Giovanni Cardone
Fino al 22 Agosto 2024 si potrà ammirare al Monastero di Camaldoli Arezzo la mostra Nel Silenzio di Paolo Gubinelli Testi di Cristina Acidini e Gaspare Polizzi. Come afferma Gaspare Polizzi: Mi correggo: l’artista intellettuale non è solo un ricordo letterario. Antonio Paolucci ha scritto nel 2006: «non esiste nel panorama dell’arte italiana contemporanea, un pittore che abbia saputo, come Gubinelli, accettare per azzardo e chiudere con successo, il confronto con la poesia» (Antonio Paolucci 2006, in Paolo Gubinelli, Opere inedite 1970-2008, Edizioni Grafostil, 2008, p. 124). Gubinelli ha reso, come pochi, concreta materia artistica l’espressione “ut pictura poësis” («come nella pittura così nella poesia»). È noto che l’espressione ricorre nell’Epistula ad Pisones, meglio nota come Ars Poetica, poema di Quinto Orazio Flacco, uno dei principali testi di riferimento sull’estetica. Se la poesia è come un quadro un quadro è come una poesia. Fu un poeta greco, Simonide di Ceo, a sovrapporre pittura e poesia; il suo verso, giuntoci tramite Plutarco, suona così: «La pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante». Certo, poesia e pittura imitano la realtà secondo modalità ben distinte. L’arte figurativa si esprime nello spazio, l’arte poetica nel tempo. La pittura e la scultura imitano la realtà attraverso la materialità dei corpi, che acquista senso solo se colto nella sua totalità spaziale. La poesia, ma anche la musica, imitano il reale tramite le parole-azioni, che acquistano senso solo in una successione temporale. Ma i due ambiti consentono una forma di contaminazione reciproca. In Gubinelli e nei poeti con i quali dialoga ha valore il pensiero poetico del colore. Il colore permette di avvicinare un corpo quanto più possibile all’idea del movimento, di rappresentarlo nel suo momento fecondo. «Il regno dei colori non è una giostra del disordine. È rigore, esprit de géométrie, quando questa è totalità di esprit de finesse, quando la geometria è pienezza di poesia. Il colore è desiderio e mistero, è risveglio del mpondo e della coscienza del mondo, il colore è Gloria del mondo, è splendore della realtà della luce» (Carmine Benincasa, Presentazione, in Paolo Gubinelli, Opere inedite 1970-2008, cit., p. 12). Gubinelli ha detto ciò in un noto passaggio dell’Autopresentazione del 1977: «Il ‘concetto’ di struttura-spazio-luce si muove nell’ambito di una ricerca razionale, analitica in cui tendo a ridurre sempre più i mezzi e i modi operativi in una rigorosa ed esigente meditazione». Ed è l’operazione che Gubinelli compie nello spazio, ponendosi a tu per tu con il vuoto e l’informe, sulla scia di grandi maestri come Lucio Fontana o Mark Rothko, a condurlo al dialogo inconcluso con la scrittura poetica. Certo, tra pittura e poesia non vi è alcuna relazione meccanica, ma permane in entrambe, e le accomuna, una profonda necessità di rivelare uno stato di sospensione del linguaggio, nello spazio e nel tempo. Dal colore dalla geometria come «pienezza di poesia» emerge allora anche la dialettica tra rigore e fantasia, testimoniata dal tratto che si compone nella piega e nello squarcio. Un tratto che mima in tracce mosse e intrecciate, nei graffi su carta, il «fare infinito», ritrovando quel mirabile, unico, «fare infinito» che Leopardi ci ha consegnato. L’orientamento spazio-temporale verso la quarta dimensione procede informalmente, tramite sottrazione e distorsione di forme dialogando qui con la scrittura leopardiana, la sua limpida calligrafia, gioco di spaziature e di intervalli tra pieni e vuoti, ricercando un passaggio al limite, oltre la spazialità geometrica euclidea e praticando un rapporto materico con la carta che richiama un’attenzione tutta orientale. Gubinelli coltiva, come scrive Roberto Cresti (Oltre la linea, in Casa Leopardi, “Segni per Leopardi”. L’Opera di Paolo Gubinelli. Opere inedite su carta 30 giugno 2016 – 31 maggio 2017, Grafostil, 2016, p. 8), «l’ambiguità fra la geometria, il libero grafema e l’immagine; o fra il segno e lo sfondo che lo rende visibile», estendendo il proprio interesse alla dimensione architettonica e scultorea della pittura, come testimoniano le sue ceramiche e il suo interagire amicale con Giovanni Michelucci. Ma l’aspetto filosoficamente più rilevante nell’opera di Gubinelli è, a mio avviso, il lavorio sulla piega. Piegatura, ondulazione, ruga, curva, flessione, sinuosità, inclinazione…., tutti termini che modulano le strutture spazio-temporali nel loro rapporto intrinseco con la luce. Nella piega si raccolgono molteplici connessioni: il rapporto tra eventi e predicati e la logica dell’evento, nelle sue procedure di inclusione degli eventi nel mondo; la continuità che non si risolve in contiguità, ma che procede al limite dell’infinito, il primato della singolarità che si dà come esistenza dell’individuo. La piega, come ha ben dimostrato Gilles Deleuze in Le pli (Éditions de Minuit, 1988), si dispiega tra due poli: quello del ripiegamento – «Tutto è sempre la stessa cosa. Non c’è che un solo e identico Fondo» – e quello della differenza – «Tutto si distingue nel grado, Tutto differisce nella maniera» – (ed. it., Einaudi, 1989, p.78). La piega si oppone all’essenza: la piega infinita della materia, multiplo del continuo, che Gubinelli realizza con l’aiuto di collages, graffi e piegature su carta, anche trasparente, acquarelli, incisioni, rilievi su ceramica, ma anche voluminose installazioni, si sostituisce al meccanicismo e all’essenzialismo. L’arte delle pieghe, delle implicazioni e dei dispiegamenti incide sulla differenza tra pieghe esogene ed endogene, riduce la distanza tra materia inorganica e vivente. La piega si presenta come un legame primitivo non localizzabile, che vede nella materia strutture, figure e tessiture. Si potrebbe parlare di tendenze “neobarocche”, ricordando Paul Klee o Simon Hantaï, e tante espressioni del minimalismo. E come in Richard Serra si potrebbe ritrovare in Gubinelli una pratica analitica, impersonale, un sistema autonomo, basato su alcune unità linguistiche elementari, costanti, prive di significati denotativi e connotativi, nel segno dell’economia formale, della semplicità e del rigore. Ma a differenza di Serra Gubinelli non espelle dalla sua sintassi i rimandi metaforico o simbolico, che costituiscono anzi la sua cifra, nell’incontro con la dimensione poetica. Gubinelli sosta nel passaggio dal moderno al tardo moderno, in una pratica di ripiegamento e di dispiegamento mimetico che fa intendere la dinamica profonda di ricorrenze e di distanze. Come scrive Deleuze: «Scopriamo nuove maniere di piegare come nuovi inviluppi, ma restiamo leibniziani perché si tratta sempre di piegare, spiegare, ripiegare» (ed. it. cit., p. 189). Michel Serres ha segnalato come la piega esprima una forma dinamica, il volo di una mosca o della vespa ebbra di Paul Verlaine: «Un certo ribaltamento della metà di un piano sull’altra metà, ripreso all’infinito, secondo una regola semplice, produce proprio un disegno paragonabile al volo della mosca o della vespa, quella che Verlaine dice essere ebbra del suo folle volo in un celebre sonetto» (Michel Serres, Éclaircissements. Cinq entretiens avec Bruno Latour, Paris, 1992, ed. it. Barbieri 2001, p. 72). E ha ritrovato la concretezza materica della piega nell’azione del panettiere: ««ecco un disegno estremamente complesso, incomprensibile, che appare caotico o tracciato a casaccio, e che il movimento del panettiere che impasta fa comprendere a meraviglia. Il panettiere fa delle pieghe, e quindi implica un qualcosa che il suo movimento spiega. I gesti più semplici e più quotidiani possono produrre delle curve complicatissime» (ivi, pp. 72-73). Gubinelli lavora come un artigiano delle pieghe, come un fornaio che impasta la farina, si muove sul foglio di carta come una vespa ebbra. Oppure per riprendere un’immagine cara a Italo Calvino, quando, in Una nave, una penna, una linea (1977, in Saggi 1945-1985, Mondadori 1995, vol. I, pp. 366-368), segue la magica mano di Saul Steinberg e la sua matita “infinita”, riproponendo un esperimento immaginario di Galileo che con una penna traccia una linea lunga quanto il viaggio di una nave per il Mediterraneo, per evocare il principio di relatività del moto, secondo il quale stando sulla Terra non ci accorgiamo del moto della Terra intorno al Sole perché tutto ciò che si trova sulla Terra partecipa dello stesso suo moto. Una pagina questa che mima il lavorio fisico di Gubinelli sulla carta. Nella chiusa del Barone Rampante ritroviamo al massimo grado la ricchezza di un artista che si è fatto poeta inesausto delle pieghe: «Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perchè ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito». (1957, in I nostri antenati, Mondadori 1996, pp. 303-304). In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Paolo Gubinelli apro il mio saggio dicendo : Lo spettacolo è l’arte nuova del nostro tempo, che ha preso il posto della più discreta delle arti, la poesia”(Eugenio Montale); “la poesia è, ormai, un ‘genere’ letterario sempre più specialistico, che non interessa nessuno (Sebastiano Vassalli); “ la poesia è una possibilità infinitamente sospesa”(Giovanni Raboni); “la poesia è universale”( Giuseppe Conte); “la poesia è vero e proprio innamoramento”(Carlo Fruttero). Questi sono i pensieri di poeti e letterati sulla poesia e il suo ruolo ai nostri tempi. Ma la poesia è un’esigenza? Essa si è insinuata negli uomini fin dalla notte dei tempi, come espressione della propria sensibilità. Si tratta dell’arte, dell’attività letteraria di esprimere con elevata tensione spirituale il sentimento, soggettivo e insieme potenzialmente universale, di sé, della condizione umana, della realtà in forme metriche e non solo, anche per mezzo di altri linguaggi e metodi espressivi”. La poesia è la capacità, la forza di suggestionare, in particolare di commuovere, di far insorgere sentimenti elevati: dalle greche orazioni forensi alla calibrata arte oratoria romana, fino a tempi dei dittatori del nostro secolo, che con i loro discorsi riuscivano ad incantare il popolo intero, non possiamo negare la presenza di sfumature poetiche più o meno forti o anche sfruttate, volte a determinare tensione, affettiva e spirituale. Possiamo che dire che la relazione tra la letteratura e le arti figurative è stata nel tempo oggetto di un infinito numero di speculazioni che hanno dato vita a teorie, considerazioni e assiomi diversi e contestualmente applicabili. Trattandosi poi di una questione trasversale a diversi ambiti disciplinari, non deve stupire che sia stata interesse centrale per storici dell’arte, filosofi, estetologi, semiologi, letterati e artisti che, di volta in volta, hanno affrontato il problema in accordo ai propri fini teorici. Tutte le epoche si sono interrogate sul dialogo tra letteratura e arti figurative, sia attraverso pratiche artistiche vere e proprie, spesso frutto di sinergie intermediali, sia attraverso risposte critiche alle stesse, che hanno fatto di questo dialogo un oggetto di studio sempre nuovo. Sebbene però l’origine di questa relazione sia antica, è vero che il Novecento, e soprattutto gli ultimi decenni, è stato protagonista di un rinnovato interesse volto ad indagare le dinamiche interartistiche tra le due arti, e più in generale tra parola e immagine. Si pensi alla nota dottrina dell’ut pictura poesis, che soprattutto dal Rinascimento in poi identificò tutti quei tentativi da parte di critici dell’arte e teorici della pittura di rintracciare analogie teoriche e formali fra l’arte letteraria e quella pittorica. Il ricorso all’auctoritas degli antichi, e ad opere come la Poetica di Aristotele e l’Ars Poetica di Orazio divenne una pratica ricorrente tra chi desiderava ritrovare un’origine antica alla questione sempre attuale della complementarietà fra le arti sorelle. In realtà si trattò, per la maggior parte dei casi, di forzature, di trasmigrazioni di teorie da un’arte all’altra, di “omologie poetologiche”, per usare un temine del catalogo di Cometa, con risultati a volte claudicanti. Lo stesso motto dell’ut pictura poesis, ad esempio, era il risultato dell’interpretazione forzata di un’espressione adoperata da Orazio della sua Ars Poetica.. Qui Orazio, lungi dal volere statuire un’analogia formale tra le due arti, si rifà, in realtà, alla similitudine con la pittura (“come un quadro”), semplicemente per dimostrare come nel giudicare una poesia “a volte” bisognerebbe essere flessibili come quando si giudica un quadro dallo stile sommario e impressionistico, per godere del quale, bisogna mettersi ad una certa distanza. Come osserva Mario Praz, Orazio «altro non diceva se non che avveniva di certe poesie come di certi quadri, che alcune piaccion una volta sola, altre resistono a ripetute letture e indagini critiche». La formula dell’ut pictura poesis, in realtà, finì per giustificare l’idea di totale corrispondenza tra pittura e poesia affascinando per secoli schiere di teorici appartenenti ai più svariati ambiti del sapere. L’antichità divenne la fonte da cui attingere alla ricerca dei motti più resistenti. Si ricordi, ad esempio, la nota formula «la pittura è poesia muta, e la poesia pittura parlante» che Plutarco attribuì a Simonide di Ceo e che fu destinata a viaggiare ancora una volta attraverso le epoche. Ma fu certamente il Rinascimento l’epoca considerata protagonista di un acceso dibattito alimentato dal confronto fra le arti. La parola d’ordine era “competizione”, e vide schiere di critici d’arte e letterari prendere le parti della rispettiva arte per confermarne la superiorità. La pittura, che godeva dei più forti riconoscimenti a quell’epoca, poteva annoverare tra i suoi difensori figure quali Leonardo da Vinci. Il celebre Paragone leonardesco, esposto nel suo Trattato della Pittura, rappresenta forse la difesa più autorevole mai esposta sull’arte della pittura e l’attacco più violento sferrato alla poesia: In effetti la poesia non ha propria sedia, nè la materia altrimenti, che di un merciajo ragunatore di mercanzie fatte da diversi artigiani. La pittura serve a più degno senso, della poesia, e fa con più verità le figure delle opere di natura che il poeta. Si ritrova la poesia nella mente, ovvero immaginativa del poeta, il quale finge le medesime cose del pittore, per le quali finzioni egli vuol equipararsi a esso pittore, ma invero ei n’è molto rimoto. Nelle parole di Leonardo la poesia è arte “ladra”, svuotata di qualsiasi valore e capacità artistica, mentre la pittura assurge ad arte perfetta e vera, che supera la poesia nella rappresentazione della realtà. Leonardo avvalora questa tesi paragonando, ad esempio, la rispettiva abilità delle due arti di rappresentare una battaglia: Se tu, poeta, figurerai la sanguinosa battaglia, si sta con la oscura e tenebrosa aria, mediante il fumo delle spaventevoli e mortali macchine, mista con la spessa polvere intorbidatrice dell’aria, e la paurosa fuga de’ miseri spaventati dalla orribile morte. In questo caso il pittore ti supera, perché la tua penna sarà consumata, innanzi che tu descriva appieno quel che immediate il pittore ti rappresenta con la sua scienza. E la tua lingua sarà impedita dalla sete, e il corpo dal sonno e dalla fame, prima che tu con parole dimostri quello che in un istante il pittore ti dimostra . Lunga e tediosissima cosa sarebbe a la poesia ridire tutti li movimenti degli operatori di tal guerra, e le parti delle membra, e loro ornamenti, delle quali cose la pittura finita con gran brevità e verità pone innanzi. Forse mai la poesia uscì così sconfitta dal confronto con la pittura, fatto legato senz’altro al contesto artistico del Rinascimento che vide la scoperta di tecniche più sofisticate di rappresentazione pittorica, quali la prospettiva fortemente basata sul concetto di mimesi. Non può stupire, dunque, che proprio alla pittura spettasse, a quell’epoca, il primato tra le arti e soprattutto il ruolo di guida dell’arte sorella. Altri significativi passaggi nell’arco della storia segnarono i destini della dottrina delle “arti sorelle”, soprattutto attraverso l’applicazione pratica di tecniche di contaminazione parola-immagine, come nel caso dell’emblematica, che ebbe una notevole diffusione nel XVII secolo e che favorì l’idea di omologia fra le due espressioni artistiche. Si trattava di una forma perfetta di unione tra immagine e testo, la cui particolarità consisteva nella capacità di giustapporre i due media, riuscendo comunque a mantenere integra la funzione e il valore semantico di ognuna delle due espressioni artistiche, che in tal modo s’interpretavano reciprocamente. L’emblema incarnava in sé un’idea di completezza data dal mettere insieme, attraverso la rappresentazione, corpo (immagine) e spirito (testo). La produzione di emblemi, anche se già ampiamente diffusa nel Rinascimento, divenne poi una vera e propria moda nel Seicento. Fu soprattutto il Settecento, però, l’epoca in cui si tornò a riflettere con insistenza sul confine e sull’omologia fra le due arti. A questa epoca risale, non a caso, il contributo fondamentale di Gotthold Ephraim Lessing, Laokoon del 1766, cui si deve la svolta più significativa nell’ambito della tradizione dell’ut pictura poesis e di tutta la successiva teorizzazione relativa al rapporto fra letteratura e arti figurative. Le riflessioni di Lessing costituiscono ancora oggi il punto di partenza per i teorici dell’intermedialità, poiché si tratta della prima vera disquisizione scientifica sui due mezzi di rappresentazione artistica, che Lessing, come vedremo, tende più a distinguere che ad omologare. Come osserva Cometa nella presentazione alla traduzione italiana del Laokoon, l’originalità dello scritto lessinghiano non consiste tanto nella sua totale estraneità alla tradizione argomentativa dell’ut pictura poesis – come sarebbe naturale pensare – né nell’assoluta novità dell’assunto. Già prima di Lessing si era a lungo discusso nell’estetica del Settecento del diverso potenziale semantico delle “arti sorelle”. L’abbé Dubos nel suo Réflexions critiques sur la Poésie, la Peinture et la Musique del 1719, e Denis Diderot nella sua Lettre sur le sourds et les muets del 1751, si erano interessati alle specificità dei singoli mezzi artistici. Ed è certamente probabile che questi testi abbiano rappresentato uno stimolo per le successive riflessioni lessinghiane. In cosa consiste, dunque, la specificità del testo di Lessing? Una citazione da questo importante scritto può aiutarci a rispondere a questa domanda: Tuttavia proprio come se non esistesse alcuna differenza molti critici moderni hanno dedotto da questa armonia tra la pittura e la poesia le cose più triviali del mondo. Ora costringendo la poesia entro i limiti più angusti della pittura, ora lasciando che la pittura occupasse tutta l’ampia sfera della poesia. Tutto quel che va bene per l’una deve esser concesso anche all’altra; tutto quel che in uno piaceva o dispiaceva, deve necessariamente piacere o dispiacere nell’altra; e pieni di questa idea pronunciano con i toni più risoluti i giudizi più superficiali, attribuendo le divergenze rilevate tra le opere del poeta e quelle del pittore sugli stessi soggetti agli errori di questo o di quello, a seconda se hanno maggiore gusto per l’arte poetica o per la pittura. L’obiettivo polemico di Lessing è rappresentato, in modo particolare, dalle forme d’arte mista, come gli emblemi dell’età barocca, o la poesia descrittiva in auge proprio nel Settecento. Quest’ultima era una pratica di scrittura letteraria che tradiva una predilezione per l’arte sorella della pittura, di cui si apprezzavano e studiavano i metodi che si cercava di applicare anche all’arte verbale. Hagstrum, nel suo testo The Sister Arts osserva come in effetti il Settecento sia stata un’epoca esemplare rispetto alla relazione tra le due arti, relazione che egli definisce di “friendly emulation”. Lo studioso fa alcune importanti considerazioni su questo particolare momento di contaminazione artistica, riflettendo soprattutto sulle ragioni che possano avere contribuito, a quell’epoca, all’incremento di interdipendenza fra le arti sorelle: La sinergia tra le arti nel XVIII secolo non riguardò semplicemente la poesia e la pittura. Il Settecento coinvolse, in questo fenomeno di transitabilità, anche l’architettura che trovò ad esempio la sua più diretta espressione nell’arte del giardino. Quest’ultima faceva appello alla stessa estetica del Pittoresco già confluita nei dipinti di Claude Lorrain, Salvator Rosa e Poussin, gli stessi che influenzarono le opere letterarie dei poeti pittorialisti, o meglio ancora “pittoreschi”. Il landscape gardening del Settecento inglese rappresentò il punto di unione tra interesse pittorico e interesse poetico, e costituì una delle esperienze del visuale tipiche di quel secolo. Era inevitabile che una tale conflagrazione di fatti visivi, come quelli sopra elencati da Hagstrum, avesse i suoi effetti anche sull’arte letteraria. La produzione dei poeti pittorialisti è in questo senso particolarmente rappresentativa. Si pensi anche solo al panorama inglese, centrale nello studio di Hagstrum, e agli scritti di Dryden, Pope, Gray e Thomson che aderirono a questa dominante teoria estetica: Furono probabilmente queste stesse macroscopiche assurdità a generare in Lessing il desiderio di mettere ordine a questo “degenerato” caos concettuale, agendo soprattutto in nome della poesia, di cui tende, nel suo studio, a ridisegnare le specifiche e uniche caratteristiche. E se da un lato Lessing si opponeva alla tradizione delle “arti sorelle”, «che non aveva fatto altro che ritardare l’applicazione di un rigoroso principio analitico alle arti», dall’altro rifiutava l’assolutizzazione dell’allegoria nel Barocco che trovava espressione nell’emblematica e che «aveva finito per ridurre la poesia a mera didascalia, per di più enigmatica, e la pittura a mero schizzo allegorico dal tratto approssimativo e comunque privo di colore». Così scrive Lessing: Sì, questa pseudocritica ha fuorviato persino gli stessi virtuosi. Essa ha prodotto in poesia la mania delle descrizioni e in pittura l’allegorismo, facendo di quella un quadro parlante, senza sapere in realtà che cosa essa possa e debba dipingere, e di questa un componimento poetico muto, senza avere considerato in che misura questa possa esprimere concetti universali e divenire una scrittura di segni arbitrari. Lo scopo di Lessing era quello di riportare, come osserva ancora Cometa, «l’attenzione della critica estetica sulle opere d’arte, aprendole ad una sorta di “orizzonte dialogico” animato da uno slancio squisitamente umanistico, che ebbe la funzione di rimettere in discussione tutte le componenti dell’esperienza estetica». Uno dei concetti della tradizione pittorialista, e di quella dell’ut pictura poesis più in generale, maggiormente contestati da Lessing, fu quello dell’imitazione, della mimesis, e non tanto dell’imitazione “tra” le arti, quanto dell’imitazione oggettiva della realtà: Quando si dice che l’artista imita il poeta, o che il poeta imita l’artista, si possono intendere due cose. O l’uno fa dell’opera dell’altro oggetto reale della propria imitazione, o entrambi hanno lo stesso oggetto da imitare e l’uno prende dall’altro il modo e la maniera di imitarlo. Partendo da questo concetto Paolo Gubinelli e guardando le opere dell’ultimo grande artista e poeta del Novecento che con il suo linguaggio unico nel suo genere mi permette di compiere delle analisi e delle riflessioni storiche : Dal punto di vista storico, il fenomeno dell’avanguardia ha attraversato tre fasi principali in ambito artistico: le prime avanguardie o avanguardie storiche, sviluppatesi nella prima metà del Novecento e caratterizzate da movimenti culturali e manifesti artistici, con ampi riferimenti anche all’attivismo politico; seconde avanguardie o neoavanguardie, sviluppatesi negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, caratterizzate dal dibattito critico e dal confronto con la crescente società di massa; le terze avanguardie, sorte alla fine del XXI secolo e tuttora non completamente definite, caratterizzate dallo scontro con il postmoderno e dalla ripresa dei linguaggi del passato. La differenza sostanziale tra i diversi stadi di sviluppo è legata ai differenti scopi che si prefiggevano gli artisti e i letterati: nella prima fase l’accento è da porre soprattutto sulla rivolta contro la tradizione, mentre nella seconda fase si mira piuttosto a effettuare una sintesi delle esperienze precedenti, ampliandone le caratteristiche con nuove idee, sviluppando tecniche più avanzate e adottando tecnologie innovative. Si punta più a rivoluzionare il presente che a distruggere il passato, cercando di avviare una fase costruttiva; vi è una spinta al continuo rinnovamento, alla ricerca della novità come superamento delle tendenze precedenti, ora però anche in funzione delle dinamiche sempre più accelerate del mercato artistico e del sistema della moda. Spesso quando si parla di avanguardia si tende automaticamente ad associare il termine al solo periodo delle avanguardie storiche di inizio Novecento: su di esse ci si soffermerà poi in particolare, descrivendone brevemente i caratteri principali che le hanno caratterizzate. Come si vedrà, i movimenti e le correnti che seguiranno le avanguardie storiche si riallacceranno ad esse per molti aspetti, poiché queste rappresentarono il primo vero momento in cui il fenomeno assunse una dimensione e una portata internazionale. Per alcuni studiosi l’inizio dell’arte d’avanguardia si fa risalire addirittura agli impressionisti, che con le novità tematiche della pittura segnarono un punto di svolta rispetto alle pratiche artistiche dell’epoca. Scrive Poli citando Fitzgerald: Essi gli impressionisti non determinarono semplicemente una rottura con le norme estetiche dell’accademia. Sarebbero forse rimasti poco noti come erano verso il 1870. Accoppiando la loro nuova estetica con la fondazione di un sistema commerciale e critico di supporto alla loro arte, essi non solo crearono il movimento dell’Impressionismo, ma anche le condizioni materiali per lo sviluppo dei movimenti moderni che avrebbero dominato l’arte del XX secolo. Dall’esperienza degli impressionisti nacque un nuovo modo di dipingere, un gusto estetico che si fondava sulle divisioni tonali, sulle giustapposizioni di macchie di colori complementari, sull’analisi della luce e sugli effetti che essa aveva sulla visione e sulla retina; con essi nacque però anche un nuovo modo di considerare l’artista moderno, che dipingeva scene di vita borghese en plein air, cogliendo la realtà come appariva nell’attimo. Egli non voleva fissare sulla tela l’oggetto, ma la sensazione immediata che si aveva di esso, così come accadeva nella percezione visiva del quotidiano. La poetica degli impressionisti non provocò una vera e propria frattura delle esperienze precedenti, ma portò alle estreme conseguenze il naturalismo e il realismo dei pittori della generazione precedente. La cesura che condurrà alle avanguardie vere e proprie sarà attuata prima da Van Gogh, per quanto riguarda il versante espressionista, e poi da Cézanne, la cui opera sarà paragonata a un’analisi fenomenologica del mondo esteriore, così come esso si rende percepibile e visibile nella natura stessa delle cose. Altri studiosi come Brandi considerano invece già il Romanticismo la prima avanguardia, perché di questa ne riprende tre caratteri essenziali: la volontà di segnare una frattura con l’arte precedente, la necessità da parte dell’artista di sentirsi parte di un gruppo costituito e il bisogno di orientare la propria azione verso un programma teorico preciso. Il Romanticismo effettivamente determinò una rottura con il passato e fissò indelebilmente nel tempo tutto quanto lo precedette; con esso si elaborò un concetto di avanguardia come progresso e processo dialettico della realtà umana. Dal punto di vista storico le avanguardie sono maggiormente legate all’arte e alle espressioni artistiche tipiche dell’Ottocento, rappresentandone contemporaneamente una continuità ideale e un’aperta contrapposizione all’eredità simbolista. Esse hanno come fattore comune una volontà di rifiuto e aperto contrasto verso le concezioni artistiche, scientifiche, filosofiche e socioeconomiche vigenti. Il loro spazio temporale di sviluppo coincide con gli anni a cavallo della prima guerra mondiale, ovvero indicativamente tra il 1905, anno in cui nasce l’Espressionismo, e il 1924, anno in cui si afferma il Surrealismo. In un cinquantennio che viene sconvolto da due conflitti mondiali e che vede la modifica sostanziale del proprio tessuto produttivo e sociale, passando dalla rivoluzione industriale al post-fordismo e dalla società di classi a quella dei consumi e mediatica, le avanguardie rappresentano inevitabilmente un punto di rottura. Si differenziarono dai movimenti tardo ottocenteschi che si limitavano a essere delle aggregazioni di artisti con intenti e gusti complementari; elaborarono poetiche e manifesti, ponendosi in posizione di rottura e anticipando tendenze in ambiti differenti. Si estesero in diversi settori e si servirono di tecniche figurative non più tradizionali, affiancando alla pittura nuovi linguaggi e mezzi innovativi (fotografia, cinema, ecc.) e sperimentando in territori fin ad allora poco battuti dagli artisti (propaganda e impegno politico, teatro come forma di espressione, stampa come mezzo di comunicazione e divulgazione di massa). Consapevole del cambiamento, l’artista si sente spinto verso l’innovazione continua; rifiuta le leggi della prospettiva tradizionale, abolisce la pittura narrativa e descrittiva, preferisce il brutto e l’incompiuto, fa uso di materiali e strumenti estranei alla tradizione estetica.
L’arte nuova cerca la propria ispirazione nel presente immediato o nel passato remoto vissuto dai popoli arcaici: così facendo possono dirsi definitivamente conclusi quattro secoli di tradizione pittorica occidentale e di abitudini visive di carattere referenziale e realista. La successione di movimenti e tendenze d’avanguardia fu vertiginosa e ben poco rimase dell’arte tradizionale, poiché una nuova “Weltanschauung” si espresse in una multiforme fenomenologia di manifestazioni artistiche. Ogni movimento sembrava proclamare in modo dogmatico una verità assoluta: lo scopo era quello di reintegrare l’arte nella vita di tutti i giorni, ma non in senso modernista, ovvero modellando la propria vita sulla base dell’arte. Al contrario, le avanguardie puntavano a includere l’arte nella quotidianità, dato che questa sembrava essere sufficientemente autonoma. L’atto creativo divenne una trasgressione nei confronti di una società che lo respingeva, vedendolo come generazione di valori nuovi e progresso. L’esigenza di eversività, di sovversione nei confronti di strutture ritenute ormai passate, di distruzione come base per ogni rinnovamento, condusse gli artisti a gesti spesso clamorosi. Per la prima volta rifiutarono il loro pubblico: cessarono di adularlo, di agire quasi esclusivamente in sua funzione e iniziarono invece a insultarlo e a scandalizzarlo, ponendolo di fronte a oggetti incomprensibili, opere illeggibili, permeate da un’irrefrenabile soggettività, in cui dominava soltanto l’esigenza individuale di esprimersi. L’arte nella tradizione culturale europea ha sempre avuto il ruolo, almeno fino agli inizi del XIX secolo, di rappresentare la realtà e di esprimere gli ideali religiosi, politici e morali della società del tempo. Il mondo veniva visto come una struttura fissa, statica, che difficilmente accettava l’evoluzione degli stili e delle tendenze artistiche: per oltre cinque secoli venne mantenuta la visione artistica sviluppata nel corso del Rinascimento, fondata sulla convinzione che l’autentica natura della realtà fosse scientificamente riproducibile da un sistema matematico di relazioni geometriche. Uno dei tratti fondamentali che per molto tempo ha caratterizzato l’arte cosiddetta “tradizionale” è stato il riconoscimento della sua autonomia, ovvero la consapevolezza del suo appartenere a una dimensione separata dalle realtà. Tale nozione venne messa in discussione in modo sempre più radicale nel corso del Novecento, quando la stessa “ovvietà” dell’arte, o come afferma Adorno, il suo «diritto all’esistenza» , si perse. In questo contesto i movimenti d’avanguardia rappresentarono un attacco allo stato dell’arte nella società borghese: essi la negarono come entità separata dalla vita, in contrapposizione al modernismo che invece trasformò gli elementi che la definivano nel contenuto essenziale dell’opera. Per le avanguardie il superamento dell’arte non ne rappresentò la distruzione, bensì la sua connessione al quotidiano. Il rischio maggiore legato al tentativo dei movimenti di avanguardia di superare la distinzione tra arte e vita consistette proprio nella consapevolezza che tale superamento stava alla base della cosiddetta “industria culturale”, la nozione più ampia del fenomeno denominato kitsch. Come afferma Clement Greenberg in “Avanguardia e kitsch” (1939) oppone al kitsch il modernismo, identificandolo con l’avanguardia tout court: esso rappresenta un succedaneo della cultura, generato dalla rivoluzione industriale e conseguente ai processi di urbanizzazione, alfabetizzazione forzata e distruzione delle tradizioni artigianali locali. Secondo Greenberg il ruolo dell’avanguardia modernista è di pura resistenza: non vuole distruggere le fondamenta della cultura “alta”, ma liberarla dal kitsch dilagante. Greenberg non è l’unico a fondare la sua estetica sull’opposizione tra kitsch e modernismo, attribuendo a quest’ultimo un ruolo di “salvatore”. Alla fine degli anni Trenta anche Adorno inizierà a elaborare lo stesso paradigma, che porterà avanti con successivi sviluppi fino alla “Teoria Estetica”. Qui la nozione di kitsch diventa un tutt’uno con quella di industria culturale; secondo l’autore l’unico modo per opporsi a quest’ultima è dato dall’affidarsi all’«arte moderna». Egli rifiuta di ammettere che l’industria culturale possa avere una funzione liberatrice ed esclude che la cultura alta, difesa strenuamente dall’avanguardia modernista, possa essere totalmente immune dal rischio di livellamento causato dal “principio di identità” alla base della società capitalistica. La categoria di opera d’arte subisce una trasformazione totale per mezzo delle avanguardie: se i movimenti storici tendono a negare la separazione dell’arte dalla vita e quindi la sua autonomia, va riconosciuto che questo superamento non può avvenire nella società borghese se non attraverso le modalità proprie dell’industria culturale. È sicuramente difficile definire i prodotti delle avanguardie delle complete “opere d’arte”: nei vari movimenti vengono messe in discussione o in alcuni casi addirittura distrutte, la dimensione rappresentativa, la coerenza e persino l’autonomia dell’opera. Quando Marcel Duchamp a partire dal 1913 firma opere che non sono sue creazioni ma artefatti industriali e quindi prodotti in serie, nega allo stesso tempo la categoria di produzione individuale e di creatività. L’immagine in Duchamp perde il suo valore, il rifiuto dell’arte in quanto rappresentazione si fa radicale: nei suoi ready made la critica a quella che egli definisce la «visione retinica» l’arte che dà piacere all’occhio ha come conseguenza lo spostamento dell’opera sulla dimensione del puro gesto intellettuale, che la rende una non-opera, un’apparizione di pura apparenza. Mentre secondo la critica d’arte statunitense Rosalind Krauss «l’artista d’avanguardia ha assunto molti volti durante il primo secolo della sua esistenza: rivoluzionario, dandy, anarchico, esteta, tecnologico, mistico. Ha intonato una quantità di credo molto diversi. Vi fu un’unica invariante, sembra, nei discorsi dell’avanguardia: il tema dell’originalità». È nella serialità, nella copia e quindi nella riproducibilità che si consuma totalmente la separazione dalla nozione di originalità che continua a permeare il gesto artistico delle avanguardie storiche; sarà il suo superamento per mezzo della ripetizione a segnare la fine del modernismo e il passaggio al postmodernismo. Ciò che ha caratterizzato gli artisti d’avanguardia in modo costante è stata l’originalità, intesa come inizio dal nulla, origine in senso proprio; tuttavia se la nozione di avanguardia può essere considerata come dipendente dall’originalità, la pratica effettiva dell’arte d’avanguardia mostra come questa stessa sia «un’ipotesi di lavoro che emerge su un fondo di ripetizione e di ricorrenza». Krauss invece crede che questo sia rappresentato in modo esemplare dalla figura della griglia, con la quale molti artisti hanno lavorato perché convinti di essere arrivati ad essa tramite una progressiva astrazione della rappresentazione. Tramite la griglia si esprime la volontà di silenzio dell’arte moderna, la sua ostilità nei confronti dell’esigenza di raffigurazione; è il mezzo per raggiungere l’Assoluto, modello di anti-sviluppo e anti-racconto ed emblema del modernismo. Ma poiché la griglia dal punto di vista logico e strutturale può essere solo ripetuta, è un’illusione parlare dello statuto originario della superficie pittorica: essa precede la superficie concreta e non è altro che una trasparenza di altre trasparenze, in un sistema di duplicazione senza fine. Il risultato è quello che Krauss definisce «post-modernismo»: esso realizza una netta separazione tra sé, il mondo delle riproduzioni e delle copie, e l’ambito concettuale dell’avanguardia e del modernismo, il mondo dell’origine e dell’originalità, considerando tale differenziazione come il segno di una rottura storica. Adorno individua due nozioni di “opera d’arte”: una “tradizionale”, intesa come opera d’arte organica, e l’altra “moderna”, opera d’arte non-organica, non creata come totalità omogenea ma da un insieme di frammenti. Ciò che i movimenti d’avanguardia negano non è l’opera d’arte in generale bensì l’opera organica; ne consegue che mentre l’opera d’arte organica cerca di occultare il suo essere stata realizzata, quella non-organica si offre come artefatto. Secondo Adorno se l’opera d’arte organica implica un rapporto di conciliazione tra l’uomo e la società, al contrario l’elemento caratteristico dell’opera d’arte non organica consiste nel rinunciare a generare un’apparenza di conciliazione. L’introduzione di frammenti di realtà trasforma l’opera in maniera radicale; nell’opera d’arte non-organica le parti sono la realtà, e non si limitano a rimandarla. «La negazione della sintesi diventa principio dell’attività di configurazione». Per Adorno ogni tentativo di creare opere organiche in sé compiute rappresenta un ricadere a un livello ormai superato delle tecniche artistiche: invece di mettere a nudo le contraddizioni della società contemporanea, l’opera d’arte organica promuove, attraverso la propria forma, l’illusione di un mondo pieno di senso. L’eredità dei movimenti storici d’avanguardia non consiste nella distruzione dell’istituzione “arte”, ma nella negazione della possibilità di stabilire norme estetiche valide in assoluto. Essi hanno messo in discussione il concetto di “forma”, centrale per la modernità: questa a partire dalla fine dell’Ottocento è diventata sempre più importante, con la conseguenza di spingere in secondo piano l’elemento contenutistico dell’opera, il suo messaggio. Adorno sostiene che le nozioni di “arte moderna” e di “modernità” abbiano a che fare con una forma autonoma, un «contenuto sedimentato» questo sottolinea il carattere produttivo e non riproduttivo dell’opera d’arte, nella quale la forma non è mai puro e semplice formalismo, bensì produttrice di significati condivisi. In generale, facendo riferimento al rapporto arte-vita e quindi alla questione dell’autonomia o meno dell’arte, Adorno distingue fra arte tradizionale, arte moderna e arte d’avanguardia. Nell’arte tradizionale, che separa l’arte dalla vita e quindi l’opera dalla cosa, l’opera possiede i requisiti di bellezza e eternità. Nell’arte d’avanguardia, nella quale non si fa distinzione tra arte e vita, ovvero tra arte e realtà, la negazione dell’autonomia artistica porta a confondere opera e cosa, con la conseguente perdita dei requisiti di bellezza e di eternità, ai quali rinuncia anche l’arte moderna, pur mantenendo l’autonomia dell’opera. Adorno difende la sfera dell’autonomia dell’arte, vedendo ogni tentativo di re-inserirla nella vita quotidiana come un ritorno alla barbarie. Egli mette in risalto il momento del “fare”, della produzione come forza interna dell’opera e dunque della forma, in grado di produrre significati sempre nuovi. Attraverso l’apparenza l’opera è in grado di manifestare ciò che le impedisce di regredire a pura casualità e ciò che la differenzia rispetto alla realtà empirica. La sua eliminazione comporterebbe la cancellazione di tutto ciò che nell’arte, dipendendo dall’immaginario, si presenta come possibile non realizzato: la negazione dell’apparenza significa la rinuncia alla promessa utopica che deve essere contenuta nell’arte. Nel caso dell’arte moderna l’opera possiede una forma che ne garantisce l’autonomia e la distingue dal resto: facendosi res tra res, l’opera moderna si offre consapevolmente alla temporalità e alla contingenza del mondo, presentandosi come qualcosa di irrimediabilmente caduco. Per Adorno se l’arte tradizionale appartiene al passato e l’arte d’avanguardia deve essere rifiutata, quella moderna costituisce, pur nella sua paradossalità, l’unica forma d’arte che si possa ritenere valida e legittima. La sua preoccupazione fondamentale riguarda lo statuto dell’arte nella società moderna, data l’incompatibilità irriducibile tra forma artistica e realtà difficilmente rappresentabile. In un certo senso il processo di “disartizzazione” è ineluttabile, ma con la rinuncia alla forma l’opera cede alla regressione generale, diventando un prodotto dell’industria culturale privo di capacità critica nei confronti della società; l’arte può continuare a sussistere solo rifiutando quella forma senza la quale non potrebbe sopravvivere. Questo significa che per l’arte, per continuare a essere tale, deve disdire quanto non può non dire. Oggi a venir meno è la sua funzione rappresentativa: l’opera non rappresenta più il mondo frammentario e disgregato, ma la disgregazione è penetrata nella sua stessa forma, che ne diventa testimonianza. Di qui la dimensione etica dell’arte moderna che, proprio in quanto emerge dagli elementi formali dell’opera, è strettamente connessa a quella estetica. Mentre nel “Trattato di semiotica generale” del 1975 di Umberto Eco che paragona l’opera d’arte a un testo che per essere tale deve soddisfare innanzitutto una richiesta di leggibilità. Affinché vi sia un risposta da parte dell’osservatore, è fondamentale il codice con cui il messaggio dell’artista viene trasmesso; non tutto deve per forza essere chiaro, ma vi devono essere alcune regole che lo aiutano a distinguere l’opera d’arte dalla cosa astratta.
Eco parla del linguaggio estetico, definendolo un particolare processo comunicativo significativo in cui non si ha solo il mero passaggio di informazioni, ma anche la sollecitazione dell’elaborazione di una risposta interpretativa da parte del destinatario. Secondo l’autore vi sono due principali caratteristiche del testo estetico: l’ambiguità e l’autoriflessività. La prima è una violazione delle regole del codice, poiché «anziché produrre puro disordine, essa attira l’attenzione del destinatario», il quale «è stimolato a interrogare le flessibilità e le potenzialità del testo». L’ambiguità estetica gioca sia sull’espressione sia sul contenuto del testo: così facendo esso diventa autoriflessivo poiché attira l’attenzione sull’organizzazione interna, sulla “semiotica”. Il testo estetico spinge in continuazione a rivedere i codici, imponendo una continua riconsiderazione del linguaggio su cui si basa; quest’ultimo deriva da una «dialettica di accettazione e ripudio dei codici dell’emittente e di proposta e controllo dei codici del destinatario», il quale però non essendo a conoscenza delle regole dell’autore, le può estrapolare da ciò che prova nel corso dell’esperienza estetica. Egli si trova in bilico tra l’ambiguità oggettuale e l’organizzazione contestuale. Tramite una definizione semiotica dell’opera d’arte si riesce a comprendere perché nel corso della comunicazione estetica avvenga «un’esperienza che non può essere né prevista né completamente determinata, e perché questa esperienza “aperta” venga resa possibile da qualcosa che deve essere strutturato a ciascuno dei suoi livelli». Il destinatario deve essere in grado di intervenire a colmare i vuoti semantici, a ridurre la molteplicità dei sensi, perché è un collaboratore dell’autore il testo estetico deve essere strutturato per mezzo di codici noti, cercando di attirare attenzione su di sé, anche violando delle regole, al fine di garantire il giusto equilibrio dei meccanismi noto/ignoto che rendono tale l’esperienza estetica. Senza l’adozione di regole precise il contenuto del testo estetico non sarebbe veicolato e non riuscirebbe ad essere trasmesso; il codice non è rappresenta uno schema fisso e immutabile, ma anzi è in continua evoluzione. «L’interprete di un testo è obbligato a sfidare i codici esistenti e ad avanzare ipotesi interpretative che funzionano come forme tentative di nuova codifica». E quello che fa Paolo Gubinelli con le sue opere anzi egli si avvale anche della poetica (dal greco ποιεῖν, fare), dove tutti i fattori che concorrono nella concreta operazione artistica rendendola non solo possibile, ma necessaria le esperienze e le scelte culturali che l’artista compie, l’idea dell’arte che intende realizzare nell’opera a cui attende o, in generale, nella sua opera artistica. Come cultura intenzionata al fine dell’arte, anzi precisamente al fare artistico, la poetica ha un aspetto critico ed un aspetto programmatico: sono questi i due momenti caratterizzanti dell’arte, che infatti implica sempre una critica del passato ed una prospettiva sul futuro. Poiché il problema centrale è la divergenza e, al limite, l’incompatibilità tra il modo operativo proprio dell’arte e quello proprio dell’industria, che tende a identificarsi con il comportamento globale della società, la sola esistenza e presenza dell’arte nel contesto sociale ne realizza la funzione sociale, che consiste appunto nell’impedire il generalizzarsi di un comportamento meccanicistico e alienante. Posso affermare che nelle opere Paolo Gubinelli tutto questo viene evidenziato dallo spazio e dalla luce che si dirama oltre i limiti conosciuti della forma trasformando ogni esperienza onirico geometrica in una catalogazione cosmica dell’animo. Strutturazioni coeve e sequenziali assemblano razionalmente ideogrammi, istanti luminosi, inediti linguaggi, intercalando piani, setti cromatici, frammenti tonali. Dalle opere di Gubinelli affiorano innumerevoli realtà parallele oltre le convenzioni del visibile e dell’agire, generando corrispondenze e analogie tra creazione e genesi. Sentimenti dell’animo si fanno luce e approdano verso arcani arcipelaghi prospettici attraverso flebili e illusorie sinuosità narrative. Si assiste, ad uno scontro epocale tra linearità del tratto e dinamicità fluttuante della composizione, ora rotante, ora integrata tra dogmatiche sovrapposizioni orizzontali e verticali. Il purismo geometrico che si sovrappone ed è sostituito da spezzati ingranaggi di macchine sensoriali di una realtà sintetica, fluiscono nell’aria creando vortici dinamici di entità oniriche e vertigini ideali. La dimensione plastica della materia si dirama nello spazio alternando realtà trascendenti a lampi di luce abbagliante e infinita. L’essenziale incontra l’effimero, eros e thanatos dell’immaginario, alla ricerca dell’inedita forma, esiziale paradigma di un’ancestrale solitudine, muta testimone di continue sperimentazioni, sinuosità tattili, simmetrie sussultorie. Perfezione ed essenzialità germinali sequenze, sottesi intrecci, fluttuano liberi nelle lontane rimembranze segniche per divenire essenze di transiti e rivelazioni di idee organico primigenie. Segmenti iridescenti si sovrappongono, ordinati nello spazio, rimodellando atmosfere, entità fenomeniche di sapienti sussurri, variabili astrali di cristalline scansioni luminose, meditate modulazioni. Colore e Luce vibrano sensibilissimi sul substrato generando un armonico e affascinante equilibrio, quieto limite di arcane aspirazioni sensoriali, mitici destini, tensioni sacrali. Dopo l’approdo, ecco l’abbandono, ovvero il desiderio di nuovi orizzonti articolati da linee spezzate e filiformi che si incuneano in mirabili frammentazioni ideative, sintomo di smarrimento esistenziale e deciso allontanamento da una realtà ormai aliena. Come lame percettive, simboliche linearità complesse s’insinuano sul substrato trasfigurando le essenziali casualità tonali delle composizioni in analitiche volontà rappresentative. Vibratili strutture appaiono come affascinanti tensioni di cristallina innocenza espressiva sospese tra una fenomenologia evocativa e una sintetica esperienza visiva. Oltre il rapporto spazio- tempo Gubinelli medita sull’irrevocabilità del frammento, sulle tracce armoniche delle forme geometriche che reggono l’universo alla ricerca delle primordiali temporalità oggettive. Il frammento, lontano dal suo contesto naturalistico, estende la sua presenza tra sovrapposizioni e integrazioni di materia pittorica generando un affascinante intreccio ritmico. Per il rivoluzionario Gubinelli il tempo è come ibernato, purificato, trasfigurato da un’inedita linfa vitale. Il ritmo del continuo mutare del tempo genera cangianti armonie delle tonalità ma decreta un nuova visione creando, un modulo tra sperimentazione e innovazione del pensiero . La razionale schematizzazione geometrica non mira a ricomporre una visione plastica e geometrica dello spazio ma a definire nuove possibilità della superficie pittorica. La scomposizione e ricomposizione del substrato crea un reticolo continuo di nuove forme, proporzionali tra loro, tese a dilatarsi cercando sensoriali linee curve, inattese percezioni, distinte rivelazioni casualmente interrotte. Tracce di arcane funzioni della materia pittorica trovano un nuovo tempo, un’improvvisa neo oggettività. La realtà pittorica in Gubinelli è rappresentata per frammenti, integrazioni, assetti compositivi, alla assidua ricerca della ancestrale espressione visiva dell’esperienza collocata nell’eterna trasfigurazione percettiva dell’universo. Oltre la concezione convenzionale del dipinto l’artista supera l’aspetto sentimentale ed emotivo della composizione per donare a quest’ultima un aspetto eroico, sospeso in una dimensione sovra sensoriale e infinita. Le tonalità di Gubinelli , sempre omogenee e cangianti, vivono una realtà bidimensionale, irrevocabilmente illimitata, generando inedite corrispondenze tra interpretazione e rappresentazione, dinamicità e immobilità. Acquisite sublimazioni emozionali attraversano velocemente lo spazio pittorico generando realtà complesse scomposte e immediatamente ricomposte tramite variabili modularità. Miti e accadimenti si susseguono ordinati all’interno di un luogo perfettamente delimitato, sensibilissimo e mutabile. La giustapposta sovrapposizione delle tonalità abolisce le tenebre, l’oscurità, la finitezza strutturale. La luce è totale e totalizzante, supera le angosce del vivere e dell’esistere, assume nelle figurazioni l’abbagliante essenza di un ininterrotto fregio classico continuo. Il rapporto tra materia e forma si dilata, evoca profondità lineari e sottesi segmenti in un ambiente volutamente differenziato e avulso da secolari e contemporanee contaminazioni. Ogni frammento è immediatamente materia pittorica, risonanza, omogeneità d’intenti in un continuo sovrapporsi di forme, strati, ritmicità. Meta racconti, variazioni, accordi tonali, inondazioni di luce accelerano moti rotanti e inquieti. Rarefatte atmosfere si vaporizzano alla presenza di un flebile respiro che diviene unico testimone di profonde sofferenze. Quali mondi qui vivono, quali accadimenti si diramano in questo spazio apparentemente asettico. Tutto è come sospeso, bloccato, cristallizzato da figurazioni che appaiono come irrevocabilmente silenti. La verità è nascosta, mimetizzata, giustificata da evocazioni allusive alla ricerca di un luogo, un’oasi di pace, un destino. Un’impalpabile sensazione di solitudine aleggia drammatica, avanza minacciosa e inestricabile tra gli animi e i desideri di libertà e di vita. Oltre la tragica gravità dell’esistenza, la forma sublima in un inconsapevole mito di effimera speranza, sottesa in un’instabile atmosfera nell’immensa, irrevocabile caducità della materia. Un complesso irradiarsi nello spazio di strutturati piani costruttivi diviene significativo istante ideativo, autentico paradigma di fondamentale rigenerazione plastica. Segmenti iridescenti si sovrappongono ordinati generando affascinanti diaframmi sequenziali sospesi da un’elegiaca melodia, colta e vibrante, diffusa flebilmente nello spazio. Tracce di purissime linee si ricompongono libere sopra cangianti superfici, ampie e mutevoli, simili ad infinite città cinetiche e spazi urbani modulati dove il colore, libero dalle naturali funzioni, acquisisce maggiore autonomia interpretativa espandendosi in correlate emulsioni sensitive. Le forme strutturate evocano una trasognante omogeneità di sensi rispettando perfettamente i limiti del perimetro formale. Sintesi, azione, regola e sequenza s’inerpicano oltre le consuete simbologie generando corrispondenze con l’antico, la mitologia, i quattro elementi della creazione. Gubinelli è alla ricerca della forma archetipica, ignoto e ineccepibile tassello della struttura universale, mito e unicum dell’essere oltre l’agire, riflesso concreto di un mondo lineare astratto. La scomposizione dell’oggetto geometrico non perde o nasconde la forma primordiale ma la evidenzia seguendo la legge dei contrasti simultanei, delle dinamicità cromatiche, delle diffuse e animate sovrapposizioni . La scelta di Gubinelli pone,in parallela antitesi, armonia e dilatazione, staticità e direzionalità d’intenti alla ricerca di altre integrazioni temporali, altre irrevocabili ubiquità. Essere di un luogo e non esserlo, viverlo, per osservarlo in lontananza, evidenzia tensione, sofferenza, inquietudine, accostamento e disgregazione della forma. La primordiale geometria assoluta, volutamente si sfalda e fluisce quasi liquida sul substrato per poi ritornare, repentinamente concreta, nella comune volontà di ridefinire una base integrata e congruente. Divergenze e contrasti interiori dell’artista lo vedono repentinamente abbandonarle per un’effimera dissidenza compositiva, riscoprendo un elegiaco e rigenerativo ritorno all’ordine. Suggestioni e intrecci, frammenti di realistiche figurazioni si sovrappongono a lamine astratte, disvelatrici d’inedite sperimentazioni che veleggiano nello spazio libere da logiche naturalistiche. La sua visione plastica suffragata da reciproci incontri di linee verticali e orizzontali pone in evidenza il drammatico confronto tra individuo e spazio, sperimentazione e sintesi, spiritualità e destino. L’assoluta essenzialità, sfiora le intenzionalità concettuali di messaggi codificati trasfigurandoli in frame velocissimi e immediati. Una lirica contemplazione dell’universo è sapientemente evidenziata dalle straordinarie trame cromatiche che aleggiano nello spazio come angeliche presenze esperite tra stati emozionali e dilatazioni di luce. Variabili astrali appaiono come cristalline scansioni luminose, ali percettive di iperbolici voli trasfigurati da una successione dinamica di meditate modulazioni. Iridescenti superfici determinano continue vibrazioni cinetiche provocate da un ipotetico sisma primordiale della materia cromatica, delimitata da una dogmatica linea di contorno, incline a trasmigrare, al di fuori di un collaudato perimetro. Nella pura estasi contemplativa Gubinelli inserisce nei dipinti forme semplici, cromaticamente omogenee, provenienti da una personale gamma di tonalità, straripante espressione di un io profondo e occulto. Colore e Luce vibrano sensibilissimi sul substrato generando una costante e continua meditazione sullo spazio, le forme primordiali, le corrette proporzioni. Silenti corpi geometrici interagiscono tra loro creando un armonico e affascinante equilibrio, quieto limite di arcane aspirazioni sensoriali. Delicatissime sovrapposizioni tonali assumono l’identità di accumuli di memoria, eclatanti rimandi di sottili essenze floreali, organicamente disposte per scansioni, assonanze, razionali emotività. La vitalità sensibile si dilata nello spazio percettivo divenendo terapia poetica parallelamente strutturata ad una corroborante ricerca sperimentativa. Mutevoli condizioni sensitive generano nuovi flussi temporali, inediti concetti geometrici, innovative idealità progettuali. Un rigore metodologico di grande intensità ideativa, genera un sottile lirismo poetico modulato tramite delineate scansioni compositive. La forza dei segni si amalgama idealmente alla magia suadente dei colori in una dimensione eterea e silente dove le geometrie trovano il loro manifestarsi nel cielo,nel moto degli astri, nel ritmo segreto dei tempi. Forme sintetiche trovano il loro spazio sotteso da rigorosi e costanti equilibri congiunti da linee accidentali e perpendicolari in simbiosi con la luce. La sua autonomia pittorica lo vede librarsi oltre i confini del visibile e ascendere in una dimensione atemporale dove le velocità dinamiche si acquietano proiettando la luce in un contesto astratto. La rigorosa corrispondenza tra forma e colore esalta il sogno aereo delle suggestioni tonali dove il frammento è piegato da un volere astrale, curvato nella dimensione spazio temporale, strutturato con le medesime assonanze del primigenio elaborato. Le profondità più nascoste dell’animo virano verso impercettibili vibrazioni divenendo unici testimoni di brevi istanti dell’esistenza. Contorsioni strutturali partecipano a una nuova visione dello spazio ricreato da cosmiche deflagrazioni mediatrici di un ritrovato equilibrio. Iperboli sensitive defluiscono in liquide memorie, essenze rivelatrici di suadenti emanazioni dell’anima tese a una assoluta trascendenza. Fluide cromie, di incomparabile finezza, plasmano il silenzio, disegnano nel vuoto un leggero movimento, diffondendo nell’aere uno stato di ebbrezza, un anelito di libertà che diviene incantata melodia animata da una forza invisibile, da una ritmicità concitata, sconvolta da un vento fortissimo, che soffia senza tregua sui destini del creato. Nascoste simbologie di verità sottese si espandono sul substrato intime dissolvenze, presagi compositivi, dissoluzioni percettive che impongono, con il loro divenire, un senso di sconcertante irrevocabilità. Tracce connotative di un distacco sensoriale diventano incontrastate icone di germinali visioni simultanee, flash di intrecci multimediali, sensitivi messaggi subliminali. Vertigini dirompenti trovano la loro forza espressiva nell’energia del gesto, ricostruendo un paradisiaco universo estetico tra interrelazioni di forma e onirici paradigmi tonali. Gesto e poesia si fanno forma vibratile e ricercata figurazione che si diramano attraverso ideali stratificazioni dell’interiorità, carichi di accese tonalità dalle raffinate tridimensionalità tattili. Lontani orizzonti dell’anima, sentieri della memoria, vie inesplorate ai confini di un universo indefinito, aleggiano sopra ipotetici, assolati deserti inseguendo il silenzio, appena velato da una tenue e opaca luce. Forme irregolari ricostruiscono lontani accadimenti, fili imperscrutabili di lontane esistenze, ponti virtuali tra memoria e realtà sintetica sottese tra enigmatiche emozioni e indefinite atmosfere. Un’inquieta idealità s’insinua tra le effimere e mutevoli sovrapposizioni sequenziali evocando arcane metamorfosi oltre un onirico limite, dove folgoranti e intense cromie accendono trasognate trascendenze. Sospesi nel vuoto, ipotetici assemblaggi polimaterici si diramano nello spazio costellato da dinamiche silhouette danzanti che raccontano, con discreta e sapiente essenzialità, il dramma umano della solitudine e dell’incomunicabilità. Sensibilità materica, sublimazione emozionale, tensione plastica rappresentano gli aspetti più significativi del fare artistico di Paolo Gubinelli, da sempre impegnato nella istintiva e sapiente ricerca di una trasfigurata rappresentazione percettiva. Alternanze cosmiche ed emblematici rimandi incontrano sinuose estroflessioni ideative, simili a onde infinite, scrigno segreto di astri e stelle,luogo incantato dove svelare la bellezza irripetibile dell’universo. Le opere di Gubinelli suscitano numerosi interrogativi sulle pulsioni che la materia dona alla forma. Richiamandosi a un gioco di riflessi, ai confini tra surrealtà e sogno, vivono nell’apeiron ideativo dell’anima generato, oltre il frammento di un attimo, da realtà evocate e tangibili memorie. Spazialità lineari, forme ellittiche e ovoidali sublimano a tenui ricordi, sonorità soffuse, dilatate campiture che appaiono come “impronte remote” dinnanzi alle “eterne porte dell’infinito”. La luce di un tempo irreale, fluttua in una dimensione parallela, vaga come un viandante verso le origini del cosmo, divenendo icona rivelatrice di un cammino ormai tracciato. Le composizioni veleggiano tra un idealizzato confine terreno e un evocato orizzonte celeste, sotteso tra indefinite voci e irraggiungibili echi. Un’impalpabile gravità sensoriale accende le gradazioni tonali risaltando l’effetto luce di attraenti vibrazioni, sublimate in un seducente fluido multicolore. Come luoghi trasfigurati dall’immaginazione, oltre una realtà oggettiva, specialmente in questa opera di Gubinelli che ci invita ad una silente contemplazione che sono lontano dagli accadimenti della quotidianità, lo spazio diviene armonia e struttura sensibile. L’elegante sequenza tonale appare come un affascinante viaggio nei simboli arcaici testimoni di astratte meditazioni sulla materia e sulla forma dalle quali si eleva una indefinita atmosfera dalle futuribili, affascinanti valenze espressive. La raffinata intimità tonale diviene sensibile sollecitazione di idealità, fugace e fuggevole presenza, immediatamente dissolta da turbinii incontrollati oltre la sfera dell’immaterialità. La sintetica ricerca di assoluto, unita a un’inedita e personale sensibilità, grafico-compositiva, delinea impercettibili tracce che sublimano a un’aurorale, sincretica nuova vita. Frammenti disegnati interrogano passato e presente tramite meditate scomposizioni e cangianti ricomposizioni tonali. Un fluido, pulsante e impetuoso, scorre sotterraneo nei meandri percettivi dell’artista alimentando un luogo incantato, evocato come fenomeno di luce e colore, verità e vita oltre la vita. L’invisibile sentire di una realtà, al di là dalla mimesi, diviene esercizio spirituale, aspetto emozionale della pittura destinato ad esplorare il mondo, alla ricerca del progetto ideale. Declinazioni dell’immaginario animano la profonda sensibilità dell’artista nell’intento di conservare e proteggere dall’oblio, oggetti lontani, essenze del vissuto, lievissime sensazioni. Equilibrate trasparenze cromatiche si aggregano in liquide e sensuali modulazioni segniche, si espandono nello spazio attuando una sintetica rigenerazione tonale. Inedite incandescenze cromatiche accentuano la convulsa aggregazione delle tonalità dando origine ad una magmatica cascata di energia dalle sublimi valenze espressive. Intuizioni premonitrici mutanole forme occupando spazi paralleli non più definiti da una realtà precostituita ma luoghi senza memoria, dove la materia trova la sua nuova vocazione. Imperscrutabili equivalenze appaiono come estroflessioni parallele di un logos universale, sintesi tra emozione e materia, anima e spazio. Una fine spiritualità veleggia sul substrato, divenendo entità rivelatrici d’inesplorati rimandi, irrefrenabili tensioni verso l’assoluto, vibrazioni cosmiche tra terra e cielo, tracce indissolubili ma tra espressione ed evento, tra destino e avventura, tra poesia interiore e silenzio. Come cangianti vittorie alate, le forme ritmiche e lineari di Gubinelli fluttuano sottese nello spazio, si svelano velocissime oltre la porta delle stelle, tra riverberi avvolgenti e ritmiche sospensioni di un tempo indefinito ai confini percettibili dell’essere.
Biografia Paolo Gubinelli
Nato a Matelica (MC) nel 1945, vive e lavora a Firenze. Si diploma presso l’Istituto d’arte di Macerata, sezione pittura, continua gli studi a Milano, Roma e Firenze come grafico pubblicitario, designer e progettista in architettura. Giovanissimo scopre l’importanza del concetto spaziale di Lucio Fontana che determina un orientamento costante nella sua ricerca: conosce e stabilisce un’intesa di idee con gli artisti e architetti: Giovanni Michelucci, Bruno Munari, Ugo La Pietra, Agostino Bonalumi, Alberto Burri, Enrico Castellani, Piero Dorazio, Emilio Isgrò, Umberto Peschi, Edgardo Mannucci, Mario Nigro, Emilio Scanavino, Sol Lewitt, Giuseppe Uncini, Zoren. Partecipa a numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Le sue opere sono esposte in permanenza nei maggiori musei in Italia e all’estero. Nel 2011 ospitato alla 54 Biennale di Venezia Padiglione Italia presso L’Arsenale invitato da Vittorio Sgarbi e scelto da Tonino Guerra, installazione di n. 28 carte cm. 102×72 accompagnate da un manoscritto inedito di Tonino Guerra.
Sono stati pubblicati cataloghi e riviste specializzate, con testi di noti critici:
Giulio Carlo Argan, Giovanni Maria Accame, Cristina Acidini, Vera Agosti, Mariano Apa, Paola Ballesi, Mirella Bandini, Carlo Belloli, Paolo Bolpagni, Mirella Branca, Vanni Bramanti, Anna Brancolini, Carmine Benincasa, Massimo Bignardi, Sandro Bongiani, Luciano Caramel, Ornella Casazza, Claudio Cerritelli, Bruno Corà, Roberto Cresti, Giorgio Cortenova, Enrico Crispolti, Fabrizio D’Amico, Roberto Daolio, Angelo Dragone, Luigi Paolo Finizio, Alberto Fiz, Paolo Fossati, Carlo Franza, Francesco Gallo, Roberto Luciani, Mario Luzi, Marco Marchi, Luciano Marziano, Lara Vinca Masini, Marco Meneguzzo, Fernando Miglietta, Bruno Munari, Antonio Paolucci, Sandro Parmiggiani, Elena Pontiggia, Pierre Restany, Davide Rondoni, Maria Luisa Spaziani, Carmelo Strano, Claudio Strinati, Toni Toniato, Tommaso Trini, Marcello Venturoli, Stefano Verdino, Cesare Vivaldi.
Sono stati pubblicati cataloghi di poesie inedite dei maggiori poeti Italiani e stranieri:
Adonis, Alberto Bertoni, Alberto Bevilacqua, Libero Bigiaretti, Franco Buffoni, Anna Buoninsegni, Enrico Capodaglio, Alberto Caramella, Roberto Carifi, Ennio Cavalli, Antonio Colinas, Giuseppe Conte, Vittorio Cozzoli, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Eugenio De Signoribus, Gianni D’Elia, Luciano Erba, Giorgio Garufi, Tony Harrison, Tonino Guerra, Emilio Isgrò, Clara Janés, Ko Un, Vivian Lamarque, Franco Loi, Mario Luzi, Giancarlo Majorino, Alda Merini, Alessandro Moscè, Roberto Mussapi, Giampiero Neri, Nico Orengo, Alessandro Parronchi, Feliciano Paoli, Titos Patrikios, Elio Pecora, Umberto Piersanti, Antonio Riccardi, Davide Rondoni, Tiziano Rossi, Roberto Roversi, Paolo Ruffilli, Mario Santagostini, Antonio Santori, Frencesco Scarabicchi, Fabio Scotto, Michele Sovente, Maria Luisa Spaziani, Enrico Testa, Paolo Valesio, Cesare Vivaldi, Andrea Zanzotto.
Stralci critici:
Giulio Angelucci, Biancastella Antonino, Flavio Bellocchio, Goffredo Binni, Bongiani Sandro, Fabio Corvatta, Nevia Pizzul Capello, Claudio Di Benedetto, Debora Ferrari, Antonia Ida Fontana, Franco Foschi, Mario Giannella, Armando Ginesi, Claudia Giuliani, Vittorio Livi, Olivia Leopardi Di San Leopardo, Luciano Lepri, Caterina Mambrini, Elverio Maurizi, Carlo Melloni, Eugenio Miccini, Franco Neri, Franco Patruno, Roberto Pinto, Anton Carlo Ponti, Elisabetta Pozzetti, Rossi, Giuliano Serafini, Patrizia Serra, Maria Luisa Spaziani, Maria Grazia Torri, Alvaro Valentini, Francesco Vincitorio.
Nella sua attività artistica è andato molto presto maturando, dopo esperienze pittoriche su tela o con materiali e metodi di esecuzione non tradizionali, un vivo interesse per la “carta”, sentita come mezzo più congeniale di espressione artistica: in una prima fase opera su cartoncino bianco, morbido al tatto, con una particolare ricettività alla luce, lo incide con una lama, secondo strutture geometriche che sensibilizza al gioco della luce piegandola manualmente lungo le incisioni. In un secondo momento, sostituisce al cartoncino bianco, la carta trasparente, sempre incisa e piegata; o in fogli, che vengono disposti nell’ambiente in progressione ritmico-dinamica, o in rotoli che si svolgono come papiri su cui le lievissime incisioni ai limiti della percezione diventano i segni di una poesia non verbale. Nella più recente esperienza artistica, sempre su carta trasparente, il segno geometrico, con il rigore costruttivo, viene abbandonato per una espressione più libera che traduce, attraverso l’uso di pastelli colorati e incisioni appena avvertibili, il libero imprevedibile moto della coscienza, in una interpretazione tutta lirico musicale. Oggi questo linguaggio si arricchisce sulla carta di toni e di gesti acquerellati acquistando una più intima densità di significati. Ha eseguito opere su carta, libri d’artista, su tela, ceramica, plexiglass, vetro con segni incisi e in rilievo in uno spazio lirico-poetico.
Monastero di Camaldoli Arezzo
Il Silenzio di Paolo Gubinelli
dal 11 al 22 Agosto 2024
Lunedì al Sabato dalle ore 9.00 alle ore 12.00 e
dalle ore 14.30 alle ore 19.30