Giovanni Cardone
Fino al 4 Maggio 2025 si potrà ammirare al Museo di Santa Chiara Gorizia la mostra dedicata al grande poeta Giuseppe Ungaretti- Ungaretti poeta e soldato. Il Carso e l’anima del mondo. Poesia -pittura- storia mostra ideata e curata da Marco Goldin. Il progetto è promosso dai Comuni di Gorizia e Monfalcone con il determinante contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, la partecipazione di PromoTurismoFVG e l’organizzazione di Linea d’ombra. La parte goriziana è il racconto completo della storia di Ungaretti sul Carso, il racconto delle battaglie a cui ha partecipato, i momenti di riposo in retrovia, i congedi, e poi il racconto dei luoghi sul Carso, fino al loro così caratteristico aspetto morfologico. La parte storica legata alle vicende del soldato Giuseppe Ungaretti sul Carso, e a tutte le battaglia lì svoltesi, è stata coordinata da Lucio Fabi, grande esperto della materia. Nicola Labanca, professore dell’Università di Siena, introduce invece i motivi dello scoppio della Prima guerra mondiale e l’ingresso dell’Italia nel conflitto fino al fronte sul Carso. C’è naturalmente, anzi ne rappresenta il punto di scaturigine, tutto l’aspetto letterario. È ovviamente legato alla scrittura delle poesie, e alla pubblicazione a Udine, in 80 soli esemplari nel dicembre 1916, a cura di Ettore Serra, de Il porto sepolto, quel primo libretto ungarettiano che nasce proprio dall’esperienza della guerra. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Giuseppe Ungaretti apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che scrivere sulla prima guerra mondiale non è un atto isolato ma appartiene a una tradizione molto ben presente a livello storico e sociale durante il periodo della guerra o del subito dopoguerra; e questa affermazione è vera anche nel caso della poesia. Secondo Laurence Campa, afferma che questa produzione forma un nuovo genere letterario con i suoi codici e con i suoi temi ciò che crea un nuovo ambiente letterario che si distacca della produzione precedente da innovazioni che sono propri all’espressione di un’epoca e così permette al genere del racconto di diffondersi attraverso tutta l’Europa profittando di un ambiente culturale favorevole al soggetto. Una matrice pienamente culturale si crea: è positiva dall’emulazione della letteratura di guerra che provoca l’interesse del pubblico si osserva una produzione massiccia, piena di diversità, di opere in relazione alla tematica della guerra attraverso tutta l’Europa o invece è negativa come la descrive Freud nella sua opera, pubblicata nel 1930, Il disagio della civiltà perché l’autore descrive una società culturale europea costruito intorno il fascino per la violenza delle prima guerra mondiale. Si oppone a questa matrice culturale omogenea per l’intero continente toccato dalla guerra, l’idea di una letteratura nata dalla guerra propria a ogni paese. Secondo Pierre Schoentjes, esistono differenze tra la letteratura di guerra nata dalla tradizione culturale inglese e quella nata dalla tradizione francese in Francia non si ritrova per esempio, la denunciazione onnipresente della guerra dai War Poets. Benché divergenze esistano fra la letteratura di guerra dei diversi paesi implicati nella guerra, temi simili uniscono tutti i poeti che hanno preso la penna sotto il fuoco della guerra e così, permette di creare un campo favorevole per una lettura comparativa attraverso una sola tematica. È possibile fondare una lettura trasversale studiando solo i grandi punti di convergenza. Per realizzare questo progetto, uso due studi che hanno lo stesso progetto applicato alla scrittura di finzione: Écrire en guerre, Écrire la guerre. Questi due scienziati propongono una lettura trasversale della letteratura di guerra : Nicolas Beaupré lega letteratura francese e tedesca mentre Pierre Schoentjes presenta un panorama generale delle letterature europee (fra cui quelle inglese, francese e italiana). Quest’ultimo autore mi permette anche di giustificare l’applicazione di risultati ottenuti da una lettura di finzione romanzesca al genere della poesia. Lo schema descritto da Pierre Schoentjes è interamente dedicato allo studio della presenza della tematica della guerra in letteratura come un fenomeno estetico e non storico come può esserlo quello sviluppato da Beaupré. Nicolas Beaupré giustifica spesso l’uso di certe immagini o temi trattati nei romanzi studiati dalla presenza di correnti ideologiche o eventi presenti all’epoca per esempio. Per altro, lo schema di Schoentjes si limita allo studio delle immagini presenti nei romanzi studiati e non ai personaggi o allo sviluppo della trama. Stima che le caratteristiche più fondamentali del romanzo di guerra non sono quelli che definiscono la finzione romanzesca (afferma per esempio che i personaggi hanno raramente un carattere complesso). L’approccio di questo storico garantisce una metodologia che consente una lettura intertestuale e globale della letteratura nata dalla prima guerra mondiale. La transizione della loro metodologia applicata alla finzione romanzesca verso il genere poetico per studiarne il contenuto è quindi facile e adeguato all’obbiettivo generale di questo lavoro. Uno studio della tematica del trauma nella poesia di guerra obbliga a definire gli elementi principali che sono propizi alla sua espressione. In un primo tempo, i temi strettamente legati agli aspetti che sono in legame con gli aspetti fondamentali del trauma la violenza, la delusione, la memoria, e poi l’influenza del contenuto traumatico sulla la forma della poesia. Già definire il trauma poi definirlo in relazione con temi che permettono di rivelarlo nella sua forma la più diretta. Esistono temi ricorrenti alla letteratura di guerra ma in questa descrizione, conservo solo i quelli in relazione con la definizione dell’evento traumatico cioè l’impatto irresistibile di un incidente passato e violente (una minaccia di morte) sulla natura dell’essere della vittima. Per esempio, la relazione tra il soldato e il suo fantasma femminile è un luogo comune di questa letteratura ma il tema non è interessante per descrivere le caratteristiche letterarie del trauma. La violenza è probabilmente l’elemento più evidente quando si parla del trauma della guerra in letteratura, però appare sotto forme particolari a causa della natura stessa della guerra: è l’eccesso e l’inconcepibile. Si sviluppa un vuoto nella percezione, la descrizione di un fallimento quando l’autore cerca di rappresentare direttamente la violenza del campo di battaglia. Confrontato a questo fallimento, l’autore tenta di combattere l’assenza di senso della guerra moderna e dopo l’azione, di dare une senso all’azione passata. Per altro, l’autore è obbligato di illustrare la sua condizione di agente di violenza a causa della presenza della figura del suo nemico. È spesso descritto nella letteratura di guerra come lo specchio delle azioni del soldato. Lo stereotipo letterario dell’introspezione prodotta da un narratore non è molto usato dall’autore per descrivere la sua azione come personaggio di soldato nelle finzioni romanzesche di guerra perciò il romanzo usa piuttosto il registro dei sensi e in particolare il senso della vista. È il senso più toccato dalla tempesta della violenza e questa scelta illustra la natura inconcepibili della guerra. L’assenza del narratore e l’uso del registro dei sensi esprimono anche la nozione dell’evento traumatico perché riassumono tutto il ruolo della vittima-soldato, condannato a essere la vittima passiva di uno spettacolo che si impone a lui. Il soldato vede quelli che muoiono a caso sempre di maniera impersonale secondo i bombardamenti o secondo gli attacchi col gas. Vede raramente quelli che uccidono o quelli che lui uccide. Il soldato è incapace di essere totalmente consapevole dei suoi atti e questo fatto afferma ancora la rappresentazione di un evento traumatico perché priva i sui attori di ragione. Il confronto tra l’invasione del campo di visione da una violenza onnipresente l’effrazione della mente della vittima è il tempo del trauma e la distanza dell’atto fisico della violenza supposta dalla guerra moderna (a causa della portata delle armi moderne) riassume il paradosso sensoriale della prima guerra mondiale. La guerra perturba particolarmente il senso della vista ma gli altri non sono neanche risparmiati e possono essere usati nella descrizione di una situazione di violenza estrema. In modo generale, si può affermare che le metafore sensoriali usate dall’autore illustrano una distanza tra la ragione capace di assimilare completamente la realtà intorno al soldato e della forza di una situazione inconcepibile dove tutti gli estremi coabitano. Gli attacchi col gas esemplificano questo legame tra la dimensione dei sensi e il fallimento di un tentativo della rappresentazione completa di una scena. Scene emblematico dei romanzi nati dalla prima guerra mondiale, questi episodi lasciano libera l’immaginazione dell’autore perché si costruiscono a partire di una perdita totale di riferimento per il soldato. Non è in grado di riconoscere razionalmente il mondo intorno a lui perché si trasforma tramite impressioni sensoriali la dimensione aquatica è una metafora frequente che illustra perdita di riferimento in favore dei sensi però è una prova psicologica per tutti i soldati perché la morte è dappertutto ed è informe (assomiglia alla nebbia). Gli uomini appaiono sotto forme alterate, sono esseri tra il vivo e la morte o deformati da una proboscide cioè dalla maschera a gas. Un altro esempio di questa perdita di riferimenti è la difficoltà d’identificare precisamente il colore o l’odore esatti della nebbia. Si ritrova anche qui il legame descritto prima tra i sensi e il fallimento di una rappresentazione razionale ma anche la dimensione creativa all’origine della rappresentazione particolare dell’eccesso della guerra. La sua rappresentazione s’accompagna della descrizione di una moltitudine e di una diversità di impressioni come tentativi di illustrare una situazione così incredibile. Il poeta Giuseppe Ungaretti è nato in Egitto nel 10 febbraio 1888 dove il suo padre è mandato per partecipare come sterratore alla costruzione del canale di Suez. Già in contatto con una diversità incredibile di nazionalità e di etnie durante la sua infanzia, il piccolo Ungaretti annuncia il gusto dell’Ungaretti giovane adulto in contatto con tutta la vita artistica di Parigi animato dalla volontà di diffondere la cultura italiana. Per altro, il suo destino di scrittore è già tracciato al momento della sua partenza di Egitto a causa del suo grande interesse per l’ambiente letterario ma anche da una ricerca estetica già iniziata per esempio, partecipa anche a numerosi periodici come scrittori di novelle e di prosa in generale. La sua vita vicino al deserto condiziona in parte tutto il resto della sua produzione. Si tratta del sentimento della morte (il silenzio del deserto), della terra promessa (l’oasi), dei limiti imposti dalla società e i modi di liberarsi attraverso la rivolta. Un esempio di un mondo poetico dove i contrari coabitano. La sua prima attività poetica in senso stretto inizia tardivamente. Comincia nelle trincee nel 1915 però non è neanche un poeta nata dalla guerra. Quest’infanzia condiziona il suo sentimento nei confronti della patria di suo padre, un sentimento composto di odio-amore all’immagine del nomade sempre lontano ma sempre legato da un rapporto di sangue. Non ha l’occasione di servire le armi a diciott’anni però “saprà presto che cosa sia la vita militare” . Prima del suo arruolamento, il poeta vive il suo primo periodo a Parigi dove tesse un contatto molto stretto con la società locale visto che conserverà molte amicizie dopo la guerra come con André Salmon e una influenza certa di precursori come Apollinaire. Per altro, è a Parigi che scriverà le sue prime poesie anche se questo periodo non dura lontano perché la guerra si trova già alle porte. Di ritorno in Italia e confrontato ai discorsi e all’estetica patriotica, Giuseppe Ungaretti reagisce come un uomo pacifista e un ribelle a questa dominazione del paesaggio letterario italiano in un movimento internazionale di ribellione tra la France e l’Italia. Pubblica già qualche riga di poesia nella rivista Lacerba in questo senso però non è anche un uomo che ricerca a essere famoso non cerca neanche a trovare la gloria facendo la guerra. Ungaretti si arruola come volontario nel 1915 e la poesia scritta nelle trincee costituisce come lo definisce Ungaretti il suo “tascapane spirituale”. È conservata dal suo amico Ettore Sera incontrato al fronte nel caso della sua morte, un amico che diventerà il suo editore un anno dopo. Quando quest’ultimo gli propone di pubblicarla, il poeta è indeciso tra la gioia di potere essere letto e la sua idea della poesia come “l’espressione di un sentimento personalissimo e incomunicabile”. Immagina la sua poesia come un diario come lo dice nella nota all’edizione posteriore a 1931. In effetti, la guerra e l’esperienza diretta delle trincee durante tre anni come semplice soldato fondano la sua identità come poeta e lo marcano al limite dell’ossessione . La sua poetica si esprime come se l’universalità della poesia potesse incarnarsi negli eventi personali del poeta. La guerra fomenta e approfondisce le tematiche della sua infanzia e della sua vita a Parigi per trasformare questa potenzialità estetica in un linguaggio universale. Per esempio, nell’emergenza del pericolo, bisogna dire il più possibile senza usare troppe parole. La guerra come evento prosaico ha un’impronta su un progetto poetico e la vita di un uomo, segna di una terribile impronta la sua opera poetica. Alla fine della guerra, l’esperienza compiuta da Ungaretti nel suo inizio era di vedere il popolo vincitore. La bibliografia di Giuseppe Ungaretti è molto complessa perché l’autore ha la particolarità di riscrivere di maniera permanente i suoi poemi nel corso delle diverse edizioni e di fare modificazioni nell’ordine e nell’appellazione delle sue raccolte. Fare una scelta è quindi decisivo nell’ambizione di avvicinare il più possibile la mente dell’artista alla fine della guerra. A contrario, non voglio escludere lavori più aneddotici a causa della loro assenza in qualunque edizione perché possono essere al loro livello rappresentativi dello stile dell’autore a quest’epoca.
Il Porto Sepolto
La raccolta doveva intitolarsi all’inizio Zona di guerra ma conserva il titolo Porto Sepolto della sua prima edizione del 1916 (un’edizione numerata di ottanta copie) benché sia provvisoria. Ho scelto la versione del 1922 inedita fino all’edizione la più completa a cura di Francesca Corvi che raggruppa la maggiore parte delle poesie nate dall’epoca di guerra. Il progetto del Porto Sepolto è stato scritto da Ungaretti “dai primi giorni della sua vita in trincea”, la sua riflessione è influenzata direttamente dalla guerra, dal suo confronto con l’assoluto della morte e con la tragedia dell’uomo nel massacro . L’autore lo pubblica durante una epoca di ricerca estetica in Italia perché la maggioranza degli artisti italiani cerca a rappresentare l’uomo moderno uscito dalla tragedia della prima guerra mondiale senza richiedere una estetica dannunziana o tardo-romantica. Ungaretti non ama la guerra però gli sembra che la guerra esista per distruggersi se stessa, un discorso che Ungaretti pronuncia poco prima della guerra e che assomiglia molto al discorso generale intorno agli eventi del 1914, all’ironia ambiente (il poeta loda l’intervento ma senza amare la guerra) .
Derniers jours
Queste poesie appartengono all’ultimo gruppo di poesie contenute nell’Allegria di Naufragi del 1919 e si dividono in due gruppi. Nata dalla volontà di Ungaretti di collocare la cultura italiana e quella francese attraverso una traduzione sorvegliata da Ungaretti stesso, Guerre è un progetto realizzato in francese perché è profondamente legata alle relazioni che esistono tra il poeta e la Francia. Il lettore si aspetta a leggere il ritratto di una società sul finire della guerra. P-L-M si iscrive nella stessa dinamica perché i poemi sono dedicati agli amici francesi del poeta.
Il poeta e il soldato
Uno dei suoi amici vicini, Robert Nichols, descrive la sua attitudine dopo la sua esperienza nelle trincee in Francia quando parla in pubblico, La guerra trasforma il giovane Sassoon ma anche il suo stile poetico. Prima, considera la poesia come un passatempo ma tre anni dopo, diventa il rappresentante della nuova generazione di poeti che criticano la politica guerriera del paese. Come Siegfried Sassoon (suo padre è un ricco commerciante), questi poeti appartengono alla parte della società la più alta dell’Inghilterra. Sono molto istruiti, diventano ufficiali nel fronte e godono di un prestigio incredibile come scrittori. La poesia in Inghilterra, al contrario della poesia in Francia e in Italia, si trova al centro delle attenzioni e riflette la mente della sua popolazione cioè l’impegno difficile del paese nella guerra . Prima dell’inizio della prima guerra mondiale, la società culturale inglese difende una guerra di “igiene”, una opinione condivisa dal discorso patriotico maggioritario in Europa. Nasce naturalmente un genere poetico inglese dedicato alla promozione dei vantaggi di un conflitto. Quest’ideologia nazionalista crea un nuovo soffio più romantico in Inghilterra che influenza anche Siegfried (il trionfo della vittima o l’innocenza vinta sono tematiche comuni per lui). Comincia la guerra come volontario col grado di secondo tenente ma non lo impedisce di vivere la guerra a corpo a corpo. Le sue prime righe sul fronte risalgono all’inizio del 1916 durante un episodio di grande freddo però non riflettono ancora la sua esperienza traumatica perché è confrontato alla guerra solo qualche mese più tardi.
A misura che la vera natura dei conflitti si svela, la prima immagine della guerra sviluppata dai poeti inglesi si trasforma e questo cambiamento tocca anche Sassoon. Nel caso del poeta, l’evoluzione si realizza dal cambiamento molto estremo tra il suo stile idilliaco di origine e lo stile satirico. Per altro, la guerra fonda la sua indignazione e il suo sentimento di contestazione della violenza che si ritrova in tutto il suo ritratto del paesaggio delle trincee, della ferocia del soldato che si trasforma in un assassino all’inferno d’acciaio. È ferito fisicamente alla testa dalla sua “pallottola di sangue” ed è evacuato per la terza volta e l’ultima volta del fronte e mentalmente dalle battaglie per finalmente sviluppare una personalità traumatizzata. Dopo la guerra, il poeta nutrisce un obbiettivo e una credenza: cambiare la mente della gente sulla guerra per mezzo della sua scrittura. Decide quindi di scrivere, di comunicare la sua esperienza; tuttavia non vuole introdurre una voce che denuncia o che commenta l’evento ma semplicemente mostrarlo nella sua natura più diretta. Si oppone ormai direttamente allo stile patriotico, alla sua forma grandiosa piena di effetti per creare un’immagine della guerra più “fedele” alla realtà, alla sua vita sul fronte. Per altro, reagisce nella vita pubblica con violenza all’incontro dell’ignoranza della gente che non vuole conoscere le disgrazie del fronte. Lavora sul peso delle parole con l’obbiettivo di fondare un’arte didattica ma è anche sempre attento al valore letterario della sua poesia. È possibile ritrovare un’ironia inerente alla descrizione dell’evento perché ricerca sempre le forme le più adattate per descriverlo. In effetti, rimpiangerà durante tutta la sua vita di essere ricordato solo come un “trench poet” perché descrive se stesso come un partecipante alla memoria matura dell’umanità .
The old Huntsman and Others poems
Pubblicata nel 1917, questa raccolta permette a Sassoon di diventare famoso come poeta attraverso tutta l’Europa. Conosce un sorprendente successo come lo giudica il poeta più tardi nella sua carriera e considera che la sua vera voce nasce solo nel 1924. La raccolta è caratterizzata da un gusto agrodolce perché mescola poesie nel suo stile antecedente (il fantasma del paradiso perduto) con i primi segni del suo stile guerriero. I poemi di Sassoon sono descritti come degli epigrammi da un giornalista del quotidiano Nation all’epoca della pubblicazione della raccolta. Giudica che i poemi dell’autore sono solo dedicati alla commemorazione all’evento. L’opinione di questo giornalista è molto estremo perché nega la faccia poetica del lavoro dell’autore però testimonia dell’importanza della tematica della guerra. Al contrario, il valore letterario è difeso dai poeti contemporanei come Wilfried Owen (un gran ammiratore del poeta ma anche del soldato-eroe Sassoon). Sassoon parla delle sue prime righe in The Old Huntsman come un tentativo di essere più consapevole delle cose che sono intorno a lui per farne della poesia. In questa ampia raccolta, ho scelto di studiare solo la parte chiamata War poems per limitare la quantità del corpus ma anche concentrarmi sui poemi che illustrano il suo rapporto con le trincee.
Counter-Attack ans Other poems
L’anno dopo The old Huntsman, lo “stile del paradiso” è quasi scomparso nel piccolo libro Counter-Attack che contiene solo 39 poemi. Rimangono ancora alcuni riferimenti alla sua nostalgia attraverso sogni lirici ma la realtà dura e il sacrificio inutile della guerra si impongono sempre più davanti agli occhi del poeta. I poemi di questa raccolta sono quindi più realistici e descrivono di maniera precisa gli orrori del fronte. Per altro, il personaggio di Sassoon prova difficoltà a ritrovarsi e a esprimersi nel caos della guerra e in tutta la sua indignazione . Il realismo si mescola con la satira e fa un appello verso i vantaggi e le attrattive della pace. I contemporanei del poeta lodano la sua capacità a far sentire disgusto per la guerra ma anche criticano i suoi momenti di ferocia che si oppongono alla loro definizione della poesia: raccogliere sentimenti per creare un’armonia.
Il freddo realismo dei poemi permette a Sassoon di allontanarsi della precedente raccolta e la sua ferocia è letta dai critici sia come un appello politico (o antropologico secondo Robert Nichols) sia come un nuovo stile il più adatto per dipingere il vero paesaggio della guerra.
Il poeta e il soldato
Salmon ha un rapporto ambivalente con la guerra perché la sua vita è strettamente legata all’esercito tuttavia la sua anima dimostra anche un sentimento profondamente pacifista. Conosce l’ambiente militare perché è reclutato tra il 1902 e 1905 in Francia ma ha anche frequentato cerchi anarchici durante la sua adolescenza a San Pietroburgo. Si ritrova quest’ambivalenza al momento della dichiarazione di guerra nel 1914 perché André è un volontario per la difesa della patria ma senza nutrire un sentimento nazionalista. L’ambizione che l’anima è quella della partecipazione all’era del suo tempo e quest’ambizione si ritrova anche nella sua poesia . André Salmon è un poeta dallo stile difficilmente identificabile perché si definisce prima come un poeta cosmopolita e la sua estetica si basa sulla soddisfazione del poeta a essere trasformato dai cambiamenti del mondo intorno a lui e di esserne il suo portavoce . Quest’estetica è molto vicina a quella del Theatrum Mundi: la tragedia del mondo si offre al poeta per confonderlo con la sua opera. Il poeta mette il suo ruolo “en abyme” per fare una rappresentazione della quotidianità. In effetti, André Salmon fa parte del movimento iniziato dai poeti del “Bateau Lavoir” e diventa uno degli avventurieri delle parole nuove che fanno entrare la loro quotidianità e i temi i più bassi nel campo della poesia. Sviluppò quindi uno sguardo che ha l’ambizione di inglobare tutta l’innocenza del mondo come lo descrive Pierre Berger tramite una poetica semplice dove tutti possono ritrovarsi. Il poeta è quello che realizza quest’operazione di sintesi perché è lo spettatore della storia (nella sua definizione la più ampia) che scorre davanti ai suoi occhi. Per altro, il poeta apre la finestra del poema su un mondo ricreato in modo ironico. La dimensione ironica è fondamentale nella poesia ma anche nella vita di Salmon. Nella sua scrittura, si traduce attraverso un avvicinamento di elementi contrari come la pace et la guerra, la violenza degli atti e l’innocenza proclamata dell’uomo. Quando rappresenta un sogno, la sua formulazione oscilla tra elementi realistici e un esoterismo assunto. Quest’ironia permette di figurare un mondo complesso a causa della coabitazione dei contrari, un mondo doppio fatto del peggio ma anche del meglio degli uomini. Quest’ambizione si ritrova nella sua raccolta epica Prikaz che narra la rivoluzione russa e dipinge una Russia complessa dove il fatto di cronaca coabita con un soffio epico. Per André Salmon, il paese prende aspetti mitici tanto il poeta è stato toccato dall’anima russa durante la sua adolescenza però la sua ambizione cosmopolita è nata a Parigi. Prima della Grande Guerra, Parigi è il luogo di predilezione di una transumanza degli artisti provenienti da tutta l’Europa e André Salmon è incluso in questa intellighenzia e la dipinge. Quando la guerra si scoppia, si presenta come volontario ma il suo arruolamento non si succede nelle migliori circostanze. Problemi amministrativi fanno che il povero soldato ha l’impressione di non trovare un posto alla sua misura tuttavia è esposto ai combattimenti della guerra durante 5 mesi. Comincia il 5 febbraio 1915 e il arruolamento si termina alla fine del mese di giugno a causa di un’incapacità fisica generale. Continuerà il suo dovere aiutando in un ospedale come infermiere. Il poeta è quindi un testimone diretto della guerra e del traumatismo umano dell’evento storico; la miscela della sua poetica e della sua esperienza della Grande Guerra prende la forma di un ritratto generale del periodo piuttosto che la descrizione della sua avventura personale. Il suo personaggio principale rimane l’uomo: quello che subisce, quello che provoca, quello che testimonia confrontato ai turbini della storia.
La memoria e l’identità
Attraverso la sua raccolta, Il porto sepolto, Giuseppe Ungaretti crea una immagine complessa del soggetto tanto la sua attenzione si focalizza su quest’ultimo nel suo confronto con la sua memoria. Il poema che apre Elegie e madrigali, la prima sezione della raccolta, ha la funzione di introdurre la tematica del soggetto e delle sue identità rispetto all’oggetto del suo sguardo. La complessità della figura del testimone illustrare le diverse posizioni che prende questo soggetto confrontato al suo passato nella poetica di Giuseppe Ungaretti. Il soggetto si mostra per la prima volta nel primo poema della raccolta che si chiama Le stagioni con l’ambizione di essere un osservatore della donna feconda, il tema centrale del poema la tematica generale della nascita che è presente in tutta la raccolta è anche legata alla posizione iniziale del poema. L’ambizione di avere una posizione lontana dall’azione come un testimone neutro viene contradetta immediatamente dall’apparizione del rivale, metafora del nemico che rappresenta una persona vicino al soggetto ma anche vicino alla sua natura di soldato. L’apparizione del rivale sorge davanti al soggetto “eccoti”. Iniziano le prime impressioni che non sono prodotte direttamente dal soggetto ma che si impongono “le rimembranze vocano”. Questo fatto e lo stile tipografico evocando un discorso che è pronunciato da un’altra voce del soggetto suggeriscono una figura di testimone che rompe la sua ambizione di razionalizzare il passato per diventare una vittima dell’evento. L’opposizione tra il passato si impone al soggetto passivo o questo soggetto vuole ricercare di maniera storica l’evento. L’opposizione crea così una figura ambivalente. Per esempio, il soggetto che guarda la sua città scomparire da un posto lontano, dal “bastimento” o al contrario, il bimbo che vuole sapere ma è intrecciato nel labirinto del suo cuore nel poema Perché . Il poema che sintetizza il meglio la diversità delle posizioni del testimone rispetto all’evento traumatico si chiama Paesaggio. Il poema si costruisce a partire da una giornata divisa in quattro parti che rappresentano quattro stati del soggetto confrontato all’evento passato. La prima parte della giornata è consacrata alla mattina e non è ancora possibile di identificare la persona che realizza i “freschi pensieri” e i pensieri si riflettono sul paesaggio che non ha nessuna forma. Dopo, il paesaggio comincia a formarsi durante il pomeriggio e la sera: si crea delle “distanti montagne” però appare il mistero e soprattutto una infinita malinconia. Durante la notte, tutto appare ormai confuso, incommensurabile nel tempo e rimane solo il segno delle cose che furono “si ascoltano i sibili dei treni partiti- come quelle voci l’anima è vaga”. Questi testimoni non permettono di ripresentare la verità nuda del passato ma anche dei protagonisti che lo compongono «e giacché non ci sono testimoni, ci appare, di sfuggita,- anche il nostro vero viso, stanco, deluso».
Passato e arte
Si ritrova soprattutto il movimento di andata e ritorno tra passato e presente nella prima parte della raccolta dove la tematica della donna di maniera appare. L’ultimo poema di questa parte, La donna scoperta , presenta una donna che non si offre al soggetto di maniera completa perché conserva ancora parti ombrosi “avrà le ombre più nude” alla fine. Nella raccolta, la donna appare come il simbolo della musa capricciosa della poesia: la tematica arcaica del madrigale fa riferimento a un passato mitico e la donna si identifica dai suoi gesti codificati “solennità”. Per altro, la madonna presente nel poema alla noia assomiglia alla fonte creativa della scrittura al mezzo della metafora dell’ornamento per un soggetto che si avvicina delle labbra della femminilità senza totalmente toccarle molte volte durante la raccolta. Il titolo del poema fa anche riferimento a un tempo delimitato, il tempo della noia e il poema si dedica a questo periodo. Nelle poesie di Ungaretti, la donna diventa una vera metafora di un arte arcaico questa metafora è ispirata dall’allegoria della musa perché è sempre legata a un passato difficile a addomesticare. La tematica delle labbra attaccata a questa metafora illustra questo legame. Per esempio, le labbra chiudono il poema Annientamento che descrive un paesaggio con quale il soggetto si confonde perché non è in grado di identificare la natura del paesaggio o di produrre una cronologia precisa. La descrizione del soggetto assomiglia allo stato della vittima di un trauma con un evento del suo passato che non può dominare (si ritrova tutta la sua forza con il riferimento sottile ma ben presente della battaglia dell’Isonzo) e rimane solo della cenere “Oggi/ come l’Isonzo/ di asfalto azzurro/ mi fisso/ nella cenere del greto” segni della distruzione precedente. Si vede bene le difficoltà espresse da Ungaretti nelle due raccolte a fissare una figura del soggetto che si posiziona di maniera fissa ed evidente rispetto al passato tra lo scrittore ispirato dalla musa ma non in grado di concentrarsi e di rivelare direttamente la violenza nuda del passato (preferisce dedicarsi alla scrittura delle “lettere piene d’amore” nel poema Veglia) e il soldato pieno di illusioni perché il suo corpo è troppo esposto dalle condizioni di violenza nel poema Pellegrinaggio (“In agguato/ in queste budella/ di macerie/ ore e ore/ ho strascicato/ la mia carcassa” ). La tematica dello svelamento proprio all’ambizione di curare un trauma al mezzo del confronto diretto della vittima al suo passato è assente del poema: la sua memoria è sempre dolorosa perché è piena d’illusioni insormontabili come per esempio nella stessa poesia: “Un riflettore/ di là/ mette un mare/ nella nebbia”. Alla fine, rimangono solo delusioni. La delusione del soggetto di non essere in grado di raggiungere completamente il passato che lo tormenta si esprime dalla frustrazione del bianco della pagina che vela il paesaggio e i segni della distruzione nel poema La terra. Il colore bianco diventa la metafora della creazione tramite una “mise en abyme” che esprime l’ambizione personale di dominare l’evento traumatico. La poesia permette l’espressione del segno perché si ritrova la figura della donna sempre in legame all’espressione artistica. Le sue labbra conservano il segno della tempesta di neve nel cielo (un fatto presente nel poema Dolina Notturna: il poema descrive la neve come un foglio dove si inscrivono i segni del passato, le rughe dell’adunco nomade (“questo nomade/adunco/ morbido di neve/ si lascia come/ una foglia/ accartocciata”). La tempesta del passato nel poema La terra è quella della creatura, simbolo dell’orrore, dell’anormalità nascosta portato alla luce nel poema Sono una creatura. Il poema confronta la violenza passata alla vita attuale («la morte si sconta vivendo») ma è finalmente incapace di mostrare il vero dolore (una incapacità dimostrata dalla descrizione molto precisa delle impressioni provocate dalla pietra per essere finalmente una pietra disanimata; manca l’essenziale): la frustrazione di non avvicinarsi al vero evento è sempre presente. La poesia di Ungaretti rappresenta un confronto con un mondo passato che agisce ancora durante il presente del soggetto ma accessibile solo al mezzo di segni che difformano o velano il vero paesaggio ferito.
Dissociazione
La conseguenza è importante quando bisogna integrare il suo passato alla sua identità e si trovano indici chiari di una dissociazione dell’identità dell’”io lirico” come per esempio quando parla a Ungaretti nel poema Pellegrinaggio “Ungaretti- uomo di penna”. In modo generale, il soggetto non può mai appropriarsi il suo passato poiché il processo di svelamento diretto non ha luogo però non impedisce al passato di sorgere sotto le forme le più inattese. Queste forme si riassumono sotto due opposizioni sempre presenti nelle due raccolte: da un latti il corpo e la mente e dall’altro l’età d’aurea della giovinezza e la violenza. Queste due opposizioni strutturano tutto Il porto Sepolto e la raccolta Derniers Jours e costruiscono diverse rappresentazioni del ricordo che si impongono al soggetto.
Il corpo e la mente
In primo luogo, l’opposizione tra il corpo e la mente lascia apparire un corpo che si distacca della volontà che deve muoverlo normalmente. Questa indipendenza dei sensi, della corporeità, si crea da un ritratto di un oggetto distante che il soggetto pena a toccare, a esperimentare direttamente. Il poema Alla noia illustra i tentativi di avvicinare la cosa che fugge, “l’esile corpo” dal soggetto grazie alle sue suppliche al tempo, terribile voragine tra lui e l’oggetto che si distrugge “l’esile corpo verso cui m’avvio”. Evoca la conseguenza la più grave della ferita passata che provoca l’incapacità presente del soggetto cioè il trauma fisico. Il carattere effimero delle cose sembra essere anche una tematica centrale nell’estetica di Ungaretti e a livello del tema del corpo, questa distruzione dal tempo appare dal fenomeno della stanchezza. La perdita delle forze del corpo è illustrata solo attraverso il passaggio del tempo che priva il soggetto di una parte di se stesso lasciata indietro come per esempio nella poesia Natale che presenta un «io» costretto da un corpo marcato dalla stagione di natale o Si porta (“si porta/ l’infinita/ occulta/ stanchezza/ di questa/ stagione”) Nella poetica di Ungaretti, la tematica della memoria appare solo tramite i segni i più difficili; provoca un’incapacità a riconoscerli nel presente. Anche se i segni del passato sono più abbondanti come nel lungo poema Malinconia (la poesia usa spesso del plurale come per esempio in questo verso: “abbondono dolce/ di corpi/ pesanti d’amaro), la riunione del corpo con il soggetto sembra essere difficile (“calante notturno abbandono/ di corpi a pien’anima”). La stanchezza si confonde con la morte in questa poesia, significa che l’essere non è più grado di controllare la sua memoria (“e se incontra la morte/ dorme soltanto”). D’altra parte, il ricordo lontano e difficile da interpretare è spesso presentato secondo la sua materialità la più evidente cioè il canale orale. Le caratteristiche di questo ricordo si assomigliano all’evocazione di una esperienza incosciente anche se è codificato dalla lingua. Il riferimento all’uso del canale orale per mantenere una comunicazione è già contenuto nella figura delle labbra però si estende anche alla materialità del ricordo. In questo caso, il ricordo si oppone alla figura della scrittura che permette di comunicarlo anche se suoi segni linguistici non corrispondono direttamente con l’evento (le labbra non possono mai essere addomesticate totalmente) perché l’orale non può essere ricuperato o unita definitivamente all’identità del soggetto. Il ricordo orale è il segno il più diretto della natura vera della violenza dell’evento come per esempio nel poema Di che reggimento che presenta un soldato implorando a causa della sua fragilità però è impossibile assimilare questa parola perduta («Fratello/ tremante parola/ nella notte/ come una foglia/ appena nata»). Il tema del ricordo orale inaccessibile appare anche nel poema Si chiamava che lega il canto a un’origine lontana o ancora nel poema O notte. Il titolo di questo poema presenta il segno evidente dell’oralità (la lettera “o” esprime la funzione vocativa) ma il poema descrive il passato come un’“età remota”, un’età talmente lontano che si avvicina alla morte del soggetto (“età remota/ perso in questa curva malinconia/ la morte sperde le lontananze”) .
Giovinezza e violenza
Una parte dell’importanza che prende la tematica del passato presente nella raccolta è provocata dalla descrizione di un’età aurea, quella dell’infanzia e in particolare quella della famiglia. Esiste un discorso che tematizza la nascita (in legame alla figura della donna) ma soprattutto un discorso che fa riferimento al mito dell’origine contadina del soggetto «Ben nato mi sento/ di gente di terra» nella poesia Trasfigurazione spesso in opposizione con la figura tipica dell’eroe nella letteratura europea dell’epoca. La nostalgia si presenta come l’espressione di un amore personale dell'»io» per la natura e il suo ordine naturale del tempo, un tematica molto cara al ritratto di un’età d’aurea. L’ironia del confronto della situazione idilliaca dell’infanzia e i segni della distruzione programmata della violenza tra passato dove regna l’allegria e la spensieratezza e il naufragio pronto a schiudersi di questa situazione allora appare si ritrova tutto l’argomento del poema Italia che si trova alla fine della raccolta. Finalmente, la nostalgia rinforza la distanza che esiste tra il soggetto e la comprensione e l’integrazione dei sui ricordi perché quest’età è spesso messa in contatto tramite un discorso ironico con la dura realtà della violenza e della distruzione della vita. Il poema Lucca crea questo discorso.
Il poema si costruisce tramite un gioco temporale tra la situazione dell’”io” durante la sua infanzia con allusioni forti a una vita consacrata alla terra e il futuro terribile che si annuncia all’orizzonte («Ora lo sento scorrere, caldo nelle mie vene, il sangue dei/ miei morti»). Il passato idealizzato di una infanzia “meravigliata” nel focolare in Africa che rappresenta il desiderio di raggiungere l’origine nella poetica di Ungaretti secondo Andrew Frisardi si descrive dalle poesie tramite una imitazione delle forme della narrazione. Quest’imitazione significa un’appropriazione più completa della memoria perché la forma suggerisce un’organizzazione coerente del passato secondo Shoshana Felman l’autore illustra la complessità di quest’organizzazione dalla prossimità formale del genere della narrativa con la storia. Alla fine del poema, la ricostruzione viene contaminata dal ricordo della morte all’orizzonte. Davanti alla pressione dell’evento traumatico, questo passato si distrugge per lasciare apparire una “belva”, segno dell’autodistruzione dell’uomo “rassegnarmi”. Questi poemi illustrano tutti i tratti della dissociazione descritta da Ellen Leigh Weber cioè il conflitto tra l’ambizione del soggetto di organizzare il suo passato e l’apparizione improvvisa di ricordi che perturba questo sforzo. Il tema del destino riassume il fallimento dell’ambizione del soggetto di appropriarsi la sua vita perché appare nel poema Lucca sotto la pressione dell’evento traumatico che sorge per restringere un uomo “avvinghiato come una belva”. Il tema del destino è citato dalle poesie su un modo ironico perché incarna una delusione che condanna l’essere a dimorare spettatore della sua vita. La forma dell’ironia situazionale dimostra un’opposizione tra il destino crudele che gioca con la vita degli uomini e l’appropriazione di una morte naturale illustrato dall’analogia all’ordine del tempo e alla molteplicità delle situazioni riunite nello stesso flusso. Questo suppone una forma di controllo dalla conoscenza del flusso naturale della vita. Questa conoscenza si illustra nella figura delle foglie nel poema O notte che sono condannate a cadere “foglie sorelle foglie/ ascolto il tuo lamento”. Questo fatto è sottointeso dal campo semantico dell’autunno e della gioventù persa “o gioventù/ folta stagione” . Questa morte sembra essere una promessa fata dallo stato naturale delle cose ma sottratto alla fine a causa dell’impossibilità del soggetto di integrare il suo passato, un fatto che struttura anche il poema Nostalgia «contemplo/ l’illimitato silenzio/ di una bimba”. Il poema Militaires costruisce l’opposizione ironica tra la perdita del controllo della sua vita e il flusso naturale. Ungaretti crea un discorso ironico che mette in contatto un flusso naturale previsibile e la minaccia permanente dell’autodistruzione. Quest’ironia si inscrive nel discorso ironico più globale che si sviluppa nei romanzi di guerra dell’epoca: i soldati subiscono la violenza senza essere in grado di ottenere la giustizia o di rivoltarsi e questo fatto segna la loro distruzione perché non hanno più controllo sul loro destino. Le poesie riprendono quest’opposizione perché confrontano la violenza onnipresente della guerra che si impone senza controllo e la morte naturale delle foglie durante la stagione dell’autunno. Il poema Si chiamava riassume questa distruzione di identità perché illustra il suicidio di “Moammed Sceab” dalla perdita della sua “patria”. La dissociazione che tocca il personaggio principale del poema condannato a essere a distanza della sua vera origine provoca la disintegrazione del suo essere. La sua origine è fortemente marcata dal registro orale e la distanza presa da Moammed di questo origine distrugge la sua identità. L’obbligazione di tacere il suo vero nome è un esempio di questo fatto nel poema “amò la Francia/ e mutò nome”. Per altro, la vita dell’uomo privato della sua origine è composta da dettagli chiari ma senza importanza come lo suppone la descrizione di una memoria marcata dal trauma. Infatti, la poesia descrive solo il numero dell’appartamento della vittima. L’appartamento si situa in un vicolo in discesa come se il poema si lasciasse portare dal ricordo. La nostalgia del passato è descritta come la separazione dolorosa dell’uomo con il suo passato precipitata da una caduta improvvisata, la violenza. Il poema Si chiamava realizza il cammino inverso del trauma normale perché nel poema il trauma si definisce come la conseguenza della rottura con l’infanzia. Il poema non illustra l’evento traumatico all’origine di questa separazione però illustra la rottura all’origine della distruzione di sé.
Il cammino inverso si spiega anche dal fatto che non è il soggetto che visse questa distruzione: il soggetto è solo il testimone che ricostruisce il percorso del trauma “e forse io solo/ so ancora/ che visse”. A questo livello, è facile affermare che Moammed Sceab diviene uno specchio dell'»io» perché sono uniti grazie a una memoria comune “l’ho accompagnato/ insieme alla padrona dell’albergo/ dove abitavamo”. La poesia gioca con i pronomi per creare una relazione tra le due personaggi che evoca la relazione tra il soldato e il suo nemico . La rottura personale dell’”io” con la sua memoria si illustra bene nel poema Perché: dipinge la violenza dell’evento traumatico che separa in questo caso il soggetto del suo passato e della sua vera identità “il cuore”. In questo poema, creare un discorso per organizzare la conoscenza del passato è impossibile perché il soggetto non è ancora al centro della violenza il suo cuore in ascoltazione si è appiattito che distrugge tutti i segni del corso normale del mondo “del sasso battuto/ dell’improvvisata strada di guerra” e il soggetto deve ancora prendere la misura della perdita di sé, della rottura “Ha bisogno di qualche ristoro/ il mio buio cuore disperso”. La morte la più intollerabile descritta nelle due raccolte non è la morte naturale però è la distruzione del legame dell’essere con la sua memoria cioè la morte sociale come la descrivono Antoine Destemberg e Benjamin Moulet . È necessario riassumere brevemente l’estetica di Ungaretti quando si tratta di una lettura traumatica della sua opera. Il trauma poetico di Ungaretti non è quello di una riproduzione estetica dell’evento traumatico che ingloba tutta l’espressione o la cancella ma è un’osservazione degli effetti sul soggetto che lotta contro le sue conseguenze nel tempo, il trauma stesso. La prima impressione creata dalla sua poesia scritta dopo la guerra è un confronto difficile del soggetto con il suo passato, con certi eventi che sia si impongono a gli sia lui permettono di osservarli da lontano senza identificarli strettamente. Questo confronto difficile impone alla figura del passato tratti difficile da identificare o da integrare cioè una dissociazione. La problematicità di integrare il suo passato si presenta sotto due visi diversi: il corpo e la violenza. La soluzione alla dissociazione del soggetto con la sua esperienza appare tra la pluralità delle voci che si uniscono non in un’umanità ma in un discorso, una narrazione dell’evento. Anche se questo discorso non corrisponde mai alla realtà dell’evento passato (l’esempio il più chiaro di questo fatto si ritrova nel poema Veglia quando il poeta scrive lettere d’amore di fronte al dolore del sodato), permette di tracciare i bordi del buco nero dalla ripetizione, dalla diversità delle identità. La “mise en abyme” del poeta permette qua di unire il “grumo di sogni” sotto la stessa voce anche se questa voce non permette di rivelare la violenza nuda. L’evento traumatico nasce nella poesia di Ungaretti indirettamente perché appare solo come un trauma presente nell’identità del soggetto. Ungaretti e l’incontro con la pittura come sappiamo egli approdò a Parigi nel 1912, in un momento in cui la capitale europea era all’apice dell’effervescenza artistica e culturale. L’incontro con le avanguardie internazionali segnò profondamente il suo itinerario esistenziale, affascinato dalle sperimentazioni e dalle tendenze artistiche. Un soggiorno cruciale, che condizionò il suo sguardo sulle arti, in particolare sulla pittura, che per lui era semplicemente una diversa espressione della poesia: “chiamo poeta qualsiasi artista”. Le frequentazioni parigine, alla vigilia della guerra, furono per lui estremamente significative così come sottolinea in Vita d’un uomo. “Degli incontri che feci a Parigi in quel periodo o nel dopoguerra furono notevoli quelli con Soffici e Palazzeschi e gli altri futuristi, con Boccioni, con Carrà, con Marinetti; quelli con Braque e Picasso, già cubisti, o con Delaunay, che si diceva pittore orfico; quelli con Péguy, con Sorel, con Bédier, con Bergson. Tutti mi facevano mille feste immeritate nell’incontrarmi, delle quali ero sempre molto sorpreso. Furono incontri con un tipo d’arte e con un tipo di moralità che hanno avuto decisiva importanza nella mia formazione generale, e, naturalmente, nella mia poesia.” Molti anni dopo, a Roma, si confrontò, invece, con artisti italiani quali Dorazio, Capogrossi e Burri. L’intensità di questi incontri, da Parigi a Roma, lo rese molto più che un semplice testimone privilegiato di un’epoca artistica senza pari: Ungaretti sviluppò la propria poetica nella continuità dei linguaggi, alimentando una profonda fascinazione per la pittura e rendendo così possibile un vero e proprio incontro tra le arti. In un saggio del 1927, Commemorazione del futurismo, Ungaretti afferma che il principale errore dei futuristi è stata la «cieca fiducia nella materia grezza, nella sensazione, nella materia caotica». I futuristi, «invocando l’esempio della macchina, e cioè di una materia formata» hanno al contrario prodotto «parole in libertà», ovvero pura materia e si sono dunque «dannati a non veder della realtà che l’aspetto estemporaneo, provvisorio, futile». Eppure perché Ungaretti, che rimprovera ai futuristi di ridursi alla pura materia, si interessa profondamente agli artisti informali, che fondano la loro arte appunto sull’attenzione alla pura materia, al puro gesto o al puro segno? Una possibile risposta è che, come Michelangelo o i barocchi tanto amati dal poeta, gli informali avvertono la sofferenza della materia, l’ossessione della materia «innocente», ovvero senza memoria, senza forma, nell’epoca a loro contemporanea. Non è una scelta, afferma Argan, e qui si pone una differenza fondamentale con i futuristi: Marinetti e altri avevano deciso di ignorare volontariamente il peso della memoria e delle forme, di affidarsi, direbbe Ungaretti, all’«innocenza», ovvero alla distruzione della tradizione, come fonte di nuova salvezza. Al contrario, secondo Ungaretti, l’artista e il poeta contemporanei fanno davvero arte solo quando mostrano la sofferenza insita nello scegliere consapevolmente di abbracciare un modo di espressione in realtà imposto dalla condizione storica. Gli informali e Ungaretti stesso sanno dunque che attingere nuovamente alle forme date dalla tradizione non è effettivamente possibile, nel nostro tempo, poiché siamo stati sprofondati, dall’eccesso di memoria, in un’innocenza che è soltanto un immenso buio. La mancanza di forma delle poetiche informali è allora una protesta per il tradimento delle forme, ovvero delle ideologie, e prima fra tutte l’ideologia della razionalità, il razionalismo positivista che prometteva un progresso tecnico infinito tradotto simultaneamente in un progresso conoscitivo ed esperienziale. Anche l’arte rifletteva in passato questa fiducia nell’ordinamento razionale della società: la ricerca della forma era dunque ricerca del principio ordinatore del mondo, individuabile infine nella razionalità. La razionalità era stata la forma di pensiero fondamentale in occidente eppure essa si era arresa alla follia del totalitarismo; peggio ancora, aveva dato luogo ai primi tentativi di sterminio razionalizzato e sistematico della storia umana. Infine, a conclusione della seconda guerra mondiale, la razionalità, su cui solo apparentemente si basa la ricerca tecnologica, era riuscita a creare uno strumento in grado di eliminare del tutto la vita umana sulla Terra. Il tradimento della razionalità diventa negli anni uno dei cardini del pensiero ungarettiano: la razionalità si incarna nella memoria umana e sostituisce lo spirito sugli altari rendendosi un nuovo dogma. Per reazione l’uomo, «esausto dal suo sforzo temerario di memoria, e dalla dannata superbia che gliene veniva» si rifugia nell’oscurità del proprio io, negli abissi del puro istinto legato alla materia bruta, non razionale né logicamente strutturabile: è il predominio allora dell’«innocenza». Tuttavia tanto l’eccesso di innocenza quanto l’eccesso di memoria sono catene per lo spirito di un uomo non più in equilibrio con se stesso, vere e proprie ossessioni. In arte questo soverchiamento viene espresso dagli artisti attraverso «chiazze ossessive, o per via d’ideogrammi, o per via di spolpamenti spettrali della materia o manifestato .. in automatismi». In queste parole Ungaretti descrive i tre filoni principali dell’arte informale, l’arte come segno illegibile, come materia ‘disanimata’ e come gesto automatico: nella riflessione ungarettiana compaiono in effetti soprattutto tre artisti informali che si potrebbero forse considerare come i rappresentanti perfetti delle tre correnti, ovvero Fautrier per la materia svuotata di forma, Michaux per l’ideogramma e Burri per il gesto (non) automatico. La questione degli automatismi è d’altro canto cruciale poiché, volendo sottolineare la natura di protesta dell’arte contemporanea, Ungaretti decide di svalutare qualsiasi arte, sia pittorica sia poetica, che si affidi ciecamente all’automatismo, diffidando quindi tanto degli automatismi psichici del dada quanto della scrittura automatica surrealista. Ecco quindi che a Pollock e all’action painting americano Ungaretti preferisce ad esempio il francese Fautrier, come afferma anche nella prefazione a un volume di Palma Bucarelli: «egli è un informale che non si abbandona come un Pollock, o un Wols, o chi vorrete, a un automatismo psichico, ma che ricorre a un operare voluto. I risultati che ottiene, gli effetti che raggiunge non sono frutto fortuito di sonnambulici dettati, ma di lucidità di intelletto». L’informale Fautrier non lascia che sia un automatismo a disporre la materia della sua opera, né ritiene che la materia senza forma debba necessariamente essere strutturata da un principio psichico inconscio. L’abbandono delle forme tradizionali quindi non significa affatto cedere all’irrazionalismo. Come scrive Nello Ponente: “se la ragione infatti non doveva intervenire in senso positivo, non c’era bisogno alcuno di far intervenire il suo contrario, l’impulso inconscio”. Nella serie degli Otages Fautrier arriva addirittura a proporre una pittura ancora sicuramente incentrata sulla materia ma non più priva di tema. L’uomo privato della forma e dunque della figura, ridotto a puro impasto di materia, è un uomo reso ostaggio della sua stessa carne, eppure, anche così ridotto, sembra esprimere la sua protesta, aspirare a una liberazione dalla materia, al riconoscimento in una nuova forma. Il soverchiamento della materia conduce, per paradosso, quasi all’annullamento della materia: secondo Ponente accade spesso negli Informali che «la materia si è posta come in contraddizione con se stessa e sembrava che quasi tendesse alla sua stessa abolizione». La ricerca artistica di Fautrier è rivolta a un oggetto artistico che in qualche modo renda misurabili e ricolleghi al soggetto umano le nuove dimensioni di spazio e tempo come sono esperite nella contemporaneità. È infatti la percezione odierna di spazio e tempo ad aver messo in crisi la forma come espressione misurabile e razionale dell’uomo. Tra le forme in crisi c’è ovviamente anche la poesia come forma del linguaggio, al punto che il poeta Ungaretti come ogni altro poeta moderno è costretto a interrogarsi sulla possibilità stessa di poesia nel nostro tempo. Ogni epoca, secondo il poeta, deve necessariamente trovare un nuovo linguaggio per la propria poesia, un linguaggio che «non è la poesia. Ma ne è come il corpo all’anima» e, cercando un linguaggio che possa sussistere anche senza forma, Ungaretti riscopre il frammento poetico. Prosegue quindi il suo discorso critico sulle tracce di Leopardi, il quale “rifece in modo oracolare terribile come è buia la verità frammenti di sue poesie dell’adolescenza, dando loro intensissimo l’effetto di frattura abissale all’origine, di frattura abissale da ultimo”. A partire da Leopardi la forma della poesia può essere solo un «inciso allarme tra due catastrofi», attraverso un «linguaggio macellato ma il più ricco di indeterminatezza», poiché «noi che non percepiamo le mutazioni della realtà, per la fretta eccessiva nella quale esse oggi avvengono fuori e dentro di noi, se non per minime particole di frammenti, non possiamo, se osiamo ancora scrivere poesia, se non ricorrere a espressioni mutile». Nel saggio L’ambizione dell’avanguardia, in cui riprende alcune argomentazioni di un suo saggio precedente, ovvero Naufragio senza fine, Ungaretti ribadisce come a suo avviso la macchina non possa essere considerata qualcosa di “innocente”, ovvero vitalistico e istintivo come avevano affermato i futuristi. Questi avevano finito per fare della macchina l’emblema della materia istintuale contro la forma, simbolo della tradizione ormai invecchiata. Al contrario la macchina è per Ungaretti «una materia formata, severamente logica nell’ubbidienza di ogni minima fibra a un ordine complessivo: la macchina è il risultato di una catena millenaria non è materia caotica nella macchina si attuano prodigi di metrica». In quanto materia metricamente informata e regolata, anche la macchina può avere un valore estetico ed è il merito che Ungaretti riconosceva a Marinetti già in Commemorazione del futurismo eppure Ungaretti vede nella macchina un paradosso: essa è nata dalla misurazione e accorta disposizione della materia naturale ma ad un certo punto essa diventa, nell’immaginario umano, innaturale e senza misura. «C’è in esse [nelle macchine] un conflitto tra metrica e natura; ed essere umani è invece il disperante tentativo di mettere in armonia natura e metrica di continuo viviamo l’acceleramento portato alla storia dalla macchina, la precarietà che ne viene agli istituti sociali, e al linguaggio che non sa più come fare per avere qualche durata». La macchina è uno strumento che ha realizzato alcune grandi fantasie dell’uomo Ungaretti cita il volo nello spazio, la «parola udita senza ostacoli di distanza temporale o spaziale» ciononostante realizzandole le ha in qualche modo sottratte all’uomo, come se le avesse realizzate autonomamente. Ungaretti si chiede allora «Quale sforzo dovrà sempre più fare per ridare valore sacro alla vita e alla morte? come potrà l’uomo di fronte a tali miracoli sentirsi ancora grande? Come farà l’uomo a non essere disumanizzato dalla macchina?» Inaspettatamente, a fronte di queste domande, Ungaretti risponde che gli «sforzi folli» che occorrono per ottenere questo risultato sono stati compiuti oggi dagli artisti migliori e, tra gli altri, conclude con i nomi di Fautrier e Burri. Gli informali dunque, secondo Ungaretti, riescono da un lato a protestare contro il soverchiamento della materia, dall’altro a esprimere correttamente questa materia, giungendo infine a riconciliare i due grandi poli della riflessione ungarettiana, ovvero innocenza e memoria. La materia di Fautrier non è più una materia tecnologicamente misurata e formata, la materia-macchina cara ai futuristi e non è nemmeno una materia «totalmente disanimata», correlativo di un uomo ormai irrimediabilmente alienato e reificato. È invece una materia che attende nuove possibilità di forma e dunque di memoria complessiva e di tradizione. Esprimere le ragioni della materia abolendo la forma non significa in effetti, per gli informali, eliminare ogni possibilità di forma ma semplicemente mettere da parte le forme tradizionali per lasciare che nuove ipotesi di forma si sviluppino spontaneamente. Come scrive Francesco Arcangeli «l’informale non è il senza forma ma la forma non premeditata», quindi non razionale e non inquinata da quell’eccesso di memoria che ha reso la razionalità colpevole. Il caos della materia informale diventa dunque opportunità di scoprire nuove forme. Senza più un destino razionalmente prefissato ci si concede la possibilità di immaginare nuovi destini. Il processo dialettico tra materia e forma non è però indolore, come abbiamo visto, ed è per questo che Ungaretti sviluppa un profondo interesse per Burri e il suo «manifestare l’oppressione della soverchiante materia», grazie ai «tentativi d’evasione dalla materia e di liberazione dell’anima», sempre presenti nelle sue opere. Al contrario di Fautrier, Burri non vuole che la materia sia aperta all’acquisizione futura di nuove forme, né desidera conservare al fondo della pittura un oggetto naturale. Burri utilizza volutamente materia non predisposta alla sublimazione cioè stracci, sacchi, lamiere, plastiche ecc.: in queste materie ‘ultime’, in questi rottami e spazzature, l’immaginazione non si impiglia facilmente e dunque non è possibile cercare una nuova forma nella materia caotica. D’altronde, secondo Calvesi: «Ungaretti aveva ben chiaro come la pittura, tra tutte le arti, è già l’arte ‘meno adatta ad astrazioni per la stessa specie delle materie a cui è legata: polveri intrugliate’ ma per avvertire come su questa bruta materialità possa e debba insistere ‘l’influenza trasfiguratrice della mente’», dove però si deve anche avvertire che «trasfigurare non è astrarre». Burri nelle sue combustioni, nei suoi sacchi, parla da un lato della materia che non riesce a sublimarsi più attraverso la trasfigurazione dell’attività artistica (pur elevandosi ancora in un diverso senso); d’altra parte Burri sta parlando del ‘materiale umano’, dell’esistenza dolorosa di uomini soggetti alla brutalità della storia e della guerra. Scrive Argan che «è certo possibile individuare nelle lacerazioni e ferite della materia un’iconografia della sofferenza e, al di là di essa, un principio formale o di struttura (la coscienza) che l’offesa e lo strazio della materia (la carne) non riesce a cancellare». Quello che affascina Ungaretti è dunque la rappresentazione tragica della materia: questa materia bruciata, forata, lacerata e variamente ricombinata non è altro che l’uomo stesso ridotto a materia. Non a oggetto né ad automa ma a pura e semplice carne disanimata. La follia della razionalità al servizio dei totalitarismi l’ha ridotta a questo stato: inferiore anche alla macchina poiché la macchina ha una funzione e ha dunque un destino. L’uomo invece no. Nel primo numero della rivista «Civiltà delle Macchine» Ungaretti pubblica una Lettera a Leonardo Sinisgalli per rispondere alla sua domanda su «quali riflessioni vengano suggerite dal progresso moderno, irrefrenabile, della macchina». Questo testo viene poi ripubblicato, con minime varianti, con il titolo L’ambizione dell’avanguardia, su «Il Verri» dell’ottobre 1963 ad essere cassata è sostanzialmente una parte in cui il poeta, parlando della possibilità di ispirazione poetica in una civiltà dominata dalla macchina, istituisce un interessante parallelismo tra Fautrier e Burri. Sembra in effetti che il poeta stia confondendo il campo di prigionia americano in cui Burri fu rinchiuso durante la guerra con i campi di concentramento nazisti ma non importa: l’artista contemporaneo è, sempre e inevitabilmente, un disperato testimone del valore della libertà di spirito in mezzo alla prigionia della materia. Tornando ora a una prosa che abbiamo già esaminato, Difficoltà della poesia, possiamo ricordare come uno dei modi che l’artista contemporaneo ha, secondo Ungaretti, per esprimere il soverchiamento della materia sia attraverso «ideogrammi», ovvero segni senza materia, secondo un procedimento opposto eppure coincidente nel risultato a quelli di Fautrier e Burri. Il segno serviva infatti tradizionalmente a contenere la materia in una forma, per esempio a delimitare parti di diversa materia colorata affinché assomigliassero a oggetti della realtà da rappresentare. Se Fautrier aveva presentato una materia non racchiusa in nessun limite, Michaux al contrario ci mostra un segno senza più materia, quasi “spolpato” direbbe Ungaretti, ridotto a ideogramma. È noto l’interesse di Michaux per le scritture orientali ma in effetti questo interesse derivava dal fatto che Michaux non sapeva leggere gli ideogrammi cinesi o giapponesi. Per lui erano quindi segni senza significato, o per meglio dire con tutti quei residui di significato che l’immaginazione può attribuire loro attraverso un procedimento diciamo così pittografico. L’interesse di Ungaretti per Michaux deriva quindi dal fatto che l’artista utilizza un linguaggio (quello dei segni pittorici) svuotandolo del suo significato tradizionale ma lasciandolo al contempo aperto all’acquisizione di nuovi significati. Ciò in poesia è più difficile perché il segno poetico minimo, ovvero la parola, non può rinunciare a quella che Montale definiva «la pretesa di significare». Eppure come Ungaretti scrive nel Delle parole estranee e del sogno d’un universo di Michaux e forse anche mio, le nostre parole sembrano non servirci più, non significare nulla che riguardi la nostra profondità. Per usare ancora il linguaggio occorre dunque spogliare le parole della loro funzione di segni e per farlo, secondo Ungaretti, occorre aumentare la loro indeterminatezza come aveva già fatto Leopardi. Leopardi, che già distingueva tra parola e termine, il termine essendo determinato, oggettuale, scientifico, la parola invece essendo indeterminata, polisemica e poetica, attraverso l’indeterminatezza disarticolava il discorso e riusciva quindi a togliere al linguaggio il suo valore tradizionale di segno. Il poeta dava alla parola «al di là del suo significato preciso, quel margine di illusione infinita nella quale potessero vagare la fantasia e il sentimento, quel margine dove la parola fattasi poesia contiene l’inespresso inesprimibile». Sono diversi i sistemi con cui si può aumentare l’indeterminatezza delle parole e si potrebbero disporre in una gamma che va dalla totale assenza di significato alla presupposta precisione assoluta di un termine tecnico. La parola del tutto non significante è ad esempio quella della poesia metasemantica, dove pure il neologismo scherzoso e senza significato il «lonfo» acquisisce un senso dal contesto e dall’accostamento con parole e altre strutture linguistiche significanti. Parola significante ma impastata di puro materiale sonoro «nel centro di quei tam-tuuumb spiaccicati» è l’onomatopea, di cui Ungaretti segnalava l’abuso nei futuristi. Infine è possibile l’uso della parola come segno significante ma inserita in una struttura che ne rende complicata la comprensione, come nel caso di molti versi dello stesso Ungaretti: «dondolo di ali in fumo / mozza il silenzio degli occhi» oppure «gracili arbusti, ciglia – di celato bisbiglio». La coincidenza del procedimento criptico di Michaux con l’Ungaretti più ermetico è chiaro. La parola non è più rappresentazione ma oggetto naturale, cresciuto secondo sue proprie regole, talvolta inesplicabili, esattamente come Ungaretti afferma dell’opera d’arte informale. Nel caso di Fautrier ad esempio: «non sono però i suoi dipinti imitazioni della natura ma sono come fossero vita vivente della natura, particolari casi nuovi, indimenticabili, della natura stessa» Il percorso della mostra non parte dal piano terra del Museo di Santa Chiara ma da una vera e propria sala cinema da cento posti creata al terzo e ultimo piano del museo. È quello lo spazio di avvio di uno straordinario viaggio tra letteratura, storia e pittura. Un docufilm di Marco Goldin, della durata di quaranta minuti, appositamente realizzato, racconta la storia di Ungaretti sul Carso. Un grande schermo accoglie immagini straordinarie, da quelle d’epoca a tutte quelle girate con i droni sul Carso nelle varie stagioni, fino agli interventi girati proprio sul Carso con lo stesso Goldin da solo o in dialogo con Fabi. Per finire con gli spezzoni, concessi dalle Teche RAI, dedicati agli interventi dello stesso Ungaretti negli anni sessanta del Novecento. Alessandro Trettenero ha animato e montato il docufilm, con la straordinaria finalizzazione audio di Federico Pelle. Dunque, un vero e proprio mini-film che servirà al visitatore per conoscere e comprendere il senso della storia che la mostra vuole raccontare. Nel film si vedono anche, con sensibilissime e poetiche animazioni, alcuni dei quadri che dodici pittori italiani hanno realizzato sui luoghi di Ungaretti sul Carso. I loro quadri, un centinaio, tutti realizzati appositamente per la mostra, sono presenti a ognuno dei tre piani sottostanti del museo goriziano, costituendo quel filo da non smarrire mai. Questi i nomi degli artisti: Laura Barbarini, Graziella Da Gioz, Franco Dugo, Giovanni Frangi, Andrea Martinelli, Matteo Massagrande, Francesco Michielin, Cesare Mirabella, Alessandro Papetti, Franco Polizzi, Francesco Stefanini, Alessandro Verdi. Lasciato l’ultimo piano del museo, il percorso è quindi a scendere. Al piano secondo, in una sala a questo riservata, inizia l’approfondimento letterario. Su un grande schermo, il video con la registrazione di un colloquio tra Paolo Ruffilli e Marco Goldin dedicato a Il porto sepolto. Negli spazi più ampi dello stesso secondo piano inizia il viaggio attraverso la pittura dei dodici artisti, mentre nella prima di diverse teche sono esposti gli apparati ricetrasmittenti sia italiani sia austro-ungarici legati alla guerra carsica, per tenere insieme lo spirito della poesia con la drammatica fisicità della guerra. Al piano primo, in una sala corrispondente a quella del piano superiore, su un altro grande schermo si vedono e ascoltano tutti gli approfondimenti di natura storica e militare, con i testi di Lucio Fabi e la voce narrante di Gilberto Colla. Le battaglie sul Carso vengono analizzate sempre con riferimento alla partecipazione di Ungaretti alla vita di trincea e di retrovia. Negli spazi più ampi del primo piano, e poi del piano terra, prosegue il viaggio nella pittura dei luoghi sul Carso, ma anche con alcune straordinarie opere che ritraggono Ungaretti, appositamente realizzate. Al centro della sala al primo piano altri oggetti e uniformi continuano a dare il senso della verità della guerra accanto alla poesia, grazie alla collaborazione con il Museo della Grande guerra di Gorizia e con alcune collezioni private. Al piano terra anche una ricostruzione, in una suggestiva, alta abside, di un campo di battaglia. Sempre al piano terra, viene esposta una preziosissima copia de Il porto sepolto, quella vidimata dalla Procura del Re, con timbro datato 24 dicembre 1916. Il libro, restaurato per questa circostanza, così come la copia numero 1 esposta invece a Monfalcone, viene prestata dalla Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi” di Udine. Insomma, colore della bella pittura, il suo silenzio, con il fragore delle battaglie in una grande mostra multidisciplinare. Ad accompagnare un simile, così vasto percorso è anche un libro, edito da Linea d’ombra e curato da Marco Goldin. Un volume ricchissimo in cui tutti gli studiosi coinvolti nel progetto affrontano nei loro saggi gli aspetti della vicenda ungarettiana sul Carso. Ovviamente vi è compresa anche la nutrita parte pittorica, con un lungo saggio di Marco Goldin, la riproduzione di ogni quadro esposto e una riflessione su Ungaretti da parte di ognuno dei dodici artisti. Ugualmente è inserita nel libro anche tutta la sezione di mostra che si svolge a Monfalcone, dunque quella legata all’arte nelle Venezie al tempo di Ungaretti sul Carso, gli anni dieci del Novecento, con un saggio di Alessandro Del Puppo.
Museo di Santa Chiara Gorizia
Ungaretti poeta e soldato. Il Carso e l’anima del mondo. Poesia -pittura- storia
dal Mercoledì al Venerdì dalle ore 9.00 alle ore 13.00 e dalle ore 14.00 alle ore 18.00
Sabato dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Domenica dalle ore 9.00 alle ore 18.00
Lunedì e Martedì Chiuso