Giovanni Cardone
La datazione di Paolo V sotto il quadro delle Sette Opere di Misericordia di Caravaggio della chiesa di S. Maria della Misericordia del Pio Monte omonimo di Napoli è l’anno 1606 . Tra il 6 ottobre e l’11 novembre del 1606 Caravaggio è a Napoli e lavora alla committenza Radolovich del documento del Banco di S. Eligio di una pala che dovrà consegnare nel mese di dicembre. Nella descrizione espressa dal committente questa pala doveva essere a sviluppo verticale, da questo memento nasce l’opera che ha saputo ben raccontare Napoli, ovvero le Sette Opere di Misericordia. Non poche perplessità ha destato l’intestazione della pagina ‘Venezia’ del Registro del Banco napoletano di S. Eligio, che riporta l’apertura di credito al pittore lombardo da parte del dalmata Radolovich alla data in cui la Fondazione pauperistica apparteneva alla nazione spagnola di Napoli, dedita soprattutto all’assistenza ospedaliera, dei moribondi e dei conservatori femminili, ma facendo sempre riferimento alla nazione veneziana dei depositi particolari, quando la gestione dei fondi di credito era agli albori della moderna istituzione bancaria. Il ‘Locus sigilli’ dell’epigrafe riporta la firma di ‘M. Ursinus Barbianus’, che, per quanto leggibile, non consente un’obbiettiva identificazione del secretario apostolico che promulgo’ il decreto pontificio dell’opera caritatevole napoletana, conservando perciò la flagranza del documento apocrifo che trascrive lapidariamente il Breve pontificio, a sua volta conservato in copia, della prerogativa concessa fin dal 15 novembre 1605 vi è approvato l’ufficio caritatevole corporale della misericordia in cui doveva concretarsi il deposito del censo di Napoli e non solo il titolo, ma il privilegio all’istituzione del Pio Monte di devolvere i lasciti e le elemosine devote in beneficenza. Il lapidario documento è murato dietro all’altare maggiore della chiesa di Nostra Signora della Misericordia del Pio Monte, dove non prima del 1661, ad opera dell’architetto della Confraternita Francesco Antonio Picchiatti, con la ricostruzione nello stato attuale della Cappella di S. Maria della Misericordia che vi era stata edificata una prima volta nel 1605 , sarà nuovamente collocato il quadro delle Sette Opere di Misericordia di Caravaggio, destinato all’altare maggiore. La sua esistenza, se non prova che i due documenti, pala ed epigrafe, fossero stati originariamente l’uno accanto all’altro, conferma una concomitanza cronologica tra la pubblicazione nella chiesa della prerogativa concessa alla fondazione dal pontefice neo-eletto, la principale committenza artistica attinente il luogo di culto ed il soggetto ‘votivo’ richiesto al pittore da un donatore. Statuita nel 1601 nella segretezza (Vangelo di Matteo, 6, 1-4) se non nell’anonimato di prestatori ed elemosinieri, l’opera caritatevole alla quale furono aderenti con lasciti non soltanto accademici, ma ospedalieri, banchieri, commercianti e feudatari del Regno, si avvaleva di un’indulgenza e di una sorta di tributo fiscale agevolato elargito ai suoi sostenitori in virtù dei fondi raccolti in favore dell’Ospedale degli Incurabili e di altre opere caritatevoli intraprese nella città e nel territorio, infine riconosciuta anche dall’assenso ai suoi governatori del Vicerè di Napoli Juan Alonso Pimentel de Herrera Conte di Benavente. Radolovich, omonimo del cardinale Niccolò Radolovich di Polignano a mare in Puglia, è testimoniato fra i suoi membri per questa commissione. Caravaggio (forse entrato a Napoli a bordo di una delle galee di sua proprietà) sarà pagato per la pala dell’altare maggiore da Tiberio del Pezzo, governatore per i defunti e per il patrimonio del Monte di Misericordia ; una cedola di entrata ed uscita per il quadro dell’altare maggiore della chiesa del Registro Primo delle Declaratorie dei Conti di Amministrazione dei Governatori del Pio Monte della Misericordia, annotati dal 22 marzo 1604 al 18 novembre 1622, è la seguente: “…et al Signor Tiberio del Pezzo Scudi 400 come Governatore per morti, et servitio della chiesa, Dal quale sono stati pagati a Michel’Angelo da Caravaggio per lo prezzo del quadro dell’altare grande di detta chiesa qual’essito fatto per detto Signor Carlo (Caracciolo, m. 1607) ascende alla detta somma de scudi 469 e per che l’essito supera l’introito in Scudi duecento settanta sei et 2.1, Dechiaro.” Presumendo perduta la pala ordinata per un altare da Radolovich i pagamenti al pittore del Pio Monte napoletano sono stati riferiti indipendentemente dal documento Radolovich alle Sette Opere di Misericordia, anche se, vivente il pittore, la chiesa doveva aver allogato più di una sua tela riscattata dai notabili napoletani, in veste di donatori ed acquirenti insieme con il committente Radolovich. Ognuno degli episodi narrati da Caravaggio nell’ancona, da collocare infine all’altare maggiore, rispecchia l’opera assegnata a ciascun deputato Governatore e perciò cosiddette: la prima, degli infermi e cioé assistere gli ammalati, la seconda, dei pellegrini o alloggiare i viandanti, la terza, dei carcerati o dell’Angelo custode, cioé visitare e indulgere la pena ai carcerati, la quarta, dei morti o seppellire i morti, la quinta, del patrimonio e dei poveri vergognosi o bisognosi, quest’ultima che comunemente ricapitola le opere di bene corporali di dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati e dar da vestire agli ignudi, cioè la redistribuzione di beni delle sette opere corporali di redenzione, il Monte dei poveri propriamente detto governato dapprima da Lorenzo Di Franco o De Franchis. Fu Tommaso De Franchis a riscattare nel 1607 il dipinto di S. Domenico Maggiore, che sarà collocato nell’omonima cappella nel quarto decennio del Seicento, la Flagellazione secondo Bellori, attualmente conservata a Capodimonte . L’incertezza interpretativa del documento della commissione Radolovich è in parte riposta nella complessità iconologica di altre due ancone degli ultimi periodi della produttività di Caravaggio e cioé la Natività già dell’Oratorio della Compagnia di S. Lorenzo a Palermo e la Madonna del Rosario a Vienna (Kunsthistorisches Museum), in cui la Vergine con il Bambino, vestita di un saio azzurro, invece che su un coro d’angeli si erge a fianco del fusto scanalato di una colonna bianca del Pantheon, o chiesa di S. Maria della Rotonda elencata nei ‘Mirabilia urbis Romae’. Il dettaglio monumentale non esclude una committenza estense del dipinto per una chiesa romana, in cui il pittore, tra i devoti, avesse in realtà ritratto la personalità di Giambattista della Porta, che nel Della Fisonomia dell’huomo, tradotta in volgare nel 1610, aveva dedicato all’effigie del cardinale Luigi d’Este , che per sua stessa affermazione conobbe a Roma nel 1580, l’esemplarità della verosimiglianza del ritratto. Oltre che dall’incisione del trattato volgare di Della Porta dell’effigie del cardinale Luigi d’Este è documentata da un ritratto familiare con l’iscrizione della sua identità quella del cardinale Alessandro d’Este a testimoniare la voga del ritratto storico: il capovolgimento dell’immagine nella camera oscura sperimentata nel dipinto di Narciso in cui l’ambivalenza con la tentazione di S. Giovanni Battista alla specchio d’acqua d’una fonte è pretesto ad uno studio sulla riflessione, porrebbe non solo la conoscenza di Della Porta e delle sue opere a partire dagli anni romani, quando la grandezza nel dar vita a volti e personaggi al suo esordio fu annotata dai biografi con l’affibbiargli l’epiteto di pittore di teste, ma anche questa tela antesignana nell’orbita del collezionismo estense. Recenti discussioni documentarie sulla pala della Natività di Palermo si avvalgono sempre della lettura iconografica di quest’altro quadro, che intenderebbero invece fondamentalmente screditare, ad opera di Giovan Pietro Bellori, ponendo nel dubbio la veridicità biografica della notizia del viaggio anche palermitano di Caravaggio e non la conoscenza relativa e accademicamente indiretta del suo luogo di conservazione da parte del biografo, laddove Bellori descriveva esservi dipinto “S. Giuseppe à sedere”. Differente dal S. Giuseppe del Riposo durante la fuga in Egitto (Galleria Doria Pamphilj, Roma) e tratto da un altro modello, seppure il passo belloriano fosse dovuto a relazioni, per quanto non più emerse, di corrispondenti e pittori negli ambienti romani e nella pratica corroborate da disegni, di fatto la freschezza caricaturale del vecchio pastore col cappello appoggiato ad un bordone (o bastone da pellegrino) al limitare del presepe quale un suo autentico S. Giuseppe anziano veniva ad esservi elusa, non identificandolo, e così altrettanto l’immaginazione di un’Epifania, idea non meno intuitivamente esplicita degli astanti nel loro insieme in un dipinto dell’Adorazione dei re Magi. Il fatto che l’ancona fosse sentita nella devozione più viva dei Santi dei poveri Nicola e Francesco nel tema della redenzione dai peccati ed anche in questa tela di Lorenzo patrono del Pio Oratorio palermitano, in cui a sedere per terra in primo piano fosse non S. Giuseppe, raffigurato pastore e in piedi a chiudere il cerchio di lato, ma un S. Lorenzo elemosiniere, anonimo donatore non più signorilmente abbigliato tra i principi della chiesa, era biograficamente reso inintenzionale da Bellori, per il quale anche la pala di Messina era una Natività (Museo Regionale, Messina), preceduto dall’Iconologia del gesuita Placido Samperi del 1644 che al ‘Quadro della Madonna del Parto, opera dell’eccellente Pittore Michel’Angiolo da Caravaggio’ aveva dedicato un paragrafo intitolato “Della Imagine della Madonna del Parto nel divoto Convento de’ Frati Cappuccini, e sua origine.” Un altro convento dell’ordine dei minori che nel 1605 si era avvalso di lasciti per fondarvi un’opera di Misericordia, l’Infermeria. Non del tutto isolata la fonte belloriana, senza per questo concludere che Caravaggio non fosse stato a Palermo , quel che potrebbe dirsene storicamente è che il biografo, se o anche non dovesse esservi stato, descrivesse proprio questo dipinto, non più rimosso attraverso i secoli dall’Opera di Misericordia palermitana almeno fino al 1970 (quando, secondo la cronaca, venne rubato, divenendo oggetto d’inchiesta) e nella quale era giunto a concretizzarsi il movimento pauperistico nella città nel primo decennio del Seicento, demistificandolo di qualsiasi spunto antagonistico verso l’abilità caricaturale dei Carracci. La pala napoletana, anche più grandiosa, era stata esposta a Napoli e per conoscerla sarebbe stato indispensabile ad ogni storico farla copiare con qualunque mezzo o dettagliarla con beneficio d’inventario sull’interpretazione datane ‘in loco’, nella convinzione relativa della sua accessibilità al pubblico e all’intermediario. In realtà nel corso di qualche anno, data la rendita delle elemosine elargite senza penuria al titolo dell’altare maggiore, a chiunque venne vietato dai Governatori del Pio Monte di Misericordia il permesso di spostare l’ancona e di venderla: “Adì 27 Agosto 1613. Per li detti Signori Governatori del Monte della Misericordia è stato discorso come havendo li hanni passati il detto monte voluto porre un quadro nell’altare maggior della sua chiesa, volle farlo fare da Michele angelo di Caravaggio, acciò che fatto da così eccellente artefice fusse corrispondente all’altre grandezze dell’opere de Dio che vi s’essercitano et essendo riuscito di tanta perfettione, che più d’una volta se n’è ritrovato duemila scudi, hanno per ciò detti Signori concluso, che per nissuno prezzo si possa mai vendere, mà sempre si debbia ritenere nella detta chiesa”. Ed anche perfino quello di copiarla, eccezionalmente concesso al Conte di Villamediana per mano dei pittori designati dalla Confraternita Fabrizio Santafede, Carlo Sellitto e Giovan Battista Caracciolo detto Battistello nello stesso 1613, data alla quale il conte Juan de Tassis y Peralta di Villamediana come tale comparirà nei suoi documenti. Questa documentazione archivistica è altrettanto esposta nelle Sale della Pinacoteca del Pio Monte della Misericordia in occasione di ‘Caravaggio Napoli’, che l’ha coordinata nella visita al Museo di Capodimonte, Sala Causa, e ne è un autentico pregio. Il S. Francesco in preghiera dei Musei Civici Ala Punzone di Cremona ha consentito di rileggere una figura di S. Francesco a mani giunte nel profilo, schietto e rozzo, del mendicante supplice e infermo a piedi nudi e con la stampella per terra nella zona più oscura e quasi indistinguibile delle Sette Opere di Misericordia ed un possibile autoritratto che implora la grazia senza per questo concludere che la tela da testa di Cremona che lo genuflette dalla parte opposta coprendone le gambe, se ordinata dal Governatore di Roma Benedetto Ala cui era appartenuta, oltre che un’altra storica testimonianza dell’interesse rivolto dal pontefice al leggendario dipinto esposto a Napoli, sia una replica devozionale autografa che copre col saio i piedi nudi del Santo (Gregori 1987). Nell’opera il S. Francesco che riceve le stimmate di Carlo Sellitto appare in realtà, piuttosto che delle opere caravaggesche nella Chiesa di S. Anna dei Lombardi a Napoli, nel 1634 illustrata anche dai “Dialoghi” di Capaccio, avvalersi dello studio del S. Domenico col rosario nelle mani, analogamente protese, della Madonna del Rosario a Vienna (Kunsthistorisches Museum); quando il dipinto, nel 1607, era documentato nello studio napoletano di Caravaggio e, per quanto minore fortuna rispetto all’opera possa averne avuto il documento relativo anche alla Giuditta e Oloferne (Gallerie Nazionali Barberini/Corsini, Roma), quadro testimoniato a Napoli ancora da Carlo Cesare Malvasia, lo stesso Benedetto Ala avrebbe potuto ordinare la copia del S. Francesco di Cremona dalle Sette Opere di Misericordia, conferendo obbiettivo risalto al subitaneo risentimento dei pittori nella città fin dal primo soggiorno napoletano di Caravaggio, tra i primi, se non da subito nella stessa chiesa, Battistello Caracciolo. Nella Madonna del Rosario di fronte al S. Domenico predicatore ad una moltitudine è raffigurato S. Sisto, santo decollato dei ‘Mirabilia urbis Romae’, anche identificato in S. Pietro martire, e nel frate domenicano incappucciato accanto a lui un altro possibile autoritratto, in luce ancora più fervido e sofferente testimone di una disputa. La descrizione delle fonti attraverso i secoli dei tre dipinti della cappella Fenaroli di S. Anna dei Lombardi sono laconiche soprattutto riguardo il formato e le dimensioni dei laterali con S. Giovanni Battista e S. Francesco, anche se Nicolas Cochin nel 1756, mostrando di conoscere l’opera di Bernardo De Dominici almeno quanto quella di André Félibien, stenterà a farvi il nome di Caravaggio, dando altrimenti credito alla fonte letteraria che voleva che il suo S. Francesco (Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, dal 1943), appartenuto al cardinale Francesco Maria Del Monte, dalla collezione di Ottavio Costa fosse pervenuto nella seconda metà del Seicento ai Duchi Caetani di Sermoneta. Lo stesso De Dominici nel 1742 (avrà encomiato tra le opere di Caravaggio senza riserve: “…il quadro del maggiore Altare della chiesa della Misericordia è opera lodata de’ suoi pennelli ove dipinse le sette opere del titolo della Chiesa…”). Nelle Sette Opere di Misericordia, accanto a S. Francesco, nel mendicante seduto di spalle e a schiena nuda, un culto ‘laico’ non certo dimenticato da Caravaggio anche a Palermo, S. Lorenzo che ha gettato ai poveri il sacchetto e i turiboli delle offerte, tesoro della chiesa, e sta per ricevere il dono di metà del mantello tagliato da S. Martino, che è in piedi con il cappello piumato. La scena raffigura l’episodio caritatevole di vestire gli ignudi insieme con l’assistenza agli infermi dell’ordine francescano, la rinuncia ai beni terreni della Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varagine, che conformavano la committenza di Niccolò Radolovich del 1606 di una pala bipartita con in alto la gloria della Vergine Maria e tra le sue figure in basso quattro Santi, tra i quali avrebbe voluto fosse S. Domenico stesso: anonima nella sfera contemplativa della Vergine l’ispirazione caravaggesca alla professione di fede nell’apostolato degli ordini mendicanti, che vuole i due Santi Francesco e Lorenzo di spalle giacere insieme sulla nuda terra. A Roma era intitolata a S. Lorenzo l’estrema propaggine della Porta Taurina, inglobata dalla cinta aureliana, che conduceva alla basilica cimiteriale di S. Lorenzo fuori le mura. Quanto alla possibilità che fosse proprio Abraham Vinck a copiare a Napoli la Giuditta e Oloforne (Galleria Barberini, Roma) appartenuta ai Costa è tutt’altro che smentito dalla presenza tuttora nella città della copia di Louis Finson (Palazzo Zevallos, Banco di Napoli, Napoli, già attribuita a Battistello Caracciolo), ancora una volta copiando l’uno dall’altro i due pittori in società, ed anche una copia di Abraham Vinck risultare inventariata ad Amsterdam in sua proprietà un decennio più tardi come originale, sottolineando l’eccezionalità dell’esecuzione nello studio di Caravaggio: se non proprio la stessa, una sua fedele copia antica la Giuditta scaturita dal recente ritrovamento di Tolosa nel 2014, mentre anche la mezza figura di David e Golia della Galleria Borghese doveva essere stata eseguita a Roma da Caravaggio, la stessa per prima avuta da Juan de Tassis y Peralta, conte di Villamediana come avrà sottolineato Bellori. Fu Lionello Venturi nelle “Note” del 1909 a riferire a Caravaggio la mezza figura di David nel Museo di Vienna, che più di ogni altra nel panorama europeo aveva mostrato di dipendere dal David Borghese. Nel 1613, infatti, oltre al San Giovanni Battista (Galleria Borghese, Roma), pure esibito nella mostra “Caravaggio Napoli”, anche il “David col teschio di Golia opera del Caravaggio” (Galleria Borghese, Roma) era stato infine esaltato da Scipione Francucci nel poemetto La Galleria dell’Il.mo e Rev.mo S Scipione cardinale Borghese galleria dove ormai entrambi i quadri si trovavano. D’altronde l’ancona della Madonna del Rosario di Vienna, giunta ad Anversa soprattutto per l’interessamento di Pietro Paolo Rubens, non più mercanteggiata, resterà alla chiesa domenicana di S. Paolo ad Anversa per quasi due secoli (Marini 2005). Complessa è l’iconografia degli altri Santi delle Sette Opere di Misericordia, dove è semmai il documento della committenza di Radolovich ad essere più diretto se non soltanto accostato alle fonti letterarie di descrizione, ma alla stessa monumentale tela, avendovi sollecitato la rappresentazione del loro culto associato alle opere misericordiose, non solo simbolicamente attraverso sparsi attributi: oltre a S. Francesco e a S. Domenico dovevano essere dipinti nella tela dedicata alla grazia mariana S. Nicola, nel sacerdote custode del carcere al lume di una fiaccola, visitare i carcerati, e S. Vito, nel giovane che sostiene le gambe sospese di un cadavere, seppellire i morti, allusivo tanto alla sepoltura dei martiri cristiani che dei condannati a morte. Giovan Pietro Bellori, seppure chiara testimonianza della notorietà del grande dipinto, subito recepita dalle “Finezze dei pennelli italiani” di Luigi Scaramuccia (Pavia, 1674), che l’intitolava le “Sette Opere della Misericordia”, contribuì a renderlo indeterminato precisandolo nella biografia di Caravaggio due volte: “Nella medesima Città (Napoli), per la chiesa della Misericordia dipinse le Sette Opere in un quadro lungo circa dieci palmi vedesi la testa di un vecchio, che sporge fuori della ferrata della prigione suggendo il latte d’una Donna, che à lui si piega con la mammella ignuda. Fra l’altre figure vi appariscono i piedi, e le gambe di un morto portato alla sepoltura; e dal lume della torcia di uno, che sostenta il cadavero, si spargono i raggi sopra il Sacerdote con la cotta bianca, e s’illumina il colore, dando spirito al componimento.” E ancora: “…et in Napoli frà le sette opere della Misericordia, vi è uno che, alzando il fiasco beve con la bocca aperta, lasciandovi cadere sconciamente il vino.” Dalla sua lettura deriva la tradizione laica degli episodi del dipinto, uno dei quali soltanto nitido nella memoria di Bellori, che rappresentano l’uno Cimone e Pero, tratto dai “Factorum ac dictorum memorabilium Libri” o “Libri Memorabili” di Valerio Massimo e l’altro Sansone che beve dalla mascella d’asino, tratto dal “Libro dei Giudici”, che in Bellori è genericamente un bevitore.
La somiglianza del chierico, che in effetti regge in mano la torcia, al Ritratto di Maffeo Barberini della Galleria Corsini a Firenze, già proprietà Anna Corsini a Firenze, insieme all’approssimatezza del testo di Bellori che, sebbene dando in un altro passo la notizia di un suo ritratto originale del pontefice Urbano VIII (“Al cardinale Maffeo Barberini, che fu poi Urbano VIII sommo pontefice, oltre il ritratto, fece…”), avendola solo individuata, neanche identificava il cardinale in questa grandiosa pala napoletana, dimostrerebbero piuttosto che Caravaggio avesse avuto notoriamente l’occasione di ritrarre Maffeo Barberini molto giovane, quando non era ancora chierico di camera, e, se in consonanza con il più frammentario brano delle “Considerazioni” di Giulio Mancini (le righe riferibili alla presenza del pittore nello studio di Giuseppe Cesari D’Arpino dove erano annotate le frasi “vuol tre ritratti” e “fece ritratti per Barbarino”), solo in quest’ancona di nuovo lo dipingesse nell’abito clericale, nunzio apostolico a Parigi dal 1604, eletto cardinale l’11 settembre del 1606 con imposizione dalle mani del re di Francia Enrico IV. Dei due dibattuti ritratti di Maffeo Barberini in collezione privata italiana attribuiti a Caravaggio non vi sono critiche smentite, infatti, fin dal loro paragone ad opera di Lionello Venturi nel 1912 al Ritratto di Paolo V Borghese che entrambi consistano della storica fisionomia del cardinale che assumerà il nome di papa Urbano VIII nel 1623 e che nel sacerdote delle Sette Opere di Misericordia è energicamente commossa, ma, ormai trentottenne, non meno intensamente assorta dell’atteggiamento, non proprio consono ad un chierico, del giovane prodigo truffato al gioco dei Bari (Kimbell Art Museum, Fort Worth), cui il testo del manoscritto Mancini doveva alludere al pari della più tarda memoria belloriana di fonte familiare, insieme alla voga per il ritratto morale esemplata scientificamente da Giovan Battista Della Porta. Jusepe Martinez parlò di un ritratto di Caravaggio del pontefice Paolo V, dipinto insieme con i suoi beneficiati, nei “Discursos Practicables del nobilìsimo arte de la pinctura” (ed. Madrid 1866) tenuti all’accademia di Saragozza alla metà del Seicento, che non è improbabile fossero considerevoli già per la statura accademica di Bellori, che riferiva, incalzando a proposito dell’Ecce homo Massimi, come questo dipinto fosse stato portato in Spagna al tempo di Filippo III senza identificarlo, mentre descriveva un S. Sebastiano: “…fu portata in Parigi la figura con due ministri che gli legano le mani di dietro”, dettagliandolo corrispondente iconograficamente alla Flagellazione a mezze figure (Musée des Beaux Arts, Rouen; “Caravaggio Napoli” Catalogo n.7; scheda di Alessandra Cosmi), che doveva ritrovarsi a Roma. Anche nella grandiosità è riposta la confrontabilità alle Sette Opere di Misericordia del passo dei “Discursos” – a discapito del Ritratto di Paolo V (Palazzo Borghese, Roma, in copia nella Galleria Borghese,), riferito a Caravaggio nella Villa Borghese da Giacomo Manilli nel 1650 e detto “a sedere” da Giovan Pietro Bellori nel 1672 – sul ritratto del pontefice Paolo V, che Martinez diceva eseguito dal pittore prima della sua fuga a Malta, esaustivo non solo per la grandiosità della scena descritta coinvolgente più figure, ma per la rapportabilità nel dettaglio delle vistose dimensioni alla tela napoletana , fino a competere per importanza con l’opera romana di Caravaggio più famosa: i laterali della Cappella Contarelli di S. Luigi dei Francesi, dove nell’una, la scena della Vocazione di Matteo era invece ritratto con gli occhiali il pontefice Clemente VIII Aldobrandini, che non aveva concesso al principe di Lorena, verosimigliante al re Irtaco nell’altra del Martirio di Matteo, la dispensa matrimoniale con Caterina di Borbone. Seppure è vero che, calato nell’attualità delle controversie di quegli anni, fosse stato in questa occasione che Enrico avesse ricevuto in dono dal pontefice, insieme al suo rifiuto, o avesse fatto copiare l’Annunciazione di Nancy, in cui la figura dell’angelo annunciante appare riversa e non meno ruotata rispetto a quella del secondo dipinto di S. Matteo e l’angelo, tuttora sulla terza parete della cappella romana di S. Luigi. Quanto alla prospettiva della finestra nella Vocazione di Matteo, la presenza di uno scuro, usato nelle finestre senza persiane, dimostra la scena sfondare l’interno architettonico, in cui il sott’in su di S. Matteo avanza sul visitatore nella geometria di una sfera, la “rondeur” nella “manière noire” che André Félibien sottolineerà anche Valentin avesse appreso dal suo maestro Caravaggio, aggiungendo potersi trovare a Parigi non solo i loro dipinti, ma inoltre quelli di Bartolomeo Manfredi. Félibien dedicò a Caravaggio molte pagine del secondo volume degli Entretiens del 1687, dimostrando di conoscere la biografia di Giovan Pietro Bellori, specialmente nel contrapporre la sua arte a quella di Guido Reni fino alla rivalità: nella “Felsina pittrice” di Carlo Cesare Malvasia, nella Vita di Reni, era detto occasionale l’incontro tra i due pittori narrato da Félibien. Con Paolo V appena eletto, Caravaggio, non solo a parere di Martinez, ma anche di Bellori, fisicamente condotto al suo cospetto, avrebbe quindi, secondo il primo, ritratto tre e anche più dei suoi nipoti, cardinali e seguaci: precoce la sua testimonianza, per la quale era prosopograficamente notoria la fisionomia del pontefice Camillo Borghese di tre quarti negli scuriti panni dell’oste, quale l’apostolo Pietro che vi indica la via dell’esilio a S. Giacomo, connotando l’oratorio come ospizio dei pellegrini. Inoltre il dipinto assume in Martinez una valenza storico-documentale nel ritrovarvi i suoi neo-eletti cardinali: il cardinal nipote, Scipione Caffarelli Borghese, nel 1605, era probabilmente supposto nel Sansone (raffigurato troppo vecchio per esserlo davvero) ed il cardinale Maffeo Barberini nel sacerdote con la torcia, dove ancora è innegabile sia connesso al dipinto il ‘motu proprio’ del papa nella concessione del privilegio all’istituito Pio Monte della Misericordia di Napoli. Dal confronto tra le due fonti letterarie di Bellori e di Martinez emerge come i due autori non si riferissero ad un medesimo ritratto e che in quello eseguito a diverse figure il pontefice non indossasse la solenne clamide purpurea. Nel dipinto napoletano, privo del risalto liturgico del velluto e della seta del quadro romano , l’identità del volto di Camillo Borghese sul bianco colletto di lino della cotta sotto l’umile pellegrina, più appariscente fisionomicamente, lo lascia interpretare, se non seduto, sodale protagonista di un cerimoniale sobrio dell’opera caritatevole perfino più autorevole. Il pontefice avrebbe potuto infine ottenere il ritratto personale dallo stesso Caravaggio a Napoli in cambio della promessa di ‘remissione’ di cui aveva parlato Giovanni Baglione nella propria biografia del pittore. Tanto Martinez quanto Bellori concordavano sulla circostanza biografica dell’incontro col pontefice e l’episodio memorabile del grande quadro delle Sette Opere di misericordia, in chiave autobiografica, poteva essere verosimilmente ambientato nei paraggi di Castel S. Angelo, il borgo non meno pieno di vicoli dei Tribunali di Napoli. Nel volto di S. Giacomo dei pellegrini con la conchiglia sul cappello è ritratto come donatore il poeta Giambattista Marino, amicissimo di Giambattista Manso, fondatore del Pio Monte e nel 1606 segretario del cardinale camerlengo Pietro Aldobrandini, che seguì nella diocesi di Ravenna, dalle sue parole apparsa vissuta come un vero e proprio confino. Spettatore della sfera della Madonna col bambino, ascesa sul volo d’angeli plananti con ali di cigno, tra drappi a parabola, è ritratto sporgersi fra le sbarre della prigione, nei panni di Cimone, Galileo Galilei, tra i primi ad avvistare nel 1604 e dare corpo universale alla “lux quaedam peregrina”, cui Giovanni Keplero avrà dedicato il libello De Stella nova (Praga, 1606) e che Caravaggio vi dipinge come l’avesse realmente scorto a scrutare il cielo, forse interprete delle suppliche di estradizione di Tommaso Campanella rivolte al vescovo di Caserta inquisitore Deodato Gentile ed al nunzio apostolico di Napoli nel 1606 Guglielmo Bastoni. Se è vero che Bellori avrà parlato di un ritratto di Giambattista Marino e di Caravaggio stesso ormai celebre nelle accademie del tempo, certo è che, differentemente da Martinez, la pagina belloriana appare un’ermeneutica del sonetto della “Galeria” dello stesso Marino, identificabile nel Suonatore di liuto (Hermitage, S. Pietroburgo), la cui celebrità avesse solleticato anche l’ambizione di Alof di Wignacourt, che a sua volta si fece ritrarre dal pittore. Che il dipinto immerga le opere di misericordia, connotandole ciascuna di materialità e immediatezza comunicativa fenomenali nella misericordia mariana è la ben nota sensibilità musicale del pittore ancora una volta a dirlo, poiché è proprio ad un coro d’angeli che quasi tutti i partecipanti si uniscono sulla strada, le labbra socchiuse alla profferta. Pero è l’inerte cassa armonica della voce celeste in cui Caravaggio amò ancora ritrarre Adriana Basile , primadonna degli oratori napoletani e, con il fratello Giambattista Basile, fedelissima di Giambattista Manso, lui stesso il cavaliere nei panni di Martino conclamato rappresentativo a stringere il sodalizio col pontefice. La cantante lirica fu ritratta anche da Bartolomeo Manfredi con il tamburello alla spagnola nei panni di Salomé (‘La Zingara’, in copia passata nel 2006 alle aste Pandolfini, Firenze), dimostrando di aver attinto personalmente a Roma alla pratica caravaggesca del ritratto. Claudio Monteverdi, conterraneo del pittore, compose l’inno polifonico ‘Ave maris stella’ nel concerto “Sanctissimae Virgini missa senis vocibus” che diede alle stampe a Venezia nel 1610 riadattato per musica da camera, nel frontespizio annotando l’editore come l’opera fosse “consacrata” al pontefice Paolo V. Nel tempio della Vergine Maria, l’orazione ascendeva all’armonia dalla sapienza musicale di Claudio Monteverdi, dalla memoria personale del pittore, che con Giuseppe Cesari D’Arpino, prima attratto nell’orbita borromaica, aveva dipinto in S. Lorenzo in Damaso a Roma (Karel Van Mander, “HetSchilderboek”, Amsterdam, 1603), nelle Sette Opere impersonando pittorescamente un assetato Sansone, almeno al pari di David un colosso della tendenza pauperistica. Quanto al S. Sebastiano a Rouen il fatto che le torture inflitte nei quadri di Caravaggio fossero le più praticate pubblicamente nel suo secolo non smentisce l’iconografia belloriana del Santo resa nell’azione che lo conduce al martirio, nella cui scena, afflosciato in un angolo, spicca il mantello rosso del gigantesco centurione che, anche piegato dal flagello alla colonna, sovrasta nella statura i due aguzzini privo non solo di frecce, ma della corona di spine di Cristo sui capelli. L’accurata descrizione del documento pubblicato da Virgilio Saccà nel 1906, oggi noto soltanto dalla sua trascrizione, dell’eseguito ‘Cristo con la croce in spalla’ della committenza siciliana di Niccolò Di Giacomo, non escludeva potesse essere questa una delle quattro tele da questi commissionategli con storie della Passione di Cristo. Sebbene Bellori in realtà obbiettasse alla “Memoria” di Gaspare Celio scritta nel 1620, edita a Napoli nel 1638, che nel romano Palazzo Mattei ricordava laconicamente accomunate dal formato alcune tele: “Quelle della presa di Christo mezze figure. Quella de Emaus. Quella del Pastor friso ad olio, di Michelangelo da Caravaggio”, avanzando l’ambiguità iconografica della figura di S. Sebastiano “portata in Parigi”, ne lasciava indeterminata l’ultima vicenda collezionistica: ‘un quadro di S. Bastiano di mano di Michelangelo da Caravaggio’ era registrato nel 1604 dall’inventario di Asdrubale Mattei. Presenti entrambe in mostra le tele di Salomé per lo più stimate due versioni dello stesso soggetto, il loro allestimento espositivo vi è separato da un tramezzo, diventando singolarmente rilevante il fatto che le dimensioni della squadrata tela d’imperatore del Palazzo Reale di Madrid siano approssimate a quelle del S. Girolamo di La Valletta . L’altra della National Gallery di Londra, apprezzabilmente più piccola, si mostra per essere osservata dal basso come un soprapporta, non necessariamente in rapporto alla collocazione del S. Girolamo della Cappella Italiana nella Cattedrale di S. Giovanni di Malta, dove questo quadro fu dipinto, ma più vicina al visitatore del Sacello, architettonicamente ultimato nel 1609. Nella Salomé di Madrid la prospettiva, che situava S. Girolamo quasi a figura intera al centro della tela, accalca le mezze figure ingigantite sul lato destro della tela vuota, che Howard Hibbard lasciava interpretare molto restaurata se non lacunosa in parte, in realtà senza che vi fossero sviluppate le masse distanziate dei corpi nell’angolo di rotazione stabilito dalla diametrale del braccio del carnefice dell’altro dipinto che poteva esserle esemplare: il quadro di Madrid apparirebbe un ingrandimento sproporzionato in cui le figure ruotano su se stesse anche per essere visto all’interno di una sala o di una grandiosa navata, se davvero i due medesimi soggetti fossero confrontati l’uno vicino all’altro in uno stesso ambiente. La proiezione sferica del particolare dei riflessi di luce sull’ampolla di fiori del Ragazzo morso da un ramarro (National Gallery, Londra) dimostra che le sperimentazioni caravaggesche di fenomeni dell’ottica anticiparono tanto la pubblicazione del De Astronomia di Giovanni Keplero che del De Centro gravitatis di Luca Valerio (1604) e la “rondeur” che gli sarà attribuita da André Félibien ne coglierà la naturalezza formale della massa nella fisica moderna: la cavità è la misura dell’inerzia di un corpo e l’indice di oscillazione nella spazialità non solo dell’atmosfera leonardesca, ma di un frammento dell’universo osservabile in cui l’osservatore sia immerso nel centro di proiezione, centro geometrico di una sfera. Oltre a Jusepe Ribera (collezione privata, Sotheby’s, New York 2019), ne è conscio Battistello Caracciolo nella Salomé (Napoli, collezione privata) con tutta l’evidenza del gesto del carnefice di sollevare la testa del Battista, attraverso decenni di suggestioni critiche dalla sua storia collezionistica, finalmente a confronto alla Salomé di Londra, a riprova che quest’ultimo dipinto di S. Giovanni Battista fosse a Napoli nel 1610.