Giovanni Cardone
In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla Storia della Canzone Napoletana apro il mio saggio dicendo : Spulciando i libri che si occupano di canzone napoletana, una cosa che mi colpisce immediatamente è la scarsità generalizzata, tranne che in rari casi, di riferimenti veri e propri ai testi musicali. Per gran parte degli studiosi la canzone napoletana è rappresentata soprattutto dal testo verbale, dalle parole; la musica viene vista come un fatto di secondo ordine, quasi un orpello, la cui presenza o meno non sembra essenziale all’illustrazione del fenomeno che, bene o male, resta però di carattere eminentemente musicale. Provando ad individuare i motivi di una tale vistosa lacuna, ci si potrebbe indirizzare verso il carattere di “intrattenimento” con cui questa forma musicale è stata per lungo tempo marchiata, cosa che le ha impedito di assurgere in tempi brevi al rango di vera e propria espressione artistica riconosciuta. Aggiungendo l’ambiguo confine fra musicologia ed etnomusicologia entro il quale essa viene solitamente collocata e la relativamente recente affermazione in Italia di queste branche di studi, si può comprendere come, a distanza di quasi due secoli dal suo nascere, la canzone napoletana non abbia ancora rappresentato, se non in pochi casi, un allettante campo per una ricerca davvero approfondita che avesse il fine di sviscerare le modalità della sua nascita, della sua clamorosa affermazione internazionale e dell’eco che suscita tuttora, sia pure con modalità ed in misura diversa rispetto al passato. Il vezzo di considerare di non particolare pregnanza l’aspetto squisitamente musicale è da ascrivere sia alla bibliografia recente e relativamente recente che a quella più antica. In una delle prime opere sull’argomento, curata da Gaetano Amalfi, si afferma: «Guglielmo Cottrau credo debba intendersi essere piuttosto autore della musica che delle parole, evidentemente di origine popolare, quantunque anche la musica molto abbia attinto alla vena del popolo». L’aspetto musicale sembra essere considerato non proprio primario per gli studiosi dell’epoca: in genere autore della canzone è considerato colui che ne ha scritto le parole. In questa occasione, con una visione di derivazione forse romantica, autore viene considerato il popolo in generale. Più avanti G. Amalfi ed anche nei lavori di Maria Ballanti scrive: «La storia della canzone napoletana dovrebbe farsi da chi, al tempo stesso, fosse un esteta, un letterato, per le parole, e un musicista. Quindi esaminare: prima la poesia (il manichino), poi la musica (il vestito che lo copre, le pieghe del panneggiamento, la veste, etc.), indi l’esito, per fama, per giornali coscienziosi, non interessati,». Dunque, secondo questa visione delle cose, sarebbe il caso di prendere in considerazione in primo luogo la poesia che rappresenterebbe il nocciolo della canzone, il corpo, e solo dopo la musica che sarebbe così un qualcosa di sovrapposto e sostituibile come i vestiti su un manichino ed Aniello Costagliola Specie agli albori dell’affermazione di questa forma musicale, capitò che gli stessi compositori involontariamente favorissero con il loro comportamento un atteggiamento improntato alla magnificazione del testo piuttosto che della musica. Memorabile il caso di Guillaume Cottrau e Francesco Florimo che sulle parole di A core a core cu Raziella mia elaborarono melodie lontanissime l’una dall’altra, incentivando così la propensione a concepire il testo verbale, piuttosto che la musica, come l’elemento distintivo della canzone. Si sono però verificati anche casi, sia pure in diverso contesto, di uguale musica su diverse parole. Accadde con le canzoni di risposta pensiamo a Te voglio bene assaje, la quale ebbe un successo straordinario ed era cantata notte e giorno in tutti gli angoli più riposti della città e dei dintorni. Sul motivo di questa canzone furono successivamente confezionati un notevole numero di brani con testi diversi che esprimevano il fastidio per il dover sentire e risentire continuamente in giro per Napoli sempre lo stesso ritornello canoro. non ci si discosta molto da questa linea e l’attenzione è sempre prevalentemente direzionata sugli aspetti poetici, con frequenti citazioni di versi. Dei contenuti specificamente musicali quasi nessuna traccia.
Il lavoro della Ballanti si segnala però per una certa attenzione verso le figure di Guglielmo Cottrau e di suo figlio Teodoro che vengono riconosciuti di fondamentale importanza, nella loro qualità di compositori, arrangiatori ed editori, per il primo affermarsi della canzone. Come vedremo, la cosa non è invece del tutto scontata per buona parte del resto della bibliografia. Nel corpus bibliografico della canzone napoletana non molto semplice è individuare quali siano le notizie effettivamente di prima mano e che abbiano una base documentale solida. Frequente è la riproposizione di luoghi comuni basati su affermazioni non documentate, o false, o interpretate a proprio uso e consumo, apparse in pubblicazioni anteriori. Questo tipo di errori può essere dovuto al fatto che non ci si è curati di consultare i testi originali ma ci si è limitati a riportare un qualcosa di seconda mano già erroneo, oppure perché si è voluto leggere nel testo originale ciò che magari si desiderava vedere scritto. Ha fatto scuola e storia in tal senso la famosa manipolazione perpetrata da Salvatore Di Giacomo sulla “copiella” del testo della canzone Michelemmà. Di Giacomo, convinto, magari in buona fede, che la canzone fosse del pittore napoletano Salvator Rosa, vissuto nel ‘600, per accreditare tale tesi creò e fece circolare un vero e proprio falso di una presunta antica copiella di tale canzone nella quale, oltre al testo verbale e a un disegno illustrativo, era riportato il nome del presunto autore. La canzone venne inserita in una pubblicazione di Di Giacomo e solo alcuni anni dopo, nel 1911, Benedetto Croce, nei suoi Saggi sulla letteratura italiana del ‘600, svelò l’equivoco risale con ogni probabilità al 1770, quando l’inglese Charles Burney, compositore e storico della musica, acquistò a Roma un album di brani musicali che aveva, come introduzione ad uno di essi, l’indicazione: “Le seguenti arie sono di Salvator Rosa, parole e musica”. Qualche tempo dopo Burney, tratto in inganno da questa scritta, in una sua opera avallò questa inconsistente leggenda. In seguito altri musicologi si accorsero che, all’interno dell’album, gran parte delle composizioni erano di epoca successiva e solo pochissime composizioni, solo per la parte poetica, erano attribuibili a Salvator Rosa. ufficializzava la falsificazione affermando «che la canzonetta Michelemmà è attribuita al Rosa senza fondamento alcuno, e che il facsimile di vecchia stampa, nel quale è presentata, è una scherzosa invenzione dello stesso Di Giacomo.» A Di Giacomo va ricondotta anche l’arbitraria attribuzione a Donizetti, senza adeguata base documentale, della musica di Te voglio bene assaje, così come l’affermazione che la stessa canzone fosse apparsa per la prima volta al concorso di Piedigrotta del 1835. Diversi studiosi di epoca successiva, a cominciare da Ettore De Mura, La cosa che colpisce è la disinvoltura con la quale Di Giacomo, prestigioso autore di testi di canzoni napoletane di successo, confeziona la falsa copiella, la pubblica pure tranquillamente in una sua opera in cui sostiene la propria tesi palesemente infondata, il tutto buttandosi dietro le spalle si incaricarono di smentire tali tesi. La cosa che colpisce è la disinvoltura con la quale Di Giacomo, prestigioso autore di testi di canzoni napoletane di successo, confeziona la falsa copiella, la pubblica pure tranquillamente in una sua opera in cui sostiene la propria tesi palesemente infondata, il tutto buttandosi dietro le spalle un’onestà intellettuale di base che dovrebbe contraddistinguere chi si occupa di ricerche culturali. Se un personaggio come Di Giacomo che, nell’ambito della canzone napoletana ha goduto, anche giustamente, di una fama e di un prestigio riconosciuti, si è tranquillamente imbarcato in un’operazione di falsificazione storica, quante saranno le notizie non accreditate e superficiali che sono circolate e circolano ancora nell’ambito della bibliografia sulla canzone napoletana? Per quanto concerne l’utilizzo dei testi musicali, nel limitato numero di casi in cui nelle opere c’è una presa in considerazione degli stessi, in genere, anche per i brani più antichi, ci si rifà ad edizioni sempre molto successive che costituiscono di fatto una rielaborazione, anche melodica, di quelle che erano le versioni originarie. Accade così nella Storia della Canzone Napoletana di Aurelio Fierro del 1994 , la quale riporta integralmente un elevato numero di spartiti anche di canzoni antiche. Il riferimento principe sono i tre volumi de l’Eco di Napoli, apparsi fra il 1877 ed 1883 ad opera di Vincenzo De Meglio per le edizioni Ricordi. Lo stesso succede per gran parte degli stralci di brani riportati nella Storia della Canzone Napoletana di Vittorio Paliotti.
Le canzoni di De Meglio, tranne che in un numero contenuto di casi non riguardanti quelle più antiche, non riportano né l’autore del testo né quello della musica o, alcune volte, solo uno dei due. Questa raccolta, ancora in commercio dopo 130 anni, è quella che più facilmente ci si può procurare. La si può tuttora acquistare o ordinare tranquillamente nei principali negozi di musica o via internet. Dai vizi originari di questa edizione sono derivati un buon numero di equivoci sulla storia della canzone napoletana. Eppure la raccolta Ricordi curata da De Meglio, per un gran numero di canzoni, è basata su quella, apparsa nel 1865 per le edizioni Cottrau, che raccoglieva tutti i brani composti o elaborati da Guglielmo Cottrau. riveduta e ristampata varie volte, anche di recente, nel corso degli anni, ma la cui edizione originaria data 1958. Le trascrizioni di De Meglio di un numero elevato di brani, ben 150, hanno costituito a lungo, e continuano a costituire ancora adesso, il punto di riferimento principale anche per i brani più antichi, pur se non di rado la loro linea melodica è stata sensibilmente modificata rispetto alle versioni originali che sono in genere anteriori di un tempo compreso fra i quaranta e i sessanta anni. In quella edizione tutti i 113 brani che ne facevano parte erano attribuiti a Guglielmo Cottrau. Perché De Meglio e Ricordi, appena una quindicina di anni dopo, sembrano avere una specie di allergia a far comparire il nome di questo autore davanti alla musica di qualsiasi canzone? La cosa è davvero sorprendente, perché il silenzio totale si verifica non solo nei confronti di Guglielmo, ma pure di Teodoro: anche il brano Santa Lucia, del quale l’attribuzione a Teodoro Cottrau è stata da sempre indiscussa, vi compare del tutto anonimo sia in relazione al testo che alla musica. Il vero problema potrebbe essere che, quando comparvero le prime edizioni Ricordi dell’opera di De Meglio (1877), lo Stabilimento Musicale Partenopeo di Teodoro Cottrau era ancora attivo. Teodoro muore solo nel 1879 e la casa editrice cessa del tutto la sua attività molti anni dopo. Far comparire il nome Cottrau, una ditta concorrente che a Ricordi probabilmente faceva ancora paura, sia pure di striscio e solo come autore di un brano, non era forse consigliabile. Il silenzio su Cottrau non è così solo una sorta di “congiura” bibliografica, come giustamente indicato da Laura Calella, Il nome di Cottrau è così quasi ignorato da molti studi sulla canzone napoletana, a cominciare da Di Giacomo che, pur scusandosi in seguito in un articolo di tale trascuranza, ma anche “tipografica”. E’ una specie di silenzio mediatico paragonabile a quello che può verificarsi oggi quando un gruppo di importanti televisioni o giornali decide di ignorare un evento. Il nome di Cottrau è così quasi ignorato da molti studi sulla canzone napoletana, a cominciare da Di Giacomo che, pur scusandosi in seguito in un articolo di tale trascuranza ha di fatto costituito un riferimento essenziale per i lavori successivi di altri autori che hanno così continuato a ricercare le origini della canzone napoletana in oscuri e mitici eventi collocati nella notte dei tempi. Fino al 1885, data della pubblicazione delle Lettres d’un mélomane, come si deduce dalle contemporanee recensioni sull’opera e come messo in evidenza anche da Laura Calella, solo pochi mettevano in dubbio il ruolo fondamentale che Guglielmo Cottrau aveva esercitato nell’affermazione della canzone napoletana. Sono proprio quelli gli anni decisivi in cui si determina il destino della storiografia della canzone, che ripiega verso direzioni tendenti a farne risaltare sostanzialmente più il ruolo di supporto a tutta una serie di operazioni di tipo commerciale che hanno come fine la promozione e il lancio della canzone e di ciò che gira attorno ad essa, rispetto al reale accertamento della verità storica. E’ del 1881 la breve biografia di Cottrau, apparsa per i tipi della Marghieri di Napoli, ad opera di Edoardo Cerillo che usa lo pseudonimo di Lylircus. In questo libro i meriti di Guglielmo Cottrau, ed anche di Teodoro, riguardo la creazione e diffusione della canzone napoletana sonno messi adeguatamente in risalto. Cerillo si spinge fino a fare, verso la fine del libro, il seguente esempio musicale in relazione all’inizio melodico di un certo numero di arie napoletane di Cottrau. Non meno di cinque canzoni, sostiene Cerillo, cominciano con questo tema e ne elenca, nell’ordine, anche i titoli: Fenesta vascia, Antonià, Mme donaste nu milo muzzecato, S’è aperta na cantina, Fenesta che lucive e mmo non luce. La cosa è sostanzialmente vera. Solo a lasciare un po’ perplessi è l’inserimento fra le canzoni con inizio comune, addirittura al primo posto, di Fenesta vascia. L’edizione del 1865 di tale canzone, dunque risalente ad appena quindici anni prima, apparsa nella Raccolta completa della canzoni napoletane composte da Guglielmo Cottrau (edita dallo Stabilimento Musicale Partenopeo di Teodoro Cottrau), conformemente all’edizione del 1824, ha un inizio melodico con intervalli piuttosto diversi. A parte, ovviamente, la differenza di tonalità rispetto all’esempio indicato da Cerillo, dalla terza nota in poi l’andamento melodico è diverso, pur restando ascendente. C’è un procedere di tipo cromatico che non consentirebbe di inserire il brano, nel gruppetto di esempi proposti, addirittura al primo posto. Tutto lascia pensare che, già nel 1881, Cerillo non si rifacesse tanto alle edizioni dello Stabilimento Cottrau per la consultazione delle musiche, ma piuttosto al primo volume della raccolta Eco di Napoli di De Meglio edito da Ricordi,. che aveva visto la luce già nel 1877, e nel quale il brano Fenesta vascia è melodicamente modificato proprio nei termini in cui è presentato da Cerillo. In questo stesso primo volume compaiono anche Antonià e Fenesta che lucive. Sono questi gli anni in cui, morto Teodoro, il predominio tipografico passa nelle mani di Ricordi e le vecchie edizioni di Girard-Cottrau vengono progressivamente dimenticate. Le versioni delle canzoni che De Meglio aveva curato per la casa milanese sono quelle che circolano e che di fatto costituiscono anche il riferimento filologico per quei pochi studi che, sia pure di sfuggita, prendono in considerazione i testi musicali. Il predominio tipografico prelude a quello che sarà il successivo predominio bibliografico. Se gli autori, pur rifacendosi alle partiture di Ricordi, tengono ancora in alta considerazione la figura di Guglielmo Cottrau, come nel caso di Cerillo, ciò non accadrà per lungo tempo. Documento della situazione storiografica ancora ambivalente è pure un’opera di Giovanni Masutto del 1884, Maestri di musica italiani del sec. XIX, pubblicata quindi ancor prima delle Lettres d’un mélomane che sono dell’anno successivo, nella quale si scrive testualmente riguardo a Guglielmo Cottrau: «Il suo nome si rese notissimo per la pubblicazione delle Canzoni napoletane, che divennero popolari, non solo a Napoli, ma per l’intera Italia, e furono cantate in tutto il mondo. Il principale merito artistico di Guglielmo Cottrau è la sua facoltà assimilatrice, colla quale egli concretò la nenia popolare, vaga, indeterminata, incerta, nella canzone, assoggettandola al ritmo e alla quadratura.
E’ così che trascrisse, modificò e compilò informi cantilene popolari, dando loro forma di canzone. Però molte altre egli ne creò di sana pianta, e non meno pregevoli delle prime; per queste ultime egli scriveva nell’istesso tempo e la musica e le parole. Queste canzoni, trascritte o inventate, vennero in luce successivamente nel 1825-27-29 nei Passatempi musicali. Guglielmo Cottrau è quindi fino a questo momento considerato il padre della canzone napoletana. Ma la sua fortuna bibliografica, dopo la perdita del predominio tipografico, non durerà ancora a lungo. A contribuire a generare una fama negativa nei confronti di Guglielmo Cottrau, saranno anche alcuni errori del figlio Teodoro che, nell’ansia di combattere la pirateria e di assicurarsi i diritti sulle canzoni del padre che gli venivano contestati, finirà per favorire la circolazione di un’immagine di Guglielmo come appropriatore di opere altrui e maneggiatore di cose editoriali. Esemplare è il caso dell’arietta siciliana Nici mia comu si fa la quale, nella sua prima uscita nel 1824 all’interno del primo fascicolo dei Passatempi musicali, veniva attribuita a » Da questa indagine storiografica e bibliografica, possiamo dire che due anime in conflitto siano presenti nella canzone napoletana: una intellettuale e fantastica ed un’altra popolare e realistica. Le due anime, distintesi e separatesi a ridosso del periodo postunitario, esprimono due atteggiamenti contrapposti che permeano di sé tutto quello che interagisce con la canzone, bibliografia compresa. Da qui atteggiamenti contrastanti volti, a seconda dei casi, verso l’aneddotica fantasiosa o verso la ricostruzione fedele; contrassegnati dalla timida riverenza nei confronti dei grandi editori dell’Italia postunitaria o dalla rivendicazione di un’originalità peculiare e localistica; anche la situazione attuale della produzione di canzoni napoletane è sostanzialmente contrassegnata da questo dualismo. Negli ultimi decenni tutto un sottobosco discografico di canzoni napoletane di produzione semplice ed artigianale e che ha come principali fruitori giovani e meno giovani dei ceti più disagiati ha conosciuto un certo fulgore, in opposizione ad una produzione di tipo più impegnato ed intellettuale, dal target meno circoscritto e più diffuso, e con maggiore rappresentanza sui media. Di fatto, la vecchia spaccatura poetica e sociale che ebbe sensibile manifestazione ai tempi di Ferdinando Russo e Salvatore Di Giacomo, e che determinò sostanziali ripercussioni anche sugli sviluppi bibliografici relativi alla canzone, è tuttora presente. Forse la canzone napoletana, scegliendo in quel momento una via più intellettuale ed extralocalistica e oscurando i riflettori su tutto un mondo in cui si dibattevano le componenti meno privilegiate della popolazione, ha un po’ decretato la propria futura estinzione. La situazione ci sembra trovare caratteristica risonanza in un breve e singolare componimento di Pasquale Rocco dal titolo Nun è overo che ci sembra il caso di proporvi: No, nun ‘e state a sentere ‘e canzone! Chistu mare è celesto, ‘o cielo è d’oro, ma stu paese nun è sempe allero. Nun sponta sempe ‘a luna a Marechiaro e nun se canta e se fa sempe ‘ammore: cheste so’ fantasie p’ ‘e furastiere. Si vuie vulite bene a stu paese, fermateve nu poco dint’ ‘e viche, guardate dint’ ‘e vasce e fore ‘e chiese! Venite, assieme a me, p’ ‘e strate antiche: invece ‘e cammenà vicino ‘o mare, parlate cu chi soffre e chi fatica. Quanta malincunia p’ ‘e ccase scure addò nun trase st’aria ‘e primmavera! Guardate quanta sante attorno ‘e mmure! Sta gente puverella crede a Dio, patisce rassegnata e pare allera: e chi è cecato canta «O sole mio!» N’hanno chiagnute lacreme ll’artiste: e quante ne so’ muorte ‘int’ ‘o spitale! Stu paese d’ ‘o sole comm’è triste. Io vedo comm’a n’ombra a ogne puntone e penzo a’ gente ca lle manca ‘o ppane… quanta buscìe ca diceno ‘e canzone! Vorremo ricordare ancora che nel dopoguerra inizia ha dominare la scena il grande Renato Carosone con la grande fusione la tarantella e gli strumenti tipici del jazz ci furono altri grandi nomi che diedero lustro alla canzone napoletana Sergio Bruni, Aurelio Fierro , Nunzio Gallo, Franco Ricci, Mario Abbate, Giacomo Rondinella, Maria Paris, Angela Luce, Peppino di Capri e tanti altri che dettero un imput nuovo alla melodia partenopea. Mentre negli Settanta tramonta il Festival della Canzone Napoletana, e chiusa la stagione del repertorio classico ,la canzone napoletana si adegua alle esigenze del tempo, vengono ripresi ed attualizzati i temi della sceneggiata : Mario Merola , pur rimanendo legato alla canzone tradizionale, è il principale interprete di questa nuova tendenza. Intanto il fermento musicale di quell’epoca è avvertito anche da nuovi autori come Eduardo De Grescenzo, Alan Sorrenti, Enzo Gragnaiello e il grande Pino Daniele che daranno un’impronta nuova alla musica partenopea, seppur con musicalità diverse. Proprio quest’ultimo, scrisse nel 1977 alcune delle più famose canzoni napoletane successive al secondo dopoguerra: Napule è , Terra mia, Je so Pazzo e Na tazzulelle ‘è cafè .In questo periodo, nascono gli Osanna che percorrono la strada delle opere rock, e Napoli Centrale con James Senese , i quali intessono una interessante fusione di generi. La Nuova Compagnia di Canto Popolare e la nascita della Favola in musica La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone. Tra gli anni ottanta e novanta si affermano in ambito nazionale anche gruppi come Almamegretta , 99 Posse, 24 Granache rinnovano la canzone napoletana mediante una commistione di musica elettronica, trip-hop e rap. La differenza rispetto alla musica neomelodica sta anche nei testi ad alto contenuto politico. Inoltre in questi anni prima Roberto Murolo poi Renzo Arbore con l’Orchestra Italiana riportano in auge la canzone classica napoletana, addirittura la riadatta in chiave moderna ricevendo un successo mondiale, scalando le classifiche di vendita e facendo concerti in tutto il mondo. Ed infine vorremo ricordare il brano Cu ‘mme del 1992 scritto da Enzo Graganiello e portatato al successo assieme a Roberto Murolo e Mia Martini