«Lo sciopero generale in Israele ha portato in strada un numero di manifestanti senza precedenti. Neanche le marce contro la riforma della giustizia dello scorso anno hanno visto una così larga partecipazione. La gente dopo quasi un anno di guerra è stanca di piangere per gli ostaggi e i familiari al fronte. È chiaro che la guerra a Gaza non sta portando niente di buono, né alla sicurezza di Israele né alla stabilità della regione. Ma a parte quei pochi che si preoccupano per i quasi 41mila morti palestinesi a Gaza e le implicazioni sui diritti umani di questo conflitto, ritengo che la maggior parte degli israeliani abbia marciato per chiedere un accordo che permetta il ritorno a casa degli ostaggi. Il cessate il fuoco è stato invocato, ma come condizione per salvarli». Ne parla con l’agenzia Dire Mauricio Lapchik, responsabile relazioni esterne di Peace Now, organizzazione israeliana che monitora gli insediamenti coloniali nei Territori occupati. All’indomani dello sciopero generale scattato dopo il ritrovamento dei corpi senza vita di sei ostaggi degli oltre cento ancora in mano ad Hamas a Gaza, «osserviamo un grande cambiamento», dice Lapchik, «perché una larga parte degli israeliani ora aderisce alla linea di quelle dieci, forse venti famiglie degli ostaggi, che a differenza delle altre da mesi ha capito che questa guerra distrugge il nostro futuro e vede in un accordo la sola strada per riavere i propri cari. Il messaggio alle istituzioni è chiaro. Però- osserva ancora- nella serata di ieri, nel suo discorso alla nazione, il premier Benjamin Netanyahu ha detto che non intende cambiare i suoi obiettivi: la guerra continuerà. Ciò dimostra un disinteresse totale per la volontà popolare». Ma la strada per la pace è lunga, come osserva l’esponente di Peace Now: «Le accuse mosse a Israele di genocidio a Gaza hanno sull’opinione pubblica un effetto controproducente. Quanto alla creazione di uno Stato di Palestina, sarebbe la scelta giusta per permettere finalmente a Israele di controllare i suoi confini e dialogare con un governo ufficiale. Non dimentichiamo che prima degli accordi di pace stretti con Il Cairo nel 1979, l’Egitto era considerato tra i principali nemici di Israele. Oggi è tra i mediatori per i negoziati». Tuttavia, «questi discorsi sono ancora prematuri. Per la maggioranza degli israeliani la priorità sono gli ostaggi». Oltre all’operazione su larga scala nella Striscia, violenze e abusi si registrano anche in Cisgiordania e Gerusalemme Est, come informa un report di luglio di Peace Now: «Nel 2024 sono stati istituiti almeno 25 nuovi avamposti, la maggior parte dei quali agricoli- ossia fattorie- che partono dall’appropriazione di terreni e quindi dall’espulsione sistematica dei palestinesi dall’area». L’attivista cita inoltre le «decine di chilometri di strade costruite per i nuovi avamposti, che determinano il sequestro di ulteriori terreni» anche in aree «sotto il controllo dell’Autorità palestinese, stando agli Accordi di Oslo». A ciò si aggiunge l’approvazione di «otto nuovi insediamenti. Tutto ciò- tiene a ribadire- viola il diritto internazionale». Ma non le leggi di Tel Aviv, che «hanno anche previsto ingenti finanziamenti pubblici». In totale, Peace Now ricorda che secondo le Nazioni Unite «1.207 edifici palestinesi siano stati demoliti e 2.500 persone costrette ad andarsene». Di queste strutture, 1.027 sono in Cisgiordania e 178 a Gerusalemme Est. Per non parlare degli atti di violenza contro i palestinesi da parte dei coloni, un fenomeno «peggiorato dopo l’attacco terrorista del 7 ottobre- dice Lapchik- con mille nuovi casi che hanno coinvolto famiglie innocenti in 90 località». Il referente di Peace Now conclude: «Molti Paesi riconoscono lo stato di Palestina: dovrebbero farlo anche gli amici di Israele. Vivere insieme è l’unica alternativa che abbiamo».
Alessandra Fabbretti