situata allora in Green Street. Fu la prima galleria ad occuparsi dei transavanguardisti grazie al partner italiano Gian Enzo Sperone che li aveva conosciuti ed esposti nelle sue gallerie a Roma e Torino. Un’ altra italiana fu quasi visionaria nell’anticipare futuri sviluppi: Annina Nosei, che aveva una galleria a Prince Street ed espose per la prima volta un opera di Francesco Clemente nel 1980 in una mostra collettiva in cui l’artista presentava Autoritratto con oro. Sandro Chia espose per la prima volta da Sperone Westwater Fischer il 12 di Dicembre di 1980, Francesco Clemente il 2 di Maggio del 1980, Enzo Cucchi il 14 Febbraio del 1981. I tre artisti, Chia, Clemente e Cucchi facevano anche mostre collettive da Sperone in quegli anni e il sodalizio con il gallerista italiano sarebbe stato molto fruttuoso negli anni a venire. Il ruolo di Sperone come gallerista è fondamentale per la diffusione degli artisti transavanguardisti: presenterà opere anche di Mimmo Paladino dal 1983, e durante tutti gli anni ottanta ospiterà mostre di Chia, Clemente e Cucchi. Tornando ora alla ricezione critica degli artisti italiani possiamo notare In primo luogo che i critici e recensori americani fanno fatica a classificare le tendenze pittoriche, il termine “Transavanguardia” non compare in concomitanza con gli scritti che parlano di Chia, Clemente, Cucchi, Paladino e qualche tempo dopo di De Maria che esporrà per la prima volta a New York nel 1985. Dopo le prime mostre in città, si cerca di definire la nuova tendenza pittorica ed i critici tentano di classificare il fenomeno sotto diversi nomi, tra i quali New Image Painting, Bad Painting e infine Neoespressionismo. Questo termine, entrato nell’uso con l’arrivo dei pittori tedeschi è spesso utilizzato per tutti gli artisti che usano la pittura come mezzo espressivo. In mostra, la serie di tende, ispirate alla filosofia upanishadica e buddista, incarnano lo spirito di un’esistenza errante e rappresentano “rifugi per nomadi”. Clemente le descrive come “il risultato di molti fili disparati che si sono intrecciati nella mia mente nel corso degli anni”. Simbolo di una vita itinerante scelta per sfuggire a una versione unica e lineare della storia e abbracciare una geografia globale. Le tende, con le loro pareti dipinte con tempere luminose, evocano mondi immaginari e rimandano a luoghi sacri come le Grotte dei Mille Budda a Dunhuang in Cina o le grotte di Ajanta ed Ellora in India, spazi di meditazione che hanno lasciato tracce profonde nella memoria culturale dell’artista. Ogni tenda – dalla Tenda degli angeli alla Tenda del pepe – è un mondo interiore, ricco di simboli, memorie e riflessioni stratificate nel tempo. Le dodici Bandiere, che si fronteggiano sospese in alto a formare un corridoio da attraversare, sono dipinte da entrambi i lati: da un lato, appaiono figure simboliche e riconoscibili; dall’altro, enigmatici aforismi ricamati in oro. I due lati sembrano opere distinte, polarità di pittura e scrittura che tuttavia si compenetrano, proprio nella loro separazione, come luce e ombra. Infine, il ciclo di wall painting Oceano di storie, realizzato sul posto per questa occasione, apre e chiude idealmente il percorso, unendo tutte le esperienze in un tratto sottile e ininterrotto che suggerisce un racconto continuo e circolare. Clemente ricompone così un viaggio immaginario in cui ogni elemento, dal colore alle linee, rispecchia l’essenza di un’anima nomade in perenne movimento.
Percorso Mostra
Tenda della Verità
La Tenda della verità intreccia immagini eterogenee che fondono percezioni intuitive della quotidianità con richiami mitologici e memorie visive profonde. Tra i motivi più evocativi emergono reti e ragnatele, cuori a forma di favo, ragni sospesi, coppie abbracciate, lucertole e falene, tutte immagini che rappresentano un ricco vocabolario simbolico per l’artista. Il nome della tenda prende spunto da una frase del mistico indiano del Quattrocento Kabir, che descriveva il corpo come veicolo di connessione con l’assoluto: “mi siedo con la verità, mi alzo con la verità, mi sdraio con la verità”. Secondo tale principio il corpo è concepito come una presenza concreta, non come metafora, ma come una realtà da prendere alla lettera, dove l’esperienza corporea si dissolve dai suoi limiti materiali e si avvicina a una dimensione di verità profonda e trasformativa. Il corpo smette così di essere solo un’entità fisica e condizionata, diventando l’eco di desideri dimenticati, un riflesso di tutte le aspirazioni inconsce in cui “spiritualizzare la materia e materializzare lo spirito”. Per Clemente la verità è sempre instabile e mutevole, non fissa, si trasforma in continuazione e sfugge. Questo concetto accompagna l’intera opera, in cui percezioni quotidiane e memorie mitologiche si intrecciano in un linguaggio simbolico e intuitivo che appare nella sua forma più pura.
Tenda della verità, 2013-2014 Tempera su cotone, ricamo, cuciture a mano, pali di bambù, finali in legno, corde, pesi in ferro, cm 600 x 400 x 300 Collezione dell’artista
Tende del Pepe
La Tenda del pepe è ispirata alla regione del Kerala e all’idea del viaggio. Questo stato costiero del Sud dell’India, noto per la produzione di pepe, è storicamente un crocevia commerciale, legato a civiltà antiche attraverso rotte marittime. I dipinti interni evocano il verde intenso e l’azzurro delle sue terre tropicali, intrise di memorie storiche e di un’archeologia marina nascosta. Un motivo di onde grigioblu, simile a un arazzo, è punteggiato da spruzzi di colore che rappresentano la terra e la vegetazione rigogliosa, con rampicanti di pepe che si intrecciano nel paesaggio. Immagini vibranti popolano la tenda: grani di pepe su una grande mano aperta, coppie avvolte da rampicanti, barche cariche di frangipane che fluttuano sull’oceano, un veliero naufragato contenuto nel grembo di una figura femminile. Questi dettagli, sensuali e misteriosi, richiamano l’antica leggenda del porto di Muziris, oggi sommerso. Le pareti esterne sono decorate con onde rosa, ocra, celeste e bianche, e mani aperte ricamate in grigio. Ogni palmo è adornato da simboli come un occhio fluttuante, un cuore trafitto e grani di pepe cadenti. La metafora del naufragio emerge come tema finale: perdute le certezze del viaggio, resta il riposo sulla riva, dove contemplare i rottami delle proprie sicurezze.
Tenda del pepe, 2013-2014 Tempera su cotone, ricamo, cuciture a mano, pali di bambù, finali in legno, corde, pesi in ferro, cm 600 x 400 x 300 Collezione dell’artista.
Tenda del Diavolo
La Tenda del diavolo esplora il potere e la corruzione con immagini di figure diaboliche, che uniscono simboli medievali e contemporanei. All’esterno, maschere di demoni ispirate ai manoscritti medievali fanno da cornice, mentre all’interno l’artista dipinge loschi dandy e sfruttatori, eleganti nei loro smoking con cilindro, monocolo e sigaro. Queste figure richiamano l’immagine di Eshu, divinità afrobrasiliana di origine Yoruba rappresentata come un gentiluomo sinistro che vaga nella Mangueira, un ex mercato di schiavi a Rio de Janeiro. Le rappresentazioni, cariche di simbolismo sessuale e di potere, mostrano una realtà distorta: un dandy dialoga con un uomo itifallico, mentre una donna nuda accarezza il ventre a forma di globo terrestre di un altro uomo, simbolo della brama di dominio. E ancora un elegante signore tiene al guinzaglio una coppia nuda e carponi con una catena al collo, e dalla sua sigaretta si leva un fumo che richiama il profilo dell’Africa, simbolo del retaggio coloniale. In un angolo, una figura boschiva coperta di rami e ramoscelli ha una caviglia legata a quella del “diavolo” con il cilindro, simbolo dell’inganno e del potere. In tutte queste immagini il “diavolo” incarna l’archetipo dell’inconscio, e richiama la figura dei tarocchi che impugna una torcia rovesciata. L’artista suggerisce in questa tenda che la nostra vita è guidata non tanto dalla volontà razionale che crea l’illusione del potere, quanto da spinte sotterranee di cui spesso non siamo consapevoli. L’opera invita quindi a riconoscere che la nostra idea di controllo è illusoria e che solo accettando l’influenza di queste forze inconsce possiamo giungere a una nuova consapevolezza, riavvicinandoci alla nostra essenza più autentica e naturale. È, come afferma l’artista, “la forza che, rovesciando il senso della luce, illumina l’oscurità dei desideri più occulti e clandestini, quelli che ci tengono prigionieri finché non impariamo a conoscerli”.
Tenda del diavolo, 2013-2014 Tempera su cotone, ricamo, cuciture a mano, pali di bambù, finali in legno, corde, pesi in ferro, cm 600 x 400 x 300 Collezione dell’artista
Tenda Rifugio
Le figure dipinte all’interno della Tenda rifugio sono quasi monocromatiche, domina un’atmosfera di quiete e sacralità. Grandi figure teriomorfe – esseri con teste di animali feroci e corpi di santi – siedono nella posizione meditativa del loto e tengono in grembo, come per proteggerli, animali più deboli, tutti vestiti di bianco in segno di fede e rinuncia. La scena rappresenta l’armonia tra predatore e preda, che, reciprocamente, trovano rifugio nel Budda. Lontano da una visione idealistica della pace e di un’apparente conciliazione degli opposti, l’artista suggerisce però una tensione latente, un possibile senso di apprensione e alienazione nello spazio oscuro della tenda. L’esterno della tenda è ricoperto da frammenti di un testo fondamentale della tradizione buddista, che inizia con una dichiarazione di rifugio nel Buddha, nel Dharma, nel Sangha, nella Tara Bianca e nel suo mandala. In altre parole, ci si rifugia nella guida spirituale, nella comunità, nella legge e nella dea della compassione. È rassicurante credere in questo rifugio, ma come possiamo riconciliare la nostra natura compassionevole con la ferocia dei predatori, dei lupi, delle bestie? si chiede l’artista. Nella Tenda rifugio, il tema richiama il film Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini, dove San Francesco convertiva falchi e passeri all’amore di Dio fino a quando uno dei falchi convertiti finisce per uccidere un passero, perché tale è la natura dei falchi e il destino dei passeri.
Tenda rifugio, 2012-2013 Tempera su cotone, ricamo, cuciture a mano, pali di bambù, finali in legno, corde, pesi in ferro, cm 600 x 400 x 300 Courtesy Dib Bangkok
Bandiere – La Società dello Spettacolo
Dodici bandiere triangolari ciascuna sospesa su di un’asta che esce dalla parete a intervalli regolari si fronteggiano creando un corridoio aereo nella sala bianca che invita lo spettatore ad attraversarla, guardando verso l’alto. Concepite e realizzate in India, le bandiere sono il frutto di una collaborazione tra l’artista e artigiani locali, che hanno sapientemente intrecciato tradizione e innovazione. Ogni bandiera è dipinta su entrambi i lati, come le facce d’una stessa medaglia: da una parte immagini e volti e, dall’altra, aforismi ricamati in oro tratti dal celebre testo di Guy Debord La società dello spettacolo: commenti sull’idea della separazione tra arte e vita, realtà e rappresentazione, e sulle derive tardo capitaliste dell’effimero e dell’apparenza, tradotte qui in dualità poetica e visiva. I due lati appaiono come opere autonome, poli opposti di pittura e scrittura che si intrecciano in un dialogo inseparabile, simile all’incontro tra luce e ombra. L’installazione celebra la materia viva dei segni, elevati qui a misura del mondo, e invita a esplorare il sottile filo immaginario che lega queste due facce, dando al visitatore la sensazione di un’opera unitaria, ma complessa e sfuggente.
Bandiere – La società dello spettacolo, 2014 Collage, tintura con tecnica tie dye, ricamo, pittura su tessuto, bambù Dimensioni variabili Collezione dell’artista
Tenda Museo
Con la Tenda museo Clemente esplora uno dei temi più frequenti in tutta la sua opera, l’autoritratto. I ritratti sono dipinti su pareti colorate sotto un soffitto in bianco e nero che presenta immagini tratte da suoi disegni, ma stampate a mano con la tecnica del block printing, che raffigurano cobra, tartarughe, mani e mandala, disposti con ordine museale. Nei pannelli laterali, l’artista dipinge sé stesso all’interno di cornici, sontuose e barocche, che richiamano la tradizione classica e, al contempo, sfidano la staticità del ritratto. Clemente non si limita però a restare entro i limiti della cornice: lo vediamo fronteggiare una tigre, catturare un pesce fuori dalla cornice, cospargersi di fumo o penzolare con la lingua di fuori, sfuggendo a ogni tentazione di definirsi rigidamente. Gli autoritratti di Clemente, come ha notato anche Salman Rushdie, esplorano un’identità in continua trasformazione, in cui l’artista si sposta tra mondi e assorbe momentaneamente identità diverse. Sono autoritratti performativi e camaleontici, che sfidano la concezione dell’autoritratto come immagine fissa o unica, rivelando molteplici visioni di sé. Sulle pareti esterne della tenda sono applicate le immagini dipinte di musei amati da Clemente – come il Kimbell di Fort Worth o il Mauritshuis dell’Aia, il MADRE di Napoli – simbolo della cristallizzazione museale.
Tenda museo, 2013-2014 Tempera su cotone, ricamo, cuciture a mano, pali di bambù, finali in legno, corde, pesi in ferro, cm 600 x 400 x 300 Collezione dell’artista
Tenda degli Angeli
La Tenda degli angeli ci accoglie al suo interno in un’atmosfera serena e poetica, dove le figure celesti si rivelano secondo l’immaginario dell’artista. Gli angeli, tema ricorrente nelle sue opere, emergono dai ricordi e dalle visioni iconografiche personali, manifestandosi in modi vividi e inattesi. All’interno della tenda, le pareti e i soffitti sono decorati con dipinti che ritraggono angeli, sia maschili che femminili, dalle pose rilassate e quasi terrene. Alcuni appaiono privati di parte delle loro ali, mentre altri sembrano librarsi sospesi sotto ombrelloni celesti e arcobaleni luminosi. I loro corpi, segnati da desideri e sofferenze, suggeriscono una caduta verso le tentazioni e le emozioni umane. Sotto ciascun angelo, l’immagine accennata di un serpente rimanda al Satana serpentino di John Milton nel Paradiso Perduto, così come i riferimenti culturali e letterari delle figure e delle immagini spaziano dall’arte di William Blake e Johann Heinrich Füssli alle miniature persiane, dai tarocchi alle cartoline tradizionali indiane. Il riferimento è anche all’Angelus Novus di Walter Benjamin, che osserva le rovine della storia senza voltarsi alla luce, in uno stato tra lo stupore e l’orrore, evocando una visione di stanchezza e decadenza angelica, un’immagine di distacco e malinconia celeste. All’esterno, la tenda è rivestita con un tessuto mimetico nei toni del blu, marrone e beige, ideato dall’artista. Questo sfondo, ingannevole e cangiante, si anima grazie a una rete ‘chimerica’ composta da motivi stampati a mano in bianco e nero con la tecnica tradizionale del block printing, dove figure come cuori, fiori e picche si fondono e si trasformano in sensuali intrecci di foreste popolate da uccelli, scheletri e coppie. Sulle pareti esterne compaiono dodici immagini colorate di arcangeli, incastonati in fessure a forma di serratura, suggerendo che il paradiso non è accessibile, ma si può sbirciare al suo interno grazie a un angelo custode.
Tenda degli angeli, 2013-2014 Tempera su cotone, ricamo, cuciture a mano, pali di bambù, finali in legno, corde, pesi in ferro, cm 600 x 400 x 300 Collezione dell’artista
Dipinti Murali – Oceano di Storie
I dipinti murali realizzati direttamente sulle pareti del museo in occasione della mostra, fanno parte della serie Oceano di storie, apparsa per la prima volta a Pechino. In quella occasione, evocavano l’idea dell’acqua, elemento centrale nella cultura cinese così come il colore rosso, talvolta presente in forma simbolica o “pietrificata”. Il colore dell’opera, un profondo rosso “sangue di bue” (corrispondente all’americano “Indian Red”), evoca originariamente anche il legame con la terra e la memoria storica, ricordando i granai americani che venivano dipinti di rosso e la tragica storia delle popolazioni indigene deportate e sterminate in Oklahoma. L’esecuzione del dipinto murale segue un protocollo rigoroso: un contorno disegnato a sanguigna che non lascia spazio a errori e ripensamenti. Il contorno viene poi riempito con onde di colore rosso sangue di bue, in un motivo che non tocca mai il perimetro. L’opera è il frutto di un lavoro collettivo, con molte mani che gradualmente sfumano il colore dalle tonalità più chiare a quelle più scure. Queste opere, monumentali ma effimere, saranno cancellate alla fine della mostra, in un ciclo di creazione e dissoluzione che riflette la caducità della memoria e la natura transitoria dell’arte.
Dipinti murali – Oceano di storie, 2024 Sanguigna e tempera su muro
Biografia Francesco Clemente
Per aver attraversato geografie, culture e diverse forme espressive, Francesco Clemente incarna la figura dell’artista nomade per eccellenza. Nel suo lavoro ha impiegato la tecnica a olio, quella dell’affresco, l’encausto, il pastello, l’acquerello e si è dedicato alla scultura. Negli anni Settanta, Clemente ha favorito il ritorno alla pittura come significativo mezzo di espressione. L’artista, che ha trovato ispirazione nelle tradizioni filosofiche, spirituali ed estetiche orientali, nelle sue opere rappresenta un io frammentario e figure in costante mutamento tra diversi mondi quello materiale e spirituale, il maschile e femminile – che ambiscono a forme di riconciliazione. Prima di stabilire il suo studio a New York nel 1980, Clemente ha vissuto in India dedicandosi allo studio del sanscrito e delle letterature hindu e buddista nella biblioteca della Società Teosofica della città di Chennai. A New York ha collaborato con poeti come Allen Ginsberg e Robert Creeley, e con artisti come Jean-Michel Basquiat e Andy Warhol. Insieme a Raymond Foye ha dato vita alla casa editrice Hanuman Books, diventando inoltre membro dell’American Academy of Arts and Letters. Le sue opere sono esposte in molte prestigiose collezioni museali di tutto il mondo, tra cui l’Art Institute di Chicago, la Tate Gallery di Londra, il Kunstmuseum di Basilea, il Solomon R. Guggenheim Museum di Bilbao e di New York, il Metropolitan Museum of Art di New York e il Museum of Modern Art di New York. Clemente vive e lavora tra New York e l’India.
Palazzo delle Esposizioni Roma
Francesco Clemente Anime Nomade
dal 23 Novembre 2024 al 30 Marzo 2025
dal Martedì alla Domenica dal 10.00 alle ore 20.00 – Lunedì Chiuso
Foto © Azienda Speciale Palaexpo/Alberto Novelli
Veduta della mostra “Francesco Clemente. Anima nomade”, Palazzo Esposizioni Roma, 23 novembre 2024 – 30 marzo 2025
Francesco Clemente foto di Luca Babini